J. B. TORELLO, Las ciencias humanas ante el celibato sacerdotal, in
«Scripta Ideologica» 27 (1995) 269-283.
Con le sue riflessioni, l'Autore tenta di smontare la
mistificazione, verificatasi nel dibattito sul celibato negli ultimi decenni,
del ricorso alle scienze umane, soprattutto alla psicologia e alla sociologia,
ed in modo particolare, alla psicologia freudiana. Superate le circostanze
storico-sociali dell'abolizione protestante del celibato, e nel contesto
dell'odierno delirio generale dello spirito e dei sensi, il celibato appare
come un'autentica e salutare provocazione (pp. 269-270).
Tuttavia, il dibattito intorno al celibato si è mosso negli
ultimi decenni nell'ambito delle così dette scienze umane, quando il celibato,
in quanto forma di condotta umana, non può essere compresso in tutta la sua
pienezza da nessuna scienza. Nessuna scienza umana può essere considerata come
la «pietra di paragone» di un atteggiamento prettamente religioso, in quanto
esso si fonda in realtà, come la fede e la fedeltà, che superano di molto la
comprensione delle scienze positive (p. 270). La scienza empirica non può né
giustificare, né accusare, né condannare nessun atteggiamento umano, e non solo
perché l'umano è sempre unico e irrepetibile - non esiste il celibato, ma le
singole persone che vivono il celibato -, ma anche perché la maggioranza delle
scienze moderne si regge per il pensiero scientifico naturale - soltanto è
reale quello che si può misurare - (pp. 270-271. Tale metodo scientifico è
legittimo e fruttuoso, ma non lo è la pretesa assolutizzatrice di alcuni
ricercatori, che si stralimitano nelle loro competenze (p. 271).
L'Autore si sofferma brevemente nella psicanalisi freudiana,
per concludere che, se applicata ai comportamenti religiosi, abbassa questi al
livello degli istinti, in un riduzionismo disumanizzante (pp. 272-273).
Tuttavia, un simile riduzionismo può farsi strada nella mentalità dell'uomo
moderno, a motivo del meccanicismo dominante. Non mancano però le critiche,
elencate dall'Autore (pp. 273-274), e i tentativi di superamento della
psicologia del profondo. Certo, scrive l'Autore, ci sono delle forme
neuro-tiche di «vita di pietà», per questo non autorizza i direttori spirituali
e ai formatori dei seminaristi a considerare una necessità la conoscenza della
psicologia del profondo, e al cieco impiego delle conoscenze acquisite: il
discernimento nella vita spirituale e la pedagogia spirituale dei santi hanno
avuto ben altre fonti (p. 274). Da non sottovalutare la constatazione che fa
l'Autore sul pericolo per coloro che si affacciano all'ambito della psicologia
del profondo: gli analisti di professione in questo campo si trovano
fa-cilmente dominati per l'ossessione di trovare, dietro o sotto gli
atteggia-menti religiosi, dei fenomeni morbosi, e anche cadono spesso nella
tentazione di interpretare la vita psicologica normale secondo le loro
perturbazioni (p. 274). L'Autore critica le posizioni di T. Brocher e E.
Drewerman, sottomessi ambedue al dogmatismo psicoanalitico, considerandole
aberranti (pp. 276-277).
Oltre al suo carattere provocativo per l'uomo tecnologico,
il celibato -dice Torello - lo è anche a motivo dell'incapacità dell'uomo
moderno per stabilire dei vincoli forti e duraturi, forse a causa
dell'educazione ricevuta: nella soddisfazione immediata dei suoi capricci fin
dall'infanzia, senza aver imparato il valore della rinuncia e dell'amore, ecc.
E così, in questo clima di insicurezza e di sospetto di qualunque forma di
fedeltà, è dove sorgono le critiche odierne al celibato sacerdotale. È logico,
dice l'Autore, che a queste persone piene di paura, il celibato si presenti
come un atteggiamento disumano e di fatto impossibile da vivere, soprattutto se
la fede cristiana non è presente (p. 278).
Invece, in Cristo si scopre il valore della fedeltà. E così,
alla luce di Cristo, il celibato per il Regno dei Cieli si presenta come
«provocazione» per la libertà umana, che ha bisogno proprio dei vincoli, e
anche della morte, per arrivare alla sua maturità. Una libertà senza vincoli è
un controsenso; invece, la libertà autentica abbraccia lo irrevocabile. Quel
che importa è l'amore definitivo, la donazione senza riserve. Le persone, a cui
manca la libertà interiore, scelgono sempre le cose provvisori e passeggere. E
così, conclude l'Autore, non è la frustrazione il peggiore dei mali, quanto la
paura della frustrazione e la fuga dalla possibilità di trovarsi con essa(p.
279).
Proprio per questo, coloro che dalla mano della psicologia
perdono di vista la realtà di Dio e degli uomini e si dedicano a divagare su se
stessi e la loro autorealizzazione, diventano malati e sprofondano nelle
tenebre; invece coloro che considerano la persona come realtà aperta verso gli
altri, che fanno attenzione alla vita dello spirito più che agli istinti e agli
affetti, si realizzano in quella apertura all'amore, al servizio degli altri,
sperimentando la vera autorealizzazione e con essa la felicità. L'Autore
ricorda alcune comparazioni sul celibato sacerdotale in questo senso.
Raccogliamo qua soltanto il paragone fatto da V. Frankl: potrebbe dirsi che il
sacerdote celibe si assomiglia al boomerang, che non ha assolutamente lo scopo
di ritornare al cacciatore che lo impiega: torna indietro soltanto il boomerang
che non acceca la meta, la preda su cui è stato puntato. È quel che succede al
sacerdote che si chiude in se stesso quando non porta a compimento il
significato della sua vocazione - servire Dio e gli uomini - e si sente
frustrato (p. 281).
Il sacerdote, per la
natura della sua vocazione, deve prendere su di sé ogni giorno il suo celibato,
in quanto espressione del dono di sé a Cristo e al suo Corpo, la Chiesa, che
include anche la pazzia della Croce. In questo senso, il celibato è
provocazione, perché promuove e fomenta la propria vocazione sacerdotale. Cioè,
il celibato testimonia chiaramente, conclude l'Autore con parole di santa
Teresa di Gesù, che «solo Dios basta»; ed inoltre che, con esso, si facilita
l'unità di vita, si apre il cuore a tutte le persone, si facilita la lotta
spirituale nella ricerca dell'unione con Dio, e fa del sacerdote il testimone
della vita eterna (p. 282).
Javier García De Cárdenas