di Juan Manuel de Prada
Qualche tempo fa ha provocato una certa
divertita perplessità in ambito giornalistico il fatto che la rivista
statunitense "Esquire", nel suo annuale riconoscimento ai personaggi
che incarnano l'epitome dell'eleganza, abbia indicato Benedetto XVI come l'uomo
che meglio sceglie i suoi accessori di abbigliamento. Questa scelta, di una
frivolezza molto caratteristica di un'epoca che tende a banalizzare ciò che non
comprende, è avvenuta in un momento in cui Benedetto XVI aveva suscitato
un'attenzione mediatica senza precedenti nel riprendere alcuni indumenti di
radicata tradizione papale come il camauro, un copricapo invernale di velluto
rosso bordato di ermellino, o il "saturno", un cappello a tesa larga
che era già stato largamente utilizzato da alcuni suoi predecessori, come
Giovanni xxiii.
In quegli stessi giorni si è diffusa la diceria che le scarpe di cuoio rosso
che il Papa è solito calzare erano disegnate da Prada, il celebre marchio milanese.
Naturalmente l'attribuzione era falsa; la banalità contemporanea non si è
nemmeno accorta che il colore rosso racchiude un nitido significato martiriale,
così come non ha neanche capito che queste voci erano incongruenti con l'uomo
semplice e sobrio che, nel giorno della sua elezione al papato, ha mostrato ai
fedeli accalcati in piazza San Pietro e a tutto il mondo le maniche di un
modesto maglioncino nero. Tuttavia, come sempre accade, quelle frivolezze
inopportune nascondevano un nocciolo di paradossale verità: in effetti, a
volte, anche la confusione e la stupidità riescono a percepire - in modo
frammentario, confuso e snaturato - realtà che veramente esistono. E la verità
è che in Benedetto XVI è, in effetti, presente una profonda preoccupazione per
il vestiario; una preoccupazione però di natura molto diversa.
Sant'Ireneo diceva, verso la fine della sua esistenza, di non aver fatto altro
nella vita che lasciare crescere e maturare quanto era stato seminato nella sua
anima da Policarpo, discepolo di san Giovanni. In un punto memorabile della sua
breve autobiografia, Joseph Ratzinger ci rivela come fin da bambino abbia
imparato a vivere la liturgia, grazie al seme deposto in lui dai suoi genitori,
che gli regalarono lo "Schott", cioè il messale tradotto in tedesco
dal monaco benedettino Anselm Schott. Il frammento ha una bellezza germinale
paragonabile a quella racchiusa nell'episodio della "maddalena"
nell'opera più importante di Proust: "Naturalmente, essendo bambino
non comprendevo ogni dettaglio, ma il mio cammino con la liturgia era un
processo di continua crescita in una grande realtà che superava tutte le
individualità e le generazioni, che diveniva motivo di meraviglia e
di scoperta nuove".
Questa concezione della liturgia come patrimonio ereditato dalla Tradizione,
arricchito da apporti successivi che lo fanno crescere in modo organico,
contrasta con alcune visioni contemporanee che preconizzano un sapere
atomizzato, orfano di fondamenta e di vincoli saldi, facilmente adattabile alla
circostanza concreta; un sapere, in definitiva, rabbiosamente
"originale" - come se la tradizione non fosse la forma suprema di
originalità, in quanto ci permette di vincolarci alle "origini" - che
ha contaminato certe tendenze liturgiche, svuotando di senso il rito. Il seme
che i genitori deposero in quel bambino avrebbe in seguito recato frutti in
opere come Dio e il mondo, dove Ratzinger si preoccuperà di mostrare il
senso della storicità della liturgia come dono consegnato da Cristo alla
Chiesa, dono che cresce con essa e incita a "riscoprirla come una creatura
vivente". A questa creatura vivente avrebbe dedicato Introduzione allo
spirito della liturgia, un libro in cui - in continuità con il titolo
classico di Guardini - Ratzinger rivendica il concetto di Tradizione, che non è
statico, "ma che non si può neanche sminuire in una mera creatività
arbitraria", approfondendo una concezione della liturgia come
partecipazione all'incontro di Cristo con il Padre, in comunione con la Chiesa
universale.
Come il suo maestro Guardini, Ratzinger desidera che la liturgia si celebri
"in modo più essenziale". E qui "essenzialità" non
significa povertà, almeno non nel senso in cui alcuni hanno voluto anteporre la
dimensione sociale alla celebrazione liturgica (ai quali Gesù risponde
chiaramente nel brano evangelico dell'unzione di Betania);
"essenzialità" significa "esigenza intima", ricerca di una
purezza interiore che in nessun modo deve essere interpretata come purismo
statico.
Nell'attenzione per la liturgia dobbiamo inquadrare l'importanza - visibile per
qualsiasi persona non completamente stordita dalla frivolezza - che Benedetto
XVI attribuisce ai paramenti e, in modo particolare, agli ornamenti liturgici.
Il sacerdote non sceglie tali ornamenti per un vezzo estetico: lo fa per
rivestirsi di Cristo, quella "bellezza tanto antica e tanto nuova" di
cui ci parlava sant'Agostino. Questo "rivestirsi di Cristo", concetto
centrale dell'antropologia paolina, esige un processo di trasformazione
interiore, un rinnovamento intimo dell'uomo che gli permetta di essere una sola
cosa con Cristo, membro del suo corpo. Gli ornamenti liturgici rappresentano
questo "rivestirsi di Cristo": il sacerdote trascende la sua
identità per divenire qualcun altro; e i fedeli che partecipano alla celebrazione
ricordano che il cammino inaugurato con il Battesimo e alimentato con
l'Eucaristia ci conduce alla casa celeste, dove saremo rivestiti con abiti
nuovi, resi candidi nel sangue dell'Agnello. Così gli ornamenti liturgici sono
"anticipazione della veste nuova, del corpo risuscitato di Gesù
Cristo"; anticipazione e speranza della nostra stessa risurrezione, tappa
definitiva e dimora permanente dell'esistenza umana.
Il Papa, insomma, non veste Prada, ma Cristo. E questa sua preoccupazione non
riguarda l'"accessorio", ma l'essenziale. Questo è il significato
degli ornamenti liturgici che Benedetto XVI si preoccupa di curare, per rendere
più comprensibile agli uomini del nostro tempo la realtà più vera della
liturgia.
(©L'Osservatore Romano - 26 giugno 2008)