LA LITURGIA TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE:

IL MOTU PROPRIO DI BENEDETTO XVI

                                       

 

Nicola Bux

 

 

Il Motu proprio Summorum Pontificum è un atto legislativo specifico, come risulta dallo stesso documento, nonché dalla Lettera che Sua Santità Benedetto XVI ha scritto ai vescovi accompagnando le nuove disposizioni.Per usare una espressione teologica,il Motu proprio costituisce un importante esercizio del suo munus regendi, cioè il potere proprio della gerarchia cattolica con a capo il papa, di governare la Chiesa. Pertanto l’obiettivo ‘dottrinale’del documento pontificio può essere riassunto in tre punti:

 

·        favorire la riconciliazione interna nella Chiesa;

·        offrire a tutti la possibilità di partecipare alla “forma straordinaria”, considerata un tesoro prezioso da non perdere;

·        garantire il diritto del popolo di Dio – i sacerdoti, i laici e i gruppi che lo domandano, -  all'uso della “forma straordinaria”.

 

La Pontificia Commissione Ecclesia Dei preposta a vigilare e promuovere la sua attuazione, in dialogo con vescovi, sacerdoti e fedeli laici, risponde alle numerosissime lettere che contengono considerazioni e presentano difficoltà. Tuttavia, dalle informazioni apparse sui media, appare necessario  fornire ulteriori chiarificazioni su alcuni punti e risposte a parecchi quesiti. A tale scopo sarà pubblicata una specifica Istruzione.

 

    Ma, innanzitutto bisogna conoscere l’interpretazione che il Santo Padre medesimo ha dato nella lettera di accompagnamento del Motu proprio.

 

1. Le linee dottrinali e disciplinari del Motu proprio

 

Per fugare il timore che, ripristinando il messale romano nell’ultima edizione del 1962, venisse intaccata l’autorità del Concilio in base al quale Paolo VI pubblicò il nuovo messale, la lettera afferma che si tratta di due stesure conseguenti, come altre volte è avvenuto nei secoli, allo sviluppo dell’unico rito, infatti chi conosce la storia dei libri liturgici sa che in occasione della loro ristampa, sono stati emendati e arricchiti di formulari per Messe, benedizioni ecc. Quindi i due messali non appartengono a due riti. E’ una risposta a quanti da destra e da sinistra, tradizionalisti e progressisti, avevano affermato che l’antico rito romano fosse morto con la riforma liturgica e nato un altro in totale discontinuità. Una cesura vera e propria.  E’ interessante notare questa coincidentia oppositorum. Per capire le opposte ragioni si rimanda ad esempio agli scritti di Klaus Gamber e Annibale Bugnini.

 

     Quando nel 1970 fu pubblicato il Novus Ordo Missae si pensava che il messale del 1962 sarebbe stato usato ormai solo da pochi e il problema si sarebbe risolto caso per caso. Così non è stato: l’uso del messale del 1962 è andato ben oltre i gruppi tradizionalisti, i nostalgici e gli anziani, “è emerso chiaramente che anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma particolarmente appropriata per loro di incontro col Mistero della santissima Eucaristia”. Ne è nata la necessità di un regolamento giuridico mediante il Motu proprio anche per aiutare i vescovi ad esercitare in modo cattolico il compito di moderatori della liturgia nella Chiesa particolare.

 

      Per fugare un secondo timore, di disordini e spaccature nella comunità parrocchiale, il papa annota che esso non sussiste, perché l’uso del messale antico presuppone una certa formazione liturgica e l’accesso alla lingua latina: cose non frequenti nella realtà dei fedeli. Perciò il nuovo messale rimane valido per l’uso ordinario e il vecchio per quello straordinario. Esagerazioni vi possono essere sia da parte dei fedeli legati all’antico sia da parte di quelli che amano la novità sempre e comunque, come il caso di preti ‘creativi’; il modo per evitarle è nell’uso consigliato – non obbligato – agli uni e agli altri di entrambe le forme perché si può prevedere che dovranno arricchirsi vicendevolmente o contaminarsi in senso buono, in specie la nuova se recupererà la sacralità e la riverenza “in conformità alle prescrizioni”in essa contenute e che ne renderebbero “visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica”. Così è avvenuto nella storia delle liturgie orientali e occidentali, ad esempio, tra quella antiochena e bizantina, o tra la romana e l’alessandrina.

 

      Dopo aver mostrato l’infondatezza dei timori, la lettera fornisce la ragione positiva, potrei dire il vero obbiettivo ‘dottrinale’: “Una riconciliazione interna nel seno della Chiesa”… “fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in questa unità o di ritrovarla nuovamente”. Non ha detto Gesù: che siano una sola cosa perché il mondo veda e creda?Chi potrebbe obbiettare a ciò? Eppure c’è chi non condivide nella lettera la seguente affermazione: “Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del messale romano. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto”. E’ un ammonimento agli uni e agli altri perché ritrovino l’equilibrio.

 

      Quanto infine all’autorità del vescovo, nulla si toglie: deve vigilare e moderare – mai come in tal caso ha senso il termine moderatore –  “in piena armonia, però, con quanto stabilito dalle nuove norme del Motu proprio”. Potrei dire che tale moderazione consiste nel favorire l’arricchimento degli uni e degli altri, come ho accennato poc’anzi; infatti, verso la fine della lettera si dice che coloro che celebrano con l’antico messale, dovrebbero celebrare anche col nuovo. Non è un obbligo ma un suggerimento, mentre il rispetto per entrambi gli usi è obbligatorio. Di conseguenza, chi celebra secondo l’uso antico deve evitare di delegittimare l’altro uso, e viceversa. Quindi non è ammesso un rifiuto a celebrare il nuovo per motivazioni di principio, perché non sarebbe segno di comunione rifiutarsi, ad esempio, di concelebrare con un vescovo che intendesse farlo secondo il nuovo messale.

 

       La Chiesa non è una monarchia ereditaria e quindi in linea di principio nessun papa è vincolato alle decisioni del suo predecessore, perché si vengono a creare situazioni nuove. Però il Santo Padre ha chiesto ai vescovi un rapporto per fare il punto sulla situazione da qui a tre anni, quindi si aprono spazi anche per le comunità interessate sia di fedeli laici che religiosi attaccati alla tradizione, soprattutto quelli rimasti in comunione con Roma,  per dimostrare con il loro operato di voler veramente raggiungere la concordia e la riconciliazione. Sarebbe paradossale che la messa, il cui momento culminante è l’eucaristia, sacramento per eccellenza dell’unità e della pace, finisca per diventare segno di divisione, di discordia e quindi foriero di contrapposizione. Aggiungerei che per i seguaci di mons. Lefebvre come per i fautori degli abusi nella liturgia rinnovata, si tratta di una occasione importante per dimostrare con grande umiltà e semplicità di voler abbandonare, i primi, le posizioni di separatezza e tornare in piena comunione cattolica con Roma, senza alcuna voglia di rivincita, in quanto non è un sentimento cristiano, e i secondi, gli atti di manipolazione delle liturgia che non è loro proprietà e di celebrarla in spirito cattolico perché appartiene all’intera Chiesa. Sarebbe il segno che il Motu proprio ha raggiunto un risultato importante, che è poi sia quanto auspicavano i primi, ossia che la liberalizzazione dell’antico rito fosse propedeutica alla piena riconciliazione, sia quanto affermavano i secondi, ovvero che la nuova liturgia contiene e sviluppa quella antica dei sacramentari e ordines romani.

 

    Al di là delle forme rituali, non bisogna dimenticare, come opportunamente richiama anche il Santo Padre nella sua lettera, che la sostanza della liturgia è la riverenza e l’adorazione di Dio, quel Dio che è presente nella Chiesa. Non si deve ridurre la natura della liturgia ad una disquisizione sulle forme: la vera questione è se la liturgia, antica e nuova, aiuti davvero a rendere il dovuto culto a Dio nelle forme più consone e appropriate, in spirito e verità.

2. Un po’ di storia.

E’ curioso che all’antico guardino sia i cultori della tradizione che gli amanti dell’innovazione: gli uni per conservare, gli altri per rinnovare. Non affermano questi ultimi che la nuova liturgia ha ripreso antichi riti caduti in disuso, due esempi tra tutti: la preghiera dei fedeli e la concelebrazione? Allora è giusto che la lettera faccia un po’ di storia per dedurre in sintesi alcuni principi dottrinali della liturgia cattolica.

a- I papi, dalle origini ad oggi, hanno curato il culto che la Chiesa deve offrire alla Divina Maestà, perché fosse un culto degno “a lode e gloria del Suo nome” e “ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa”. Viene richiamato il principio da osservare(cfr Istruzione generale del messale romano, ed.typ.III 2002, n 397) circa la concordanza tra dottrina, segni e usi della Chiesa particolare con quella universale, “perché la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge di fede”.

b- La figura che più eccelle è quella di san Gregorio Magno, il quale “comandò che fosse definita e conservata la forma della sacra Liturgia, riguardante sia il Sacrificio della Messa sia l’Ufficio Divino, nel modo in cui si celebrava nell’Urbe”. Poiché egli in certo senso affidò ai Benedettini sia la diffusione del Vangelo che l’attuazione della Regola in cui si raccomanda: “Nulla venga preposto all’opera di Dio” (cap 43), in tal modo permise che la liturgia romana arricchisse di fede, pietà e cultura molti popoli.

 

    Dopo Gregorio altri pontefici continuarono tale opera: in particolare san Pio V che secondo il dettato del Concilio di Trento “rinnovò tutto il culto della Chiesa, curò l’edizione dei libri liturgici, emendati e ‘rinnovati secondo la norma dei Padri” e li diede in uso alla Chiesa latina”. Tra questi, in specie il messale romano.

c-Dopo l’aggiornamento e la definizione di riti e libri liturgici da parte di altri pontefici come Clemente VIII e Urbano VIII, arriviamo alla riforma generale del XX secolo con san Pio X, Benedetto XV, Pio XII e il beato Giovanni XXIII. Infine il Concilio Vaticano II “espresse il desiderio che la dovuta rispettosa riverenza nei confronti del culto divino venisse ancora rinnovata e fosse adattata alle necessità della nostra età”.Paolo VI “mosso da questo desiderio…nel 1970 per la Chiesa latina approvò i libri liturgici riformati e in parte rinnovati”. Furono bene accolti da vescovi, sacerdoti e fedeli nel mondo. Giovanni Paolo II ha rivisto la editio typica III del messale, ovvero la sua riedizione aggiornata. Il fine di tale lavoro è lo splendore per dignità e armonia della liturgia quale culto cattolico reso a Dio uno e trino.

d. Ma il fatto che “in alcune regioni non pochi fedeli” continuavano ad aderire “alle antecedenti forme liturgiche”che avevano permeato la loro cultura e il loro spirito, spinse Giovanni Paolo II nel 1984 a far emanare un Indulto dalla Congregazione per il Culto Divino che dava facoltà di usare il messale del ‘62; e nell’ ‘88 col Motu proprio Ecclesia Dei esortò i vescovi ad usare “largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero”. E’ questo l’antefatto che ha portato Benedetto XVI, anche in seguito all’insistenza di molti fedeli, dopo un Concistoro il 22 marzo 2006, “avendo riflettuto profondamente su ogni aspetto della questione, dopo aver invocato lo Spirito Santo e contando sull’aiuto di Dio” a stabilire in 12 articoli le norme da seguire da vescovi e fedeli.

   

 In sintesi:

1- Una è la lex orandi della Chiesa cattolica, ma due le espressioni che non porteranno in alcun modo alla divisione della lex credendi della Chiesa; ovvero un solo rito in due usi: ordinario e straordinario. Il messale romano precedente non è mai stato abrogato.

 

2- La messa antica è nella sua struttura essenziale quella di san Gregorio Magno, soprattutto il Canone romano. Si rivolge a tutti e la può celebrare qualsiasi sacerdote in comunione con la Chiesa cattolica senza alcun permesso della Santa Sede o del vescovo diocesano. Deve essere offerta a tutti e vi può partecipare chiunque senza limite di numero. Altrettanto dicasi per battesimo, matrimonio, penitenza e unzione. Le formule antiche della cresima e dell’ordine sacro restano valide. Così per l’ufficio divino.

 

3-Le letture si possono proclamare anche nella lingua vernacola secondo l’ordine del  messale del 1962.

 

4-I fedeli che non ottengono soddisfazione dal parroco, informano il vescovo. Se anche questi non fosse in grado di provvedere, si rivolgano alla Pontificia Commissione Ecclesia Dei che esercita l’autorità della Santa Sede, vigilando sull’osservanza e l’applicazione di queste disposizioni.

 

     Dunque, il Motu proprio affianca l’antico rito al nuovo, non lo sostituisce; esso resta facoltativo, non obbligatorio. Non toglie ma aggiunge, quindi esprime l’unità nella varietà. E’ un arricchimento che deve guarire le ferite causate dalla rottura della comunione e portare alla riconciliazione interna alla Chiesa, superando le interpretazioni del Concilio che hanno portato a “ deformazioni liturgiche al limite del sopportabile”.

3.Le interpretazioni scorrette dell’atto papale

Dopo la pubblicazione del Motu proprio, da parte di taluni esponenti ecclesiastici, religiosi e laici, sostenitori delle sperimentazioni liturgiche, sono state fornite non poche interpretazioni scorrette: il presupposto comune è che fino al Concilio la Chiesa sia stata ferma e solo con questo si sia messa in cammino; in tal modo la tradizione viene messa in opposizione al progresso. Mi domando, tradere non significa trasmettere qualcosa da una generazione all’altra, un contenuto da una epoca ad un’altra? Nel nostro caso, tutto il complesso di gesti e di testi liturgici? Sicché si può dire che la tradizione sia in certo senso anche progresso! Se la riforma liturgica postconciliare avesse inteso proporre ai sacerdoti di scegliere all’interno della tradizione cosa conservare e cosa gettare, avrebbe compiuto un’eresia. Così non sembra, visti i numerosi licet e possit che punteggiano le rubriche liturgiche del messale di Paolo VI. Il Motu Proprio di Benedetto XVI, vuol consentire una chance in più, o meglio, riaffermare che l’antica liturgia non è mai stata abolita, in quanto pienamente cattolica. Si può dire che l’aggiornamento di papa Giovanni del messale del 1962 non può essere contrapposto a quello di Paolo VI avvenuto otto anni dopo, ma tenuto insieme come una ricchezza: appartiene alla regula fidei come espressione straordinaria e non eccezionale, accanto a quella ordinaria e normale, appunto: “due usi dell’antico rito romano”.

 

     L’autorità del Concilio non deve essere intaccata e la riforma liturgica non deve essere messa in dubbio sia da chi è più affezionato alla forma antica codificata nel messale del 1962, sia da chi preferisce quello del 1970. E’ ovvio che quanto è ordinario non sia uguale allo straordinario, ma sarebbe strano che noi vivessimo solo del primo e non avessimo bisogno del secondo, proprio com’è ordinario il feriale e straordinaria la festa. Perciò è errato ritenere che questa nuova disposizione sia stata promulgata per i “tradizionalisti”, perché l’intento del Motu proprio è che tutti nella Chiesa guardino al rito antico, anzi che i preti possano celebrarlo e i fedeli parteciparvi. Un fedele orientale che va in chiesa può assistere al rito di Crisostomo o di Basilio secondo i tempi liturgici. Analogamente, le diocesi cattoliche non devono limitarsi ad attendere la richiesta ma devono offrire la possibilità.

 

     Perché ritenere ignoranti della Scrittura e della liturgia e nutriti soprattutto di devozioni coloro che desiderano tornare all’antico rito, quasi che quanti partecipano alla nuova liturgia siano più istruiti: basta leggere saggi e articoli di liturgisti per scoprire in proposito continue insoddisfazioni e lamentele nei confronti del vasto popolo di Dio.

 

     D’altro lato, della liturgia come bandiera d’identità non si sono serviti solo taluni tradizionalisti per affermare il fondamentalismo cattolico ma anche non pochi progressisti per rivendicare l’autonomismo di marca protestante e no-global ( vedi le bandiere della pace issate sulle chiese e davanti agli altari).La strumentalizzazione politica e culturale della messa o la sua riduzione a folklore o spettacolo è stata fatta sia dagli uni che dagli altri. La non accoglienza del Concilio – penso all’autorità del papa Paolo VI – avveniva nel post-concilio soprattutto da parte dei progressisti. Certe nuove comunità monastiche non hanno privilegiato liturgie, dove il tempo per la parola biblica prepondera su quello per la celebrazione dell’eucaristia, dove si accentua la dimensione conviviale della messa a scapito di quella sacrificale? Il Concilio non ha mai immaginato simile squilibrio

 

     Certo molti si domandano come mai l’antico rito sia ricercato dai giovani - come dice il papa nel Motu proprio -, pur non avendola mai conosciuta.  E’ riducibile ad un gusto personale? A parte i casi estremi di ‘messe beat’ dove il prete balla, ‘messe rivoluzionarie’ come in Colombia dove il prete con stola imbraccia il mitra in una mano e il messale nell’altra, ‘messe-carnevale’ in oratori salesiani dove i celebranti mettono la maschera da clown, ‘messe pic-nic’, ecc., non capita di assistere a messe dove il sacerdote sostituisce le letture con altre non bibliche, cambia articoli del credo, interpola la preghiera eucaristica? A cosa si devono ricondurre se non all’arbitrio? Interpretano bene costoro la riforma liturgica? O si sono lasciati andare al soggettivismo e relativismo, anzi alla caricatura e alla profanazione nella liturgia?

    

       Tutto questo viene ricondotto al Concilio, interpretato come cesura epocale  dai primi come dai secondi, ma in senso uguale e contrario; semplificando: i lefebvriani ritengono che la “Chiesa pre-conciliare” sia stata tradita dal Concilio, mentre gli alberighiani della scuola di Bologna ritengono che la “Chiesa post-conciliare” abbia tradito il Concilio. Un esponente di questi ultimi ha definito il Motu proprio “uno sberleffo villano al Vaticano II”, ignorando che il rito romano antico si celebrava durante il Concilio e ancora alcuni anni dopo. E’ l’ermeneutica della discontinuità o della rottura, secondo Benedetto XVI. E’ strano che quelli che hanno fatto di Giovanni XXIII il simbolo del progressismo, si oppongano al messale romano da lui aggiornato ed ora rimesso in auge per la celebrazione del rito antico. I due messali stanno a dimostrare che, al di la delle forme, l’identità della Chiesa permane la stessa. Non si può scegliere la Chiesa o la messa che più aggrada. Invece, si deve consentire a tutti di sentirsi nell’unica Chiesa cattolica partecipando all’antico e al nuovo rito. Questo è il criterio non soggettivo che richiama il Motu proprio.

 

     Biasimare i tradizionalisti perché si ritengono “salvatori della chiesa romana” non serve da parte di chi si ritiene profeta della chiesa che verrà. No, il Motu proprio vuole umiltà degli uni e degli altri: la Chiesa non è cominciata col Concilio Vaticano II ma con gli Apostoli, e ha attraversato i secoli perché noi la ricevessimo integralmente, in comunione di fede e di amore con tutte le generazioni di cristiani.La Chiesa è insieme gerarchia e popolo, immagine dell’assemblea celeste, come la rappresenta la liturgia orientale seguendo la dottrina di Dionigi Areopagita: la liturgia del cielo sulla terra.

 

     Poi, se fosse vero che il rito antico privilegia una dimensione personale devozionale ed estetica, allora si dovrebbe osservare che il nuovo rito eccede in comunitarismo, partecipazionismo senza devozione, e spettacolarità.

 

     Si sostiene inoltre che la prima forma non permetteva un culto spirituale, per cui si è dovuto migrare verso quella uscita dalla riforma conciliare: ma in tal modo ci si contraddice, perché si cade nella contrapposizione tra pre e post concilio che in premessa si era negata e attribuita invece ai tradizionalisti. Si accusa poi la liturgia tridentina di essere “dionisiaca” (nel senso di Dioniso-Bacco o di Dionigi l’Areopagita?): se fosse quest’ultimo, la liturgia bizantina cos’è, dato l’influsso che proprio su di essa ha avuto il misterioso autore del VI secolo? Gli studi comparativi dimostrano che la liturgia romana era molto più vicina a quella orientale nella forma preconciliare che in quella attuale. Pertanto si stia attenti a coniare epiteti o ad applicare l’ecclesiologia di comunione agostiniana alla liturgia riformata, perché uscirebbe malconcia visti gli abusi nella sua attuazione.

 

     Se l’antica liturgia era un ‘affresco coperto’, la nuova ha rischiato di perderlo per la tecnica aggressiva usata nel restaurarlo.Il Motu proprio invece ripristina lo statu quo ante in modo che il nuovo rito possa guardare con equilibrio e riprendere il restauro con pazienza a partire da esso stesso.