Ponenza di S.Em. Jorge Mario Card. Bergoglio s.j., Arcivescovo di Buenos Aires

 

 

L’IDENTITÀ DEL SACERDOTE,

SACERDOZIO E POLITICA, FUNZIONALISMO…

 

 

1. All’inizio di questa relazione vorrei fare due precisazioni. La prima: per trattare il tema dell’identità sacerdotale mi baserò soprattutto su quanto elaborato in proposito dalla Quinta Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano ad Aparecida, poiché lo considero un contributo originale dal punto di vista del nostro continente. Seconda precisazione: considererò i temi “sacerdozio e politica” e “funzionalismo” in relazione alla concezione esposta sull’identità del sacerdote.

 

2. Anche se dal punto di vista dogmatico l’identità del presbitero è chiara, è bene comunque prenderla in considerazione tenendo conto anche della realtà che essa vive, dato che lo specifico del presbitero sta “nella tensione”, tensione di vita sfidata nella sua stessa identità, nella sua cultura, nelle sue strutture, nei suoi processi di formazione e vincoli[1]. Questo punto di vista come metodo di approccio all’identità sacerdotale ci può aiutare a comprendere i molteplici aspetti attuali della specificità sacerdotale. D’altra parte, sottolineare la vita in tensione del sacerdote che lotta per conservare la propria identità esclude, fin dall’inizio, qualsiasi concezione del presbiterato come “carriera ecclesiastica” con le sue fasi di progresso, ruolo, retribuzioni, ecc.

 

3. Sulla base di questo metodo, si può definire l’IDENTITÀ del PRESBITERO rispetto alla comunità con due elementi che la caratterizzano. In primo luogo, come dono[2] in contrapposizione a delegato o rappresentante[3]. In secondo luogo, è bene sottolineare la fedeltà all’invito del Maestro contrapponendola alla gestione. L’iniziativa viene sempre da Dio: l’unzione dello Spirito Santo, la speciale unione con Cristo capo, invito all’imitazione del Maestro. Il fatto di sottolineare l’iniziativa divina colloca il presbitero nella dimensione di eletto-inviato, ossia all’interno di un orizzonte, mi si consenta la parola, molto più “passivo”, nel quale il protagonista principale è il Signore. In questo senso, vengono anche condizionate sia la sua autonomia personale che le sue attività poiché, essendo eletto-inviato, la sua identità nell’attività sarà quella di un “pastore guidato” o, per usare un’espressione plastica, quella di una “guida guidata”.

 

4. È opportuno non dimenticare che IDENTITÀ vuol dire APPARTENENZA; si è, nella misura in cui si appartiene. Il presbitero “appartiene” al popolo di Dio, dal quale è venuto e al quale è inviato e del quale fa parte. Ad Aparecida si sottolinea questa appartenenza ecclesiale per tutti i discepoli missionari[4], fattore chiave anche per il presbitero: si parla di CON-VOCAZIONE alla comunione nella Chiesa e si afferma che “la fede in Gesù Cristo è arrivata a noi attraverso la comunità ecclesiale e ci dà una famiglia, la famiglia universale di Dio nella Chiesa cattolica”.

Si indica anche la situazione esistenziale di chi non entra in questa appartenenza comunionale: l’isolamento dell’io. La coscienza isolata dal cammino del popolo fedele di Dio è uno dei danni maggiori alla persona del presbitero perché colpisce la sua identità in quanto viene diminuita parzialmente o selettivamente la sua appartenenza a questo popolo. Si potrebbero trovare diversi esempi di situazioni di coscienza isolata che, di fatto, negano l’affermazione comunionale; ma il riferimento fondamentale dell’identità è sempre questa “dimensione costitutiva dell’avvenimento cristiano: l’appartenenza ad una comunità concreta, nella quale poter vivere un’esperienza permanente di discepolato e di comunione con i successori degli apostoli e con il Papa”.

Si osservi che “comunità concreta” vuol dire Chiesa particolare o comunità vicine all’interno della Chiesa particolare (ad es. la parrocchia) e non una comunità “spiritualizzata”, senza radici concrete. Ciò che, in definitiva, conferisce identità al presbitero è la sua appartenenza come presbitero al popolo di Dio concreto, e ciò che gli toglie e confonde la sua identità è proprio l’isolamento della sua coscienza rispetto a questo popolo e la sua appartenenza ad un qualsiasi annuncio di tipo gnostico o astratto, ossia la tentazione di essere cristiano senza Chiesa. “Il ministero sacerdotale che scaturisce dall’Ordine Sacro ha una radicale forma comunitaria”[5].

 

5. Colui che realizza questa comunione e, quindi, questa appartenenza comunionale del presbitero al popolo di Dio è lo Spirito Santo. Dato che egli permea e motiva tutti i campi della vita, permea e configura anche la vocazione specifica di ciascuno. In questo modo si forma e si sviluppa la spiritualità propria di presbiteri, religiosi e religiose, padri di famiglia, imprenditori, catechisti, ecc. Ciascuna vocazione ha un modo concreto e diverso di vivere la spiritualità che dà profondità ed entusiasmo all’esercizio dei propri compiti[6]. Lo Spirito Santo, cioè, è l’autore delle diversità nella Chiesa, e la vita presbiterale è una delle realtà di questa varietà… non si tratta, però, di una varietà statica perché è lo stesso Spirito a dare impulso e armonia al tutto: egli non ci rinchiude in una intimità comoda ma ci trasforma in persone generose e creative, felici nell’annuncio e nel servizio missionario[7]. Ma l’azione dello Spirito va ancora più in là: “ci rende impegnati davanti alle domande della realtà e capaci di trovare un profondo significato a tutto ciò che spetta a noi fare per la Chiesa e per il mondo”[8].

Riassumendo, la comunione ecclesiale alla quale partecipa il presbitero è realizzata dallo Spirito Santo che, da una parte, crea le diversità e, dall’altra, dà loro una “vocazione”, cioè le mette in movimento al servizio dell’annuncio missionario, le sensibilizza e le rende impegnate nei confronti delle esigenze della realtà. Lo Spirito diversifica e armonizza; in questa armonia si colloca la vocazione presbiterale (armonia di diversità, ma armonia comunionale). Niente a che vedere con la coscienza isolata dell’auto-appartenenza solitaria o di gruppi selettivi (quella “intimità comoda”). Lo Spirito Santo, inoltre, ci introduce al Mistero (cfr. Gd 16,13) ed è anche Colui che spinge alla missione (cfr. At 2,1-36). In questo senso protegge l’integrità della Chiesa e la salva da due deformazioni. Senza lo Spirito Santo corriamo il rischio di disorientarci nella comprensione della fede per finire in una proposta gnostica; corriamo anche il rischio di non essere “inviati” ma di “andare per conto nostro” e finire disorientati in mille forme di autoreferenzialità. Introducendoci al Mistero, Egli ci salva da una Chiesa gnostica; inviandoci in missione ci salva da una Chiesa autoreferenziale.

 

L’immagine del Buon Pastore

 

6. Nel descrivere l’identità del presbitero è necessario sottolineare l’immagine del Buon Pastore. La prima esigenza è che il parroco sia un autentico discepolo di Gesù Cristo, perché solo un sacerdote innamorato del Signore può rinnovare una parrocchia. Allo stesso tempo, però, egli deve essere un ardente missionario che vive il costante desiderio di andare a cercare quelli che sono lontani e che non si accontenta semplicemente di amministrare[9]. A questo punto ritorna l’antinomia dono-gestione: nel concepire il ministero come un dono si supera il metodo del funzionalismo, più o meno teso al risultato, e si concepisce il lavoro apostolico, in questo caso la parrocchia, nell’ottica del discepolo-missionario. L’immagine del Buon Pastore, ad intra, implica discepoli innamorati e, ad extra, vuole ardenti missionari servitori della vita[10].

 

Ardenti missionari

 

7. Gli aggettivi che qualificano la missione sono forti: “ardenti missionari”[11], “dedizione appassionata alla propria missione pastorale”[12] “sacerdote innamorato del Signore”[13]. Essa è qualcosa di più che un buon lavoro di annuncio. C’è, in questa missione, un impegno affettivo-esistenziale che porta a “prendersi cura del gregge che ci viene affidato[14]. L’azione del prendersi cura richiede grande dedizione e tenerezza; comporta anche una considerazione personale e di situazione del gregge: ci si prende cura di ciò che è fragile, di ciò che è prezioso, di ciò che può essere in pericolo... E l’origine di questo prendersi cura amorevole ed appassionato nasce e mette radici proprio nella “coscienza di appartenenza a Cristo”[15]. Quando questa cresce in virtù della gratitudine e della gioia che produce, cresce anche l’impeto di comunicare a tutti il dono di questo incontro. La missione non si limita ad un programma o ad un progetto, ma è condividere l’esperienza dell’avvenimento dell’incontro con Cristo, testimoniarlo e annunciarlo da persona a persona, da comunità a comunità e dalla Chiesa a tutti i continenti del mondo[16].

 

8. Questo ardore missionario è opera dello Spirito Santo; “si basa sulla docilità all’impulso dello Spirito, alla sua potenza di vita che mobilita e trasfigura tutte le dimensioni della vita. Non è un’esperienza limitata agli spazi privati della devozione ma cerca di penetrare tutto con il suo fervore e la sua vita. Il presbitero, mosso dall’impulso e dall’ardore che proviene dallo Spirito, apprende ad esprimerlo nel lavoro, nel dialogo, nel servizio, nella missione quotidiana”[17].

 

9. Per concludere questo punto dell’ardore missionario desidero ricordare che Giovanni Paolo II ci chiamava ad esercitare l’“ardore” della nuova evangelizzazione e Paolo VI, in uno dei documenti postconciliari più belli e più vigorosi, ci esortava allo zelo apostolico, al fervore spirituale, a conservare la dolce e confortante gioia di evangelizzare[18]. In quel documento, egli denuncia gli ostacoli principali che si oppongono all’evangelizzazione: “la mancanza di fervore, tanto più grave perché nasce dal di dentro; essa si manifesta nella negligenza e soprattutto nella mancanza di gioia e di speranza”[19]. Paolo VI indica chiaramente la direzione dell’evangelizzatore, in questo caso, del presbitero evangelizzatore, secondo i parametri della parresia e della hypomoné. Ci chiede uno slancio interiore che risponda alle angustie e alle speranze del mondo attuale che vuole ricevere l’evangelizzazione “non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia di Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo”[20]. Due virtù, quindi, che caratterizzano il profilo del presbitero sono il fervore apostolico (la parresia) e la fermezza davanti alle difficoltà per portare avanti l’evangelizzazione (la hypomoné). Entrambe si oppongono a qualsiasi forma di funzionalismo e di mondanità spirituale.

 

Servitori e pieni di misericordia

 

10. Lo spirito di servizio è una delle caratteristiche che il documento di Aparecida chiede ai sacerdoti. Nasce dalla duplice dimensione di discepoli innamorati e ardenti missionari e, come viene sottolineato, in modo particolare verso i più deboli e bisognosi. Si indica il lavoro principale di questi presbiteri: “prendersi cura del gregge ad essi affidato e cercare i più lontani”, si chiede che siano “presbiteri-servitori della vita, che siano attenti alle necessità dei più poveri, impegnati nel campo dei diritti dei più deboli e promotori della cultura della solidarietà. Che siano anche presbiteri pieni di misericordia, disponibili a celebrare il sacramento della riconciliazione[21] [22].

 

11. Accanto a questo farsi vicino e impegnarsi con i poveri di tutte le periferie della vita, è necessaria nel presbitero l’esperienza spirituale della misericordia, la misericordia del Dio dell’Alleanza ricco in misericordia. Ci riconosciamo come comunità di poveri peccatori, mendicanti della misericordia di Dio...[23] e bisognosi di aprirci alla “misericordia del Padre”[24]. Questa coscienza del peccatore è fondamentale nel presbitero. Essa ci salva da quel pericoloso scivolare in un’abituale (e persino, direi, normale) situazione di peccato, accettata, adattata all’ambiente, che non è altro che corruzione. Presbitero peccatore sì, corrotto no.

 

12. Nel considerarsi, nella vita, peccatore, il presbitero si fa “a immagine del Buon Pastore... uomo della misericordia e della compassione, vicino al suo popolo e servitore di tutti”[25]; cresce nell’“amore di misericordia verso tutti coloro che si vedono colpiti in uno qualsiasi degli aspetti della loro vita, come ci mostra bene il Signore in tutti i suoi gesti di misericordia”[26]. Al presbitero, si richiede “una spiritualità della gratitudine, della misericordia, della solidarietà fraterna”[27] e che abbia, come Gesù, una particolare misericordia verso i peccatori[28] e viscere di misericordia nell’amministrare il sacramento della riconciliazione[29]. La posizione del sacerdote in questo sacramento e, in generale, davanti alla persona peccatrice deve essere proprio questa: viscere di misericordia. Spesso accade che i nostri fedeli, nella confessione, si trovino di fronte sacerdoti lassisti o sacerdoti rigoristi. Nessuno dei due può essere testimone dell’amore di misericordia che il Signore ci ha insegnato e ci chiede, perché nessuno dei due si fa carico della persona; entrambi, anche se in modo elegante, la ignorano. Il rigorista la consegna alla freddezza della legge, il lassista non la prende sul serio e cerca di far tacere la coscienza del peccato. Solo il misericordioso si fa carico della persona, gli si fa prossimo, vicino e l’accompagna nel cammino della riconciliazione. Gli altri non sanno che cosa sia farsi prossimo e preferiscono passare oltre, come hanno fatto il sacerdote e il levita con l’uomo percosso dai briganti sulla via da Gerusalemme a Gerico.

 

Sacerdoti innamorati del Signore

 

13. Al punto 6. ho detto che l’immagine del Buon Pastore presuppone due dimensioni: una ad intra, quella di discepoli innamorati del Signore, e un’altra ad extra, quella di ardenti missionari. Sebbene procedano assieme, dal punto di vista logico la dimensione missionaria nasce dall’esperienza interiore dell’amore per Gesù Cristo. Riprendo, dunque, questa dimensione di presbiteri discepoli innamorati, soltanto accennata al n. 6. Alla base dell’esperienza del presbitero discepolo missionario è indispensabile l’incontro con Gesù Cristo. Oggi, anche l’incontro del presbitero con Gesù nell’intimità è indispensabile per alimentare la vita comunitaria e l’attività missionaria[30]. Essere cristiani non è frutto di un’idea, ma dell’incontro con una persona viva.

 

14. Il presbitero, come discepolo, si “incontra” con Gesù Cristo, dà testimonianza “che non segue un personaggio della storia passata, bensì Cristo vivo, presente nell’oggi ed ora della sua vita”[31]. Il presbitero, in se stesso, è uno che riceve il kerigma e che, per questo, possiede “una profonda esperienza di Dio”[32]; nella sua vita “il kerigma è il filo conduttore di un processo che culmina nella maturità del discepolo di Gesù Cristo”[33], un processo che porta il presbitero a “coltivare una vita spirituale che sprona gli altri presbiteri”[34] ad essere ciascuno un “uomo di preghiera, maturo nella sua scelta di vita per Dio, che fa uso dei mezzi della perseveranza, come il Sacramento della confessione, la devozione alla Vergine Santissima, la mortificazione e la dedizione appassionata alla propria missione pastorale”[35].

 

Sfide al presbitero e richieste del popolo di Dio

 

15. Come ho detto al n. 2, il presbitero è in tensione in mezzo a situazioni che colpiscono e sfidano la sua vita e il suo ministero[36], fra cui: l’identità teologica del ministero presbiterale, il suo inserimento nella cultura attuale e situazioni che incidono sulla sua vita. Qui, più che su queste situazioni, vorrei soffermarmi sulle richieste che il popolo di Dio pone ai suoi presbiteri[37] Sono 5: a) che abbiano profonda esperienza di Dio, configurati al cuore del Buon Pastore, docili alle mozioni dello Spirito, che si nutrano della Parola di Dio, dell’Eucaristia e della preghiera; b) che siano missionari mossi dalla carità pastorale che li porti a prendersi cura del gregge ad essi affidato e a cercare i più lontani…; c) in profonda comunione con il loro Vescovo, i presbiteri, diaconi, religiosi, religiose e laici; d) servitori della vita, che siano attenti alle necessità dei più poveri, impegnati nella difesa dei diritti dei più deboli e promotori della cultura della solidarietà; e) pieni di misericordia, disponibili ad amministrare il Sacramento della riconciliazione. Per conservare e far crescere questa identità presbiterale si chiede “una pastorale presbiterale che privilegi la spiritualità specifica e la formazione permanente e integrale dei sacerdoti”[38].

 

16. Dietro a queste richieste esplicite c’è il desiderio implicito del nostro popolo fedele: ci vuole pastori di popolo e non funzionari, chierici di Stato. Uomini che non dimentichino di essere stati presi “dal gregge”, che non dimentichino la fede delle madri e delle nonne (2Tim 1,5), che si difendano dalla ruggine della “mondanità spirituale” che costituisce “il pericolo maggiore, la tentazione più infida, quella che, insidiosamente, rinasce sempre quando tutte le altre sono state sconfitte e riprende nuovo vigore proprio da queste vittorie”. “Se questa mondanità spirituale invadesse la Chiesa e lavorasse per corromperla attaccandola nel suo stesso principio, sarebbe infinitamente più disastrosa di qualsiasi altra mondanità puramente morale. Peggiore di quella lebbra infame che, in alcuni momenti della storia, deturpò così crudelmente la Sposa beneamata, quando la religione sembrava insediare lo scandalo nel santuario stesso e, rappresentata da un Papa libertino, nascondeva il volto di Cristo sotto pietre preziose, ornamenti e spie”... La mondanità spirituale “è quella che praticamente si presenta come un distacco dall’altra mondanità, ma il cui ideale morale, e anche spirituale, sarebbe, invece della gloria del Signore, l’uomo e il suo perfezionamento. La mondanità spirituale non è altro che una posizione antropocentrica... Un umanismo, sottile nemico del Dio Vivente e, nascostamente, non meno nemico dell’uomo, può insediarsi in noi con mille sotterfugi”[39].

 

17. Il popolo fedele di Dio, al quale apparteniamo, dal quale siamo stati presi e al quale ci hanno inviato, ha un fiuto speciale, che nasce dal sensus fidei, per capire quando un pastore di popolo comincia a diventare un chierico di Stato, un funzionario. Non è come nel caso del presbitero peccatore: tutti lo siamo, e continuiamo a stare nel gregge. Invece, il presbitero mondano entra in un processo diverso, un processo – mi sia consentita l’espressione – di corruzione spirituale che minaccia la sua stessa natura di pastore, che lo snatura e gli conferisce uno status diverso da quello del santo popolo fedele di Dio. Sia il profeta Ezechiele che Sant’Agostino nel suo “De Pastoribus” lo descrivono come colui che approfitta del gregge: sfrutta il suo latte e la sua lana.

 

18. Questo mi dà la possibilità di menzionare brevemente tre aspetti che derivano dalla mondanità spirituale e costituiscono il profilo del “chierico di stato”: il funzionalismo, la militanza politica e l’appartenenza ideologica. Il funzionalismo è uno spostamento dell’azione evangelizzatrice del presbitero verso la gestione. La sua vita viene risucchiata da questa idolatria dei tempi moderni: il dio-gestione. Si rovina l’interiorità, si perde la contemplatività del Mistero, si trascura la preghiera… e la vita comincia ad essere retta dal funzionamento degli organigrammi. Questo non ha niente a che vedere con le opere che l’attività apostolica richiede: i santi le hanno compiute e non hanno perduto la loro identità. Il funzionalismo presbiterale è semplicemente una forma di umanismo incentrato nella propria attività; si perde la forza che è data dall’incontro con Gesù Cristo e la fede del presbitero si riduce tutt’al più ad un vago e diffuso teismo che egli può manovrare a suo arbitrio.

 

19. Una forma particolare di funzionalismo è la militanza politica di partito del presbitero. Vi è, dietro a questo, una sorta di onnipotenza subcosciente. Tutto ciò che il vero profilo del presbitero comporta (come abbiamo detto sopra) si risolve nel pragmatismo organizzativo tipico del politico. Anche qui vi è un processo di riduzione. In questa forma di funzionalismo si finisce col diventare agenti di attività politica con l’apparenza degli evangelizzatori.

 

20. Infine, una realtà che mina l’autenticità dell’essere presbitero è la priorità data ad una qualche appartenenza ideologica. Nel n. 4 ho detto che identità implica appartenenza. E l’appartenenza presbiterale è totale e unica: appartenenza comunionale alla Chiesa[40]. Si tratta di un’appartenenza esistenziale che può risentire di aspetti e accenti ideologici leciti all’interno della dottrina della Chiesa. Ma quando l’aspetto ideologico assume un ruolo centrale, diventa il fulcro dell’appartenenza, tutto il resto viene subordinato a questo. Il presbitero, allora, finisce per avere una identità ideologica e non ecclesiale. L’idea (o ideologia) si “scardina”, cioè si separa dall’armonia comunionale della Chiesa e, come dice Chesterton, impazzisce, assolutizza tutto e finisce per creare l’eresia. È opportuno, a questo punto, menzionare anche le varie proposte di spiritualità di tipo gnostico che hanno proliferato in alcuni settori e che, in definitiva, assolutizzano l’idea, la gnosi, la conoscenza, lasciando a margine la sapienza cristiana incentrata nel “Verbo che si è fatto carne”. La spiritualità ideologico-gnostica conferisce un’identità fondamentalmente individualista isolata dal corpo della Chiesa.

 

21. Funzionalismo, attività politica militante e ideologie rappresentano tre possibilità della mondanità spirituale che stravolgono l’identità del presbitero e lo riducono ad essere portatore di un umanismo che non ha niente a che vedere con la dimensione ecclesiale; non danno spazio alla parresia e alla hypomoné. Producono, nel presbitero, l’isolamento della sua coscienza rispetto al peregrinare ecclesiale del popolo fedele di Dio.

 



[1] Cfr. Documento di Aparecida nn. 192-195, 197.

[2] Id. nn. 193, 326.

[3] Id. nn. 193.

[4] Id. n. 156.

[5] Id. n. 195.

[6] Id. n. 285.

[7] Ibid.

[8] Ibid.

[9] Id. n. 201.

[10] Id. n. 199.

[11] Ibid.

[12] Id. n. 195.

[13] Id. n. 201.

[14] Id. n. 199.

[15] Id. n. 145.

[16] Ibid.

[17] Id. nn. 284, 551.

[18] Evangelii Nuntiandi, n. 80.

[19] Ibid.

[20] Ibid.

[21] Documento di Aparecida n. 199.

[22] Che l’opzione per i poveri è “preferenziale” significa, nel Documento di Aparecida, che essa “deve attraversare tutte le nostre strutture e priorità pastorali” (396). Chiesa “compagna di strada dei nostri fratelli più poveri, anche fino al martirio” (396). Si invita “a farsi amici dei poveri” (257), ad una “vicinanza che ci rende amici” (398), poiché oggi “difendiamo troppo i nostri spazi privati e di possesso, e ci lasciamo contagiare facilmente dal consumo individualistico. Per questo, la nostra opzione per i poveri corre il rischio di rimanere su un piano teorico o meramente emotivo senza una vera incidenza nel nostro condividere e decidere” (397). Con sano realismo Aparecida chiede di “dedicare tempo ai poveri” (397). Viene tracciato così il profilo di un sacerdote che “va” nelle periferie abbandonate riconoscendo in ogni persona “una dignità infinita” (388). Questa opzione di farsi vicino non ha il senso di “cercare risultati pastorali, ma di fedeltà all’imitazione del Maestro, sempre vicino, accessibile, disponibile a tutti, desideroso di comunicare vita in ogni angolo della terra” (372)

[23] Documento di Aparecida n. 100 h.

[24] Id. n. 249.

[25] Id. n. 198.

[26] Id. n. 384.

[27] Id. n. 517.

[28] Id. n. 451.

[29] Id. n. 177.

[30] Id. n. 154.

[31] Benedetto XVI, discorso inaugurale alla V Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano.

[32] Documento di Aparecida n. 32.

[33] Id. n. 278 a.

[34] Id. n. 191.

[35] Id. n. 195.

[36] Id. n. 192.

[37] Id. n. 199.

[38] Id. n. 200.

[39] De Lubac, Meditaciones sobre la Iglesia, Desclée, Pamplona 2ª ed., pp. 367-368.

[40] Documento di Aparecida nn. 156, 195.