B. Jan Beyzym

 

Un giorno del 1890, in un convento di Gesuiti in Ucraina, viene letto nel refettorio un articolo sui lebbrosi. Un novizio respinge il piatto, dicendo: «Mi stupisco che si possano leggere cose tanto ripugnanti durante il pasto». Il suo vicino, che ascolta diversamente, è sconvolto dalla descrizione delle sofferenze... Qualche anno dopo, ne parlerà al suo confessore, Padre Beyzym. Questi, turbato a sua volta, coglie l'occasione per chiedere di partire al servizio dei lebbrosi. «So benissimo, scrive al Superiore generale dei Gesuiti, in che consiste la lebbra e a cosa devo esser preparato; tuttavia, tutto ciò non mi spaventa, al contrario, mi attira».

Jan Beyzym è nato il 15 maggio 1850 a Beyzymy Wielkie, oggi nella Repubblica ucraina. Schietto e zelante nel lavoro, gli nuoce una gran timidezza giovanile. Fin dalla più tenera infanzia, condivide la devozione affatto particolare della sua famiglia per Maria. Jan pensa di diventare sacerdote in una modesta parrocchia di campagna, ma suo padre lo orienta invece verso i Gesuiti. Dopo una lunga lotta interiore, entra al noviziato della Compagnia di Gesù, il 10 dicembre 1872. Nel corso dei due anni di noviziato, Jan apprende la vita religiosa, alternando esercizi spirituali, occupazioni materiali ed opere di carità. Abituato ad una vita difficile, non soffre troppo della disciplina cui si deve piegare, ma rimane un po' rude nei suoi rapporti con il prossimo. Finito il noviziato, continua gli studi di filosofia e di teologia, fino all'ordinazione sacerdotale a Cracovia, in Polonia, il 26 luglio 1881. La sua anima ardente si rivela nelle seguenti parole: «Lavoriamo per Dio, per il cielo, e non dovremmo lasciarci superare nella nostra opera e nei sacrifici da coloro che lavorano per beni materiali o che vivono solo per la terra».

«Leviamo l'ancora e partiamo!»

Padre Beyzym è designato come prefetto degli alunni nel collegio dei Gesuiti a Ternopol, poi a Chyrów. Dopo aver insegnato il francese ed il russo, viene nominato prefetto di infermeria, funzione che comporta una pesante responsabilità ed una vigilanza quasi materna sulle dieci camerate che ospitano gli alunni ammalati. Circola fra i letti, si sforza di distrarre ammalati e convalescenti con storie e giochi, sollevando il morale dei fanciulli e degli infermieri. La sua vita austera è temperata da un umorismo ingegnoso. Un giorno, un bambino che ha una forte febbre, comincia a delirare: vuol vestirsi, dicendo che deve raggiungere la nave che è in partenza per l'America. L'infermiere di turno cerca invano di calmarlo. Arriva Padre Beyzym: «Dove te ne vai così? – Sulla nave. – Benissimo, sono io il capitano della nave, partiremo insieme». E, prendendo in braccio l'ammalato, va a metterlo a letto in un'altra stanza: «Eccoci felicemente arrivati a bordo, ora leviamo l'ancora e partiamo!» Tutto frastornato, il ragazzo si calma immediatamente.

L'energia e la dolcezza coesistono nell'anima di Padre Beyzym. Ama la natura, i fiori che coltiva per adornare l'altare e le stanze degli ammalati. Ha un acquario, una gabbia con canarini, un'altra, che ha fabbricato lui medesimo, per i trastulli di uno scoiattolo. La vista di queste creature lo aiuta ad elevare la mente, e quella degli alunni, verso Dio. Si sforza di comunicare ai ragazzi la sua devozione per Maria: una delle conferenze che fa loro, comincia così: «L'aiuto più sicuro e più necessario per la nostra conversione, per la nostra santificazione e per la nostra salvezza è la devozione alla Santissima Vergine». Padre Beyzym conosce perfettamente bene la gioventù, con le sue debolezze e le sue qualità. Il suo sguardo triste davanti ad una stupidaggine basta a riempire di pentimento il colpevole.

Completamente dedito al servizio dei fanciulli, Padre Beyzym sente crescere in sè il bisogno di amare e di sacrificarsi ancora di più per gli infelici. Chiede allora di consacrarsi al servizio dei lebbrosi. Il suo desiderio viene esaudito, lo si destina alla missione di Madagascar; lascia il suo paese il 17 ottobre 1898 e raggiunge Antananarivo il 30 dicembre seguente. Gli viene affidato il lazzaretto di Ambahivoraka, a 10 km. a nord della città. I 150 lebbrosi che ci vivono conducono un'esistenza più che miserabile. Esclusi dalla società degli uomini, tormentati dalle sofferenze, affamati, assetati, abitano baracche che cadono in rovina, senza finestre, senza pavimento, senza gli oggetti di prima necessità. All'epoca delle piogge, vivono nell'acqua e l'umidità. Davanti a tali sofferenze, Padre Beyzym prega Dio di concedere un sollievo a quegli infelici, e quando nessuno lo vede, piange a calde lacrime, perchè non può guardare senza compassione tante sofferenze umane. In un primo tempo, risiede ad Antananarivo e si reca al lazzaretto per i funerali (tre o quattro per settimana) e per la Messa della domenica. Ma, ben presto, gli viene accordato il permesso di risiedere in permanenza fra i lebbrosi.

«Non teme di toccare le piaghe!»

Per ottenere un aiuto d'urgenza, Padre Beyzym scrive numerose lettere ai confratelli d'Europa ed agli amici. Vi si può leggere: «Non c'è nessuno accanto ai lebbrosi, nè medico, nè sacerdote, nè infermiera, assolutamente nessuno. Qui, svolgo tutte le funzioni: cappellano, portalettere, sagrestano, giardiniere, medico. Quanto ai vestiti, ciascuno si copre come può, indossando un vecchio sacco trovato in un angolo, o qualcosa di simile. L'alimentazione si compone soprattutto di riso, in ragione di un chilo alla settimana, vale a dire proprio il limite per non morire di fame. Ecco tutto quello che hanno, nessuna medicina, nè fasce per coprire le ferite e le piaghe. Nulla... È difficile qui curare gli ammalati, perchè, oltre alla lebbra, hanno anche la sifilide e la scabbia, e sono pieni di pidocchi. Ma non mi stupisce, tuttavia. Come potrebbero lavarsi e pettinarsi quegli infelici, se non hanno più le dita, che sono cadute a causa della lebbra?... Se uno si lamenta di aver mal di stomaco, non bisogna chiedergli: «Cosa hai mangiato?» ma: «Hai mangiato? e quando?...» Mi sento a disagio quando penso al gran numero di persone che spendono tanto denaro per capriccio o per piaceri incomprensibili, mentre qui manca tutto».

Un'altra preoccupazione fa sanguinare il cuore di Padre Beyzym: «Eppure, quel che mi tormenta ancora di più, è la loro miseria morale, conseguenza del loro stato materiale. Sono esposti a mille occasioni di peccato... Guardo quei bambini che non soltanto non imparano ad amare Dio, ma non sanno neppure se ci sia un Dio, mentre gli adulti insegnano già loro ad offenderlo!... Domando senza tregua alla Vergine Maria di aver pietà e di concorrere al più presto alla salvezza di quegli infelici... Non appena l'amore e la fiducia nella Santissima Vergine saranno radicati in quei poveri cuori, tutto sarà a posto e potrò essere tranquillo per loro».

La prima cura di Padre Beyzym è quella di impedire che i lebbrosi muoiano di fame. La sua lunga esperienza d'infermiere lo aiuta molto. Si avvicina agli ammalati, ne fascia le piaghe, suscitando l'ammirazione dei testimoni: «Quando ricevetti per la prima volta un pezzo di tela e mi accinsi a fasciare la piaga di uno di loro, scrive, tutti mi circondarono come se si trattasse di uno spettacolo straordinario, dicendosi l'un l'altro: «Guarda! Ma guarda! Non teme di toccare le piaghe»». Tuttavia, questo servizio richiede un'abnegazione eroica: «Bisogna rimanere uniti a Dio senza posa ed esser capaci di pregare sempre... Bisogna abituarsi un po' al cattivo odore, perchè qui non si sente il profumo dei fiori, ma il puzzo della lebbra... Neanche la visione delle piaghe è molto attraente. Quando, in capo a tre o quattro ore di cure, che effettuo all'aria aperta, davanti alle baracche, torno in casa, e dopo essermi lavato e disinfettato con fenolo, sento che tutto quel che indosso emana ancora cattivo odore... All'inizio, non potevo vedere le ferite, e, dopo aver visto una piaga particolarmente ripugnante, mi è talvolta capitato di svenire. Adesso, guardo le piaghe dei miei infelici ammalati, le tocco curandole o amministrando l'Estrema Unzione con l'olio santo, senza essere impressionato. A dire il vero, sento qualcosa nel cuore quando mi occupo delle piaghe, ma soltanto perchè preferirei averle tutte su di me, piuttosto che vederle su quei poveri infelici».

Una manifestazione di libertà

Imitando Cristo che lava i piedi dei discepoli, Padre Beyzym si fa servo. «Se nella cultura attuale, scrive Papa Giovanni Paolo II, colui che serve è considerato come inferiore, nella Storia Sacra, il servo è colui che è chiamato da Dio per realizzare un'opera singolare di salvezza e di redenzione, colui che sa di aver ricevuto tutto quello che ha e tutto quello che è, e che si sente dunque chiamato a mettere al servizio degli altri quello che ha ricevuto... Servire è una vocazione assolutamente naturale, perchè l'essere umano è servo naturalmente: non è padrone della propria vita ed ha bisogno, a sua volta, di numerosi servizi da parte degli altri; servire è una manifestazione di libertà relativamente all'invasione del proprio io, e di responsabilità nei riguardi degli altri; e servire è possibile a tutti attraverso gesti, piccoli in apparenza, ma, in realtà, grandi, se sono animati da un amore sincero. Il vero servo è umile, sa di essere inutile (ved. Luca 17, 10), non cerca interessi egoistici, ma si dà da fare per gli altri, sperimentando la gioia della gratuità nel dono di sè» (Messaggio per la giornata delle vocazioni dell'11 maggio 2003).

Una simile carità da parte di Padre Beyzym suscita una fiducia totale nelle sue parole quando parla di Dio, della vita eterna, dell'insegnamento di Gesù Cristo. Così, in capo a qualche mese, molti sono i lebbrosi che chiedono e ricevono il Battesimo. La gratitudine del sacerdote per la Santissima Vergine è profonda: «Non so se sarò mai in grado di ringraziare a sufficienza la Vergine Maria per la sua protezione. Non parlo più di mille altre grazie che mi ha concesso, ma di quella di utilizzarmi al servizio dei lebbrosi».

Il sacerdote si rende conto tuttavia che la sua conoscenza della lingua malgascia è rudimentale; gli mancano troppe parole. Per perfezionarsi, nel 1901, decide di passare due mesi in una sede vicina, tornando al lazzaretto soltanto la domenica per la Messa. I progressi compiuti gli permettono di organizzare un primo ritiro spirituale: «Abbiamo concluso, scriverà poi, un ritiro spirituale di tre giorni... secondo il metodo di sant'Ignazio: tre conferenze al giorno, con esami di coscienza, confessioni, Comunioni... Regnava fra i lebbrosi un silenzio, un raccoglimento, degni dei più civilizzati dei nostri partecipanti ad un ritiro spirituale. Ringrazio senza posa la nostra buona Madre, perchè molti dei miei ammalati vivranno e moriranno da veri cattolici».

Infatti, durante i quattordici anni di apostolato di Padre Beyzym, non uno dei lebbrosi morì senza aver ricevuto il Sacramento degli ammalati. Le sofferenze del missionario hanno una grande importanza nella sua fecondità apostolica. Oltre alle difficoltà quotidiane della sua vita, ha «nostalgia del paese natale»: «Soffro, scrive agli ex confratelli polacchi, per la lontananza dalla patria; specialmente dalla nostra casa e dall'infermeria con i nostri marmocchi». Molti missionari conoscono tali sofferenze intime, spesso note solo a Dio. «Nella Sacra Scrittura, scrive Papa Giovanni Paolo II, vi è un legame forte ed evidente fra il servizio e la redenzione, come fra il servizio e la sofferenza, fra il Servo e l'Agnello di Dio. Il Messia è il Servo sofferente che assume sulle sue spalle il peso del peccato umano, è l'Agnello condotto al macello (Is. 53, 7) per pagare il prezzo delle colpe commesse dall'umanità e renderle così il servizio di cui essa ha più bisogno. Il Servo è l'Agnello che, maltrattato, si lascia umiliare e non apre bocca (Is. 53, 7), mostrando in tal modo una forza straordinaria: quella di non reagire contro il male con il male, ma di rispondere al male con il bene. È la dolce energia del servo che trova la forza in Dio, e, per tale ragione, è fatto, da Lui, luce delle nazioni ed artefice della salvezza (ved. Is. 49, 5-6). Misteriosamente, la vocazione al servizio è sempre vocazione a partecipare al ministero della salvezza in modo molto personale, ma anche oneroso e difficile» (Ibid.)

Mi si aprivano finalmente gli occhi

Malgrado gli sforzi di Padre Beyzym, le cure somministrate ai lebbrosi rimangono insufficienti. Egli progetta allora la costruzione di un ospedale. I Superiori lo approvano, a condizione che trovi i fondi necessari. Il missionario invia lettere in tutte le direzioni; certe vengono pubblicate dal bollettino polacco «Missioni cattoliche». Per parecchi anni, le offerte giungono. Dopo immense difficoltà, sormontate grazie ad una fiducia senza limiti nella divina Provvidenza, Padre Beyzym trova un terreno adeguato, a Marana, vicino a Fianarantsoa, in un luogo isolato e salubre, ma a circa 400 km. dal lazzaretto in cui risiede. Una grande prova lo colpisce allora, poichè dovrà abbandonare i suoi lebbrosi di Ambahivoraka. Riesce ad ottener loro un posto presso l'ospizio governativo, ma non è senza timore per essi: «Lì, scrive, mi apparve in tutta la sua crudezza il pericolo morale cui tutti, ed in particolare i bambini, sarebbero stati esposti nell'ospizio ufficiale (700 lebbrosi, presi fra la feccia della società, sono rinchiusi a viva forza e sorvegliati giorno e notte dalla polizia)... Raccomandai tutti e ciascuno di loro alla nostra Madre Celeste, piangendo come un bambino. E dire che non potevo farci nulla!»

La partenza ha luogo nella sofferenza. Arrivato a destinazione, nell'ottobre del 1902, il missionario si mette all'opera, occupandosi in pari tempo di un nuovo gruppo di lebbrosi. Un giorno, si produce un evento inatteso: una donna e due uomini, lebbrosi, spossati da una lunga marcia, chiedono di incontrarlo. «Da dove venite? Se volete esser ricevuti qui, bisogna che vi facciate visitare dal medico di Fianarantsoa e che torniate con un certificato. «Parli come se non ci conoscessi, dice la donna. – Ma certo, non vi conosco. – Ricordati di Ambahivoraka, e ci riconoscerai». Sentendo questo, mi sembrò che mi si aprissero finalmente gli occhi. Non avevo riconosciuto i miei protetti, prima di tutto perchè non li avevo visti da due anni, poi a causa del loro aspetto talmente miserabile, ed infine perchè non li supponevo in grado di compiere un viaggio tanto lungo. Potete immaginarvi quanto mi battesse il cuore e quanto fossi felice del loro arrivo!... Quando, in capo ad alcuni giorni, i miei viaggiatori si furono un po' riposati, la coraggiosa donna si confessò e fece la Comunione; dopo di che, le diedi tutto quello che potei per il viaggio, la benedissi e la mandai a prendere il rimanente dei miei cari relitti». Alcune settimane dopo, gli ex ammalati di Ambahivoraka arrivano, l'uno dopo l'altro: «Li accolgo come se fossero i miei parenti più prossimi».

Ma come riceve queste gioie, Padre Beyzym riceve pure prove, che chiama schegge della Croce di Gesù. Certi trovano i suoi progetti troppo audaci e le loro obiezioni impressionano il vescovo locale che esita a concedere le necessarie autorizzazioni. Inoltre, nelle sfere governative, si parla di laicizzare tutti gli ospizi. Ma la fiducia di Padre Beyzym nella protezione di Maria, Consolatrice degli afflitti, gli permette di resistere. Anche la preghiera di sant'Ignazio, che recita parecchie volte al giorno, lo aiuta molto: «Prendi, Signore, e accetta tutta la mia libertà, la mia memoria, la mia intelligenza, la mia volontà, tutto quello che ho, tutto quello che possiedo. Me l'hai dato tu, te lo restituisco. Tutto è tuo, disponi di tutto come ti pare. Dammi il tuo amore e la tua grazia, questo solo mi basta.»

Un rubinetto che fa paura

Infine, nel 1911, l'ospedale apre le porte. «Non è un'opera umana, scrive Padre Beyzym: l'Immacolata stessa ha fondato quest'ospedale e se ne occupa». L'immissione nel possesso avviene non senza un certo sgomento: «All'inizio, scrive, tutti i lebbrosi circolavano smarriti e disorientati... ecco che hanno, ad un tratto, un alloggio con un soffitto e un pavimento, letti con lenzuola, tavoli con cassetti, un'immagine della Vergine, ed un numero che segna il posto di ciascuno; e scodelle, bicchieri, lampade. Si guardano l'un l'altro, stentando a crederci... Il primo giorno, facevano ridere, per via di mille ingenuità che mostravano quanto fossero ancora poco civilizzati. Quando suonò la campana della cena, si recarono sì nel refettorio, ma senza sapere cosa farci... Uno di essi apre un rubinetto, e siccome l'acqua arriva con una pressione forte, il mio nuovo civilizzato si spaventa: invece di chiudere il rubinetto, lo lascia aperto e scappa gridando aiuto!...»

Fortunatamente, «in capo a qualche giorno, il regolamento viene applicato, e la nostra casa assomiglia più ad un convento che ad un ospedale. Viene osservata la separazione degli uomini dalle donne, ed altresì il silenzio, a certe ore; non vi sono litigi, o, se viene pronunciata qualche parola mordace, si fa la pace immediatamente... Ciascuno lavora, per quanto glielo permette la salute; i canti e le risate sono all'ordine del giorno... Adesso, quasi tutti fanno quotidianamente la Comunione. Insomma, Dio voglia che questo duri, perchè l'ospedale è un isolotto di fede in mezzo al flusso di peccato che è il mondo. E non dovete credere che abbellisco la realtà: è la pura verità».

Verso i più abbandonati

Il nuovo ospedale, munito di tutti gli impianti sanitari necessari, conta 150 letti. Dedicato a Nostra Signora di Czstochowa, esiste ancora oggi e diffonde l'amore e la speranza che l'hanno fatto nascere. Esteriormente, sembra che Padre Beyzym sia legato per sempre al campo d'apostolato fra i lebbrosi di Madagascar. Ma, in fondo al cuore, gli rimane un'angoscia di salvezza delle anime che lo porta a rivolgersi a poveri ancor più abbandonati. Pensa ai condannati ai lavori forzati riuniti sull'isola di Sakhalin (nell'Estremo Oriente russo) e trascurati spiritualmente. Scrive al suo Superiore: «Da qualche tempo, il pensiero di Sakhalin mi ossessiona, e non posso togliermelo dalla mente. Da quel che ha visto e sentito, Reverendo, lei sa che numerosi infelici vi soffrono in modo atroce... Si potrebbe molto probabilmente soccorrere quegli sventurati».

In attesa della decisione che sarà presa in vista del nuovo apostolato, Padre Beyzym moltiplica catechismi e ritiri spirituali. Molto sensibile all'onore reso a Gesù nell'Eucaristia, indora l'altare ed il tabernacolo della cappella. Ma la sua salute si indebolisce. Soffre d'arteriosclerosi ed ha il corpo coperto di piaghe. Un giorno, vinto da violente sofferenze, deve mettersi a letto. Un sacerdote, che è stato contagiato dalla lebbra al servizio dei lebbrosi, e che morirà lui medesimo nove giorni dopo, gli amministra gli ultimi Sacramenti. Infine, il 2 ottobre 1912, Padre Beyzym esala l'ultimo respiro. Probabilmente, è morto per la spossatezza e non a causa della lebbra.

«Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo (Ef. 2, 4-5)... La Chiesa desidera annunciare instancabilmente questo messaggio... Il desiderio di portare la misericordia ai più indigenti ha condotto il Beato Jan Beyzym, Gesuita e grande missionario, sulla lontana isola di Madagascar, dove, per amore di Cristo, ha consacrato la vita ai lebbrosi... L'opera pia del beato era iscritta nella sua missione fondamentale: portare il Vangelo a coloro che non lo conoscono. Ecco il massimo dono della misericordia: condurre gli uomini a Cristo» (Giovanni Paolo II, omelia della beatificazione di Jan Beyzym, 18 agosto 2002). Se poche persone sono chiamate a servire i lebbrosi, dobbiamo tutti testimoniare concretamente della misericordia di Dio. Per questo, «una «immaginazione della carità» è necessaria, continua il Papa; che l'immaginazione non venga meno lì dove una persona nella necessità supplica: Dacci oggi il nostro pane quotidiano! Grazie all'amore fraterno, che il pane non manchi mai! Beati i misericordiosi, perchè troveranno misericordia (Matt. 5, 7)».

Chiediamo alla Santissima Vergine Maria di fare di noi, seguendo le orme del Beato Jan Beyzym, dei missionari della misericordia di Dio nel mondo contemporaneo.

Dom Antoine Marie osb

 

 

http://www.clairval.com/lettres/it/2004/10/15/7131004.htm