B.
Enrico Rebuschini
Conferire gli onori della beatificazione ad un
religioso ospedaliero, colpito a varie riprese da esaurimento nervoso, è un
atto che, di primo acchito, può stupire. Tuttavia, proclamando Beato Padre
Enrico Rebuschini, il 4 maggio 1997, Papa Giovanni Paolo II ha confortato molti
uomini e molte donne della nostra epoca, tutti quelli cioè che sono confrontati
a prove similari, o personalmente o nel loro ambiente.
Enrico
è nato nell'Italia del Nord, a Gravedona, sulla riva nord-ovest del lago di
Como, il 28 aprile 1860. Suo padre, Domenico, intendente di finanza, prima di
esser promosso ispettore capo fiscale della provincia di Como, non è favorevole
alla religione: accompagna la moglie fino all'entrata della chiesa, ma rimane
all'esterno. Sua madre, Sofia, cristiana esemplare, è nativa di Livorno, in
Toscana. La coppia ebbe cinque figli. Enrico è il secondo. Alla fine degli
studi medi superiori, Enrico, che non può seguire la propria propensione per la
vita religiosa, a causa dell'opposizione del padre, si iscrive alla Facoltà di
matematica di Pavia. Ragazzo calmo e beneducato, non rimane che un anno
all'Università, il cui ambiente anticlericale suscita in lui amarezza e
disgusto.
Tornato
a Como, compie il servizio militare, nell'ambito dell'anno di volontariato. Nei
momenti di libertà, si isola volentieri nella preghiera e nelle buone letture.
Alunno presso la Scuola militare di Milano, ne esce sottotenente della riserva,
stimato dai superiori che lo incoraggiano a far carriera nell'esercito. Ma,
tornato in famiglia, preferisce compiere studi di ragioneria, che si
concluderanno con un diploma ottenuto nel 1882, a pieni voti.
Una strada che non gli va
Il
marito di sua sorella Dorina, che dirige una seteria a 45 km a nord di Como, lo
assume e gli affida un impiego amministrativo. Fra Enrico, la sorella ed il
cognato regna un'intesa perfetta. Tuttavia, in capo a tre anni, qualche segno
permette di intuire che il giovane è in difficoltà. Gli si legge la tristezza
negli occhi. Confida a suo padre che il lavoro nell'industria e nel commercio
non gli va. Ha 24 anni, quando scrive al cognato: «L'idea di rimanere per
sempre un peso piuttosto che un valido aiuto... il fatto di sapere, in pari
tempo, che i miei genitori non saranno mai tranquilli, finchè rimarrò su una
strada che non si confà alla mia indole (e che mi rende infelice), tutto ciò mi
ha finalmente convinto che dovevo rinunciarvi, per il maggior bene del babbo e
della mamma, per il tuo e per il mio. Ti dico questo con il cuore dolorosamente
stretto» (9 agosto 1884).
Le
difficoltà di Enrico non sono causate dalla scelta di una professione che
corrisponda alle sue capacità ed alle sue inclinazioni, ma dall'attrattiva
persistente della vita religiosa, attrattiva contrariata da una forte
opposizione di suo padre. Ben presto, malgrado tutti gli sforzi che fa per
accettare la propria sorte, cade in uno stato di prostrazione morale; è
talmente magro, che sembra appena ristabilito da una malattia. Finalmente, nel
corso dell'estate del 1884, suo padre finisce con l' «arrendersi», dopo lunghe
discussioni con il figlio, e grazie all'intervento del Beato Guanella
(sacerdote ispiratore di opere sociali, beatificato nel 1964), che fa pregare
in tutti i monasteri di Como per quella vocazione.
Tre
mesi dopo aver lasciato l'impiego, Enrico si iscrive all'Università Gregoriana
di Roma per compiervi, con successo, studi ecclesiastici. Si conquista la stima
dei professori. Riceve gli Ordini minori con la menzione: «Condotta edificante
con un ottimo spirito di Chiesa». Verso la fine del 1885, i genitori e la zia
Maddalena vanno a fargli visita a Roma e sono lieti di trovarlo soddisfatto e
sereno. Maddalena annota nel suo diario: «Enrico è contento e tranquillo.
Capisco come possa sentirsi così. È sicuro di essere sulla strada che Dio gli
ha preparato».
Sotto il torchio
Improvvisamente,
sorge un ostacolo imprevisto: dal marzo 1886 al maggio 1887, Enrico è
schiantato da un grave esaurimento nervoso. Anima molto generosa, con un senso
del dovere che non ammette alcuna mezza misura, Enrico è portato a compiere
penitenze eccessive, senza tener sufficientemente conto della propria
fragilità. Avrebbe piuttosto bisogno di mangiare di più. Ma si sforza di
imitare, se non addirittura di superare, gli esempi di austerità che nota
intorno a sè, e giunge ad uno stato di spossatezza nervosa e mentale, causa
frequente di esaurimento. Già ai tempi suoi, quando santa Teresa d'Avila
arrivava in un convento di Carmelitane e vi trovava tensioni e lotte
spirituali, chiedeva, prima di tutto, che ciascuna dormisse un'ora di più!
Infatti, la stanchezza diminuisce la nostra capacità di resistenza, ci
fragilizza ed aumenta la nostra vulnerabilità. Una delle armi di cui si serve
il demonio nella lotta spirituale, è quella di sovraccaricarci, sotto
l'apparenza del bene.
Enrico
torna a casa. Fa anche una degenza in clinica. Si leggono nel diario di
Maddalena le seguenti annotazioni: sono «momenti in cui la mano di Dio si è
appesantita su di noi e ci ha gettati nel dolore... Quanti mesi di silenzio e
quante sofferenze in questo momento. Possa almeno Dio porvi un termine e
restituirci il nostro tesoro». Otto anni dopo, rievocando questo periodo,
Enrico scriverà: «Sono stato mandato in una casa di cura; lì Dio mi ha
ristabilito in salute, dandomi una totale fiducia nella sua misericordia e
nella sua bontà infinita».
Una grande capacità spirituale
Prima
di realizzare la sua vocazione di religioso ospedaliero, ha provato quel che
costa soffrire. Come ai giorni nostri Papa Giovanni Paolo II, avrebbe potuto
dire: «Conosco anch'io, per averla provata personalmente, la sofferenza che
provoca l'incapacità fisica, la debolezza dovuta alla malattia, la mancanza di
energia per il lavoro ed il fatto di non sentirsi in forma per condurre una
vita normale. Ma so anche, e vorrei farlo capire, che tale sofferenza ha
altresì un altro aspetto sublime: dà una grande capacità spirituale, perchè la
sofferenza è una purificazione per sè e per gli altri, e se essa è vissuta
nella dimensione cristiana, può trasformarsi in un dono offerto per completare
nella propria carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo
Corpo che è la Chiesa (ved. Col. 1, 24). A voi, cari infermi di tutti i posti
del mondo, desidero annunciare la presenza viva e consolatrice del Signore. Le
vostre sofferenze, ricevute ed accettate con una fede incrollabile, unite a
Cristo, acquisiscono un valore straordinario per la vita della Chiesa e per il
bene dell'umanità» (Messaggio per la 1ª Giornata mondiale dell'infermo, 11
febbraio 1992).
Nel
maggio del 1887, la crisi si risolve ed Enrico ricupera una buona salute. Avrà
ricadute, ma meno lunghe e meno gravi. I rimedi mirati per questo tipo di
malattie non esistevano ancora all'epoca; la prova è stata sormontata grazie ad
una conoscenza progressiva più giusta di Dio, che ha portato con sè un rapporto
filiale basato sulla fiducia. Il miglior tratto della spiritualità del nostro
beato diventerà ormai la considerazione dell'oceano infinito di misericordia
del Cuore di Gesù, della tenerezza materna della Santissima Vergine Maria,
nostra Madre, che la Chiesa invoca con il consolante titolo di «salute degli
infermi».
Durante
l'estate del 1887, Enrico viene assunto presso l'ospedale di Como. Ma, poco
tempo dopo, è gentilmente licenziato perchè, invece di lavorare nel servizio
che gli è stato assegnato, passa il tempo nelle corsie dell'ospedale, al
capezzale dei malati più poveri, più bisognosi, quelli che sono soli, per i
quali sacrifica fino all'ultimo centesimo di cui possa disporre, e perfino la
sua biancheria personale; moltiplica anche le visite a domicilio ai poveri ed
agli ammalati. A contatto di tali sofferenze, nasce la sua vocazione di
religioso ospedaliero.
Affidato a MARIA
Annota
su un taccuino il suo programma spirituale che si ispira alle vie della
perfezione proposte da sant'Ignazio di Loyola. Vi scrive tra l'altro: «La
Santissima Vergine, cui mi ero affidato perchè mi trovasse un impiego adatto
alla mia debolezza, mi ha procurato un posto nei servizi amministrativi
dell'Ospedale civile, dove lavoravo tutti i giorni per alcune ore; passavo da
solo il resto del tempo, in esercizi di devozione...; vedendo che non potevo
continuare così, e sentendomi chiamato ad abbracciare la vita religiosa, il
padre spirituale (mentre gli avevo manifestato la mia attrattiva per la
famiglia religiosa di san Francesco) mi propose quella di san Camillo, che gli
sembrava più adatta al mio caso ed anche perchè temeva per la mia salute. Non
cercai di discutere: la abbracciai immediatamente». La lettura della vita di
san Camillo conforta Enrico nella sua scelta.
Nato
nel regno di Napoli nel 1550 e dotato di una vitalità poco comune, Camillo de
Lellis abbracciò inizialmente il mestiere delle armi, ma poco dopo sprofondò
nella dissolutezza, e fu quindi ricoverato all'ospedale San Giacomo di Roma.
Profondamente colpito dalla miseria in cui giacevano gli ammalati, si fece
infermiere volontario, poi raggruppò alcuni compagni, che formarono «la
Compagnia dei Ministri degli Infermi» o Camillini. Colpito lui medesimo da mali
di stomaco e di testa, da calcoli, ulcere, foruncoli quasi permanenti, Camillo
passava nelle corsie, ammalato fra gli ammalati, attento alle necessità di
ciascuno. Morì a Roma, il 14 luglio 1614. La Chiesa l'ha proclamato Patrono
degli ospedali, degli infermi, e delle Suore ospedaliere.
Il
27 settembre 1887, il ventisettenne Enrico Rebuschini entra fra i Camillini di
Verona. Il primo atteggiamento che si propone di avere è quello della
gentilezza. Questa virtù tanto necessaria non gli è facile. Ha già
un'esperienza del lavoro professionale, mentre i compagni di noviziato sono
ancora adolescenti, amanti della libertà, del rilassamento, del rumore, pronti
a volgere i pensieri seri in giochi di parole divertenti. Si applica dunque ad
assumere un giudizio positivo sugli altri, malgrado i loro difetti o gli
atteggiamenti irritanti. È un ideale che gli riesce talvolta difficile: «Mi
lascio prendere, scrive, da moti di antipatia, soprattutto nei riguardi di uno
dei miei santi compagni. Talvolta, mi interroga sui miei studi, ed io, invece
di rispondergli con dolcezza, e di non pensare che a soddisfare alla sua
richiesta con gentilezza, rispondo alla sua domanda con uno spirito pieno di
irritazione: «Vorrei che non mi chiedessi nulla»; tutto ciò è frutto
dell'orgoglio, aggiunto alla mancanza di unione con i miei nell'amore. Vorrei
non pensare a nient'altro che a fare ad ogni istante il massimo bene
possibile». Nella realtà quotidiana, la sua risoluzione di gentilezza è dunque
spesso battuta in breccia da tentazioni di giudizi temerari, da sentimenti di
antipatia... Ma non si lascia abbattere da tali lotte; rinnova l'intenzione di
vedere negli altri il tempio di Dio, guarda il crocifisso e riprende
coraggiosamente la lenta opera di mitigazione del cuore.
Ricadute
La
sua bontà d'animo gli attira la stima dei superiori che, prendendo in
considerazione gli studi già compiuti a Roma, lo fanno ordinare sacerdote nel
corso del noviziato, il 14 aprile 1889. Il vescovo di Mantova che gli
conferisce il sacramento dell'Ordine è Monsignor Sarto, futuro Papa Pio X,
amico dei Camillini. Enrico pronuncerà i voti perpetui l'8 dicembre 1891. Ma
Padre Rebuschini è soggetto a ricadere nell'esaurimento nervoso. Tali ricadute
sono una conseguenza del suo difetto predominante: un'indole perfezionistica
che lo porta ad un impegno spirituale che non tiene sufficientemente conto
della sua fragilità nervosa. Negli anni 1890-1891, avrà un nuovo esaurimento e
soffrirà molto a causa di una prova spirituale: troppo concentrato sul pensiero
dell'eternità, è fortemente tentato di credersi disapprovato. La nomina a
cappellano di ospedale gli fa ritrovare equilibrio e serenità, aiutandolo a
dimenticare se stesso, per occuparsi delle miserie del prossimo. Ma, nel 1895,
si profila una nuova crisi. Nominato viceistruttore dei novizi e professore di
teologia, si giudica, diffidando di se medesimo, incapace di assumere tali
incarichi. Ne consegue uno stato di tensione perpetua. I superiori devono
esonerarlo dagli incarichi e, grazie a Dio, ritrova rapidamente l'equilibrio.
Finalmente, nel 1922, un lungo periodo di gravi responsabilità e di
sovraccarico di lavoro lo porterà ad un ultimo esaurimento, sormontato nello
spazio di alcuni mesi.
Di
fronte a tali manifestazioni depressive, si sarebbe tentati di pensare che
Padre Enrico aveva un'indole malinconica ed esitante. Ma va notato che, fra la
crisi del 1895 e quella del 1922, passa una ventina d'anni svolgendo
un'attività normale, nel corso della quale assume mirabilmente pesanti
responsabilità, con una grande generosità. Quindi, dal 1922 fino alla morte nel
1938, durante altri sedici anni, dà più che mai l'impressione di un solido
equilibrio e di una totale serenità. Padre Giuseppe Moar, che fu suo compagno
durante gli ultimi sette anni, ha affermato, in occasione del processo di
beatificazione, di aver appreso soltanto dalle biografie i passati esaurimenti
nervosi di Padre Rebuschini. «Quando l'ho conosciuto, era perfettamente equilibrato
e sempre uguale a se stesso. Non mi sarebbe mai venuto in mente che avesse
potuto avere esaurimenti nervosi».
Attraverso
le sofferenze, Padre Enrico ha potuto praticare i principi di saggezza
cristiana che il Santo Padre Giovanni Paolo II dà agli infermi: «Cari ammalati,
vorrei lasciare nelle vostre memorie e nei vostri cuori tre piccole luci che mi
sembrano preziose. Prima di tutto, qualsiasi sia la vostra sofferenza, fisica o
morale, personale o familiare, apostolica, o anche ecclesiale, è importante che
ne prendiate lucidamente coscienza, senza minimizzarla nè aumentarla, e con
tutti i sommovimenti che essa ingenera nella vostra sensibilità umana:
insuccesso, inutilità della vostra vita, ecc. Poi, è indispensabile inoltrarsi
sulla via dell'accettazione. Sì, accettare che sia così, non per rassegnazione
più o meno cieca, ma perchè la fede ci assicura che il Signore può e vuole
trarre il bene dal male. Infine, rimane da fare il gesto più bello: quello
dell'oblazione. L'offerta, fatta per amore del Signore e dei nostri fratelli,
permette di giungere ad un grado, talvolta molto elevato, di carità teologale,
vale a dire perdere se stessi nell'amore di Cristo e della Santissima Trinità
per l'umanità. Queste tre tappe, vissute da ciascuno di coloro che soffrono,
secondo il proprio ritmo e la propria grazia, porta ad ognuno una liberazione
interiore stupefacente. Non è forse l'insegnamento paradossale riferito dai
Vangeli: Colui che perde la vita per causa mia la troverà?» (Messaggio
agli infermi: Lourdes, 15 agosto 1983).
Non si poteva resistere
Nel
1890, Padre Enrico vieno nominato cappellano degli ospedali militare e civile
di Verona. I chierici e le suore, ma anche i soldati lo stimano come un Santo.
La sua santità è, di per sè, la più silenziosa che si possa immaginare per un
cappellano; non si basa su azioni clamorose, ma, prima di tutto,
sull'esemplarità della sua vita nel servizio che offre agli ammalati. Nel suo
apostolato, ha il dono di toccare i cuori più induriti. Il curato di Vescovato
testimonia: «Mi sono trovato più di una volta al capezzale di un ammalato con
Padre Enrico. Capitava che i miei parrocchiani, cui non avevo potuto portare i
sacramenti in casa (la parrocchia di Vescovato aveva allora la fama di essere
«difficile»), si confessassero e comunicassero con serenità e gioia quando
erano in clinica: quando chiedevo loro come fossero riusciti e decidersi,
rispondevano che con un sacerdote come Padre Enrico, non si poteva resistere,
perchè aveva le parole e gli atteggiamenti per convincere».
Il
successo di Padre Rebuschini presso le anime si spiega con la di lui unione con
Dio, specialmente attraverso la pia celebrazione della Santa Messa, la recita
fervente del breviario, l'adorazione del Santissimo Sacramento ed un sommo amore
per la Santissima Vergine. Le sue genuflessioni sono piene di un grande
rispetto. All'elevazione dell'ostia, nel corso della Messa, si ferma per un
istante in adorazione. Il Padre nostro, che ci fa pregare con le parole
stesse di Gesù, gli sembra il momento più commovente del Santo Sacrificio.
All'inizio
del maggio 1899, Padre Enrico è inviato nel convento di Cremona. Il primo
incarico che gli viene affidato è quello di cappellano delle Suore camilline.
L'anno seguente, il suo Superiore lo nomina anche economo del convento. Uomo di
vita interiore e di preghiera, Padre Enrico assolve l'incarico che non gli
conviene per compiere la volontà di Dio. Non dispone nè di uffici, nè di
segreterie. Tuttavia, può far appello alla collaborazione di Monaci attivi ed
intelligenti. Comunemente, deve comprare vari prodotti, riparare i guasti agli
impianti dell'acqua o dell'elettricità, assicurare il buon funzionamento del
blocco operatorio della clinica, mettere a frutto l'orto, il pollaio,
sorvegliare l'evoluzione del vino nelle cantine, preparare le buste-paga. Ma,
col passare degli anni, i lavori straordinari non mancano: rinnovo della
cucina, allacciamento alla rete elettrica della città, rifacimento dei tetti,
impianto del riscaldamento centrale, senza tener conto delle difficoltà dovute
al fallimento della banca in cui sono depositati i modesti risparmi della
comunità...
Ottimista, per principio
L'amministrazione
di Padre Enrico è conforme a certi principi che riferisce il suo successore
nell'incarico di economo: «Mi insegnò i criteri della prudenza nella gestione
dell'economia della casa: voleva, per esempio, che si comprassero sempre merci
buone, per servire bene gli ammalati, e che si pagasse subito... Era ottimista
per principio nel suo giudizio sugli altri, e si rassegnava a malincuore a
constatare il male nel prossimo. Ne scusava sempre l'intenzione». Un avvocato
riferisce: «Padre Enrico era venuto a consultarmi a Cremona, per domandare i
miei servizi professionali in una causa civile legata ad un'eredità a favore
della clinica San Camillo, di cui gli eredi contestavano la validità. Ebbi
varie occasioni di incontrare Padre Enrico e di trattare con lui... Mi è sempre
parso di una straordinaria semplicità e pieno di un distacco, anch'esso poco
comune, per le cose e gli interessi terreni... Ricordo l'edificante impressione
che ne ebbi quando fui chiamato ad occuparmi di detta eredità. Provava che
vegliava agli interessi della casa, ma, nello stesso tempo, si faceva notare
per la bontà nel suo modo di fare e per l'assenza totale di spirito cavilloso».
Solleciti per coloro che soffrono
Padre
Rebuschini ha esercitato l'incarico di economo per 35 anni, fino al 1937. Ma, a
partire dal 1938, le sue forze cominciano a declinare. Ha 78 anni. «Gli ultimi
giorni di Padre Enrico sono stati segnati da una serenità esemplare e da un
abbandono perfetto alla divina Provvidenza», ha riferito, nel corso del
processo di beatificazione, un neuropsichiatra che ha studiato la di lui vita
da un punto di vista medico. Nei primi giorni di maggio, dopo aver ricevuto il
sacramento degli infermi, Padre Enrico chiede perdono a tutti per i cattivi
esempi che ha potuto dare, per le sue imperfezioni, per tutto quello che in lui
ha potuto urtare. Chiede anche che si preghi per lui, lasciando a Dio la
valutazione della sua vita passata. Il 9 maggio, alle sei, Padre Vanti celebra
la Messa nella sua stanza. Al momento di ricevere la comunione, il moribondo
stende la braccia, riceve il Corpo del Signore con una grande devozione, poi
incrocia le braccia e si immerge nella preghiera. Il supremo incontro con il
suo amatissimo Signore avrà luogo il 10 maggio, alle ore 5.30. «Il suo esempio,
dirà di lui il Santo Padre in occasione della beatificazione, costituisce per
tutti i credenti un appello impellente ad essere solleciti per gli infermi e
per coloro che soffrono nel corpo e nello spirito».
È
per l'intercessione del Beato Enrico Rebuschini che preghiamo per Lei, per
coloro che Le sono cari, per tutti coloro che sono confrontati a debolezze o a
malattie nervose, frequenti nel mondo attuale, e secondo tutte le Sue
intenzioni.
Dom Antoine
Marie osb
http://www.clairval.com/lettres/it/2003/08/20/6200803.htm