Beato Giacomo Cusmano

(1834 - 1888)

 

Giacomo Cusmano nasce a Palermo nel 1834, quando la città appartiene al borbonico “Regno delle Due Sicilie”.

Secondo notizie ufficiali, desunte da una relazione che il Procuratore del Re invia in quegli anni alla corte di Napoli, essa conta circa duecentomila abitanti, tra cui «quarantamila proletari, la cui sussistenza dipende dal capriccio dei grandi».

La relazione precisa: «In pieno secolo XIX, Palermo è ancora una città feudale lussuosa e corrotta, nella quale si vendono gli uffici pubblici, si corrompe la giustizia, si fomenta l’ignoranza del popolo».

Vi si aggiunge, inoltre, che l’intera isola si trova “in stato di dissoluzione”: «Scarsa di popolazione, senza strade, senza commercio, senza industria, con le prepotenze del patriziato e le insolenze della plebe, la Sicilia resta tuttora un anacronismo nella civiltà europea».

Tra migliaia di diseredati, Giacomo Cusmano, un fanciullo stranamente biondo dagli occhi azzurri, è un privilegiato, appartenente a una ricca famiglia patrizia.

Conosce, però, i diseredati di Palermo, dato che il palazzo di famiglia è situato dietro alla Chiesa del Carmine, nel bel mezzo del popolare quartiere dell’Albergheria, i cui vicoli brulicano di miserabili.

Conosce anche la sofferenza: piccolissimo, perde la mamma durante un’epidemia di colera, e ne porta dentro la ferita insanabile.

Il papà, ingegnere agronomo, è  un uomo giusto che non transige sull’educazione del bambino: educazione alla sobrietà, al rispetto verso tutti, alla carità fondata non solo  sull’arte di donare il superfluo, ma sull’industriosità e sulla capacità di rinuncia di ogni membro della famiglia, anche dei bambini.

Inoltre l’adolescenza di Giacomo scorre segnata dai “moti rivoluzionari” che agitano nobili, borghesi e popolani, durante i quali si creano le più strane alleanze, destinate a dissolversi in fretta.

Così nel fatidico 1848 la rivoluzione, voluta da poveri contadini, da pastori e da artigiani, fu in realtà gestita dai liberal-borghesi e dalle bande armate che infestavano l’isola, due gruppi preoccupati solo del proprio potere e dei propri affari. E l’espulsione dei Borboni –che durò un anno soltanto– finì per peggiorare la sorte dei miseri.

Giunsero, poi, nel 1860, i mille di Garibaldi per fare l’unità d’Italia sotto i Savoia e furono accolti come salvatori, particolarmente dal clero, tanto che l’Eroe in camicia rossa e spada sguainata non disdegnò di assistere nella cattedrale di Palermo al solenne pontificale per la festa di S. Rosalia, lasciandosi perfino incensare.

Quando, alla fine dell’anno, venne Vittorio Emmanuele II in persona a promettere ai siciliani «un’amministrazione bene e ordinata e con incessante progresso economico», il sogno sembrò realizzato.

Il risveglio non poteva essere più deludente.

Si comincia col corrodere la fede del popolo.

A Palermo viene fondato il Grande Oriente di rito scozzese che ha per Gran Maestro lo stesso Garibaldi, con l’intento dichiarato di «distruggere l’edificio della Chiesa cattolica».

Dal Piemonte giungono i valdesi a fondare le loro comunità, inondando le città di Bibbie protestanti.

Ad opera dei socialisti dilagano le associazioni «fasci dei lavoratori », dichiaratamente anticlericali.

L’immoralità è pubblicamente ostentata ed esaltata sulla stampa e a teatro; la prostituzione è autorizzata per la prima volta.

L’anticlericalismo più bieco diventa una moda e raggiunge il popolo.

Invece del progresso sociale annunciato, c’è una spaventosa regressione: i nuovi padroni del nord non sanno far di meglio che decretare la destituzione di tutti gli impiegati statali locali, i quali vengono cinicamente buttati sul lastrico, assieme alle loro famiglie; tutti sostituiti con funzionari venuti «dal continente», che agiscono scrupolosamente in conformità alle direttive del governo sabaudo: sviluppare le regioni del nord, saccheggiando quel poco che il sud può ancora offrire.

I contadini vengono strozzati dalle tasse (mai così alte) e, conseguentemente, dagli usurai, e sono praticamente costretti ad abbandonare l’agricoltura. Salgono i prezzi e le imposte, ma non i salari.

Così la massa dei poveri non ha alcun beneficio sociale, e si vede aumentare spaventosamente la turba dei pezzenti. I siciliani conoscono, per la prima volta nella loro storia, il servizio militare obbligatorio che allontana i giovani dall’isola per anni, e che risulta incomprensibile e ingiusto alla povera gente.

I renitenti alla leva e le vittime dei mille soprusi, finiscono, così, per incrementare il tradizionale brigantaggio, che lo Stato del resto combatte con arresti, violenze e torture inflitti senza processo, incancrenendo il problema.

Diciamo tutto questo non per rivisitare una pagina di storia (anche se ce ne sarebbe bisogno), ma per spiegare la strana situazione in cui crebbe Giacomo Cusmano in quei torbidi anni di rivoluzioni, di speranze e di delusioni: la situazione, cioè, di una sua strana assenza da un lato, e di una sua originale presenza dall’altro.

A 21 anni (cinque anni prima dell’arrivo dei Piemontesi) egli s’era già laureato in medicina col massimo dei voti e la lode: elegantissimo, bravo schermitore, di carattere iracondo e imperioso, ma non ingiusto, scrupoloso nell’esercizio della sua professione, saggio capofamiglia (riconosciuto tale dai fratelli, anche se non era il più anziano), buon amministratore delle sue tenute, attento alle necessità e alla dignità dei più poveri.

Nei salotti, dove fermentavano le idee rivoluzionarie, molti avevano guardato a lui come a un futuro leader politico: gli avrebbe bastato seguire le orme di tanti amici che s’erano gettati già nella mischia, e che continuavano a sollecitarlo.

E fu per tutti sconvolgente la notizia che si diffuse per Palermo, proprio in quegli anni di mutamenti sociali: il ricco, stimato e corteggiato dottor Giacomo Cusmano aveva deciso di diventare prete della Diocesi di Palermo, non chiedendo alcun posto di privilegio, ma solo il permesso di mettersi a servizio dei  miserabili.

Il confessore, che aveva discusso con lui di quella nuova inaspettata vocazione, aveva esigito una sola verifica: che Giacomo si radesse la bella barba bionda che teneva curatissima, si tosasse i capelli e indossasse la brutta tonaca e le grossolane scarpe che i preti usavano a quel tempo, e poi si aggirasse così –divenuto supremamente ridicolo agli occhi di tutti gli amici e i conoscenti– per le vie della città.

La prova fu durissima, ma il giovane e ricco medico capì di non potersi mettere a totale servizio dei poveri se rifiutava di rassomigliare a loro.

Per  due anni studiò teologia e si dedicò a insegnare catechismo ai bambini di una parrocchia, manifestando notevoli doti pedagogiche che si potevano compendiare in questa persuasione: «Le anime si guadagnano con la dolcezza».

Parlava dei suoi ragazzi chiamandoli «piccoli uomini», e trattandoli di conseguenza.

Nell’antivigilia di Natale dell’anno 1860 –quello fatidico in cui era stata proclamata l’annessione della Sicilia al Regno d’Italia– fu consacrato sacerdote. Aveva venticinque anni.

Così spiegherà sempre la sua decisione e la missione che sentiva d’avere nella Chiesa: «Sentivo nell’anima il desiderio di consacrarmi ai poverelli».

Cominciò adempiendo fedelmente, fino a rasentare l’eroismo, la sua missione di prete: innamorato della preghiera e dell’Eucaristia; appassionato allo studio della Sacra Scrittura («É la tua nuova “farmacia” –gli aveva detto il padre spirituale– vi troverai il rimedio per ogni malattia dell’anima»); eccessivamente sobrio nel cibo e nel sonno; umile e gioioso; sempre pronto ad accorrere al capezzale d’un infermo o di un morente, anche quando c’erano da superare situazioni di ostinata preclusione (con i massoni, ad esempio).

Ma il suo ideale restarono i derelitti, ch’erano sempre più abbandonati a se stessi.

La notte non riusciva a dormire per quell’assillante problema.

Ripetuti sommovimenti avevano fatto nascere speranze di maggiore giustizia; una certa coscienza sociale era indubbiamente cresciuta: perché mai, allora, la situazione sembrava incancrenirsi e deteriorarsi ulteriormente?

Il medico-sacerdote Giacomo Cusmano fece pian piano la sua diagnosi: si era voluto sanare l’egoismo strappando Dio sia ai ricchi che ai poveri, e così era crollato anche l’ultimo baluardo.

Il risultato era sotto gli occhi di tutti: l’abisso che separava i ricchi dai poveri s’era ulteriormente scavato, e ancor più si era scavato l’abisso che separava ambedue da Cristo.

S’era creato un terribile circolo vizioso, da cui era ormai difficile uscire: nel passato la fede dei cristiani non aveva saputo generare una diffusa carità sociale, e così la fede era stata disprezzata e rifiutata. Ma la fede rifiutata aveva tolto vigore anche agli ultimi impeti di carità.

Ed erano rimasti solo uomini pieni di programmi e di rivendicazioni, ma poveri di mente e di cuore, poveri di verità e di tenacia.

Abituato alla riflessione e alla ricerca delle terapie, Cusmano capì dove era necessario intervenire.

Nella storia della Chiesa si sono avute molte e ricorrenti crisi di fede e di carità, ma mentre ricostruire il tessuto della fede è un procedimento lungo e laborioso, tutto affidato a una lunga e tenace passione educativa, il fuoco della carità può riaccendersi sempre e dovunque con immediatezza: basta farne divampare qualche scintilla.

La carità sgorga direttamente dal cuore di Dio e trova sempre qualche immediata alleanza nel cuore degli uomini.

Si può addirittura pensare che, nel corso dei secoli, sia sempre stata la carità a salvare la fede!

Certo, la carità cristiana nasce dalla fede, ma per farla divampare anche in chi ha una fede illanguidita basta spesso un solo caldo cuore credente.

Fu questa la genialità di Giacomo Cusmano che concluse: «Dobbiamo custodire la Fede per mezzo della carità!».

Cominciò a chiedere questo nelle sue lunghe preghiere: poter diventare «Apostolo della carità di Dio».

E la preghiera si tramutò in illuminazione.

Come fa Gesù a farci compagnia, a nutrire la nostra povertà, a darci la sua vita, a salvarci? La risposta è tutta contenuta nell’Eucaristia: Gesù si fa «un boccone di pane», «un boccone destinato a quei poveri che noi siamo».

«Boccone del Povero»: questa espressione apparve a Cusmano come il «nome misterioso» che Dio assegnava alla sua opera, e «boccone del povero» si chiamerà, in seguito, fino ai nostri giorni, la Congregazione religiosa dei «Missionari Servi dei Poveri» che Cusmano fonderà.

Anche le opere da lui costruite (orfanotrofi, scuole, edifici…..) porteranno questo nome, umile e sacro.

Prima di descrivere ciò che egli seppe realizzare, dobbiamo liberarci dalle nostre idee moderne di assistenza sociale: oggi si fanno raccolte di denaro, di vestiti, di derrate alimentari. Poi si confeziona il tutto in maniera industriale e lo si invia ad istituzioni più o meno anonime che, in seguito, lo distribuiranno ai bisognosi.

L’inevitabile prezzo da pagare è l’anonimato della carità, tramutata in beneficenza pubblica. Inoltre, nella catena di trasporti e di distribuzione, una quantità non indifferente di beni risultano deteriorati o male utilizzati o stornati per altri scopi.

A volte li si ritrova in qualche strano magazzino o discarica.

E’ il prezzo da pagare all’anonimato della distribuzione. E non ce ne meravigliamo.

Più umana e visibile è la carità di chi offre e gestisce luoghi e mense di prima accoglienza, oggi possibili anche per le notevoli disponibilità economiche riconosciute a queste istituzioni.

Non diciamo questo per fare paragoni, ma per rendere ben comprensibile e ben situata l’iniziativa che Cusmano prese 150 anni fa, quando non esisteva nessuna istituzione o catena assistenziale, quando «gran parte della popolazione non aveva il minimo indispensabile per soddisfare le esigenze primarie di cibo, di vestito e di un tetto decente»; quando la città era una massa di tuguri aggrappati ai palazzi dei nobili e dei ricchi borghesi.

Anno 1866: il governo Piemontese vota la “legge di soppressione” che colpisce in tutta l’isola 629 conventi e 239 monasteri, con tutte le loro istituzioni, incamerandone i beni, rivendendoli all’asta ai grossi proprietari terrieri e attribuendo poi il ricavato non ai comuni dell’isola, ma alle altre regioni d’Italia. Sono perduti irrimediabilmente innumerevoli posti di lavoro di operai, artigiani, maestri, e di mille altri uffici, annullate tutte le istituzioni di carità esistenti. Così i poveri vengono privati di tutto il capillare sostegno che la Chiesa aveva comunque garantito loro in passato.

Scoppiò un’ennesima rivolta popolare e il Marchese Di Rudinì dal palazzo comunale non esitava a fare aprire il fuoco sulla folla. A domare la rivolta, con la più odiosa e gratuita violenza, scendeva con ventimila uomini il generale Cadorna.

Poi si diffuse il colera che infierì per due anni.

E infine venne la carestia che fece aumentare il prezzo dei generi alimentari di base del 50 %.

Nelle lettere di Cusmano troviamo l’angoscia per «le tante orrende scene delle morti per pura fame, mai viste per l’innanzi».

Il primo compito era sfamare la gente. Ebbene, Cusmano inventò «il boccone del povero».

A chiunque aveva sufficientemente da mangiare (patrizi, borghesi e povera gente, non proprio miserabile) chiese di rinunciare ad ogni pasto «ad un boccone» del loro cibo.

Ciò che a noi può sembrare sconvolgente è che egli lo chiese e lo raccolse proprio materialmente.

A tale scopo fondò un’associazione, radunando una quarantina di persone disposte a seguirlo in quella strana impresa. C’erano preti, religiosi e laici e perfino una contessa inglese che si offrì come infermiera nei tuguri della città: un vero “movimento di carità” che si dilatò pian piano per tutta la città di Palermo.

A tutti Giacomo aveva dato come programma ciò che Gesù disse ai discepoli dopo la moltiplicazione dei pani: «Raccogliete i frammenti in modo che niente vada perduto».

Andavano di porta in porta chiedendo pane, pasta, o altro cibo e qualunque oggetto inutilizzato. Giacomo li precedeva con le bisacce al collo, o trascinando una carretta dove raccogliere il «boccone del povero».

Aveva lui stesso spiegato il metodo (per comprendere il suggerimento bisogna ricordare che la dieta feriale del tempo, anche per i benestanti, consisteva quasi esclusivamente di pasta e pane): ogni persona, dunque, che poteva permettersi un pasto toglieva una piccola porzione al cibo previsto per quella giornata e lo metteva da parte; aggiungeva il cibo risparmiato a quello previsto per il giorno successivo, dal quale si potevano dunque togliere due porzioni, e così via in maniera progressiva, per tutta la settimana. Alla fine ci si trovava con la disponibilità di un pasto intero, di cibo fresco e pulito. E questo veniva donato a chi passava a ritirarlo.

Giacomo e i suoi collaboratori usavano metà giornata  per raccogliere le offerte e l’altra metà per confezionare il cibo in sacchetti pronti per la distribuzione, usando una scrupolosa pulizia in ambedue le fasi dell’operazione: «La pulizia –diceva– è una caratteristica del paradiso».

A chi sosteneva che era meglio e più igienico raccogliere denaro, rispondeva: «Io non voglio toccare le borse, ma i cuori. Ella in ogni pasto si ricordi dei poveri e lasci un bocconcino ripetendo: “Questo boccone sia per amore dei poveri e per amore di Gesù che considera come fatto a sé quello che facciamo ai poverelli”».

Non voleva l’offerta rapida in denaro, che alleggerisce la coscienza, ma la costante attenzione a condividere, a ricordare, a orientare il proprio dono.

Il suo intento era quello di «soccorrere la miseria dei poveri, suscitando la carità dei ricchi» in modo da avvicinare a Dio gli uni e gli altri.

«Non voglio la carità dell’oro –diceva con uno splendido gioco di parole– ma l’oro della carità». E con quell’oro voleva comprare anime: per lui le anime dei poveri costavano quanto quelle dei ricchi.

Molte famiglie votate all’inedia venivano nutrite col ricavato della questua, spesso nascostamente, perché non provassero vergogna.

Per chi vagava per le strade c’era, invece, una minestra calda, preparata nei locali della parrocchia dove Giacomo esercitava il suo ministero: e ogni sera vi si accalcavano più di duecento poveri.

E quando non ci fu più a Palermo un affamato che non sapesse dove sfamarsi, Padre Giacomo (così in Sicilia chiamano anche i preti diocesani) si lasciò assorbire da tutte le altre esigenze della carità: c’erano orfani ai quali occorreva dare un’abitazione e una formazione; c’era da creare una rete gratuita di assistenza sanitaria a domicilio; c’era da far fruttare la raccolta di tutti i rifiuti che potevano essere riutilizzati: ritagli di stoffa, legno, carta, ossa, vetri, trucioli, foglie, cenci. Poi la raccolta di vesti usate, scarpe, mobili o utensili rotti che potevano essere riparati.

La definivano: «L’arte di utilizzare l’inutile».

A tale scopo, egli chiamava a collaborare gli stessi poveri, con l’intento di soccorrerli, ma anche di rieducarli al lavoro. «La prima carità è il lavoro», spiegava.

Così molte donne, ridotte in miseria, reimparavano a cucire, a ricamare, a curare la biancheria, e ritrovavano cibo e dignità.

Per alcuni anni sembrò che la carità potesse cambiare il volto della città di Palermo e che si riuscisse a farlo con tanta intelligenza da produrre lavoro!

Ed era tanto l’entusiasmo che P. Giacomo si diede perfino ad evangelizzare le campagne abbandonate del palermitano.

Le autorità lo facevano sorvegliare: si sapeva che con P. Giacomo collaboravano molti volontari e alcuni inservienti stipendiati, ma che il suo sogno era quello di poter avere dei consacrati, dei veri «Missionari, Servi e Serve dei Poveri».

E ciò impensieriva chi aveva appena decretato la soppressione di tutti gli istituti religiosi.

Perciò il questore di Palermo lo fece convocare d’ufficio:

«E’ vero che ella, sotto il pretesto della filantropia, vuol far rivivere il monachesimo?», gli domandò altezzosamente.

«Sì. Voglio far rivivere il monachesimo snidando dai tuguri, sgombrando dai vicoli e togliendo dalle vie tutti gli accattoni; voglio riunire e chiudere in convento tutti i poverelli inabili, voglio fare un monachesimo di vecchi, storpi, ciechi, miseri di ogni maniera e di ogni età, e praticare verso di loro ciò che fecero S. Francesco d’Assisi, S. Giovanni di Dio, S. Camillo de Lellis, S. Vincenzo de’ Paoli».

Il Questore lo guardò allibito.

«E i mezzi?», chiese sottovoce.

«La Provvidenza e la carità del “boccone” che fa già un gran bene anche a lei».

«Non capisco».

E P. Cusmano gli spiegò pazientemente che anche l’ordine pubblico traeva beneficio dalla sua opera.

Finì che anche il Questore divenne un socio contribuente dell’Associazione e promise il suo interessamento per fargli assegnare dal governo qualche convento soppresso per impiantarvi una «Casa dei poveri».

Era questo il sogno struggente di Giacomo: poter avere una grande casa «capace di accogliere infelici di ogni condizione ed età ed esercitare ogni industria, dare ogni sollievo d’ogni maniera e svariate misure che accompagnano l’umanità dalla culla alla tomba».

Voleva una casa che diventasse «una scuola di carità per tutta la città di Palermo, aprendo le porte delle case di misericordia a tutti coloro che desiderano esercitarsi nell’amore del prossimo».

Non voleva certo far rivivere tutte le congregazioni religiose soppresse, però voleva far rivivere tutte le loro opere caritative.

Sognava una specie di «Ordine di tutte le opere di misericordia».

Ma il convento promesso non venne accordato. Aveva a disposizione solo alcuni locali presso la Chiesa dei Santi Quaranta Martiri, all’Abergheria, di cui era rettore. Ed erano già stipati all’inverosimile. Vi aveva raccolto una quarantina di orfani, e alcuni anziani abbandonati. Per far loro più posto, s’era ridotto a vivere in uno stanzino, dove poteva coricarsi solo stando rannicchiato.

E riusciva perfino ad organizzare, per educare i suoi orfani, gite in treno e rappresentazioni teatrali.

Finalmente ottenne la chiesa e il convento abbandonato di S. Marco in cui potè trasferire parte degli orfanelli e degli anziani e installare i primi laboratori per l’educazione dei piccoli o la riabilitazione al lavoro degli anziani, ed assicurare la prima accoglienza ai mendicanti della città.

P. Giacomo era esigente con se stesso e con i suoi collaboratori. Raccomandava loro «la stessa attenzione che si avrebbe verso la persona stessa di Gesù se si degnasse venire a mangiare in casa nostra».

A volte vedevano che rimandava il suo misero pasto. Confessava: «Non ho il coraggio di mangiare la mia zuppa se prima tutti i poveri non si sono saziati».

Si faceva riservare i tozzi di pane avanzati dai poveri e li difendeva come una leccornia: Spiegava: «Come sono dolci, mi sembrano caramelle calate giù dal Paradiso».

C’era un patto tacito in casa: se per caso veniva a mancare la disponibilità di un letto, il primo a cedere il suo al povero inatteso doveva essere P. Giacomo.

A volte accadeva che lo invitassero a colazione in qualche casa principesca. Rispondeva: «Accetterò la colazione a patto che ne sia offerta una uguale a tutti i poverelli della mia casa». E il ricco si piegava alla sua volontà. Così una signora dell’aristocrazia che gli offriva una granita, in un’afosa giornata estiva, per fargliela accettare, dovette promettergli altri cento rinfreschi per i suoi poverelli.

E tuttavia l’opera sognata, invece di fiorire, sembrava destinata a languire.

Non molti accettavano quel suo continuo mettersi all’ultimo posto, quel suo esigere che i collaboratori si facessero mendicanti in prima persona, a favore dei poveri.

Diceva: «Dovete educare i poveri a conoscere la loro nobiltà»; «Io voglio coltivati religiosamente i poverelli»; «I poveri devono mondarsi dall’avvilimento in cui sono vissute le loro anime», ma era un linguaggio duro.

Su questo non ammetteva deroghe, e non mancava di severità.

Così trattava con particolare benevolenza un bambino storpio e maligno, sempre sporco e sempre intento a sporcare. Appena rientrava in casa, subito P. Giacomo si informava: «Dov’è il mio bambino?». E a chi, infastidito, obiettava: «Ma che cosa ci vede in quel bambino?», rispondeva: «Vedo Gesù Cristo, quello che voi non vedete!».

Cominciarono a venir meno i sacerdoti che fino ad allora avevano collaborato con lui, poi si allontanarono i volontari, e gli inservienti stipendiati non erano in grado di garantire lo spirito dell’opera. Le offerte diminuivano di giorno in giorno.

Perfino gli amici diedero sfogo ai loro dubbi: i mezzi, su cui l’Opera aveva fino ad allora contato, erano troppo miseri e troppo aleatori. Mancavano rendite, eredità, sovvenzioni stabili. E perfino il nome dell’Associazione (“Boccone del Povero”) era ridicolo. E poi –a volere andare fino in fondo– chi mai poteva capire e accettare l’idea «di considerare il povero come padrone e oggetto di culto?».

P. Giacomo soffriva la più oscura «notte dello spirito». Non lo frastornavano le critiche altrui, ma il dubbio che il fallimento dipendesse dalle sue incapacità, dalle sue infedeltà alla grazia di Dio, dai suoi peccati che riteneva grandissimi, anche se non avrebbe nemmeno saputo che cosa confessare.

Gli altri, invece, lo ritenevano un santo, ma pensavano anche che fosse «un sognatore!, una testa trascendentale!», che era come dire che non teneva i piedi per terra.

Ma a chi gli parlava di rendite e di eredità rispondeva umilmente: «Nelle mani di Dio, si sta tanto bene…».

L’anno 1880 fu quello cruciale: erano già dodici anni che aveva cominciato l’impresa e tutto sembrava morto: servo dei poveri a tempo pieno era rimasto soltanto lui.

Luminosa giunse, però, a P. Giacomo un’esortazione del suo antico padre spirituale (divenuto intanto Arcivescovo di Agrigento): «Agli occhi di Dio, la tua opera è come la fanciulla morta di dodici anni, di cui parla il Vangelo. Di lei Gesù dice: “Perché vi affannate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. Gesù la prenderà per mano e le dirà: “Te lo comando io: alzati!” ».

E giunsero, proprio in quell’anno, le prime sei candidate che si offrivano per consacrarsi a Dio come “Missionarie, Serve dei Poveri”.

La regola che P. Giacomo consegnò loro era limpida e scarna. 

«La Serva dei poveri deve: 1°. Stare sempre alla presenza di Dio; 2°. Ricevere tutto dalle mani di Dio; 3°. Fare tutto per puro amore di Dio; 4°. Guardare in tutti l’immagine di Dio; 5°. Passare la vita in contemplazione mentre adempie l’attività del proprio ufficio; 6°. Ubbidire ciecamente fino alla morte e alla morte di croce».

E concludeva sintetizzando: «La nostra regola è la vita di Gesù Cristo copiata dalla Vergine Santissima».

Superiora del piccolo gruppo era la sorella cinquantacinquenne di Giacomo, che aveva sempre resistito all’idea, perché aveva a lungo inseguito un suo sogno di vita contemplativa.

Finalmente ella aveva compreso che il suo destino (anche quello della santità) era legato alla missione del fratello e vi si arrendeva generosamente: «Volevi entrare in un monastero piccolo –le disse Giacomo sorridendo– e invece il Signore ti vuole in un monastero grandissimo: il mondo intero».

Così Vincenzina Cusmano divenne una saggia educatrice di anime. Quando le sue giovani consorelle uscivano in città per la colletta le avvertiva: «Ricordiamoci di posare i piedi sulle orme di Gesù».

Ormai si sentiva davvero persuasa dall’esempio e dagli insegnamenti del suo santo fratello che alla cuciniera diceva: «Sorella, come sarebbe bello se durante il suo lavoro se ne andasse in estasi!». E ad un’altra, che si lamentava di non riuscire a pregare, questuando per le vie della città, ribatteva: «Figlia mia, non ti pare preghiera andare con Gesù da un posto all’altro?».

Le educava a una particolarissima solitudine interiore: «Ciascuna deve dire: in comunità ci siamo soltanto io e Gesù; io sola devo osservare la regola, io sola devo lavorare, io sola devo sacrificarmi, io sola devo dare la vita per Gesù, come Lui l’ha data per me». Ma non si trattava di un orgoglioso isolamento spirituale, dato che “Gesù”, nei fatti, era contemplato in ogni prossimo, in primo luogo nelle sorelle con cui si faceva comunità.

Per P. Giacomo ormai la contemplazione era diventata abituale perché era carismaticamente convinto di quella verità che polarizzava il suo spirito: «Il povero è Gesù Cristo in persona, e io dovrei parlargli in ginocchio».

E si stupiva che altri si stupissero perché dava del «lei» anche agli accattoni, e s’inquietava se qualche inserviente portava ai poveri un solo bicchiere d’acqua, se il bicchiere non era terso a dovere.

Dopo le prime vocazioni, in quell’anno di grazia, venne anche la tanto sospirata casa: la Quinta casa al Molo, un vecchio edificio dei gesuiti che occorreva riadattare.

In pochi mesi gli ospiti fissi divennero trecento, come se vi si riversassero tutti gli accattoni di Palermo.

E cominciò anche l’espansione: prima un’altra «casa della misericordia» ad Agrigento, poi una terza casa alle “Terre rosse” di Palermo, poi a Valguarnera, e in altri comuni della Sicilia. 

Dalle mani di Giacomo Cusmano e dalla sua «associazione del Boccone del Povero» nacquero laboratori d’ogni genere: calzolerie e negozi di calzature, falegnamerie, sartorie, cucine economiche, forni, panifici e pastifici, concerie, lanifici e laboratori di tessitura e ricamo, tipografie, mercatini dell’usato, spaccio di vini e di petrolio americano per lumi…

Fondò perfino una colonia agricola per orfani, figli di contadini, con un reparto per l’assistenza ai vecchi agricoltori malati.

Poi nacque anche il ramo maschile dei «Missionari, Servi dei Poveri». Anche a loro diede regole semplicissime e un ricchissimo repertorio di esempi vivi.

A uno che doveva interessarsi della cucina, spiegò: «Il cuciniere, nell’ufficio suo, è come il Missionario: i cibi devono essere preparati con la stessa cura con cui un missionario prepara la Parola di Dio».

Intanto P. Giacomo andava esaurendo tutte le sue forze. Oltre agli innumerevoli acciacchi, di cui non si curava e non voleva neppure parlarne, c’era tutta l’opera che pesava interamente sulle sue povere spalle: «Io sto come in una ruota che gira sempre, senza fermarsi mai… Dovrei essere pari a dieci persone per rispondere a una parte sola delle cose che mi attorniano», diceva con umiltà e verità.

Lo cercavano per consiglio, per aiuto, per qualche intervento pacificatore, per l’approvazione di nuovi progetti, per la soluzione di ogni problema, e non si sottraeva mai neppure all’ultimo povero che voleva parlargli o aveva qualche rimostranza da fare.

La sua santità splendeva ormai agli occhi di tutti.

Perfino il barone Turrisi, sindaco di Palermo, massone e anticlericale che lo aveva definito «prete petulante e fanatico», gli era divenuto amico e confidava: «E’ il migliore dei preti che io abbia mai incontrato in 64 anni di vita!».

Ai derelitti che si schermivano per la sua eccessiva dedizione, Giacomo spiegava: «Ancora non ho sparso il mio sangue per voi, come fece Gesù».

E si diffondeva una fama che lo turbava, ma che non riusciva a contenere.

Erano in molti ormai a parlare dei suoi miracoli. La cuciniera raccontava la sua angoscia nell’avere soltanto cinque chili di pasta e tre chili di lenticchie per dar da mangiare a 300 orfanelle: chiamato in soccorso, P. Giacomo confortava, benediceva le pentole, assicurava che il cibo sarebbe bastato per tutti, e in realtà ne avanzava.

Un’altra volta c’erano a disposizione soltanto rimasugli di pasta nera e ammuffita: ordinò di cuocerla. Poi si mise lui stesso a servirla, e sui piatti ci fu abbondante pasta bianchissima e gustosa.

C’era un alberello di alsberges (simile a un pesco) con un solo frutto. P. Giacomo, attorniato da decine e decine di orfanelle, staccò il piccolo frutto, e sorridendo cominciò a distribuirne un pezzetto ciascuna, e tutte poterono gustarlo.

Fioretti? Leggende popolari? Verrebbe da dire di sì, se non fosse che proprio in quegli stessi anni (forse negli stessi giorni!), a Torino, anche S. Giovanni Bosco moltiplicava gioiosamente poche castagne o le ostie della Messa per centinaia di ragazzi. E ci furono decine di testimoni oculari!

Chi si accorgeva del prodigio ne parlava sottovoce per non farlo inquietare, ma alcuni episodi erano sconvolgenti.

Un giorno prese in braccio un bambino con le gambette e i piedini così storti che non era mai riuscito né a camminare né a stare in piedi. Lo mise per terra, lo prese per la manina e lo condusse attorno per la sala, sorridendo come se giocasse. Ma la mamma gridò, quando lo riebbe guarito tra le braccia.

E un orfanello mingherlino, in pianto dirotto perché aveva lasciato cadere una cesta di piatti, si sentì da lui accarezzare. Poi il Santo gli raccomandò di raccogliere tutti i cocci, ma proprio tutti!, e di riportarli in cucina. In cucina la cesta giunse piena di piatti in buono stato.

«Io non ho fatto nulla» –si schermiva P. Giacomo– «è stato il Signore!». E si meravigliava che qualcuno ritenesse qualcosa impossibile a Dio. Qualsiasi cosa! Ai più intimi, che potevano osare qualche insistenza, spiegava: «Basta un’Ave Maria, per ottenere qualsiasi cosa».

Tutti, però, capivano che Dio l’ascoltava proprio perché Giacomo era spasmodicamente intento ad ascoltarLo, a darGli tutto, fino all’ultima goccia di sangue e di energie.

Agli inizi del 1888, confidava ai più intimi: «Sento mancarmi a poco a poco la vita».

Il 14 marzo –un giorno prima di compiere 54 anni– al mattino presto, chiese che gli portassero l’Eucaristia.

Cercò di alzarsi per disporsi a ricevere degnamente il suo Signore, poi si abbatté sul letto. Gesù era venuto a prenderlo in persona, prima che giungesse il suo Sacramento.

A Torino anche don Giovanni Bosco era morto da alcune settimane.

Ai suoi figli e figlie –e a tutti i siciliani– Giacomo Cusmano lasciava l’esempio di una carità illimitata. Aveva lasciato loro questo programma: «Quelli che non sono di nessuno, sono nostri!».

E tutti lo ricordavano com’era in quel giorno in cui alla Quinta Casa, su un carro adibito al trasporto delle immondizie, era arrivato un paralitico, avvolto da un nugolo di mosche.

Racconta il biografo:

«P. Giacomo gli andò incontro. Lo prese delicatamente tra le braccia, lo adagiò su una specie di barella; gli tagliò i capelli zeppi d’insetti, gli rase la barba, poi gli fece il bagno, lo rivestì di abiti puliti, lo riprese in braccio e lo tenne per qualche minuto contemplandolo amorosamente come Gesù stesso. Infine lo baciò e lo depose sul letto. E il poverino non finiva di ripetere a tutti: “Padre Giacomo mi ha baciato! Padre Giacomo mi ha baciato!”».