Beato Giacomo
Cusmano
(1834 - 1888)
Giacomo
Cusmano nasce a Palermo nel 1834, quando la città appartiene al borbonico
“Regno delle Due Sicilie”.
Secondo
notizie ufficiali, desunte da una relazione che il Procuratore del Re invia in
quegli anni alla corte di Napoli, essa conta circa duecentomila abitanti, tra
cui «quarantamila proletari, la cui sussistenza dipende dal capriccio dei
grandi».
La
relazione precisa: «In pieno secolo XIX, Palermo è ancora una città feudale
lussuosa e corrotta, nella quale si vendono gli uffici pubblici, si corrompe la
giustizia, si fomenta l’ignoranza del popolo».
Vi
si aggiunge, inoltre, che l’intera isola si trova “in stato di dissoluzione”: «Scarsa
di popolazione, senza strade, senza commercio, senza industria, con le prepotenze
del patriziato e le insolenze della plebe, la Sicilia resta tuttora un
anacronismo nella civiltà europea».
Tra
migliaia di diseredati, Giacomo Cusmano, un fanciullo stranamente biondo dagli
occhi azzurri, è un privilegiato, appartenente a una ricca famiglia patrizia.
Conosce, però, i diseredati di Palermo, dato
che il palazzo di famiglia è situato dietro alla Chiesa del Carmine, nel bel
mezzo del popolare quartiere dell’Albergheria, i cui vicoli brulicano di
miserabili.
Conosce
anche la sofferenza: piccolissimo, perde la mamma durante un’epidemia di
colera, e ne porta dentro la ferita insanabile.
Il
papà, ingegnere agronomo, è un uomo
giusto che non transige sull’educazione del bambino: educazione alla sobrietà,
al rispetto verso tutti, alla carità fondata non solo sull’arte di donare il superfluo, ma sull’industriosità e sulla
capacità di rinuncia di ogni membro della famiglia, anche dei bambini.
Inoltre
l’adolescenza di Giacomo scorre segnata dai “moti rivoluzionari” che agitano
nobili, borghesi e popolani, durante i quali si creano le più strane alleanze,
destinate a dissolversi in fretta.
Così
nel fatidico 1848 la rivoluzione, voluta da poveri contadini, da pastori e da
artigiani, fu in realtà gestita dai liberal-borghesi e dalle bande armate che
infestavano l’isola, due gruppi preoccupati solo del proprio potere e dei
propri affari. E l’espulsione dei Borboni –che durò un anno soltanto– finì per
peggiorare la sorte dei miseri.
Giunsero,
poi, nel 1860, i mille di Garibaldi per fare l’unità d’Italia sotto i Savoia e
furono accolti come salvatori, particolarmente dal clero, tanto che l’Eroe in
camicia rossa e spada sguainata non disdegnò di assistere nella cattedrale di
Palermo al solenne pontificale per la festa di S. Rosalia, lasciandosi perfino incensare.
Quando,
alla fine dell’anno, venne Vittorio Emmanuele II in persona a promettere ai
siciliani «un’amministrazione bene e ordinata e con incessante progresso
economico», il sogno sembrò realizzato.
Il
risveglio non poteva essere più deludente.
Si
comincia col corrodere la fede del popolo.
A
Palermo viene fondato il Grande Oriente di rito scozzese che ha per Gran
Maestro lo stesso Garibaldi, con l’intento dichiarato di «distruggere
l’edificio della Chiesa cattolica».
Dal Piemonte giungono i valdesi a fondare le
loro comunità, inondando le città di Bibbie protestanti.
Ad
opera dei socialisti dilagano le associazioni «fasci dei lavoratori »,
dichiaratamente anticlericali.
L’immoralità
è pubblicamente ostentata ed esaltata sulla stampa e a teatro; la prostituzione
è autorizzata per la prima volta.
L’anticlericalismo
più bieco diventa una moda e raggiunge il popolo.
Invece
del progresso sociale annunciato, c’è una spaventosa regressione: i nuovi
padroni del nord non sanno far di meglio che decretare la destituzione di tutti
gli impiegati statali locali, i quali vengono cinicamente buttati sul lastrico,
assieme alle loro famiglie; tutti sostituiti con funzionari venuti «dal
continente», che agiscono scrupolosamente in conformità alle direttive del
governo sabaudo: sviluppare le regioni del nord, saccheggiando quel poco che il
sud può ancora offrire.
I
contadini vengono strozzati dalle tasse (mai così alte) e, conseguentemente,
dagli usurai, e sono praticamente costretti ad abbandonare l’agricoltura.
Salgono i prezzi e le imposte, ma non i salari.
Così
la massa dei poveri non ha alcun beneficio sociale, e si vede aumentare
spaventosamente la turba dei pezzenti. I siciliani conoscono, per la prima
volta nella loro storia, il servizio militare obbligatorio che allontana i
giovani dall’isola per anni, e che risulta incomprensibile e ingiusto alla
povera gente.
I
renitenti alla leva e le vittime dei mille soprusi, finiscono, così, per
incrementare il tradizionale brigantaggio, che lo Stato del resto combatte con
arresti, violenze e torture inflitti senza processo, incancrenendo il problema.
Diciamo
tutto questo non per rivisitare una pagina di storia (anche se ce ne sarebbe
bisogno), ma per spiegare la strana situazione in cui crebbe Giacomo Cusmano in
quei torbidi anni di rivoluzioni, di speranze e di delusioni: la situazione,
cioè, di una sua strana assenza da un lato, e di una sua originale presenza
dall’altro.
A
21 anni (cinque anni prima dell’arrivo dei Piemontesi) egli s’era già laureato
in medicina col massimo dei voti e la lode: elegantissimo, bravo schermitore,
di carattere iracondo e imperioso, ma non ingiusto, scrupoloso nell’esercizio
della sua professione, saggio capofamiglia (riconosciuto tale dai fratelli,
anche se non era il più anziano), buon amministratore delle sue tenute, attento
alle necessità e alla dignità dei più poveri.
Nei
salotti, dove fermentavano le idee rivoluzionarie, molti avevano guardato a lui
come a un futuro leader politico: gli avrebbe bastato seguire le orme di tanti
amici che s’erano gettati già nella mischia, e che continuavano a sollecitarlo.
E
fu per tutti sconvolgente la notizia che si diffuse per Palermo, proprio in
quegli anni di mutamenti sociali: il ricco, stimato e corteggiato dottor
Giacomo Cusmano aveva deciso di diventare prete della Diocesi di Palermo, non
chiedendo alcun posto di privilegio, ma solo il permesso di mettersi a servizio
dei miserabili.
Il
confessore, che aveva discusso con lui di quella nuova inaspettata vocazione,
aveva esigito una sola verifica: che Giacomo si radesse la bella barba bionda
che teneva curatissima, si tosasse i capelli e indossasse la brutta tonaca e le
grossolane scarpe che i preti usavano a quel tempo, e poi si aggirasse così
–divenuto supremamente ridicolo agli occhi di tutti gli amici e i conoscenti–
per le vie della città.
La
prova fu durissima, ma il giovane e ricco medico capì di non potersi mettere a
totale servizio dei poveri se rifiutava di rassomigliare a loro.
Per due anni studiò teologia e si dedicò a
insegnare catechismo ai bambini di una parrocchia, manifestando notevoli doti
pedagogiche che si potevano compendiare in questa persuasione: «Le anime si
guadagnano con la dolcezza».
Parlava
dei suoi ragazzi chiamandoli «piccoli uomini», e trattandoli di conseguenza.
Nell’antivigilia
di Natale dell’anno 1860 –quello fatidico in cui era stata proclamata
l’annessione della Sicilia al Regno d’Italia– fu consacrato sacerdote. Aveva
venticinque anni.
Così
spiegherà sempre la sua decisione e la missione che sentiva d’avere nella
Chiesa: «Sentivo nell’anima il desiderio di consacrarmi ai poverelli».
Cominciò
adempiendo fedelmente, fino a rasentare l’eroismo, la sua missione di prete:
innamorato della preghiera e dell’Eucaristia; appassionato allo studio della
Sacra Scrittura («É la tua nuova “farmacia” –gli aveva detto il padre
spirituale– vi troverai il rimedio per ogni malattia dell’anima»);
eccessivamente sobrio nel cibo e nel sonno; umile e gioioso; sempre pronto ad
accorrere al capezzale d’un infermo o di un morente, anche quando c’erano da
superare situazioni di ostinata preclusione (con i massoni, ad esempio).
Ma
il suo ideale restarono i derelitti, ch’erano sempre più abbandonati a se
stessi.
La notte non riusciva a dormire per
quell’assillante problema.
Ripetuti
sommovimenti avevano fatto nascere speranze di maggiore giustizia; una certa
coscienza sociale era indubbiamente cresciuta: perché mai, allora, la
situazione sembrava incancrenirsi e deteriorarsi ulteriormente?
Il
medico-sacerdote Giacomo Cusmano fece pian piano la sua diagnosi: si era voluto
sanare l’egoismo strappando Dio sia ai ricchi che ai poveri, e così era
crollato anche l’ultimo baluardo.
Il
risultato era sotto gli occhi di tutti: l’abisso che separava i ricchi dai
poveri s’era ulteriormente scavato, e ancor più si era scavato l’abisso che
separava ambedue da Cristo.
S’era
creato un terribile circolo vizioso, da cui era ormai difficile uscire: nel
passato la fede dei cristiani non aveva saputo generare una diffusa carità
sociale, e così la fede era stata disprezzata e rifiutata. Ma la fede rifiutata
aveva tolto vigore anche agli ultimi impeti di carità.
Ed
erano rimasti solo uomini pieni di programmi e di rivendicazioni, ma poveri di
mente e di cuore, poveri di verità e di tenacia.
Abituato
alla riflessione e alla ricerca delle terapie, Cusmano capì dove era necessario
intervenire.
Nella
storia della Chiesa si sono avute molte e ricorrenti crisi di fede e di carità,
ma mentre ricostruire il tessuto della fede è un procedimento lungo e
laborioso, tutto affidato a una lunga e tenace passione educativa, il fuoco
della carità può riaccendersi sempre e dovunque con immediatezza: basta farne
divampare qualche scintilla.
La
carità sgorga direttamente dal cuore di Dio e trova sempre qualche immediata
alleanza nel cuore degli uomini.
Si
può addirittura pensare che, nel corso dei secoli, sia sempre stata la carità a
salvare la fede!
Certo,
la carità cristiana nasce dalla fede, ma per farla divampare anche in chi ha
una fede illanguidita basta spesso un solo caldo cuore credente.
Fu
questa la genialità di Giacomo Cusmano che concluse: «Dobbiamo custodire la Fede per mezzo della carità!».
Cominciò
a chiedere questo nelle sue lunghe preghiere: poter diventare «Apostolo della
carità di Dio».
E
la preghiera si tramutò in illuminazione.
Come
fa Gesù a farci compagnia, a nutrire la nostra povertà, a darci la sua vita, a
salvarci? La risposta è tutta contenuta nell’Eucaristia: Gesù si fa «un boccone
di pane», «un boccone destinato a quei poveri che noi siamo».
«Boccone del Povero»: questa espressione
apparve a Cusmano come il «nome misterioso» che Dio assegnava alla sua opera, e
«boccone del povero» si chiamerà, in seguito, fino ai nostri giorni, la
Congregazione religiosa dei «Missionari Servi dei Poveri» che Cusmano fonderà.
Anche
le opere da lui costruite (orfanotrofi, scuole, edifici…..) porteranno questo
nome, umile e sacro.
Prima
di descrivere ciò che egli seppe realizzare, dobbiamo liberarci dalle nostre
idee moderne di assistenza sociale: oggi si fanno raccolte di denaro, di
vestiti, di derrate alimentari. Poi si confeziona il tutto in maniera
industriale e lo si invia ad istituzioni più o meno anonime che, in seguito, lo
distribuiranno ai bisognosi.
L’inevitabile
prezzo da pagare è l’anonimato della carità, tramutata in beneficenza pubblica.
Inoltre, nella catena di trasporti e di distribuzione, una quantità non
indifferente di beni risultano deteriorati o male utilizzati o stornati per
altri scopi.
A
volte li si ritrova in qualche strano magazzino o discarica.
E’
il prezzo da pagare all’anonimato della distribuzione. E non ce ne
meravigliamo.
Più
umana e visibile è la carità di chi offre e gestisce luoghi e mense di prima
accoglienza, oggi possibili anche per le notevoli disponibilità economiche
riconosciute a queste istituzioni.
Non
diciamo questo per fare paragoni, ma per rendere ben comprensibile e ben
situata l’iniziativa che Cusmano prese 150 anni fa, quando non esisteva nessuna
istituzione o catena assistenziale, quando «gran parte della popolazione non
aveva il minimo indispensabile per soddisfare le esigenze primarie di cibo, di
vestito e di un tetto decente»; quando la città era una massa di tuguri
aggrappati ai palazzi dei nobili e dei ricchi borghesi.
Anno 1866: il governo Piemontese vota la
“legge di soppressione” che colpisce in tutta l’isola 629 conventi e 239
monasteri, con tutte le loro istituzioni, incamerandone i beni, rivendendoli
all’asta ai grossi proprietari terrieri e attribuendo poi il ricavato non ai
comuni dell’isola, ma alle altre regioni d’Italia. Sono perduti irrimediabilmente
innumerevoli posti di lavoro di operai, artigiani, maestri, e di mille altri
uffici, annullate tutte le istituzioni di carità esistenti. Così i poveri
vengono privati di tutto il capillare sostegno che la Chiesa aveva comunque
garantito loro in passato.
Scoppiò
un’ennesima rivolta popolare e il Marchese Di Rudinì dal palazzo comunale non
esitava a fare aprire il fuoco sulla folla. A domare la rivolta, con la più
odiosa e gratuita violenza, scendeva con ventimila uomini il generale Cadorna.
Poi
si diffuse il colera che infierì per due anni.
E
infine venne la carestia che fece aumentare il prezzo dei generi alimentari di
base del 50 %.
Nelle
lettere di Cusmano troviamo l’angoscia per «le tante orrende scene delle
morti per pura fame, mai viste per l’innanzi».
Il primo compito era sfamare la gente.
Ebbene, Cusmano inventò «il boccone del povero».
A
chiunque aveva sufficientemente da mangiare (patrizi, borghesi e povera gente,
non proprio miserabile) chiese di rinunciare ad ogni pasto «ad un boccone» del
loro cibo.
Ciò
che a noi può sembrare sconvolgente è che egli lo chiese e lo raccolse proprio
materialmente.
A
tale scopo fondò un’associazione, radunando una quarantina di persone disposte
a seguirlo in quella strana impresa. C’erano preti, religiosi e laici e perfino
una contessa inglese che si offrì come infermiera nei tuguri della città: un
vero “movimento di carità” che si dilatò pian piano per tutta la città di
Palermo.
A
tutti Giacomo aveva dato come programma ciò che Gesù disse ai discepoli dopo la
moltiplicazione dei pani: «Raccogliete i frammenti in modo che niente vada
perduto».
Andavano di porta in porta chiedendo pane,
pasta, o altro cibo e qualunque oggetto inutilizzato. Giacomo li precedeva con
le bisacce al collo, o trascinando una carretta dove raccogliere il «boccone
del povero».
Aveva lui stesso spiegato il metodo (per
comprendere il suggerimento bisogna ricordare che la dieta feriale del tempo,
anche per i benestanti, consisteva quasi esclusivamente di pasta e pane): ogni
persona, dunque, che poteva permettersi un pasto toglieva una piccola porzione
al cibo previsto per quella giornata e lo metteva da parte; aggiungeva il cibo
risparmiato a quello previsto per il giorno successivo, dal quale si potevano
dunque togliere due porzioni, e così via in maniera progressiva, per tutta la
settimana. Alla fine ci si trovava con la disponibilità di un pasto intero, di
cibo fresco e pulito. E questo veniva donato a chi passava a ritirarlo.
Giacomo
e i suoi collaboratori usavano metà giornata
per raccogliere le offerte e l’altra metà per confezionare il cibo in
sacchetti pronti per la distribuzione, usando una scrupolosa pulizia in ambedue
le fasi dell’operazione: «La pulizia –diceva– è una caratteristica
del paradiso».
A
chi sosteneva che era meglio e più igienico raccogliere denaro, rispondeva: «Io non voglio toccare le borse, ma i cuori.
Ella in ogni pasto si ricordi dei poveri e lasci un bocconcino ripetendo:
“Questo boccone sia per amore dei poveri e per amore di Gesù che considera come
fatto a sé quello che facciamo ai poverelli”».
Non
voleva l’offerta rapida in denaro, che alleggerisce la coscienza, ma la
costante attenzione a condividere, a ricordare, a orientare il proprio dono.
Il
suo intento era quello di «soccorrere la
miseria dei poveri, suscitando la carità dei ricchi» in modo da avvicinare
a Dio gli uni e gli altri.
«Non voglio la carità
dell’oro –diceva
con uno splendido gioco di parole– ma
l’oro della carità». E con quell’oro voleva comprare anime: per lui le
anime dei poveri costavano quanto quelle dei ricchi.
Molte
famiglie votate all’inedia venivano nutrite col ricavato della questua, spesso
nascostamente, perché non provassero vergogna.
Per
chi vagava per le strade c’era, invece, una minestra calda, preparata nei
locali della parrocchia dove Giacomo esercitava il suo ministero: e ogni sera
vi si accalcavano più di duecento poveri.
E
quando non ci fu più a Palermo un affamato che non sapesse dove sfamarsi, Padre
Giacomo (così in Sicilia chiamano anche i preti diocesani) si lasciò assorbire
da tutte le altre esigenze della carità: c’erano orfani ai quali occorreva dare
un’abitazione e una formazione; c’era da creare una rete gratuita di assistenza
sanitaria a domicilio; c’era da far fruttare la raccolta di tutti i rifiuti che
potevano essere riutilizzati: ritagli di stoffa, legno, carta, ossa, vetri,
trucioli, foglie, cenci. Poi la raccolta di vesti usate, scarpe, mobili o
utensili rotti che potevano essere riparati.
La
definivano: «L’arte di utilizzare l’inutile».
A
tale scopo, egli chiamava a collaborare gli stessi poveri, con l’intento di
soccorrerli, ma anche di rieducarli al lavoro. «La prima carità è il lavoro», spiegava.
Così
molte donne, ridotte in miseria, reimparavano a cucire, a ricamare, a curare la
biancheria, e ritrovavano cibo e dignità.
Per
alcuni anni sembrò che la carità potesse cambiare il volto della città di
Palermo e che si riuscisse a farlo con tanta intelligenza da produrre lavoro!
Ed
era tanto l’entusiasmo che P. Giacomo si diede perfino ad evangelizzare le campagne
abbandonate del palermitano.
Le
autorità lo facevano sorvegliare: si sapeva che con P. Giacomo collaboravano
molti volontari e alcuni inservienti stipendiati, ma che il suo sogno era
quello di poter avere dei consacrati, dei veri «Missionari, Servi e Serve dei
Poveri».
E
ciò impensieriva chi aveva appena decretato la soppressione di tutti gli
istituti religiosi.
Perciò
il questore di Palermo lo fece convocare d’ufficio:
«E’ vero che ella, sotto il
pretesto della filantropia, vuol far rivivere il monachesimo?», gli domandò
altezzosamente.
«Sì. Voglio far rivivere il
monachesimo snidando dai tuguri, sgombrando dai vicoli e togliendo dalle vie
tutti gli accattoni; voglio riunire e chiudere in convento tutti i poverelli
inabili, voglio fare un monachesimo di vecchi, storpi, ciechi, miseri di ogni
maniera e di ogni età, e praticare verso di loro ciò che fecero S. Francesco
d’Assisi, S. Giovanni di Dio, S. Camillo de Lellis, S. Vincenzo de’ Paoli».
Il
Questore lo guardò allibito.
«E i mezzi?», chiese sottovoce.
«La Provvidenza e la carità
del “boccone” che fa già un gran bene anche a lei».
«Non capisco».
E
P. Cusmano gli spiegò pazientemente che anche l’ordine pubblico traeva
beneficio dalla sua opera.
Finì
che anche il Questore divenne un socio contribuente dell’Associazione e promise
il suo interessamento per fargli assegnare dal governo qualche convento
soppresso per impiantarvi una «Casa dei poveri».
Era
questo il sogno struggente di Giacomo: poter avere una grande casa «capace
di accogliere infelici di ogni condizione ed età ed esercitare ogni industria,
dare ogni sollievo d’ogni maniera e svariate misure che accompagnano l’umanità
dalla culla alla tomba».
Voleva
una casa che diventasse «una scuola di carità per tutta la città di Palermo,
aprendo le porte delle case di misericordia a tutti coloro che desiderano
esercitarsi nell’amore del prossimo».
Non
voleva certo far rivivere tutte le congregazioni religiose soppresse, però
voleva far rivivere tutte le loro opere caritative.
Sognava
una specie di «Ordine di tutte le opere
di misericordia».
Ma il convento promesso non venne accordato.
Aveva a disposizione solo alcuni locali presso la Chiesa dei Santi Quaranta
Martiri, all’Abergheria, di cui era rettore. Ed erano già stipati
all’inverosimile. Vi aveva raccolto una quarantina di orfani, e alcuni anziani
abbandonati. Per far loro più posto, s’era ridotto a vivere in uno stanzino,
dove poteva coricarsi solo stando rannicchiato.
E riusciva perfino ad organizzare, per
educare i suoi orfani, gite in treno e rappresentazioni teatrali.
Finalmente
ottenne la chiesa e il convento abbandonato di S. Marco in cui potè trasferire
parte degli orfanelli e degli anziani e installare i primi laboratori per
l’educazione dei piccoli o la riabilitazione al lavoro degli anziani, ed
assicurare la prima accoglienza ai mendicanti della città.
P.
Giacomo era esigente con se stesso e con i suoi collaboratori. Raccomandava
loro «la stessa attenzione che si avrebbe verso la persona stessa di Gesù se
si degnasse venire a mangiare in casa nostra».
A
volte vedevano che rimandava il suo misero pasto. Confessava: «Non ho il
coraggio di mangiare la mia zuppa se prima tutti i poveri non si sono saziati».
Si
faceva riservare i tozzi di pane avanzati dai poveri e li difendeva come una
leccornia: Spiegava: «Come sono dolci, mi sembrano caramelle calate giù dal
Paradiso».
C’era
un patto tacito in casa: se per caso veniva a mancare la disponibilità di un
letto, il primo a cedere il suo al povero inatteso doveva essere P. Giacomo.
A
volte accadeva che lo invitassero a colazione in qualche casa principesca.
Rispondeva: «Accetterò la colazione a patto che ne sia offerta una uguale a
tutti i poverelli della mia casa». E il ricco si piegava alla sua volontà. Così
una signora dell’aristocrazia che gli offriva una granita, in un’afosa giornata
estiva, per fargliela accettare, dovette promettergli altri cento rinfreschi
per i suoi poverelli.
E
tuttavia l’opera sognata, invece di fiorire, sembrava destinata a languire.
Non
molti accettavano quel suo continuo mettersi all’ultimo posto, quel suo esigere
che i collaboratori si facessero mendicanti in prima persona, a favore dei
poveri.
Diceva:
«Dovete educare i poveri a conoscere la
loro nobiltà»; «Io voglio coltivati religiosamente i poverelli»; «I poveri
devono mondarsi dall’avvilimento in cui sono vissute le loro anime», ma era
un linguaggio duro.
Su
questo non ammetteva deroghe, e non mancava di severità.
Così
trattava con particolare benevolenza un bambino storpio e maligno, sempre
sporco e sempre intento a sporcare. Appena rientrava in casa, subito P. Giacomo
si informava: «Dov’è il mio bambino?».
E a chi, infastidito, obiettava: «Ma che
cosa ci vede in quel bambino?», rispondeva: «Vedo Gesù Cristo, quello che voi non vedete!».
Cominciarono
a venir meno i sacerdoti che fino ad allora avevano collaborato con lui, poi si
allontanarono i volontari, e gli inservienti stipendiati non erano in grado di
garantire lo spirito dell’opera. Le offerte diminuivano di giorno in giorno.
Perfino
gli amici diedero sfogo ai loro dubbi: i mezzi, su cui l’Opera aveva fino ad
allora contato, erano troppo miseri e troppo aleatori. Mancavano rendite,
eredità, sovvenzioni stabili. E perfino il nome dell’Associazione (“Boccone del Povero”) era ridicolo. E
poi –a volere andare fino in fondo– chi mai poteva capire e accettare l’idea «di considerare il povero come padrone e
oggetto di culto?».
P. Giacomo soffriva la più oscura «notte
dello spirito». Non lo frastornavano le critiche altrui, ma il dubbio che il
fallimento dipendesse dalle sue incapacità, dalle sue infedeltà alla grazia di
Dio, dai suoi peccati che riteneva grandissimi, anche se non avrebbe nemmeno
saputo che cosa confessare.
Gli
altri, invece, lo ritenevano un santo, ma pensavano anche che fosse «un
sognatore!, una testa trascendentale!», che era come dire che non teneva i
piedi per terra.
Ma
a chi gli parlava di rendite e di eredità rispondeva umilmente: «Nelle mani di Dio, si sta tanto bene…».
L’anno
1880 fu quello cruciale: erano già dodici anni che aveva cominciato l’impresa e
tutto sembrava morto: servo dei poveri a tempo pieno era rimasto soltanto lui.
Luminosa
giunse, però, a P. Giacomo un’esortazione del suo antico padre spirituale
(divenuto intanto Arcivescovo di Agrigento): «Agli occhi di Dio, la tua
opera è come la fanciulla morta di dodici anni, di cui parla il Vangelo. Di lei
Gesù dice: “Perché vi affannate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”.
Gesù la prenderà per mano e le dirà: “Te lo comando io: alzati!” ».
E
giunsero, proprio in quell’anno, le prime sei candidate che si offrivano per
consacrarsi a Dio come “Missionarie, Serve dei Poveri”.
La
regola che P. Giacomo consegnò loro era limpida e scarna.
«La Serva dei poveri deve:
1°. Stare sempre alla presenza di Dio; 2°. Ricevere tutto dalle mani di Dio;
3°. Fare tutto per puro amore di Dio; 4°. Guardare in tutti l’immagine di Dio;
5°. Passare la vita in contemplazione mentre adempie l’attività del proprio
ufficio; 6°. Ubbidire ciecamente fino alla morte e alla morte di croce».
E
concludeva sintetizzando: «La nostra
regola è la vita di Gesù Cristo copiata dalla Vergine Santissima».
Superiora
del piccolo gruppo era la sorella cinquantacinquenne di Giacomo, che aveva
sempre resistito all’idea, perché aveva a lungo inseguito un suo sogno di vita
contemplativa.
Finalmente
ella aveva compreso che il suo destino (anche quello della santità) era legato
alla missione del fratello e vi si arrendeva generosamente: «Volevi entrare in un monastero piccolo –le
disse Giacomo sorridendo– e invece il
Signore ti vuole in un monastero grandissimo: il mondo intero».
Così
Vincenzina Cusmano divenne una saggia educatrice di anime. Quando le sue
giovani consorelle uscivano in città per la colletta le avvertiva: «Ricordiamoci di posare i piedi sulle orme
di Gesù».
Ormai
si sentiva davvero persuasa dall’esempio e dagli insegnamenti del suo santo
fratello che alla cuciniera diceva: «Sorella,
come sarebbe bello se durante il suo lavoro se ne andasse in estasi!». E ad
un’altra, che si lamentava di non riuscire a pregare, questuando per le vie
della città, ribatteva: «Figlia mia, non
ti pare preghiera andare con Gesù da un posto all’altro?».
Le
educava a una particolarissima solitudine interiore: «Ciascuna deve dire: in comunità ci siamo soltanto io e Gesù; io sola
devo osservare la regola, io sola devo lavorare, io sola devo sacrificarmi, io
sola devo dare la vita per Gesù, come Lui l’ha data per me». Ma non si
trattava di un orgoglioso isolamento spirituale, dato che “Gesù”, nei fatti,
era contemplato in ogni prossimo, in primo luogo nelle sorelle con cui si
faceva comunità.
Per
P. Giacomo ormai la contemplazione era diventata abituale perché era
carismaticamente convinto di quella verità che polarizzava il suo spirito: «Il povero è Gesù Cristo in persona, e io
dovrei parlargli in ginocchio».
E
si stupiva che altri si stupissero perché dava del «lei» anche agli accattoni,
e s’inquietava se qualche inserviente portava ai poveri un solo bicchiere
d’acqua, se il bicchiere non era terso a dovere.
Dopo
le prime vocazioni, in quell’anno di grazia, venne anche la tanto sospirata
casa: la Quinta casa al Molo, un
vecchio edificio dei gesuiti che occorreva riadattare.
In
pochi mesi gli ospiti fissi divennero trecento, come se vi si riversassero
tutti gli accattoni di Palermo.
E
cominciò anche l’espansione: prima un’altra «casa della misericordia» ad
Agrigento, poi una terza casa alle “Terre rosse” di Palermo, poi a Valguarnera,
e in altri comuni della Sicilia.
Dalle
mani di Giacomo Cusmano e dalla sua «associazione del Boccone del Povero»
nacquero laboratori d’ogni genere: calzolerie e negozi di calzature,
falegnamerie, sartorie, cucine economiche, forni, panifici e pastifici,
concerie, lanifici e laboratori di tessitura e ricamo, tipografie, mercatini
dell’usato, spaccio di vini e di petrolio americano per lumi…
Fondò
perfino una colonia agricola per orfani, figli di contadini, con un reparto per
l’assistenza ai vecchi agricoltori malati.
Poi
nacque anche il ramo maschile dei «Missionari, Servi dei Poveri». Anche a loro
diede regole semplicissime e un ricchissimo repertorio di esempi vivi.
A
uno che doveva interessarsi della cucina, spiegò: «Il cuciniere, nell’ufficio suo, è come il Missionario: i cibi devono
essere preparati con la stessa cura con cui un missionario prepara la Parola di
Dio».
Intanto
P. Giacomo andava esaurendo tutte le sue forze. Oltre agli innumerevoli
acciacchi, di cui non si curava e non voleva neppure parlarne, c’era tutta
l’opera che pesava interamente sulle sue povere spalle: «Io sto come in una ruota che gira sempre, senza fermarsi mai… Dovrei
essere pari a dieci persone per rispondere a una parte sola delle cose che mi
attorniano», diceva con umiltà e verità.
Lo
cercavano per consiglio, per aiuto, per qualche intervento pacificatore, per
l’approvazione di nuovi progetti, per la soluzione di ogni problema, e non si
sottraeva mai neppure all’ultimo povero che voleva parlargli o aveva qualche
rimostranza da fare.
La
sua santità splendeva ormai agli occhi di tutti.
Perfino
il barone Turrisi, sindaco di Palermo, massone e anticlericale che lo aveva
definito «prete petulante e fanatico», gli era divenuto amico e confidava: «E’
il migliore dei preti che io abbia mai incontrato in 64 anni di vita!».
Ai
derelitti che si schermivano per la sua eccessiva dedizione, Giacomo spiegava: «Ancora non ho sparso il mio sangue per voi,
come fece Gesù».
E
si diffondeva una fama che lo turbava, ma che non riusciva a contenere.
Erano
in molti ormai a parlare dei suoi miracoli. La cuciniera raccontava la sua
angoscia nell’avere soltanto cinque chili di pasta e tre chili di lenticchie
per dar da mangiare a 300 orfanelle: chiamato in soccorso, P. Giacomo
confortava, benediceva le pentole, assicurava che il cibo sarebbe bastato per
tutti, e in realtà ne avanzava.
Un’altra
volta c’erano a disposizione soltanto rimasugli di pasta nera e ammuffita:
ordinò di cuocerla. Poi si mise lui stesso a servirla, e sui piatti ci fu
abbondante pasta bianchissima e gustosa.
C’era
un alberello di alsberges (simile a un pesco) con un solo frutto. P. Giacomo,
attorniato da decine e decine di orfanelle, staccò il piccolo frutto, e
sorridendo cominciò a distribuirne un pezzetto ciascuna, e tutte poterono
gustarlo.
Fioretti?
Leggende popolari? Verrebbe da dire di sì, se non fosse che proprio in quegli
stessi anni (forse negli stessi giorni!), a Torino, anche S. Giovanni Bosco
moltiplicava gioiosamente poche castagne o le ostie della Messa per centinaia
di ragazzi. E ci furono decine di testimoni oculari!
Chi
si accorgeva del prodigio ne parlava sottovoce per non farlo inquietare, ma
alcuni episodi erano sconvolgenti.
Un
giorno prese in braccio un bambino con le gambette e i piedini così storti che
non era mai riuscito né a camminare né a stare in piedi. Lo mise per terra, lo
prese per la manina e lo condusse attorno per la sala, sorridendo come se
giocasse. Ma la mamma gridò, quando lo riebbe guarito tra le braccia.
E
un orfanello mingherlino, in pianto dirotto perché aveva lasciato cadere una
cesta di piatti, si sentì da lui accarezzare. Poi il Santo gli raccomandò di
raccogliere tutti i cocci, ma proprio tutti!, e di riportarli in cucina. In
cucina la cesta giunse piena di piatti in buono stato.
«Io non ho fatto nulla» –si schermiva P. Giacomo– «è stato il Signore!». E si meravigliava
che qualcuno ritenesse qualcosa impossibile a Dio. Qualsiasi cosa! Ai più
intimi, che potevano osare qualche insistenza, spiegava: «Basta un’Ave Maria, per ottenere qualsiasi cosa».
Tutti,
però, capivano che Dio l’ascoltava proprio perché Giacomo era spasmodicamente
intento ad ascoltarLo, a darGli tutto, fino all’ultima goccia di sangue e di
energie.
Agli
inizi del 1888, confidava ai più intimi: «Sento
mancarmi a poco a poco la vita».
Il
14 marzo –un giorno prima di compiere 54 anni– al mattino presto, chiese che
gli portassero l’Eucaristia.
Cercò
di alzarsi per disporsi a ricevere degnamente il suo Signore, poi si abbatté
sul letto. Gesù era venuto a prenderlo in persona, prima che giungesse il suo
Sacramento.
A
Torino anche don Giovanni Bosco era morto da alcune settimane.
Ai
suoi figli e figlie –e a tutti i siciliani– Giacomo Cusmano lasciava l’esempio
di una carità illimitata. Aveva lasciato loro questo programma: «Quelli che non sono di nessuno, sono
nostri!».
E
tutti lo ricordavano com’era in quel giorno in cui alla Quinta Casa, su un
carro adibito al trasporto delle immondizie, era arrivato un paralitico,
avvolto da un nugolo di mosche.
Racconta
il biografo:
«P.
Giacomo gli andò incontro. Lo prese delicatamente tra le braccia, lo adagiò su
una specie di barella; gli tagliò i capelli zeppi d’insetti, gli rase la barba,
poi gli fece il bagno, lo rivestì di abiti puliti, lo riprese in braccio e lo
tenne per qualche minuto contemplandolo amorosamente come Gesù stesso. Infine
lo baciò e lo depose sul letto. E il poverino non finiva di ripetere a tutti:
“Padre Giacomo mi ha baciato! Padre Giacomo mi ha baciato!”».