SACERDOTI PER UNA NUOVA
EVANGELIZZAZIONE (*)
S.E.
Mons. Alvaro del Portillo
Le presenti
considerazioni, con il titolo Sacerdoti per una nuova evangelizzazione, fanno
diretto riferimento alla nuova impresa evangelizzatrice — nuova e nel contempo
vecchia, perché è incominciata in Cristo venti secoli fa — che i tempi
richiedono e alla quale il Santo Padre Giovanni Paolo II ci sprona [1]. Tutti abbiamo ben
presente che il Concilio Vaticano II ha orientato al rinnovamento della Chiesa
tutto il suo insegnamento, e in particolare i Decreti sul ministero e la vita
sacerdotale, e sulla formazione sacerdotale [2].
Necessità di una nuova evangelizzazione
La nuova
evangelizzazione, soprattutto in Occidente, non si rivolge a un mondo che non
ha mai udito la predicazione cristiana, ma, al contrario, a un mondo in cui il
messaggio di Cristo è stato annunciato, creduto e amato, anche se oggi appare
come sradicato dalle proprie origini [3]. Anzi, la società
occidentale evolve, in grande misura, in paradossale opposizione alle proprie
radici spirituali e culturali, e accanto al suo progresso materiale è evidente
un grave regresso morale [4].
Si è soliti oggigiorno
parlare di questa società qualificandola come «postcristiana». L’aggettivo è
forse opportuno in qualche caso, per connotare una situazione di fatto e certe
prese di posizione che si possono spiegare a partire da una deformazione
intellettuale e pratica della coscienza dei credenti [5]; ma tale appellativo —
«postcristiana» — sarebbe del tutto inadeguato se pretendesse di insinuare che
la dottrina di Cristo ha perduto la capacità di dare forma al mondo
contemporaneo: niente di più lontano dalla realtà, da una realtà che la grazia
di Dio ci fa toccare in tanti ambienti e, soprattutto, nel mondo preziosissimo
dell’anima di moltitudini di persona.
Pertanto, l’urgenza
attuale di una nuova evangelizzazione non può farci dimenticare «la missione
permanente di portare il Vangelo a quanti — e sono milioni e milioni di uomini
e di donne — ancora non conoscono Cristo Redentore dell’uomo. È questo il
compito più specificamente missionario che Gesù ha affidato e quotidianamente
riaffida alla sua Chiesa» [6]. Questa missione
evangelizzatrice universale richiede appunto una Chiesa rinnovata,
rivitalizzata con il perenne messaggio di Cristo, traboccante di imperitura
attualità; in altre parole, richiede un nuovo risveglio dalle coscienze
cristiane che attragga il mondo alla luce di Cristo, del nostro Cristo che,
come amava ripetere con forza mons. Escrivá, «non è una figura del passato. Non
è un ricordo che si perde nella storia. È vivo! Iesus Christus heri et hodie,
ipse et in saecula — dice san Paolo — Gesù Cristo ieri, oggi e sempre!» [7].
La decisione di
assumere le responsabilità che ci competono in quanto cristiani della nostra
epoca non è compatibile con visioni pessimiste o negative del presente. Per
annunciare con efficacia il Regno di Dio e lavorare alla sua diffusione è
necessario amare il mondo in cui viviamo — amarlo «appassionatamente», secondo
l’espressione usata dal fondatore dell’Opus Dei [8] —: vale a dire,
contemplare questa nostra situazione storica e le persone che la compongono,
«con gli occhi di Cristo stesso», come ha scritto Giovanni Paolo II nella sua
prima enciclica [9]. Così, nel chiaroscuro
dei fenomeni mutevoli, che in molti casi la rendono irriconoscibile, si scopre
anche oggi l’inquietudine dell’anima umana — che anela a Dio e ne sente
nostalgia — espressa da sant’Agostino nel celebre esordio dalle sue Confessioni:
«Ci hai fatto, o Signore, per te ed è inquieto il nostro cuore finché non
riposa in te» [10]. La dinamica
accelerata che a grandi linee caratterizza la nostra epoca è accompagnata e
come plasmata dall’inquietudine di tanti cuori che camminano in continua
irrequietezza, senza riuscire a scorgere un nord chiaro per la propria
esistenza né un senso per la storia umana. Ebbene, proprio qui, in mezzo a
questa inquietudine, si deve proclamare a viva voce che Colui che cercano è
Cristo, e ciò che ignorano e a cui anelano è l’amore paterno di Dio, che viene
offerto, a tutti e a ciascuno, in Cristo e nella Chiesa [11].
Stiamo assistendo,
negli ultimi mesi, a grandi trasformazioni in vasta zone del mondo, soprattutto
nel Vecchio Continente, che sembrano annunciare una nuova èra di libertà, di
responsabilità, di solidarietà, di spiritualità, per milioni di persona. Non
possiamo dimenticare, tuttavia, e bisogna dirlo con dolore, che esistono anche
nella nostra società occidentale vasti ambienti chiusi e ostili alla Croce di
salvezza (cfr Fil 3, 18), occhi che rifiutano di ammirare la bellezza
di Dio riflessa nel volta di Cristo (cfr 2 Cor 4, 6).
Missione di tutti nella Chiesa
Di fronte a questo
nostro mondo, è chiaro — insisto — che l’evangelizzazione sarà nuova non
per il contenuto essenziale della dottrina da annunciare né per il modello di
vita da proporre ai nostri contemporanei. La novità dovrà consistere nelle
nuove energie spirituali e apostoliche messe in gioco dai fedeli tutti, perché
tutti siamo partecipi e responsabili della missione della Chiesa [12]. Particolare
importanza rivestirà la testimonianza coerente dei fedeli laici, ai quali — con
parole di Giovanni Paolo II — «tocca testimoniare come la fede cristiana
costituisce l’unica risposta pienamente valida [...] dei problemi e dalle
speranze che la vita pone a ogni uomo e a ogni società. Ciò sarà possibile»,
continua il Papa, «se i fedeli laici sapranno superare in sé stessi la frattura
tra il Vangelo e la vita, ricomponendo nella loro quotidiana attività in
famiglia, sul lavoro e nella società, l’unità di una vita che nel Vangelo trova
ispirazione e forza per realizzarsi in pienezza» [13].
Con grande forza e con
singolare efficacia mons. Escrivá ha annunciato questa dottrina, con toni
sempre più attraenti e con rinnovato vigore, già dalla fine degli anni Venti:
«Noi tutti, con il Battesimo, siamo stati costituiti sacerdoti della nostra
stessa esistenza per offrire vittime spirituali, bene accette a Dio per
mezzo di Gesù Cristo (1 Pt 2, 5), per compiere ciascuna dalle nostre
azioni in spirito di obbedienza alla volontà di Dio, perpetuando così la
missione dell’Uomo-Dio» [14]. Il vasto progresso
dottrinale per cui la vocazione battesimale è stata compresa e presentata con
il rilievo ecclesiologico che le compete è senza dubbio uno dei pilastri sui
quali la Chiesa si appoggia per affrontare il suo futuro di evangelizzazione.
L’insistenza sulla
necessità che i fedeli laici assumano le proprie responsabilità, per rendere
possibile una presenza più viva della luce cristiana nella società, deve andare
di pari passo con l’insistenza sulla necessità essenziale di un esercizio
abbondante, generoso, umile e nel contempo audace, del ministero pubblico dei
sacerdoti: «Più le famiglie cristiane e i laici cristiani assumono il loro
ruolo nei loro molteplici impegni di apostolato, più essi hanno bisogno di
sacerdoti che siano pienamente sacerdoti, proprio per la vitalità della loro
vita cristiana. E in un altro senso, più il mondo è scristianizzato o manca di
maturità nella fede, più ha bisogno di sacerdoti che siano totalmente votati a
testimoniare la pienezza del mistero di Cristo» [15].
La Chiesa che vogliamo
vedere rifiorire e dare nuovi frutti, «la Chiesa del nuovo Avvento, la Chiesa
che si prepara di continuo alla nuova venuta del Signore, deve essere la Chiesa
dell’Eucaristia e della Penitenza. Soltanto sotto questo profilo spirituale
della sua vitalità e della sua attività, essa è la Chiesa della missione
divina, la Chiesa in statu missionis, così come ce ne ha rivelato il
volto il Concilio Vaticano II» [16]. E la Chiesa
dell’Eucaristia e della Penitenza è necessariamente la Chiesa dell’esercizio
infaticabile del sacerdozio ministeriale, è la Chiesa del sacerdote santo, del
sacerdote che ama alla radice della sua anima, di tutto il suo essere, la
chiamata che ha ricevuto dal Maestro, per comportarsi in ogni momento come alter
Christus, come ipse Christus [17].
Non è necessario
soffermarci ulteriormente sulla necessità del sacerdozio ministeriale per la
nuova evangelizzazione, né sulla reciproca ordinazione tra il sacerdozio
ministeriale e il sacerdozio comune di tutti i fedeli. A tutti, pertanto, è ben
chiaro che senza un’abbondante dispensazione dei grandi «misteri di Dio» (1 Cor
4, 1), cioè dell’Eucaristia e della Penitenza, e con essi
dell’alimento della parola divina, languirebbe la vita soprannaturale dei fedeli.
La nuova evangelizzazione dipende, in modo essenziale, dal fatto che ci siano
ministri che dispensino generosamente — con fame di santità propria e altrui —
la parola di Dio e i sacramenti, uomini formati dalla Chiesa sempre in sintonia
con la Chiesa, per essere, al cento per cento, sacerdoti alla misura della
donazione di Cristo, sempre ben uniti al loro Ordinario, con venerazione per
tutta la gerarchia della Chiesa, e in modo peculiare per il Romano Pontefice.
Necessità di sacerdoti santi
Contro la nuova
evangelizzazione si ergono difficoltà numerose e, nel loro insieme, imponenti.
Di fronte a questa ondata che pretende di essere travolgente, il cristiano — e,
forse, in modo speciale il sacerdote — sperimenta, a volte con particolare
acutezza, la radicale insufficienza dalle proprie forze umane.
Questa realtà evoca in
me, con grande vivezza, l’insigne figura sacerdotale del fondatore dell’Opus
Dei, del quale — innalzo il mio cuore in rendimento di grazie alla Trinità
Santissima, per intercessione di santa Maria molto unito a milioni di anime che
fanno altrettanto nei cinque continenti — il Santo Padre ha voluto pubblicare
il Decreto sulle virtù eroiche, il 9 aprile scorso. A ventisei anni ricevette
da Dio una missione evangelizzatrice di dimensioni imponenti: la missione di
diffondere in tutto il mondo, fra persona di tutti gli ambienti sociali, una
presa di coscienza, teorica e pratica, fatta vita, della chiamata universale
alla santità. Così scriveva nel 1930: «Siamo venuti a dire, con l’umiltà di chi
sa di essere peccatore e poca cosa — homo peccator sum (Lc 5, 8),
diciamo con Pietro —, ma con la fede di chi si lascia guidare dalla mano di
Dio, che la santità non è cosa per privilegiati: che il Signore chiama tutti
noi, che da tutti attende Amore: da tutti, ovunque siano; da tutti, di
qualunque stato, professione o mestiere. Perché questa vita quotidiana,
normale, senza rilievo, può essere mezzo di santità: [...] tutti i cammini
della terra possono essere occasione di un incontro con Cristo» [18]. Anche le difficoltà
che il nostro fondatore incontrò in tutto il corso della sua vita furono
gigantesche; tuttavia, l’efficacia della grazia di Dio nella sua vita, una vita
spesa gioiosamente — talvolta con grande dolore — in eroica corrispondenza al
dono di Dio, fu stupefacente.
Ricordo un episodio
avvenuto nell’agosto del 1958. Il fondatore dell’Opus Dei camminava un giorno
per la City londinese e, nel passare davanti alle sede centrale di
banche famose e di grandi imprese commerciali e industriali, di fronte al
panorama di un mondo umanamente potente ma indifferente e addirittura ostile
alla cose di Dio, avvertì in modo particolarmente vivo tutta la sua debolezza,
la sua incapacità di realizzare la missione che aveva ricevuto, trent’anni
prima, di permeare di spirito evangelico tutte le realtà umane, di
mettere Cristo al vertice di tutte le attività degli uomini. Ma,
immediatamente, sentì con chiarezza nel proprio intimo una locuzione divina:
«Tu non puoi, ma Io sì».
Era un’ulteriore
conforma di ciò che sempre era stato nella sua anima, nella sua condotta, una
piena certezza soprannaturale: la fede sicura, certa, che è lo stesso Cristo —
vero ed eterno sacerdote della Nuova Alleanza, stabilita definitivamente nel
suo Sangue — il solo a realizzare l’amorosa comunione di Dio con gli uomini
dalla quale nasce la comunione degli uomini fra di loro; la fede, pertanto, che
il suo lavoro sacerdotale, come ogni azione sacerdotale nella Chiesa, è
efficace proprio perché si realizza per Christum et cum Christo et in
Christo [19].
Se la nuova
evangelizzazione, come la prima, come ogni evangelizzazione nella storia, e
come ogni attività veramente soprannaturale, è impossibile per le nostre forze
umane — le forze di ciascuno e quelle di tutti insieme nella Chiesa —, è
tuttavia possibile per Dio, è possibile per Cristo: per ciò stesso, risulta possibile
per noi, per tutti e per ciascuno, nella misura in cui tutti e ciascuno
siamo — ritengo necessaria questa insistenza, che sarà sempre attuale — «non
solo alter Christus, ma ipse Christus, lo stesso Cristo» [20]. Ecco la profonda
ragione teologica della necessità della santità personale, per ogni singola
opera apostolica e per la ricristianizzazione del mondo nella sua interezza.
Infatti, l’identificazione con Cristo è dono, ma è anche compito. Ogni
cristiano e, in modo peculiare e proprio, il sacerdote è ipse Christus,
«in modo immediato, in forma sacramentale» [21].Non possiamo — non
dobbiamo! — dimenticare che tale identificazione costituisce anche la meta
definitiva, l’oggetto di un compito, una responsabilità personale per
realizzare in ciascuno di noi ciò che diceva san Paolo: «Per me il vivere è
Cristo» (Fil 1, 21); «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal
2, 20). Leviamo dunque bene in alto questo programma per l’uomo e per la donna
del mondo d’oggi e di tutti i tempi, affinché anch’essi lo assumano in
pienezza.
Pertanto, oggi come
ieri e come sempre, di fronte alle sfide di ogni epoca, la domanda: «Di che
tipo di sacerdoti la Chiesa e il mondo hanno oggi bisogno?», ha una risposta
che incomincia necessariamente così: «La Chiesa e il mondo hanno bisogno di
sacerdoti santi», cioè di sacerdoti che, consapevoli della propria limitatezza
e miseria, si sforzino con decisione di percorrere i cammini della santità,
della perfezione della carità, dell’identificazione con Cristo, in fedele
corrispondenza alla grazia divina. Non è una risposta nuova, ma è una risposta
sempre attuale, sempre necessaria, sempre decisiva. Il Concilio Vaticano II lo
ha affermato a chiare lettere: «I sacerdoti sono specialmente obbligati a
tendere a questa perfezione, poiché essi — che hanno ricevuto una nuova
consacrazione a Dio mediante l’Ordinazione — vengono elevati alla condizione di
strumenti vivi di Cristo Eterno Sacerdote, per proseguire nel tempo la sua
mirabile opera» [22].
L’identificazione con
Cristo esige una vita di preghiera e di penitenza; e questo non come «affare
privato» del sacerdote, ma come condizione della sua efficacia pastorale,
proprio perché il sacerdote, di per sé, non può, ma proprio anche perché
nella misura in cui è Cristo, sì può.
In questo contesto, mi
viene in mente anche un’annotazione che mons. Escrivá scrisse nel 1932. Ritengo
che questi riferimenti siano di giustizia , se consideriamo che il Venerabile
Servo di Dio, spinto dall’azione divina, ha portato all’altare migliaia di
sacerdoti, incardinati in tante diocesi e nella Prelatura dell’Opus Dei. Nel
contemplare ancora una volta nella sua orazione la grandezza della missione che
Dio gli aveva affidato, scriveva: «Sento che anche se rimanessi solo
nell’impresa, per divina permissione, anche se mi trovassi disonorato e povero
— più di quanto lo sono ora — e malato... non avrei dubbio della divinità
dell’Opera, né della sua realizzazione! E ratifico la mia convinzione che i mezzi
sicuri per portare a compimento la Volontà di Gesù, prima dell’agire e del
darsi da fare, sono: pregare, pregare, pregare: espiare, espiare, espiare» [23].
Santità sacerdotale e vita di orazione
Osservate, osservi
ciascuno di noi, che «fra la santità e la preghiera esiste necessariamente una
relazione tale che non è possibile l’una senza l’altra. È verità questa frase
del Crisostomo: “Penso che risulti evidente a tutti che è semplicemente
impossibile vivere virtuosamente senza l’ausilio dell’orazione” (De praecatione,
orat. I)» [24].
«Forse negli ultimi
anni», scriveva Giovanni Paolo II a tutti i sacerdoti in occasione del Giovedì
Santo 1979, «[...] si è discusso troppo sul sacerdozio, sull’“identità” del
sacerdote, sul valore della sua presenza nel mondo contemporaneo, ecc., e al
contrario si è pregato troppo poco. Non c’è stato abbastanza slancio per
realizzare lo stesso sacerdozio mediante la preghiera, per rendere efficace il
suo autentico dinamismo evangelico, per conformare l’identità sacerdotale. È la
preghiera che indica lo stile essenziale del sacerdozio» [25].
La necessità di essere uomini
di orazione riporta nuovamente al mio pensiero la figura del nostro
fondatore e la sua straordinaria fecondità apostolica. Non è possibile, nei
limiti di queste mie parole, tracciare neppure un breve schizzo di quello che è
stata la sua vita di orazione continua, della quale sono stato diretto
testimone — nella misura in cui ciò è possibile — per quarant’anni. Non esito
ad affermare che Dio gli concesse con abbondanza il dono della contemplazione
infusa. Ricordo, fra tanti altri particolari, come durante la prima colazione,
mentre entrambi leggevamo i giornali, appena nostro Padre incominciava a
leggere, restava assorto, immerso in Dio; appoggiava la fronte sul palmo di una
mano e smetteva di leggere il giornale, per fare orazione. Grande fu la mia
emozione quando, dopo la sua morte, lessi nei suoi Appunti intimi questa
annotazione del 1934, in cui è plasmato con estrema semplicità il suo dialogo
con il Signore: «Orazione: anche se io non te la do [...], me la fai sentire
fuori tempo e, a volta, leggendo il giornale, ho dovuto dirti: Lasciami
leggere! — Quanto sei buono, Gesù mio! E io, invece... » [26].
Sarebbe molto lungo
commentare adeguatamente la ricchezza della vita di orazione di questo
sacerdote — sacerdote sempre! —, nella quale lo Spirito Santo lo condusse
indubbiamente ad altissime vette di unione mistica in mezzo alla vita
ordinaria, attraversando anche durissime purificazioni passive dei sensi e
dello spirito. Consentitemi, tuttavia, di sottolineare che se questi e
moltissimi altri fatti, di cui abbiamo prova, evidenziano una specifica azione
dello Spirito Santo nella sua anima, la profondità con cui si radicò nella sua
vita, nella sua giornata — giorno e notte — l’abito della continua orazione
mentale, rivela nel contempo la fedeltà e la generosità del suo dedicarsi ai
tempi quotidiani di meditazione e di orazione mentale e alla recita del
Breviario e dalle altre preghiere vocali. Anzi, l’irruzione straordinaria di Dio
nella sua anima fu spesso come la risposta divina a questa fedeltà all’orazione
mentale nei momenti in cui gli riusciva particolarmente costosa o difficile.
Per esempio, in una sua annotazione — fra le molte del 1931 — asseriva: «Ieri,
nel pomeriggio, alle tre, salii sul presbiterio della chiesa del Patronato per
fare un po’ di orazione davanti al SS.mo Sacramento. Non ne avevo voglia. Ma me
ne stetti lì come un fantoccio. A volte, rientrando in me, pensavo: Tu lo vedi,
buon Gesù, che se sto qui è per Te, per farti piacere. Niente. La mia
immaginazione se ne andava via per suo conto, lontano dal corpo e dalla volontà
come il cane fedele che, steso ai piedi del suo padrone, dorme sognando
scorribande e caccia e amiconi (cani come lui) e si agita e guaisce piano
piano... ma senza allontanarsi dal suo padrone. Così io, ero completamente
cane, quando mi resi conto che, senza volerlo, ripetevo delle parole latine
sulle quali non mi era mai soffermato e che non avevo motivo di conservare
nella memoria: anche adesso, per ricordarle, avrò bisogno di leggerle dalla
schedina, che sempre mi porto in tasca per annotare ciò che Dio vuole (In
quella schedina, di cui sto parlando, istintivamente, portato dall’abitudine,
annotai lì stesso, sul presbiterio, la frase, senza darle importanza): + così
dicono le parole della Scrittura che mi trovai sulle labbra: “Et fui
tecum in omnibus ubicumque ambulasti, firmans regnum tuum. in aeternum”:
Applicai l’intelligenza al senso della frase, ripetendola adagio. E poi,
ieri sera, anche oggi, quando sono tornato a rileggere queste parole (perché, —
ripeto — come se Dio si fosse preso l’impegno di ratificarmi che furono sue,
non le ricordo da una volta all’altra) ho capito bene che Cristo-Gesù mi ha
fatto capire, per nostra consolazione, che “l’Opera di Dio sarà con Lui
dappertutto, ad affermare il regno di Gesù Cristo per sempre”» [27].
È nell’orazione
perseverante di ogni giorno, con facilità o con aridità, che il sacerdote, come
ogni cristiano, riceve da Dio — anche in forma straordinaria, se necessario —
luci nuove, fermezza nella fede, sicura speranza nell’efficacia soprannaturale
del suo lavoro pastorale, rinnovato amore: in una parola, l’impulso per
perseverare in questo lavoro e la radice dell’effettiva efficacia del lavoro
stesso. Senza orazione, e senza orazione che si sforza di essere continua, in
mezzo alle mille occupazioni, non vi è identificazione con Cristo, in quanto
essa ha di compito, che si fonda su quanto ha di dono. Più
ancora, oso affermare che un sacerdote senza orazione, se non falsifica
l’immagine che offre di Cristo — Modello per tutti —, la presenta come una
nebulosa che non attrae e non orienta, che non serve come nord al popolo che ci
vede e che ci ascolta. Molte volte ho sentito mons. Escrivá affermare che
«l’Opera di Dio è stata fatta con l’orazione»: con queste parole non applicava
teoricamente al frutto del suo lavoro un luogo comune della vita spirituale, ma
esprimeva una realtà profondamente assimilata e sentita, del tutto equivalente
all’affermazione, pure frequente sulle sue labbra, secondo cui l’Opera l’ha
fatta e la fa Dio. Così pregava a voce alta, il 27 marzo 1975: «Come è stato
fatto l’Opus Dei? L’hai fatto Tu, Signore, con quattro buoni a nulla...
Stulta mundi, infirma mundi, et ea quae non sunt (cfr 1 Cor
1, 26-27). Si è compiuta tutta la dottrina di san Paolo: hai cercato mezzi
completamente illogici, del tutto inetti e hai esteso il lavoro in tutto il
mondo» [28].
Santità sacerdotale e vita di penitenza
La sequela e
l’identificazione con Gesù Cristo richiedono, insieme all’orazione, il prendere
su di sé la Croce ogni giorno (cfr Lc 9, 23; 14, 27; Mt 10, 38; Mc
8, 34; Gal 2, 9; ecc.), la partecipazione volontaria al mistero
della Croce redentrice. In concreto, «il sacerdote», con parole di Pio XII,
«deve cercare di riprodurre nella sua anima tutto quello che accade
sull’altare. Così come Gesù Cristo immola sé stesso, il suo ministro deve
immolarsi con lui; così come Gesù espia i peccati degli uomini, anche lui,
seguendo l’arduo cammino dell’ascetica cristiana, deve lavorare alla propria e
all’altrui purificazione» [29]. Il sacerdote deve
essere uomo penitente e perseverantemente penitente, non soltanto
mortificato; deve espiare, in unione con la Croce di Cristo, i propri
peccati e quelli di tutti; deve poter dire con san Paolo: «sopporto per voi e
completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del
suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24).
Il fondatore dell’Opus
Dei non solo accettò con gioia la Croce, nella malattia, nella persecuzione, in
ogni genere di difficoltà esterne e nella purificazioni interiori che Dio gli
fece attraversare, ma inoltre la cercò, con la profonda convinzione che
incontrare la Croce è incontrare Cristo. Così si esprimeva, con parole di
singolare elevatezza teologica e mistica, in una meditazione, il 28 aprile
1963, rammentando momenti particolarmente duri di circa trent’anni prima:
«Quando il Signore mi dava quei colpi, interno all’anno 31, io non capivo. E
improvvisamente, in mezzo a quell’amarezza così grande, queste parole: Tu
sei mio figlio (Sal 2, 7), tu sei Cristo. E io sapevo soltanto
ripetere: Abbà, Pater!; Abbà, Pater!, Abbà!, Abbà!,
Abbà! E adesso lo vedo con una luce nuova, come una nuova scoperta: come
si vede, col passare degli anni, la mano del Signore, della Sapienza divina,
dell’Onnipotente. Tu, Signore, hai fatto sì che io capissi che avere la Croce è
trovare la felicità, la gioia. E la ragione — lo vedo più chiaramente che mai —
è questa: avere la Croce è identificarsi con Cristo, è essere Cristo e, per
questo, essere figlio di Dio» [30].
La vita penitente di
mons. Escrivá consisté, soprattutto, nel continuo rinnegamento di sé nei mille
particolari della vita quotidiana, ma anche in una forte penitenza corporale.
Fra tante altre manifestazioni della sua unione con la Croce di Cristo, potrei
soffermarmi, per esempio, sugli anni in cui, a causa della guerra civile
spagnola, le scomodità e le privazioni di ogni genere erano tali che qualunque
persona, anche molto mortificata, avrebbe considerato sufficiente sopportarle
offrendole a Dio. Mons. Escrivá, invece, rispondendo alle richieste amorose del
Signore, vide che tutto ciò non era sufficiente per corrispondere alla sua
chiamata e che doveva fare di più. Lo potei comprovare personalmente,
soprattutto nei mesi che trascorsi con lui nella Legazione dell’Honduras a
Madrid: tutti noi che eravamo colà rifugiati pativamo davvero la fame, ma egli
sapeva prescindere, con naturalezza, anche dal poco che c’era, praticando un
digiuno multo rigoroso, come fece in molte altre epoche della sua vita. Per
esempio, dopo la sua morte ho potuto leggere una sua annotazione del 22 giugno
1933, indirizzata al suo confessore, in cui esprimeva i propositi di penitenza
formulati durante un corso di ritiro spirituale di poco prima. Ecco le sue
testuali parole: «Il Signore mi chiede indubbiamente, Padre, di intensificare
la penitenza. Quando sono fedele su questo punto, sembra che l’Opera prenda
nuovo impulso». E specifica, di seguito, i propositi concreti: «Discipline:
lunedì, mercoledì e venerdì: più una straordinaria nella vigilia delle feste
del Signore o della SS.ma Vergine: un’altra settimanale straordinaria, come
supplica o ringraziamento.
«Cilici: due al giorno,
fino all’ora di pranzo: fino a cena, uno: martedì, alla cintola, e venerdì alle
spalle, come finora.
»Dormire: sul
pavimento, se è di legno, o senza materasso a letto, martedì, giovedì, sabato.
»Digiuno: i sabati,
prendendo solamente quello che mi danno alla prima colazione» [31].
Non si tratta
necessariamente di seguire un determinato cammino di penitenza, ma è necessario
affermare che l’identificazione con Cristo e, pertanto, l’efficacia nel
ministero sacerdotale, richiedono una forte esperienza della Croce nella
propria carne e nel proprio spirito. E questo ancor più ai giorni nostri, ancor
più per l’evangelizzazione di un mondo in gran parte sommerso nell’edonismo.
Solo alla luce della fede tutto ciò ha senso: alla luce della fede nel mistero
della Redenzione, nel mistero del Figlio di Dio, fatto obbediente fino alla
morte, e morte di Croce (cfr Fil 2, 8).
Santità sacerdotale e carità pastorale
Sarebbe superfluo
soffermarmi a considerare che il ministero esige che il sacerdote sia anche uomo
d’azione, poiché ciò salta agli occhi con chiarezza meridiana. Dal punto di
vista della fede possiamo considerare altrettanto evidente che il motore dell’attività
pastorale del sacerdote si radica esclusivamente nella carità di Cristo: Caritas
Christi urget nos (2 Cor 5, 14), afferma san Paolo. Un amore
soprannaturale che scaturisce come frutto della Croce, essendo — secondo le
parole di san Tommaso d’Aquino — «una certa partecipazione della Carità
Infinita, che è lo Spirito Santo» [32]. Infatti, soltanto la
carità, che sa mostrarsi paziente e benigna, che tutto copre, tutto crede e
tutto sopporta (cfr 1 Cor 13, 4-7), può rendere ragione non già del
compimento più o meno esatto di determinati doveri pastorali, ma di una
dedizione totale al ministero che si traduce in un’incessante attività per il
bene dalle anime, al di là di ciò che la stretta giustizia potrebbe esigere dal
sacerdote verso i fedeli affidati alla sua cura pastorale.
Anche su questo aspetto
non posso fare a meno di rievocare la figura amabilissima del nostro fondatore.
Per la sua instancabile dedizione al ministero non furono mai scusa la fatica,
la malattia o l’avversità dalle circostanze. Questa carità pastorale, che porta
a un darsi senza condizioni al servizio dalle anime (cfr 2 Cor 12, 15),
permea necessariamente, con speciali sfumature, la fraternità sacerdotale, che
è elemento integrante della comunione, intesa come unità affettiva ed
effettiva che deriva dalla comune partecipazione ai medesimi beni. Una
fraternità sacerdotale che non confonde l’unità con l’uniformità, che rispetta
la legittima libertà di tutti, anche nel vasto campo della spiritualità
sacerdotale.
Potrei parlare a lungo
dell’amore e del servizio, davvero eroici, del fondatore dell’Opus Dei verso i
suoi fratelli sacerdoti. Ricordo, per esempio, che fra i numerosissimi corsi di
ritiro che, su richiesta di molti vescovi, egli predicò a sacerdoti in tutta la
Spagna fino a quando si trasferì a Roma, ne diresse uno anche alla comunità
degli Agostiniani di El Escorial, nell’ottobre 1944. Il giorno prima si
ammalò: la febbre gli salì a 39 gradi, ma egli non si fermò davanti
all’ostacolo. Lo accompagnai io. Nonostante la temperatura elevata, che il
giorno dopo arrivò ai 40 gradi, predicò per intero gli esercizi, riuscendo a
far sì che gli ascoltatori non notassero la malattia.
Una vita radicata e centrata nell’Eucaristia
Rivolgiamo ora le
nostre riflessioni a un altro aspetto importante, all’aspetto più radicale e
centrale della vita del sacerdote, che è garanzia della sua efficacia
evangelizzatrice.
Preghiera, penitenza,
azione guidata da un’instancabile carità pastorale. Sono come le coordinate
nelle quali abbiamo contemplato l’identificazione del sacerdote con Gesù
Cristo, in ciò che tale identificazione implica di compito personale in
corrispondenza al dono di Dio. Ma cadrei in una gravissima omissione se
tralasciassi di considerare che la vita cristiana e, specialmente, questi
aspetti della vita sacerdotale, devono essere radicati, centrati e,
pertanto, unificati nel Sacrificio di Cristo, nella santa Messa,
nell’Eucaristia.
La santa Messa,
infatti, è «il centro e la radice di tutta la vita del presbitero» [33], come ha ricordato il
Concilio Vaticano II, con parole che erano state molte volta ripetute da mons.
Escrivá [34].
Non vi è dubbio che
questa centralità del Sacrifico eucaristico è una realtà nella vita di ogni
cristiano, ma nel sacerdote questo fatto acquista sfumature particolari. Come
afferma Giovanni Paolo II, «mediante la nostra ordinazione — la cui
celebrazione è vincolata alla santa Messa sin dalla prima testimonianza
liturgica — noi siamo uniti in modo singolare ed eccezionale all’Eucaristia.
Siamo, in certo modo, “da essa” e “per essa”. Siamo anche, e in
modo particolare, responsabili “di essa” [35].
Sento il bisogno di
tornare di nuovo all’esimia figura sacerdotale del fondatore di questa
Università: per me è qualcosa di inevitabile, e so che, come lo è per me, anche
per voi è motivo di gioia. Per quarant’anni, giorno dopo giorno, sono stato
testimone del suo impegno per trasformare ogni giornata in un olocausto, in un
prolungamento del Sacrificio dell’altare. La santa Messa era il centro della
sua eroica dedizione al lavoro e la radice che vivificava la sua lotta
interiore, la sua vita di preghiera e di penitenza. Grazie a questa unione con
il Sacrificio di Cristo, la sua attività pastorale acquisì un valore santificatore
impressionante: davvero, in ciascuna dalle sue giornate, tutto era operatio
Dei, Opus Dei, un autentico cammino di preghiera, di intimità con
Dio, di identificazione con Cristo nella sua dedizione totale per la salvezza
del mondo.
Esternamente non ci fu
mai nulla di straordinario o di singolare nella Messa di mons. Escrivá, anche
se era impossibile non cogliere la sua profonda devozione. Fin dall’inizio del
suo ministero sacerdotale si sforzò di non dar spazio né alla routine né
alla precipitazione nel celebrare il santo Sacrificio, nonostante l’abituale
scarsità di tempo per le sue molteplici attività pastorali. Al contrario,
tendeva spontaneamente a celebrare la Messa con calma, approfondendo ogni testo
e il senso di ogni gesto liturgico, fino al punto che, per molti anni, dovette
positivamente sforzarsi — in accordo con quanto gli veniva confermato nella
direzione spirituale — di andare più in fretta, per non richiamare l’attenzione
e sapendosi al servizio del fedeli che disponevano, per la Messa, di molto meno
tempo. In questo contesto, si capisce quello che scrisse nel 1932, come un
sospiro sfuggito dalla sua anima: «Durante la santa Messa, gli orologi
dovrebbero fermarsi» [36].
L’intensità con cui
egli si univa personalmente al Sacrificio del Signore nell’Eucaristia culminò
in qualcosa che non esito a considerare un peculiare dono, e che il Padre
stesso raccontò, con grande semplicità, il 24 ottobre 1966: «Sono arrivato a
sessantacinque anni per fare una scoperta meravigliosa. Mi affascina celebrare la
Santa Messa, ma ieri mi è costata una fatica tremenda. Un duro sforzo! Ho visto
che la Messa è veramente Opus Dei, lavoro, come lavoro è stato per Cristo la
sua prima Messa: la Croce. Ho visto che il compito del sacerdote, la
celebrazione della Santa Messa, è un lavoro per confezionare l’Eucaristia; vi
si sperimenta dolore, e gioia, e stanchezza. Ho sentito nella mia carne la
spossatezza di un lavoro divino». Non ho dubbi che tale scoperta era la
risposta a una richiesta che costantemente rivolgeva a noi che gli stavamo
accanto: «Chiedete al Signore che io sappia essere più devoto nella Santa
Messa, che ogni giorno cresca la mia fame di rinnovare il Santo Sacrificio».
La dimensione mariana della vita del sacerdote
Ai piedi della Croce di
Cristo, sul Calvario, c’era Maria, sua Madre, «e lì accanto a lei il discepolo
che egli amava» (Gv 19, 26). La tradizione della Chiesa ha sempre visto
rappresentati, nella figura dell’apostolo san Giovanni, tutti i cristiani,
tutti gli uomini e tutte le donne che hanno ricevuto nel sacramento del
Battesimo, come carattere indelebile, una partecipazione al sacerdozio di
Cristo. Le parole del Signore agonizzante sulla Croce ci dischiudono una
dimensione essenziale della vita cristiana: «Ecco la tua Madre» (Gv 19,
27). È, con parole di Giovanni Paolo II, «la dimensione mariana della vita
dei discepoli di Cristo: non solo di Giovanni che in quell’ora stava sotto
la Croce insieme alla Madre del suo Maestro, ma di ogni discepolo di Cristo, di
ogni cristiano» [37].
L’identificazione con
Cristo ha questa dimensione fondamentale. Essere alter Christus, ipse
Christus comporta necessariamente essere figli di santa Maria. E, così come
l’identificazione con il Signore è, insieme, dono e compito,
anche la filiazione alla santissima Vergine è un dono: «un dono che
Cristo stesso fa personalmente a ogni uomo» [38]; ed è anche un compito,
che l’evangelista riassume in poche parole: «E da quel momento il discepolo la
presa nella sua casa» (Gv 19, 27). «Affidandosi filialmente a Maria»,
commenta il Romano Pontefice, «il cristiano, come l’apostolo Giovanni accoglie
“fra le sue cose proprie” la Madre di Cristo e la introduce in tutto lo spazio
della propria vita interiore» [39].
Se questo vale per ogni
cristiano, vale per un nuovo titolo per il sacerdote, che è stato chiamato a
partecipare in modo nuovo al sacerdozio di Cristo e a vivere incentrato in modo
particolare nel sacrificio della Croce. Come discepolo del Signore deve
affidarsi filialmente a Maria, trattarla come Madre e imparare da Lei che cosa
significa avere «anima sacerdotale»: l’anelito di corredimere con Cristo, la
sete di anime, lo spirito di riparazione; insomma, il desiderio di acquisire
gli stessi sentimenti di Gesù Cristo (cfr Fil 2, 5). Come ministro del
Signore, non può dimenticare, quando rinnova il Sacrificio del Calvario e
dispensa i tesori della grazia di Cristo, che, ai piedi della Croce, la Vergine
Maria «si consacrò pienamente al mistero della redenzione umana» [40], e che il Corpo e il
Sangue di Cristo che si fanno presenti sull’altare sono gli stessi che Egli
ricevette dalla sua santissima Madre.
L’ultimo Concilio ha
esortato i presbiteri a «venerare e amare con devozione e culto filiale la
Madre del Sommo ed Eterno Sacerdote, Regina degli apostoli, Ausilio dei
presbiteri nel loro ministero» [41]. Come sperimentò il
fondatore dell’Opus Dei la realtà meravigliosa dell’ausilio materno della
santissima Vergine nel suo ministero sacerdotale! Lo ricordava con queste
parole nella festa di san Giuseppe 1975, pochi mesi prima di morire, volgendo lo
sguardo al suo lavoro pastorale negli anni Trenta: «Quante ore camminai in
quella mia Madrid, ogni settimana, da una parte all’altra, avvolto nel mio
mantello! [...] Quei Rosari completi, recitati per strada — come potevo, ma
senza abbandonarli —, quotidianamente [...] Non avrei mai pensato che portare
avanti l’Opera avrebbe comportato tanta pena, tanto dolore fisico e morale:
soprattutto morale [...] Iter para tutum! Madre mia! Madre! Non avevo
altro che Te! Grazie, Madre! [...] Madre, Cor Mariae dulcissimum! Oh,
quanto ho ricorso a Te!
»E altre volte,
parlando e predicando, rendendomi conto che non valevo nulla, che non ero
nulla, ma con una certezza... Madre!, Madre mia! Non abbandonarmi!, Madre!,
Madre mia!».
Erano esclamazioni
profondamente sincere, di figlio, che scaturivano dalla sua anima sacerdotale,
proprio nell’ultima festa di san Giuseppe che egli celebrò su questa terra,
perché nel suo cuore — e anche nel suo nome, Josemaría — Maria e Giuseppe si
trovavano indissolubilmente uniti, ed erano la via per trattare intimamente
Gesù, e per Lui, con Lui e in Lui, il Padre e lo Spirito Santo.
Raggiungere una
profonda devozione e un tenero amore per la santissima Vergine dev’essere uno
degli obiettivi primari della formazione sacerdotale. Esistono profonde ragioni
teologiche per affermare che tale devozione non può essere considerata come
un’aggiunta devota all’insieme della formazione, ma come qualcosa che affonda
le radici nel «dono» ricevuto dal sacerdote nell’ordinazione, e che è destinato
a crescere e a svilupparsi nella sua vita. Il Signore volle associare sua Madre
in modo specialissimo all’opera della Redenzione; parimenti il sacerdote che ha
ricevuto il potere di agire in persona Christi Capitis «ha bisogno»
dell’aiuto materno della Vergine nel suo ministero. Senza Maria non s| può
raggiungere un’esistenza veramente sacerdotale.
Conclusione: formazione alla santità
Le attuali circostanze
sociali, e la nuova impresa di evangelizzazione |n cui tutti siamo impegnati,
impongono di impostare a fondo un personale miglioramento qualitativo del
nostro sacerdozio e, di conseguenza, della formazione sacerdotale. Nella
recente Lettera ai sacerdoti in occasione del Giovedì Santo, Giovanni
Paolo II ha scritto: «Oggi, forse, in vista del terzo Millennio dalla venuta di
Cristo, sperimentiamo in modo più profondo la grandezza e le difficoltà della
messe: “La messe è molta”; ma avvertiamo anche la mancanza di operai: “Gli
operai sono pochi” (Mt 9,37). “Pochi”: e ciò riguarda non soltanto la
quantità, ma anche la qualità! Di qui allora la necessità della formazione!» [42].
È indispensabile far sì
che i sacerdoti acquisiscano negli anni della loro preparazione, e nella
successiva formazione permanente, una chiara coscienza dell’identità che
sussiste fra la realizzazione della loro vocazione personale — essere sacerdote
nella Chiesa —, e l’esercizio del ministero in persona Christi Capitis. Il
loro servizio alla Chiesa consiste, essenzialmente (altri modi di servire, per
un sacerdote, possono essere legittimi, ma secondari), nel personificare
attivamente e umilmente in mezzo ai fratelli Cristo Sacerdote che dà vita alla
Chiesa e la purifica, Cristo Buon Pastore che la conduce in unità al Padre, e
Cristo Maestro che la conforta e la stimola con la sua Parola e con l’esempio della
sua Vita.
La formazione del
sacerdote è qualcosa che dura per tutta la vita, perché, nei suoi molteplici
aspetti, tende — deve tendere — a formare in lui Cristo (cfr Gal 4, 19),
realizzando questa identificazione come compito, in risposta a ciò che esso ha
come dono sacramentale ricevuto. Un compito che implica, prima ancora di
un’incessante attività pastorale, e come condizione della sua efficacia,
un’intensa vita di preghiera e di penitenza, una sincera direzione spirituale
della propria anima, un ricorso al sacramento della Penitenza vissuto con
periodicità e con estrema delicatezza, e tutta l’esistenza radicata, centrata e
unificata nel Sacrificio eucaristico.
Una nuova
evangelizzazione, sì, ma con la chiara coscienza che — con parole di mons.
Escrivá — «nella vita spirituale non c’è nulla da inventare; occorre soltanto
lottare per identificarsi con Cristo, per essere altri Cristi — ipse
Christus —, per innamorarsi e vivere di Cristo, che è lo stesso ieri, oggi,
e sempre: Iesus Christus heri et hodie, ipse et in saecula (Eb
13, 8)» [43].
Di Cristo, Sommo ed
Eterno Sacerdote, la Chiesa canta: Ave verum corpus natum de Maria Virgine.
Chiedo al Signore che nella formazione sacerdotale sia sempre presente il
cammino mariano per mezzo del quale il Figlio di Dio è venuto fra gli uomini.
(*) Questo
testo è ripreso dalla relazione tenuta da Mons. Álvaro del Portillo
all’Università di Navarra, nel corso del Simposio di Teologia del 1990 sul tema “La formazione dei sacerdoti nelle circostanze
attuali”. Il testo integrale della relazione è stato pubblicato in italiano nel
libro Consacrazione & Missione del
sacerdote (Ares, Milano 1990, 2ª edizione ampliata, pp. 101-126).
Nella versione qui presentata sono stati solo
tolti alcuni brevi paragrafi iniziali e qualche altro cenno, nei quali Mons.
del Portillo illustrava la consonanza tra l’argomento scelto e la recente
dichiarazione delle virtù eroiche di Mons. Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, il cui decreto era stato pubblicato pochi
giorni prima, il 9 aprile 1990. Tali piccole modifiche sono state apportate
perché risaltasse meglio l’attualità del testo, che resta sempre consultabile
nella sua stesura originale.
Mons. Álvaro del
Portillo, Vescovo, Prelato dell’Opus Dei, visse per quasi quarant’anni al
fianco di San Josemaría e ne fu il collaboratore
più stretto. Di lui, morto in fama di santità il 23 marzo 1994, è in corso la
Causa di Beatificazione e Canonizzazione.
[1] Cfr, per esempio, Giovanni
Paolo II, Discorsi: Atto europeistico di Santiago de Compostela, 9
novembre 1982 (Insegnamenti V, 3, 1982, 1257-1263); al Consiglio dalle
Conferenze episcopali europee, 2 gennaio 1986 (Insegnamenti IX, 1, 1986,
12-17); nella Cattedrale di Augsburg, 3-V-1987 (Insegnamenti X, 2,
1987, 1565-1574); a Speyer, 4 maggio 1987 (Insegnamenti, ibidem 1593-1602);
all’Assemblea del Pontificio Consiglio per la cultura, 12 gennaio 1990 (L’Osservatore
Romano, 13 gennaio 1990); ai membri del Corpo diplomatico, 13 gennaio 1990 (L’Osservatore
Romano, 14 gennaio 1990).
[2] Cfr Concilio Vaticano II,
decr. Presbyterorum ordinis, n. 1; decr. Optatam totius, proemio.
[3] Cfr Giovanni Paolo II,
es. ap. Christifideles laici, n. 34.
[4] Si ricordino, per esempio, le descrizioni contenute nelle encicliche
Redemptor hominis, nn. 48-53; Dives in misericordia, nn. 63-77; Dominum
et vivificantem, nn. 56-57.
[5] Sulle crisi della coscienza e del senso di Dio, inevitabilmente
unite all’oscuramento del senso del peccato, che alcuni elementi della cultura
attuale riflettono, cfr Giovanni Paolo
II, es. ap. Reconciliatio et poenitentia, n. 18.
[6] 6. Giovanni Paolo II,
es. ap. Christifideles laici, n. 35.
[7] Josemaría Escrivá,
Cammino, Edizioni Ares, Milano 198824, n. 584.
[8] Colloqui con Monsignor Escrivá, Edizioni Ares, Milano
19875, n. 113.
[9] Giovanni Paolo II,
enc. Redemptor hominis, n. 18.
[10] S. AGOSTINO, Confessioni, 1, 1, 1: PL 32, 661. Cfr anche
CONCILIO VATICANO Il, cost. past. Gaudium et spes, n. 41.
[11] Si ricordi, tra gli altri insegnamenti, il passo dell’enc. Dives
in misericordia, nn. 13-17, che offre profonde riflessioni sull’amore
paterno di Dio rivelato in Cristo.
[12] Cfr, per esempio, le pp. 74 ss., cfr, inoltre, Álvaro del Portillo, Laici e fedeli
nella Chiesa, Edizioni Ares, Milano 1969, pp. 17-25.
[13] Giovanni Paolo II,
es. ap. Christifideles laici, n.34. Sul sacerdozio comune dei fedeli,
cfr per esempio, I Pt 2, 9; Ap 1, 6; 5 9-10, 20 6, Costituzioni
apostoliche III, 16, 3: SC 329, p. 157; sant’Ambrogio,
De mysteriis 6, 29-30: SC 25bis, p. 173; san Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, III, q. 63 a.
3, Concilio Vaticano II, cost.
dogm. Lumen gentium, nn. 10-11, decr. Presbyterorum ordinis, n.
2.
[14] Josemaría Escrivá,
È Gesù che passa, Edizioni Ares, Milano 19885, n. 96.
[15] Giovanni Paolo II,
Discorso, 30 maggio 1980: Insegnamenti III, I (1980), 1532. Cfr Lettera
ai sacerdoti per il Giovedì Santo 1990, 12 aprile 1990, n. 3.
[16] IDEM, enc. Redemptor hominis, n. 20.
[17] Cfr. Josemaría Escrivá,
Omelia Sacerdote per l’eternità, 13 giugno 1973, in La Chiesa nostra
Madre, Edizioni Ares, Milano 1976, p. 9.
[18] IDEM, Lettera, 24 marzo 1930, n. 2.
[19] Cfr, per esempio, Eb 7, 9; san Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, III q 22, a.
1; Concilio di Trento, decr. De
sacrificio Missae: Dz. 1739-1740; Concilio
Vaticano II, cost. Sacrosanctum Concilium, nn. 5-8.
[20] Josemaría Escrivá,
È Gesù che passa, cit., n. 104.
[21] Idem, Omelia Sacerdote
per l’eternità, cit., p. 10.
[22] Decr. Presbyterorum ordinis, n. 12. Tra le innumerevoli
testimonianze patristiche sull’esigenza di santità personale che il sacerdozio
comporta, cfr, per esempio, san Gregorio
Nazianzeno, Oratio 2, n. 91: PG 35, 493; san Giovanni Crisostomo, De sacerdotio, lib. 6, n. S:
PG 48, 682; san Pietro Crisologo,
Sermo 108, 500-501; sant’Isidoro
Pelusiota, Epistola 284: PG 78, 713; san Gregorio Magno, Dialoghi, lib. 4, c. 59: PL 77,
428.
[23] Josemaría Escrivá,
Appunti intimi, n. 1699.
[24] San
Pio X, es. Haerent animo, 4 marzo 1908, AAS 41 (1908) p. 564.
[25] Giovanni Paolo II,
Lettera Novo incipiente, 8 aprile 1979, n. 10.
[26] Josemaría Escrivá,
Appunti intimi, n. 1130.
[27] Ibidem, n. 273.
[28] Josemaría
Escrivá, Meditazione, 27 marzo 1975.
[29] Pio
XII, es. ap. Menti nostrae, 23 settembre 1950, AAS 42 (1950), pp. 667-668.
[30] Josemaría Escrivá,
Meditazione, 28 aprile 1963.
[31] Idem, Appunti
intimi, n. 1724.
[32] san Tommaso d’Aquino,
Summa theologiae, II-II q. 24, a. 7 c.
[33] Decr. Presbyterorum ordinis, n. 14.
[34] Cfr, per esempio, Josemaría
Escrivá, Lettera 2 febbraio 1945, n. 11; È Gesù che passa,
cit., n. 87; Forgia, Edizioni Ares, Milano 19897, n. 69.
[35] Giovanni Paolo II,
Lettera Dominicae Cenae, 24 febbraio 1980, n. 2.
[36] Josemaría Escrivá,
Appunti intimi, n. 728; cfr Forgia, cit., n. 436.
[37] Giovanni Paolo II,
enc. Redemptoris Mater, 25 marzo 1987, n. 45.
[38] Ibidem.
[39] Ibidem, n. 45.
[40] Decr. Presbyterorum ordinis, n. 18.
[41] Cfr ibidem.
[42] Giovanni Paolo II,
Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 1990, cit., n. 4.
[43] Josemaría Escrivá,
Lettera 9-I-1959, n. 6.