SACERDOTI PER UNA NUOVA EVANGELIZZAZIONE (*)

 

S.E. Mons. Alvaro del Portillo

 

 

Le presenti considerazioni, con il titolo Sacerdoti per una nuova evangelizzazione, fanno diretto riferimento alla nuova impresa evangelizzatrice — nuova e nel contempo vecchia, perché è incominciata in Cristo venti secoli fa — che i tempi richiedono e alla quale il Santo Padre Giovanni Paolo II ci sprona [1]. Tutti abbiamo ben presente che il Concilio Vaticano II ha orientato al rinnovamento della Chiesa tutto il suo insegnamento, e in particolare i Decreti sul ministero e la vita sacerdotale, e sulla formazione sacerdotale [2].

Necessità di una nuova evangelizzazione

La nuova evangelizzazione, soprattutto in Occidente, non si rivolge a un mondo che non ha mai udito la predicazione cristiana, ma, al contrario, a un mondo in cui il messaggio di Cristo è stato annunciato, creduto e amato, anche se oggi appare come sradicato dalle proprie origini [3]. Anzi, la società occidentale evolve, in grande misura, in paradossale opposizione alle proprie radici spirituali e culturali, e accanto al suo progresso materiale è evidente un grave regresso morale [4].

Si è soliti oggigiorno parlare di questa società qualificandola come «postcristiana». L’aggettivo è forse opportuno in qualche caso, per connotare una situazione di fatto e certe prese di posizione che si possono spiegare a partire da una deformazione intellettuale e pratica della coscienza dei credenti [5]; ma tale appellativo — «postcristiana» — sarebbe del tutto inadeguato se pretendesse di insinuare che la dottrina di Cristo ha perduto la capacità di dare forma al mondo contemporaneo: niente di più lontano dalla realtà, da una realtà che la grazia di Dio ci fa toccare in tanti ambienti e, soprattutto, nel mondo preziosissimo dell’anima di moltitudini di persona.

Pertanto, l’urgenza attuale di una nuova evangelizzazione non può farci dimenticare «la missione permanente di portare il Vangelo a quanti — e sono milioni e milioni di uomini e di donne — ancora non conoscono Cristo Redentore dell’uomo. È questo il compito più specificamente missionario che Gesù ha affidato e quotidianamente riaffida alla sua Chiesa» [6]. Questa missione evangelizzatrice universale richiede appunto una Chiesa rinnovata, rivitalizzata con il perenne messaggio di Cristo, traboccante di imperitura attualità; in altre parole, richiede un nuovo risveglio dalle coscienze cristiane che attragga il mondo alla luce di Cristo, del nostro Cristo che, come amava ripetere con forza mons. Escrivá, «non è una figura del passato. Non è un ricordo che si perde nella storia. È vivo! Iesus Christus heri et hodie, ipse et in saecula — dice san Paolo — Gesù Cristo ieri, oggi e sempre!» [7].

La decisione di assumere le responsabilità che ci competono in quanto cristiani della nostra epoca non è compatibile con visioni pessimiste o negative del presente. Per annunciare con efficacia il Regno di Dio e lavorare alla sua diffusione è necessario amare il mondo in cui viviamo — amarlo «appassionatamente», secondo l’espressione usata dal fondatore dell’Opus Dei [8] —: vale a dire, contemplare questa nostra situazione storica e le persone che la compongono, «con gli occhi di Cristo stesso», come ha scritto Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica [9]. Così, nel chiaroscuro dei fenomeni mutevoli, che in molti casi la rendono irriconoscibile, si scopre anche oggi l’inquietudine dell’anima umana — che anela a Dio e ne sente nostalgia — espressa da sant’Agostino nel celebre esordio dalle sue Confessioni: «Ci hai fatto, o Signore, per te ed è inquieto il nostro cuore finché non riposa in te» [10]. La dinamica accelerata che a grandi linee caratterizza la nostra epoca è accompagnata e come plasmata dall’inquietudine di tanti cuori che camminano in continua irrequietezza, senza riuscire a scorgere un nord chiaro per la propria esistenza né un senso per la storia umana. Ebbene, proprio qui, in mezzo a questa inquietudine, si deve proclamare a viva voce che Colui che cercano è Cristo, e ciò che ignorano e a cui anelano è l’amore paterno di Dio, che viene offerto, a tutti e a ciascuno, in Cristo e nella Chiesa [11].

Stiamo assistendo, negli ultimi mesi, a grandi trasformazioni in vasta zone del mondo, soprattutto nel Vecchio Continente, che sembrano annunciare una nuova èra di libertà, di responsabilità, di solidarietà, di spiritualità, per milioni di persona. Non possiamo dimenticare, tuttavia, e bisogna dirlo con dolore, che esistono anche nella nostra società occidentale vasti ambienti chiusi e ostili alla Croce di salvezza (cfr Fil 3, 18), occhi che rifiutano di ammirare la bellezza di Dio riflessa nel volta di Cristo (cfr 2 Cor 4, 6).

Missione di tutti nella Chiesa

Di fronte a questo nostro mondo, è chiaro — insisto — che l’evangelizzazione sarà nuova non per il contenuto essenziale della dottrina da annunciare né per il modello di vita da proporre ai nostri contemporanei. La novità dovrà consistere nelle nuove energie spirituali e apostoliche messe in gioco dai fedeli tutti, perché tutti siamo partecipi e responsabili della missione della Chiesa [12]. Particolare importanza rivestirà la testimonianza coerente dei fedeli laici, ai quali — con parole di Giovanni Paolo II — «tocca testimoniare come la fede cristiana costituisce l’unica risposta pienamente valida [...] dei problemi e dalle speranze che la vita pone a ogni uomo e a ogni società. Ciò sarà possibile», continua il Papa, «se i fedeli laici sapranno superare in sé stessi la frattura tra il Vangelo e la vita, ricomponendo nella loro quotidiana attività in famiglia, sul lavoro e nella società, l’unità di una vita che nel Vangelo trova ispirazione e forza per realizzarsi in pienezza» [13].

Con grande forza e con singolare efficacia mons. Escrivá ha annunciato questa dottrina, con toni sempre più attraenti e con rinnovato vigore, già dalla fine degli anni Venti: «Noi tutti, con il Battesimo, siamo stati costituiti sacerdoti della nostra stessa esistenza per offrire vittime spirituali, bene accette a Dio per mezzo di Gesù Cristo (1 Pt 2, 5), per compiere ciascuna dalle nostre azioni in spirito di obbedienza alla volontà di Dio, perpetuando così la missione dell’Uomo-Dio» [14]. Il vasto progresso dottrinale per cui la vocazione battesimale è stata compresa e presentata con il rilievo ecclesiologico che le compete è senza dubbio uno dei pilastri sui quali la Chiesa si appoggia per affrontare il suo futuro di evangelizzazione.

L’insistenza sulla necessità che i fedeli laici assumano le proprie responsabilità, per rendere possibile una presenza più viva della luce cristiana nella società, deve andare di pari passo con l’insistenza sulla necessità essenziale di un esercizio abbondante, generoso, umile e nel contempo audace, del ministero pubblico dei sacerdoti: «Più le famiglie cristiane e i laici cristiani assumono il loro ruolo nei loro molteplici impegni di apostolato, più essi hanno bisogno di sacerdoti che siano pienamente sacerdoti, proprio per la vitalità della loro vita cristiana. E in un altro senso, più il mondo è scristianizzato o manca di maturità nella fede, più ha bisogno di sacerdoti che siano totalmente votati a testimoniare la pienezza del mistero di Cristo» [15].

La Chiesa che vogliamo vedere rifiorire e dare nuovi frutti, «la Chiesa del nuovo Avvento, la Chiesa che si prepara di continuo alla nuova venuta del Signore, deve essere la Chiesa dell’Eucaristia e della Penitenza. Soltanto sotto questo profilo spirituale della sua vitalità e della sua attività, essa è la Chiesa della missione divina, la Chiesa in statu missionis, così come ce ne ha rivelato il volto il Concilio Vaticano II» [16]. E la Chiesa dell’Eucaristia e della Penitenza è necessariamente la Chiesa dell’esercizio infaticabile del sacerdozio ministeriale, è la Chiesa del sacerdote santo, del sacerdote che ama alla radice della sua anima, di tutto il suo essere, la chiamata che ha ricevuto dal Maestro, per comportarsi in ogni momento come alter Christus, come ipse Christus [17].

Non è necessario soffermarci ulteriormente sulla necessità del sacerdozio ministeriale per la nuova evangelizzazione, né sulla reciproca ordinazione tra il sacerdozio ministeriale e il sacerdozio comune di tutti i fedeli. A tutti, pertanto, è ben chiaro che senza un’abbondante dispensazione dei grandi «misteri di Dio» (1 Cor 4, 1), cioè dell’Eucaristia e della Penitenza, e con essi dell’alimento della parola divina, languirebbe la vita soprannaturale dei fedeli. La nuova evangelizzazione dipende, in modo essenziale, dal fatto che ci siano ministri che dispensino generosamente — con fame di santità propria e altrui — la parola di Dio e i sacramenti, uomini formati dalla Chiesa sempre in sintonia con la Chiesa, per essere, al cento per cento, sacerdoti alla misura della donazione di Cristo, sempre ben uniti al loro Ordinario, con venerazione per tutta la gerarchia della Chiesa, e in modo peculiare per il Romano Pontefice.

Necessità di sacerdoti santi

Contro la nuova evangelizzazione si ergono difficoltà numerose e, nel loro insieme, imponenti. Di fronte a questa ondata che pretende di essere travolgente, il cristiano — e, forse, in modo speciale il sacerdote — sperimenta, a volte con particolare acutezza, la radicale insufficienza dalle proprie forze umane.

Questa realtà evoca in me, con grande vivezza, l’insigne figura sacerdotale del fondatore dell’Opus Dei, del quale — innalzo il mio cuore in rendimento di grazie alla Trinità Santissima, per intercessione di santa Maria molto unito a milioni di anime che fanno altrettanto nei cinque continenti — il Santo Padre ha voluto pubblicare il Decreto sulle virtù eroiche, il 9 aprile scorso. A ventisei anni ricevette da Dio una missione evangelizzatrice di dimensioni imponenti: la missione di diffondere in tutto il mondo, fra persona di tutti gli ambienti sociali, una presa di coscienza, teorica e pratica, fatta vita, della chiamata universale alla santità. Così scriveva nel 1930: «Siamo venuti a dire, con l’umiltà di chi sa di essere peccatore e poca cosa — homo peccator sum (Lc 5, 8), diciamo con Pietro —, ma con la fede di chi si lascia guidare dalla mano di Dio, che la santità non è cosa per privilegiati: che il Signore chiama tutti noi, che da tutti attende Amore: da tutti, ovunque siano; da tutti, di qualunque stato, professione o mestiere. Perché questa vita quotidiana, normale, senza rilievo, può essere mezzo di santità: [...] tutti i cammini della terra possono essere occasione di un incontro con Cristo» [18]. Anche le difficoltà che il nostro fondatore incontrò in tutto il corso della sua vita furono gigantesche; tuttavia, l’efficacia della grazia di Dio nella sua vita, una vita spesa gioiosamente — talvolta con grande dolore — in eroica corrispondenza al dono di Dio, fu stupefacente.

Ricordo un episodio avvenuto nell’agosto del 1958. Il fondatore dell’Opus Dei camminava un giorno per la City londinese e, nel passare davanti alle sede centrale di banche famose e di grandi imprese commerciali e industriali, di fronte al panorama di un mondo umanamente potente ma indifferente e addirittura ostile alla cose di Dio, avvertì in modo particolarmente vivo tutta la sua debolezza, la sua incapacità di realizzare la missione che aveva ricevuto, trent’anni prima, di permeare di spirito evangelico tutte le realtà umane, di mettere Cristo al vertice di tutte le attività degli uomini. Ma, immediatamente, sentì con chiarezza nel proprio intimo una locuzione divina: «Tu non puoi, ma Io sì».

Era un’ulteriore conforma di ciò che sempre era stato nella sua anima, nella sua condotta, una piena certezza soprannaturale: la fede sicura, certa, che è lo stesso Cristo — vero ed eterno sacerdote della Nuova Alleanza, stabilita definitivamente nel suo Sangue — il solo a realizzare l’amorosa comunione di Dio con gli uomini dalla quale nasce la comunione degli uomini fra di loro; la fede, pertanto, che il suo lavoro sacerdotale, come ogni azione sacerdotale nella Chiesa, è efficace proprio perché si realizza per Christum et cum Christo et in Christo [19].

Se la nuova evangelizzazione, come la prima, come ogni evangelizzazione nella storia, e come ogni attività veramente soprannaturale, è impossibile per le nostre forze umane — le forze di ciascuno e quelle di tutti insieme nella Chiesa —, è tuttavia possibile per Dio, è possibile per Cristo: per ciò stesso, risulta possibile per noi, per tutti e per ciascuno, nella misura in cui tutti e ciascuno siamo — ritengo necessaria questa insistenza, che sarà sempre attuale — «non solo alter Christus, ma ipse Christus, lo stesso Cristo» [20]. Ecco la profonda ragione teologica della necessità della santità personale, per ogni singola opera apostolica e per la ricristianizzazione del mondo nella sua interezza. Infatti, l’identificazione con Cristo è dono, ma è anche compito. Ogni cristiano e, in modo peculiare e proprio, il sacerdote è ipse Christus, «in modo immediato, in forma sacramentale» [21].Non possiamo — non dobbiamo! — dimenticare che tale identificazione costituisce anche la meta definitiva, l’oggetto di un compito, una responsabilità personale per realizzare in ciascuno di noi ciò che diceva san Paolo: «Per me il vivere è Cristo» (Fil 1, 21); «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). Leviamo dunque bene in alto questo programma per l’uomo e per la donna del mondo d’oggi e di tutti i tempi, affinché anch’essi lo assumano in pienezza.

Pertanto, oggi come ieri e come sempre, di fronte alle sfide di ogni epoca, la domanda: «Di che tipo di sacerdoti la Chiesa e il mondo hanno oggi bisogno?», ha una risposta che incomincia necessariamente così: «La Chiesa e il mondo hanno bisogno di sacerdoti santi», cioè di sacerdoti che, consapevoli della propria limitatezza e miseria, si sforzino con decisione di percorrere i cammini della santità, della perfezione della carità, dell’identificazione con Cristo, in fedele corrispondenza alla grazia divina. Non è una risposta nuova, ma è una risposta sempre attuale, sempre necessaria, sempre decisiva. Il Concilio Vaticano II lo ha affermato a chiare lettere: «I sacerdoti sono specialmente obbligati a tendere a questa perfezione, poiché essi — che hanno ricevuto una nuova consacrazione a Dio mediante l’Ordinazione — vengono elevati alla condizione di strumenti vivi di Cristo Eterno Sacerdote, per proseguire nel tempo la sua mirabile opera» [22].

L’identificazione con Cristo esige una vita di preghiera e di penitenza; e questo non come «affare privato» del sacerdote, ma come condizione della sua efficacia pastorale, proprio perché il sacerdote, di per sé, non può, ma proprio anche perché nella misura in cui è Cristo, sì può.

In questo contesto, mi viene in mente anche un’annotazione che mons. Escrivá scrisse nel 1932. Ritengo che questi riferimenti siano di giustizia , se consideriamo che il Venerabile Servo di Dio, spinto dall’azione divina, ha portato all’altare migliaia di sacerdoti, incardinati in tante diocesi e nella Prelatura dell’Opus Dei. Nel contemplare ancora una volta nella sua orazione la grandezza della missione che Dio gli aveva affidato, scriveva: «Sento che anche se rimanessi solo nell’impresa, per divina permissione, anche se mi trovassi disonorato e povero — più di quanto lo sono ora — e malato... non avrei dubbio della divinità dell’Opera, né della sua realizzazione! E ratifico la mia convinzione che i mezzi sicuri per portare a compimento la Volontà di Gesù, prima dell’agire e del darsi da fare, sono: pregare, pregare, pregare: espiare, espiare, espiare» [23].

Santità sacerdotale e vita di orazione

Osservate, osservi ciascuno di noi, che «fra la santità e la preghiera esiste necessariamente una relazione tale che non è possibile l’una senza l’altra. È verità questa frase del Crisostomo: “Penso che risulti evidente a tutti che è semplicemente impossibile vivere virtuosamente senza l’ausilio dell’orazione” (De praecatione, orat. I)» [24].

«Forse negli ultimi anni», scriveva Giovanni Paolo II a tutti i sacerdoti in occasione del Giovedì Santo 1979, «[...] si è discusso troppo sul sacerdozio, sull’“identità” del sacerdote, sul valore della sua presenza nel mondo contemporaneo, ecc., e al contrario si è pregato troppo poco. Non c’è stato abbastanza slancio per realizzare lo stesso sacerdozio mediante la preghiera, per rendere efficace il suo autentico dinamismo evangelico, per conformare l’identità sacerdotale. È la preghiera che indica lo stile essenziale del sacerdozio» [25].

La necessità di essere uomini di orazione riporta nuovamente al mio pensiero la figura del nostro fondatore e la sua straordinaria fecondità apostolica. Non è possibile, nei limiti di queste mie parole, tracciare neppure un breve schizzo di quello che è stata la sua vita di orazione continua, della quale sono stato diretto testimone — nella misura in cui ciò è possibile — per quarant’anni. Non esito ad affermare che Dio gli concesse con abbondanza il dono della contemplazione infusa. Ricordo, fra tanti altri particolari, come durante la prima colazione, mentre entrambi leggevamo i giornali, appena nostro Padre incominciava a leggere, restava assorto, immerso in Dio; appoggiava la fronte sul palmo di una mano e smetteva di leggere il giornale, per fare orazione. Grande fu la mia emozione quando, dopo la sua morte, lessi nei suoi Appunti intimi questa annotazione del 1934, in cui è plasmato con estrema semplicità il suo dialogo con il Signore: «Orazione: anche se io non te la do [...], me la fai sentire fuori tempo e, a volta, leggendo il giornale, ho dovuto dirti: Lasciami leggere! — Quanto sei buono, Gesù mio! E io, invece... » [26].

Sarebbe molto lungo commentare adeguatamente la ricchezza della vita di orazione di questo sacerdote — sacerdote sempre! —, nella quale lo Spirito Santo lo condusse indubbiamente ad altissime vette di unione mistica in mezzo alla vita ordinaria, attraversando anche durissime purificazioni passive dei sensi e dello spirito. Consentitemi, tuttavia, di sottolineare che se questi e moltissimi altri fatti, di cui abbiamo prova, evidenziano una specifica azione dello Spirito Santo nella sua anima, la profondità con cui si radicò nella sua vita, nella sua giornata — giorno e notte — l’abito della continua orazione mentale, rivela nel contempo la fedeltà e la generosità del suo dedicarsi ai tempi quotidiani di meditazione e di orazione mentale e alla recita del Breviario e dalle altre preghiere vocali. Anzi, l’irruzione straordinaria di Dio nella sua anima fu spesso come la risposta divina a questa fedeltà all’orazione mentale nei momenti in cui gli riusciva particolarmente costosa o difficile. Per esempio, in una sua annotazione — fra le molte del 1931 — asseriva: «Ieri, nel pomeriggio, alle tre, salii sul presbiterio della chiesa del Patronato per fare un po’ di orazione davanti al SS.mo Sacramento. Non ne avevo voglia. Ma me ne stetti lì come un fantoccio. A volte, rientrando in me, pensavo: Tu lo vedi, buon Gesù, che se sto qui è per Te, per farti piacere. Niente. La mia immaginazione se ne andava via per suo conto, lontano dal corpo e dalla volontà come il cane fedele che, steso ai piedi del suo padrone, dorme sognando scorribande e caccia e amiconi (cani come lui) e si agita e guaisce piano piano... ma senza allontanarsi dal suo padrone. Così io, ero completamente cane, quando mi resi conto che, senza volerlo, ripetevo delle parole latine sulle quali non mi era mai soffermato e che non avevo motivo di conservare nella memoria: anche adesso, per ricordarle, avrò bisogno di leggerle dalla schedina, che sempre mi porto in tasca per annotare ciò che Dio vuole (In quella schedina, di cui sto parlando, istintivamente, portato dall’abitudine, annotai lì stesso, sul presbiterio, la frase, senza darle importanza): + così dicono le parole della Scrittura che mi trovai sulle labbra: “Et fui tecum in omnibus ubicumque ambulasti, firmans regnum tuum. in aeternum”: Applicai l’intelligenza al senso della frase, ripetendola adagio. E poi, ieri sera, anche oggi, quando sono tornato a rileggere queste parole (perché, — ripeto — come se Dio si fosse preso l’impegno di ratificarmi che furono sue, non le ricordo da una volta all’altra) ho capito bene che Cristo-Gesù mi ha fatto capire, per nostra consolazione, che “l’Opera di Dio sarà con Lui dappertutto, ad affermare il regno di Gesù Cristo per sempre”» [27].

È nell’orazione perseverante di ogni giorno, con facilità o con aridità, che il sacerdote, come ogni cristiano, riceve da Dio — anche in forma straordinaria, se necessario — luci nuove, fermezza nella fede, sicura speranza nell’efficacia soprannaturale del suo lavoro pastorale, rinnovato amore: in una parola, l’impulso per perseverare in questo lavoro e la radice dell’effettiva efficacia del lavoro stesso. Senza orazione, e senza orazione che si sforza di essere continua, in mezzo alle mille occupazioni, non vi è identificazione con Cristo, in quanto essa ha di compito, che si fonda su quanto ha di dono. Più ancora, oso affermare che un sacerdote senza orazione, se non falsifica l’immagine che offre di Cristo — Modello per tutti —, la presenta come una nebulosa che non attrae e non orienta, che non serve come nord al popolo che ci vede e che ci ascolta. Molte volte ho sentito mons. Escrivá affermare che «l’Opera di Dio è stata fatta con l’orazione»: con queste parole non applicava teoricamente al frutto del suo lavoro un luogo comune della vita spirituale, ma esprimeva una realtà profondamente assimilata e sentita, del tutto equivalente all’affermazione, pure frequente sulle sue labbra, secondo cui l’Opera l’ha fatta e la fa Dio. Così pregava a voce alta, il 27 marzo 1975: «Come è stato fatto l’Opus Dei? L’hai fatto Tu, Signore, con quattro buoni a nulla... Stulta mundi, infirma mundi, et ea quae non sunt (cfr 1 Cor 1, 26-27). Si è compiuta tutta la dottrina di san Paolo: hai cercato mezzi completamente illogici, del tutto inetti e hai esteso il lavoro in tutto il mondo» [28].

Santità sacerdotale e vita di penitenza

La sequela e l’identificazione con Gesù Cristo richiedono, insieme all’orazione, il prendere su di sé la Croce ogni giorno (cfr Lc 9, 23; 14, 27; Mt 10, 38; Mc 8, 34; Gal 2, 9; ecc.), la partecipazione volontaria al mistero della Croce redentrice. In concreto, «il sacerdote», con parole di Pio XII, «deve cercare di riprodurre nella sua anima tutto quello che accade sull’altare. Così come Gesù Cristo immola sé stesso, il suo ministro deve immolarsi con lui; così come Gesù espia i peccati degli uomini, anche lui, seguendo l’arduo cammino dell’ascetica cristiana, deve lavorare alla propria e all’altrui purificazione» [29]. Il sacerdote deve essere uomo penitente e perseverantemente penitente, non soltanto mortificato; deve espiare, in unione con la Croce di Cristo, i propri peccati e quelli di tutti; deve poter dire con san Paolo: «sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24).

Il fondatore dell’Opus Dei non solo accettò con gioia la Croce, nella malattia, nella persecuzione, in ogni genere di difficoltà esterne e nella purificazioni interiori che Dio gli fece attraversare, ma inoltre la cercò, con la profonda convinzione che incontrare la Croce è incontrare Cristo. Così si esprimeva, con parole di singolare elevatezza teologica e mistica, in una meditazione, il 28 aprile 1963, rammentando momenti particolarmente duri di circa trent’anni prima: «Quando il Signore mi dava quei colpi, interno all’anno 31, io non capivo. E improvvisamente, in mezzo a quell’amarezza così grande, queste parole: Tu sei mio figlio (Sal 2, 7), tu sei Cristo. E io sapevo soltanto ripetere: Abbà, Pater!; Abbà, Pater!, Abbà!, Abbà!, Abbà! E adesso lo vedo con una luce nuova, come una nuova scoperta: come si vede, col passare degli anni, la mano del Signore, della Sapienza divina, dell’Onnipotente. Tu, Signore, hai fatto sì che io capissi che avere la Croce è trovare la felicità, la gioia. E la ragione — lo vedo più chiaramente che mai — è questa: avere la Croce è identificarsi con Cristo, è essere Cristo e, per questo, essere figlio di Dio» [30].

La vita penitente di mons. Escrivá consisté, soprattutto, nel continuo rinnegamento di sé nei mille particolari della vita quotidiana, ma anche in una forte penitenza corporale. Fra tante altre manifestazioni della sua unione con la Croce di Cristo, potrei soffermarmi, per esempio, sugli anni in cui, a causa della guerra civile spagnola, le scomodità e le privazioni di ogni genere erano tali che qualunque persona, anche molto mortificata, avrebbe considerato sufficiente sopportarle offrendole a Dio. Mons. Escrivá, invece, rispondendo alle richieste amorose del Signore, vide che tutto ciò non era sufficiente per corrispondere alla sua chiamata e che doveva fare di più. Lo potei comprovare personalmente, soprattutto nei mesi che trascorsi con lui nella Legazione dell’Honduras a Madrid: tutti noi che eravamo colà rifugiati pativamo davvero la fame, ma egli sapeva prescindere, con naturalezza, anche dal poco che c’era, praticando un digiuno multo rigoroso, come fece in molte altre epoche della sua vita. Per esempio, dopo la sua morte ho potuto leggere una sua annotazione del 22 giugno 1933, indirizzata al suo confessore, in cui esprimeva i propositi di penitenza formulati durante un corso di ritiro spirituale di poco prima. Ecco le sue testuali parole: «Il Signore mi chiede indubbiamente, Padre, di intensificare la penitenza. Quando sono fedele su questo punto, sembra che l’Opera prenda nuovo impulso». E specifica, di seguito, i propositi concreti: «Discipline: lunedì, mercoledì e venerdì: più una straordinaria nella vigilia delle feste del Signore o della SS.ma Vergine: un’altra settimanale straordinaria, come supplica o ringraziamento.

«Cilici: due al giorno, fino all’ora di pranzo: fino a cena, uno: martedì, alla cintola, e venerdì alle spalle, come finora.

»Dormire: sul pavimento, se è di legno, o senza materasso a letto, martedì, giovedì, sabato.

»Digiuno: i sabati, prendendo solamente quello che mi danno alla prima colazione» [31].

Non si tratta necessariamente di seguire un determinato cammino di penitenza, ma è necessario affermare che l’identificazione con Cristo e, pertanto, l’efficacia nel ministero sacerdotale, richiedono una forte esperienza della Croce nella propria carne e nel proprio spirito. E questo ancor più ai giorni nostri, ancor più per l’evangelizzazione di un mondo in gran parte sommerso nell’edonismo. Solo alla luce della fede tutto ciò ha senso: alla luce della fede nel mistero della Redenzione, nel mistero del Figlio di Dio, fatto obbediente fino alla morte, e morte di Croce (cfr Fil 2, 8).

Santità sacerdotale e carità pastorale

Sarebbe superfluo soffermarmi a considerare che il ministero esige che il sacerdote sia anche uomo d’azione, poiché ciò salta agli occhi con chiarezza meridiana. Dal punto di vista della fede possiamo considerare altrettanto evidente che il motore dell’attività pastorale del sacerdote si radica esclusivamente nella carità di Cristo: Caritas Christi urget nos (2 Cor 5, 14), afferma san Paolo. Un amore soprannaturale che scaturisce come frutto della Croce, essendo — secondo le parole di san Tommaso d’Aquino — «una certa partecipazione della Carità Infinita, che è lo Spirito Santo» [32]. Infatti, soltanto la carità, che sa mostrarsi paziente e benigna, che tutto copre, tutto crede e tutto sopporta (cfr 1 Cor 13, 4-7), può rendere ragione non già del compimento più o meno esatto di determinati doveri pastorali, ma di una dedizione totale al ministero che si traduce in un’incessante attività per il bene dalle anime, al di là di ciò che la stretta giustizia potrebbe esigere dal sacerdote verso i fedeli affidati alla sua cura pastorale.

Anche su questo aspetto non posso fare a meno di rievocare la figura amabilissima del nostro fondatore. Per la sua instancabile dedizione al ministero non furono mai scusa la fatica, la malattia o l’avversità dalle circostanze. Questa carità pastorale, che porta a un darsi senza condizioni al servizio dalle anime (cfr 2 Cor 12, 15), permea necessariamente, con speciali sfumature, la fraternità sacerdotale, che è elemento integrante della comunione, intesa come unità affettiva ed effettiva che deriva dalla comune partecipazione ai medesimi beni. Una fraternità sacerdotale che non confonde l’unità con l’uniformità, che rispetta la legittima libertà di tutti, anche nel vasto campo della spiritualità sacerdotale.

Potrei parlare a lungo dell’amore e del servizio, davvero eroici, del fondatore dell’Opus Dei verso i suoi fratelli sacerdoti. Ricordo, per esempio, che fra i numerosissimi corsi di ritiro che, su richiesta di molti vescovi, egli predicò a sacerdoti in tutta la Spagna fino a quando si trasferì a Roma, ne diresse uno anche alla comunità degli Agostiniani di El Escorial, nell’ottobre 1944. Il giorno prima si ammalò: la febbre gli salì a 39 gradi, ma egli non si fermò davanti all’ostacolo. Lo accompagnai io. Nonostante la temperatura elevata, che il giorno dopo arrivò ai 40 gradi, predicò per intero gli esercizi, riuscendo a far sì che gli ascoltatori non notassero la malattia.

Una vita radicata e centrata nellEucaristia

Rivolgiamo ora le nostre riflessioni a un altro aspetto importante, all’aspetto più radicale e centrale della vita del sacerdote, che è garanzia della sua efficacia evangelizzatrice.

Preghiera, penitenza, azione guidata da un’instancabile carità pastorale. Sono come le coordinate nelle quali abbiamo contemplato l’identificazione del sacerdote con Gesù Cristo, in ciò che tale identificazione implica di compito personale in corrispondenza al dono di Dio. Ma cadrei in una gravissima omissione se tralasciassi di considerare che la vita cristiana e, specialmente, questi aspetti della vita sacerdotale, devono essere radicati, centrati e, pertanto, unificati nel Sacrificio di Cristo, nella santa Messa, nell’Eucaristia.

La santa Messa, infatti, è «il centro e la radice di tutta la vita del presbitero» [33], come ha ricordato il Concilio Vaticano II, con parole che erano state molte volta ripetute da mons. Escrivá [34].

Non vi è dubbio che questa centralità del Sacrifico eucaristico è una realtà nella vita di ogni cristiano, ma nel sacerdote questo fatto acquista sfumature particolari. Come afferma Giovanni Paolo II, «mediante la nostra ordinazione — la cui celebrazione è vincolata alla santa Messa sin dalla prima testimonianza liturgica — noi siamo uniti in modo singolare ed eccezionale all’Eucaristia. Siamo, in certo modo, “da essa” e “per essa”. Siamo anche, e in modo particolare, responsabili “di essa” [35].

Sento il bisogno di tornare di nuovo all’esimia figura sacerdotale del fondatore di questa Università: per me è qualcosa di inevitabile, e so che, come lo è per me, anche per voi è motivo di gioia. Per quarant’anni, giorno dopo giorno, sono stato testimone del suo impegno per trasformare ogni giornata in un olocausto, in un prolungamento del Sacrificio dell’altare. La santa Messa era il centro della sua eroica dedizione al lavoro e la radice che vivificava la sua lotta interiore, la sua vita di preghiera e di penitenza. Grazie a questa unione con il Sacrificio di Cristo, la sua attività pastorale acquisì un valore santificatore impressionante: davvero, in ciascuna dalle sue giornate, tutto era operatio Dei, Opus Dei, un autentico cammino di preghiera, di intimità con Dio, di identificazione con Cristo nella sua dedizione totale per la salvezza del mondo.

Esternamente non ci fu mai nulla di straordinario o di singolare nella Messa di mons. Escrivá, anche se era impossibile non cogliere la sua profonda devozione. Fin dall’inizio del suo ministero sacerdotale si sforzò di non dar spazio né alla routine né alla precipitazione nel celebrare il santo Sacrificio, nonostante l’abituale scarsità di tempo per le sue molteplici attività pastorali. Al contrario, tendeva spontaneamente a celebrare la Messa con calma, approfondendo ogni testo e il senso di ogni gesto liturgico, fino al punto che, per molti anni, dovette positivamente sforzarsi — in accordo con quanto gli veniva confermato nella direzione spirituale — di andare più in fretta, per non richiamare l’attenzione e sapendosi al servizio del fedeli che disponevano, per la Messa, di molto meno tempo. In questo contesto, si capisce quello che scrisse nel 1932, come un sospiro sfuggito dalla sua anima: «Durante la santa Messa, gli orologi dovrebbero fermarsi» [36].

L’intensità con cui egli si univa personalmente al Sacrificio del Signore nell’Eucaristia culminò in qualcosa che non esito a considerare un peculiare dono, e che il Padre stesso raccontò, con grande semplicità, il 24 ottobre 1966: «Sono arrivato a sessantacinque anni per fare una scoperta meravigliosa. Mi affascina celebrare la Santa Messa, ma ieri mi è costata una fatica tremenda. Un duro sforzo! Ho visto che la Messa è veramente Opus Dei, lavoro, come lavoro è stato per Cristo la sua prima Messa: la Croce. Ho visto che il compito del sacerdote, la celebrazione della Santa Messa, è un lavoro per confezionare l’Eucaristia; vi si sperimenta dolore, e gioia, e stanchezza. Ho sentito nella mia carne la spossatezza di un lavoro divino». Non ho dubbi che tale scoperta era la risposta a una richiesta che costantemente rivolgeva a noi che gli stavamo accanto: «Chiedete al Signore che io sappia essere più devoto nella Santa Messa, che ogni giorno cresca la mia fame di rinnovare il Santo Sacrificio».

La dimensione mariana della vita del sacerdote

Ai piedi della Croce di Cristo, sul Calvario, c’era Maria, sua Madre, «e lì accanto a lei il discepolo che egli amava» (Gv 19, 26). La tradizione della Chiesa ha sempre visto rappresentati, nella figura dell’apostolo san Giovanni, tutti i cristiani, tutti gli uomini e tutte le donne che hanno ricevuto nel sacramento del Battesimo, come carattere indelebile, una partecipazione al sacerdozio di Cristo. Le parole del Signore agonizzante sulla Croce ci dischiudono una dimensione essenziale della vita cristiana: «Ecco la tua Madre» (Gv 19, 27). È, con parole di Giovanni Paolo II, «la dimensione mariana della vita dei discepoli di Cristo: non solo di Giovanni che in quell’ora stava sotto la Croce insieme alla Madre del suo Maestro, ma di ogni discepolo di Cristo, di ogni cristiano» [37].

L’identificazione con Cristo ha questa dimensione fondamentale. Essere alter Christus, ipse Christus comporta necessariamente essere figli di santa Maria. E, così come l’identificazione con il Signore è, insieme, dono e compito, anche la filiazione alla santissima Vergine è un dono: «un dono che Cristo stesso fa personalmente a ogni uomo» [38]; ed è anche un compito, che l’evangelista riassume in poche parole: «E da quel momento il discepolo la presa nella sua casa» (Gv 19, 27). «Affidandosi filialmente a Maria», commenta il Romano Pontefice, «il cristiano, come l’apostolo Giovanni accoglie “fra le sue cose proprie” la Madre di Cristo e la introduce in tutto lo spazio della propria vita interiore» [39].

Se questo vale per ogni cristiano, vale per un nuovo titolo per il sacerdote, che è stato chiamato a partecipare in modo nuovo al sacerdozio di Cristo e a vivere incentrato in modo particolare nel sacrificio della Croce. Come discepolo del Signore deve affidarsi filialmente a Maria, trattarla come Madre e imparare da Lei che cosa significa avere «anima sacerdotale»: l’anelito di corredimere con Cristo, la sete di anime, lo spirito di riparazione; insomma, il desiderio di acquisire gli stessi sentimenti di Gesù Cristo (cfr Fil 2, 5). Come ministro del Signore, non può dimenticare, quando rinnova il Sacrificio del Calvario e dispensa i tesori della grazia di Cristo, che, ai piedi della Croce, la Vergine Maria «si consacrò pienamente al mistero della redenzione umana» [40], e che il Corpo e il Sangue di Cristo che si fanno presenti sull’altare sono gli stessi che Egli ricevette dalla sua santissima Madre.

L’ultimo Concilio ha esortato i presbiteri a «venerare e amare con devozione e culto filiale la Madre del Sommo ed Eterno Sacerdote, Regina degli apostoli, Ausilio dei presbiteri nel loro ministero» [41]. Come sperimentò il fondatore dell’Opus Dei la realtà meravigliosa dell’ausilio materno della santissima Vergine nel suo ministero sacerdotale! Lo ricordava con queste parole nella festa di san Giuseppe 1975, pochi mesi prima di morire, volgendo lo sguardo al suo lavoro pastorale negli anni Trenta: «Quante ore camminai in quella mia Madrid, ogni settimana, da una parte all’altra, avvolto nel mio mantello! [...] Quei Rosari completi, recitati per strada — come potevo, ma senza abbandonarli —, quotidianamente [...] Non avrei mai pensato che portare avanti l’Opera avrebbe comportato tanta pena, tanto dolore fisico e morale: soprattutto morale [...] Iter para tutum! Madre mia! Madre! Non avevo altro che Te! Grazie, Madre! [...] Madre, Cor Mariae dulcissimum! Oh, quanto ho ricorso a Te!

»E altre volte, parlando e predicando, rendendomi conto che non valevo nulla, che non ero nulla, ma con una certezza... Madre!, Madre mia! Non abbandonarmi!, Madre!, Madre mia!».

Erano esclamazioni profondamente sincere, di figlio, che scaturivano dalla sua anima sacerdotale, proprio nell’ultima festa di san Giuseppe che egli celebrò su questa terra, perché nel suo cuore — e anche nel suo nome, Josemaría — Maria e Giuseppe si trovavano indissolubilmente uniti, ed erano la via per trattare intimamente Gesù, e per Lui, con Lui e in Lui, il Padre e lo Spirito Santo.

Raggiungere una profonda devozione e un tenero amore per la santissima Vergine dev’essere uno degli obiettivi primari della formazione sacerdotale. Esistono profonde ragioni teologiche per affermare che tale devozione non può essere considerata come un’aggiunta devota all’insieme della formazione, ma come qualcosa che affonda le radici nel «dono» ricevuto dal sacerdote nell’ordinazione, e che è destinato a crescere e a svilupparsi nella sua vita. Il Signore volle associare sua Madre in modo specialissimo all’opera della Redenzione; parimenti il sacerdote che ha ricevuto il potere di agire in persona Christi Capitis «ha bisogno» dell’aiuto materno della Vergine nel suo ministero. Senza Maria non s| può raggiungere un’esistenza veramente sacerdotale.

Conclusione: formazione alla santità

Le attuali circostanze sociali, e la nuova impresa di evangelizzazione |n cui tutti siamo impegnati, impongono di impostare a fondo un personale miglioramento qualitativo del nostro sacerdozio e, di conseguenza, della formazione sacerdotale. Nella recente Lettera ai sacerdoti in occasione del Giovedì Santo, Giovanni Paolo II ha scritto: «Oggi, forse, in vista del terzo Millennio dalla venuta di Cristo, sperimentiamo in modo più profondo la grandezza e le difficoltà della messe: “La messe è molta”; ma avvertiamo anche la mancanza di operai: “Gli operai sono pochi” (Mt 9,37). “Pochi”: e ciò riguarda non soltanto la quantità, ma anche la qualità! Di qui allora la necessità della formazione!» [42].

È indispensabile far sì che i sacerdoti acquisiscano negli anni della loro preparazione, e nella successiva formazione permanente, una chiara coscienza dell’identità che sussiste fra la realizzazione della loro vocazione personale — essere sacerdote nella Chiesa —, e l’esercizio del ministero in persona Christi Capitis. Il loro servizio alla Chiesa consiste, essenzialmente (altri modi di servire, per un sacerdote, possono essere legittimi, ma secondari), nel personificare attivamente e umilmente in mezzo ai fratelli Cristo Sacerdote che dà vita alla Chiesa e la purifica, Cristo Buon Pastore che la conduce in unità al Padre, e Cristo Maestro che la conforta e la stimola con la sua Parola e con l’esempio della sua Vita.

La formazione del sacerdote è qualcosa che dura per tutta la vita, perché, nei suoi molteplici aspetti, tende — deve tendere — a formare in lui Cristo (cfr Gal 4, 19), realizzando questa identificazione come compito, in risposta a ciò che esso ha come dono sacramentale ricevuto. Un compito che implica, prima ancora di un’incessante attività pastorale, e come condizione della sua efficacia, un’intensa vita di preghiera e di penitenza, una sincera direzione spirituale della propria anima, un ricorso al sacramento della Penitenza vissuto con periodicità e con estrema delicatezza, e tutta l’esistenza radicata, centrata e unificata nel Sacrificio eucaristico.

Una nuova evangelizzazione, sì, ma con la chiara coscienza che — con parole di mons. Escrivá — «nella vita spirituale non c’è nulla da inventare; occorre soltanto lottare per identificarsi con Cristo, per essere altri Cristi — ipse Christus —, per innamorarsi e vivere di Cristo, che è lo stesso ieri, oggi, e sempre: Iesus Christus heri et hodie, ipse et in saecula (Eb 13, 8)» [43].

Di Cristo, Sommo ed Eterno Sacerdote, la Chiesa canta: Ave verum corpus natum de Maria Virgine. Chiedo al Signore che nella formazione sacerdotale sia sempre presente il cammino mariano per mezzo del quale il Figlio di Dio è venuto fra gli uomini.



(*) Questo testo è ripreso dalla relazione tenuta da Mons. Álvaro del Portillo all’Università di Navarra, nel corso del Simposio di Teologia del 1990 sul tema “La formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali”. Il testo integrale della relazione è stato pubblicato in italiano nel libro Consacrazione & Missione del sacerdote (Ares, Milano 1990, 2ª edizione ampliata, pp. 101-126).

Nella versione qui presentata sono stati solo tolti alcuni brevi paragrafi iniziali e qualche altro cenno, nei quali Mons. del Portillo illustrava la consonanza tra l’argomento scelto e la recente dichiarazione delle virtù eroiche di Mons. Josemaría Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, il cui decreto era stato pubblicato pochi giorni prima, il 9 aprile 1990. Tali piccole modifiche sono state apportate perché risaltasse meglio l’attualità del testo, che resta sempre consultabile nella sua stesura originale.

Mons. Álvaro del Portillo, Vescovo, Prelato dell’Opus Dei, visse per quasi quarant’anni al fianco di San Josemaría e ne fu il collaboratore più stretto. Di lui, morto in fama di santità il 23 marzo 1994, è in corso la Causa di Beatificazione e Canonizzazione.

[1] Cfr, per esempio, Giovanni Paolo II, Discorsi: Atto europeistico di Santiago de Compostela, 9 novembre 1982 (Insegnamenti V, 3, 1982, 1257-1263); al Consiglio dalle Conferenze episcopali europee, 2 gennaio 1986 (Insegnamenti IX, 1, 1986, 12-17); nella Cattedrale di Augsburg, 3-V-1987 (Insegnamenti X, 2, 1987, 1565-1574); a Speyer, 4 maggio 1987 (Insegnamenti, ibidem 1593-1602); all’Assemblea del Pontificio Consiglio per la cultura, 12 gennaio 1990 (L’Osservatore Romano, 13 gennaio 1990); ai membri del Corpo diplomatico, 13 gennaio 1990 (L’Osservatore Romano, 14 gennaio 1990).

[2] Cfr Concilio Vaticano II, decr. Presbyterorum ordinis, n. 1; decr. Optatam totius, proemio.

[3] Cfr Giovanni Paolo II, es. ap. Christifideles laici, n. 34.

[4] Si ricordino, per esempio, le descrizioni contenute nelle encicliche Redemptor hominis, nn. 48-53; Dives in misericordia, nn. 63-77; Dominum et vivificantem, nn. 56-57.

[5] Sulle crisi della coscienza e del senso di Dio, inevitabilmente unite all’oscuramento del senso del peccato, che alcuni elementi della cultura attuale riflettono, cfr Giovanni Paolo II, es. ap. Reconciliatio et poenitentia, n. 18.

[6] 6. Giovanni Paolo II, es. ap. Christifideles laici, n. 35.

[7]     Josemaría Escrivá, Cammino, Edizioni Ares, Milano 198824, n. 584.

[8]     Colloqui con Monsignor Escrivá, Edizioni Ares, Milano 19875, n. 113.

[9]     Giovanni Paolo II, enc. Redemptor hominis, n. 18.

[10]     S. AGOSTINO, Confessioni, 1, 1, 1: PL 32, 661. Cfr anche CONCILIO VATICANO Il, cost. past. Gaudium et spes, n. 41.

[11]     Si ricordi, tra gli altri insegnamenti, il passo dell’enc. Dives in misericordia, nn. 13-17, che offre profonde riflessioni sull’amore paterno di Dio rivelato in Cristo.

[12]     Cfr, per esempio, le pp. 74 ss., cfr, inoltre, Álvaro del Portillo, Laici e fedeli nella Chiesa, Edizioni Ares, Milano 1969, pp. 17-25.

[13]     Giovanni Paolo II, es. ap. Christifideles laici, n.34. Sul sacerdozio comune dei fedeli, cfr per esempio, I Pt 2, 9; Ap 1, 6; 5 9-10, 20 6, Costituzioni apostoliche III, 16, 3: SC 329, p. 157; sant’Ambrogio, De mysteriis 6, 29-30: SC 25bis, p. 173; san Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, III, q. 63 a. 3, Concilio Vaticano II, cost. dogm. Lumen gentium, nn. 10-11, decr. Presbyterorum ordinis, n. 2.

[14]     Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, Edizioni Ares, Milano 19885, n. 96.

[15]     Giovanni Paolo II, Discorso, 30 maggio 1980: Insegnamenti III, I (1980), 1532. Cfr Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 1990, 12 aprile 1990, n. 3.

[16]     IDEM, enc. Redemptor hominis, n. 20.

[17]     Cfr. Josemaría Escrivá, Omelia Sacerdote per l’eternità, 13 giugno 1973, in La Chiesa nostra Madre, Edizioni Ares, Milano 1976, p. 9.

[18]     IDEM, Lettera, 24 marzo 1930, n. 2.

[19]     Cfr, per esempio, Eb 7, 9; san Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, III q 22, a. 1; Concilio di Trento, decr. De sacrificio Missae: Dz. 1739-1740; Concilio Vaticano II, cost. Sacrosanctum Concilium, nn. 5-8.

[20]     Josemaría Escrivá, È Gesù che passa, cit., n. 104.

[21]     Idem, Omelia Sacerdote per l’eternità, cit., p. 10.

[22]     Decr. Presbyterorum ordinis, n. 12. Tra le innumerevoli testimonianze patristiche sull’esigenza di santità personale che il sacerdozio comporta, cfr, per esempio, san Gregorio Nazianzeno, Oratio 2, n. 91: PG 35, 493; san Giovanni Crisostomo, De sacerdotio, lib. 6, n. S: PG 48, 682; san Pietro Crisologo, Sermo 108, 500-501; sant’Isidoro Pelusiota, Epistola 284: PG 78, 713; san Gregorio Magno, Dialoghi, lib. 4, c. 59: PL 77, 428.

[23]     Josemaría Escrivá, Appunti intimi, n. 1699.

[24]     San Pio X, es. Haerent animo, 4 marzo 1908, AAS 41 (1908) p. 564.

[25]     Giovanni Paolo II, Lettera Novo incipiente, 8 aprile 1979, n. 10.

[26]     Josemaría Escrivá, Appunti intimi, n. 1130.

[27]     Ibidem, n. 273.

[28]     Josemaría Escrivá, Meditazione, 27 marzo 1975.

[29]     Pio XII, es. ap. Menti nostrae, 23 settembre 1950, AAS 42 (1950), pp. 667-668.

[30]     Josemaría Escrivá, Meditazione, 28 aprile 1963.

[31]     Idem, Appunti intimi, n. 1724.

[32]     san Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II q. 24, a. 7 c.

[33]     Decr. Presbyterorum ordinis, n. 14.

[34]     Cfr, per esempio, Josemaría Escrivá, Lettera 2 febbraio 1945, n. 11; È Gesù che passa, cit., n. 87; Forgia, Edizioni Ares, Milano 19897, n. 69.

[35]     Giovanni Paolo II, Lettera Dominicae Cenae, 24 febbraio 1980, n. 2.

[36]     Josemaría Escrivá, Appunti intimi, n. 728; cfr Forgia, cit., n. 436.

[37]     Giovanni Paolo II, enc. Redemptoris Mater, 25 marzo 1987, n. 45.

[38]     Ibidem.

[39]     Ibidem, n. 45.

[40]     Decr. Presbyterorum ordinis, n. 18.

[41]     Cfr ibidem.

[42]     Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 1990, cit., n. 4.

[43]     Josemaría Escrivá, Lettera 9-I-1959, n. 6.