Convegno Teologico
Aula Magna
della Pontificia Università
Lateranense,
giovedì 11 e venerdì 12 marzo 2010
01. Nella mia
riflessione sono accostate due realtà: il sacerdozio ordinato e l’ermeneutica
della continuità.
Sicuramente riguardo alla seconda
viene subito in mente il discorso fatto alla Curia Romana da Benedetto XVI in
occasione del Natale 2005 [cfr. Insegnamenti di Benedetto XVI, I (2005), LEV,
pag. 1018-1032]. Una grande parte del medesimo infatti è dedicato al tema
dell’ermeneutica della continuità [cfr. pag. 1025-1031].
Penso necessario in ordine alla
costruzione della domanda a cui cercherò di rispondere colla mia relazione,
definire già in limine l’ermeneutica
della continuità.
Distinguo “continuità” che è un
fatto che accade o non accade, da “ermeneutica “ che connota l’attività dello
spirito che verifica il fatto della continuità, e lo spiega.
La continuità è il permanere della
stessa identità all’interno del suo cambiamento. La continuità quindi è un processo intrinseco ad ogni organismo
vivente, pena la morte. Ciò accade anche in quell’organismo vivente che è la
Chiesa: essa permane nel Principio che l’ha costituita perché ed in quanto ne
vive in ogni tempo e luogo.
I fattori della continuità sono due:
uno interno alla esperienza della fede; uno esterno alla medesima. Il primo è
descritto da Benedetto XVI nel modo seguente: «la nuova parola può maturare
soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e …
dall’altra parte la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede»
[pag. 1026]. Il secondo fattore è costituito dalla necessità che la predicazione
del Vangelo si confronti col modo con
cui l’uomo interpreta la realtà e si pone in essa; si confronti cioè colla
cultura.
Distinto è il fatto della continuità
dallo sforzo ermeneutico per verificare se esso sia o no accaduto; e in caso
affermativo cogliere la logica interna al cambiamento. I due atti ermeneutici
sono distinti solo logicamente, non in realtà.
02. Fatta questa
prima premessa risulta chiaro quale è il tema su cui mi è stato chiesto di
riflettere.
Si tratta di riflettere su una
realtà che è propria dell’economia salvifica cristiana: il sacerdozio ordinato. Dobbiamo considerarlo nella sua vicenda
storica a partire dal Concilio Vaticano II (compreso) fino ai giorni nostri, e mettere
in atto un’ermeneutica della
continuità.
Quest’opera ermeneutica può essere
fatta in due modi: o analizzando nella loro concatenazione logica i testi
magisteriali e le principali riflessioni teologiche sul sacerdozio ordinato,
oppure studiando il vissuto sacerdotale di questi anni post-conciliari.
La mia riflessione si colloca dentro
la prima prospettiva, ma non come puntuale analisi di testi magisteriali, ed
opere teologiche. Presupposta questa, la mia domanda invece è la seguente: quale è l’identità permanente del ministero
ordinato, e come essa si confronta colla cultura odierna? Due parole ancora
di spiegazione.
Il termine «identità» non si
riferisce ad un concetto, ad un’idea; «ma al Logos immanente (al ministero
ordinato), all’intrinseca verità vivente, all’immagine originaria cui fanno
riferimento tutte le altre
manifestazioni [dell’essere e della vita sacerdotale] innervandole
all’interno» [L. Scheffczyk, il mondo delle fede cattolica, V&P,
Milano 2007, pag. 36].
1. L’identità permanente
L’identità del ministero può essere
colta solo dallo “sguardo semplice della fede”, non attraverso l’analisi dei
singoli fattori che la costituiscono. Per distinguere lo stile romanico dallo
stile gotico è necessario guardare nel suo insieme il monumento, e cogliere
quella “forma” che metta insieme le singole parti nel modo proprio del gotico o
del romanico.
Vorrei molto semplicemente dirvi che
cosa vedo nel ministero quando lo guardo con lo “sguardo semplice della fede”.
Vedo il segno sacramentale della
presenza di Cristo nella sua Chiesa: «il Vescovo, il presbitero, il
diacono, sono simbolo di realtà vere corrispondenti a questi nomi» [Origene,
Commento al Vangelo di Matteo, CN ed., Roma 1999, pag. 168].
Che cosa ci aiuta ad avere una
intuizione intellettiva di questa “intrinseca verità vivente” del ministero
sacerdotale? Una serie di elementi che derivano dalla denkform cattolica.
La
dimensione sacramentale dell’economia salvifica è il primo elemento. L’atto
salvifico di Cristo non è una tangente che tocca la circonferenza della storia
umana solo in un punto per allontanarsene subito all’infinito. Esso entra
dentro la storia e vi rimane permanentemente presente. Non può essere solo
ricordato: può essere realmente incontrato e fatto proprio.
La presenza reale, perenne, duratura
dell’Evento salvifico è assicurata dal sacramento. Il sacramento è precisamente
la presenza di Cristo nella Chiesa, in forma di segno o di simbolo, nella
modalità propria a ciascun segno o simbolo medesimo.
Il
realismo della salvezza è il secondo elemento, strettamente connesso con
quello precedente. La salvezza incontra realmente l’uomo nel sacramento e
l’uomo la salvezza. Essa non è solo sperata, ma anche realizzata sia pure in
forma incoativa. È operato un vero e proprio cambiamento nella condizione
ontologica della persona: «carissimi, noi fin da ora siamo figli di Dio, ma ciò
che saremo non è stato ancora rivelato» [1Gv 3,2]. L’atto redentivo dell’uomo è
un fatto che accade realmente e perennemente, ed introduce l’uomo nella patria
della sua identità.
L’intrinseca verità del ministro
sacerdotale è costituita all’interno della dimensione sacramentale della
salvezza e del carattere realistico della redenzione.
Questa costituzione è percepibile da
un duplice punto di vista: dal legame fra ministero sacerdotale e sacramenti;
dal rapporto fra la persona di Cristo vivente nella Chiesa e la persona del sacerdote.
I due punti di vista devono essere
tenuti assieme, diversamente si avrebbe una visione scorretta. Il legame
infatti fra sacerdote e sacramenti non va pensato come un caso particolare di
una legge ricorrente, e che troviamo presso ogni religione. Il sacrum è sempre affidato ad alcune persone
consacrate, deputate a custodirlo ed amministrarlo.
Il luogo teologico dove il rapporto
fra la persona di Cristo, l’economia sacramentale, e la persona del sacerdote è
visibile nella sua pura ed intrinseca verità, è la celebrazione
dell’Eucarestia.
Non casualmente Cristo ha istituito uno actu e il sacramento dell’Eucarestia e il ministero della Nuova ed eterna Alleanza.
Nella santa Eucarestia non è presente
solo la grazia e l’opera della salvezza: è realmente presente Cristo stesso che
si dona sulla Croce per la redenzione dell’uomo.
Ma questa
presenza non può essere realizzata senza un riferimento alla persona di Cristo:
è lui stesso che la deve realizzare. Ovviamente non con una modalità
percepibile dai sensi, ma nella modalità sacramentale propria dell’economia
salvifica: sub signo. È il ministero
della nuova Alleanza che rende presente sacramentalmente il Cristo che compie l’opus redemptionis nostrae.
Veramente la celebrazione
dell’Eucarestia è la cifra dell’esistenza
del sacerdote; è il criterio ermeneutico adeguato del suo esserci; è il
Logos immanente della sua esistenza che ne spiega tutte le manifestazioni.
Potremmo a questo punto dimostrare,
in base a molti testi, come il Concilio abbia ripreso chiaramente l’idea della
“rappresentanza di Cristo” per definire il ministero [cfr. Sacrosanctum
Concilum 33; Lumen Gentium 10 e 28; Presbyterorum ordinis 2 e
13]. Così come l’altro grande documento Magisteriale, l’Es. Apost. Pastores
dabo vobis [cfr. 11,3 (nexus ontologici peculiaris qui iungit presbyterum
Christo]; 12,2 (cui, tamquam capiti et populi pastori configuratur peculiari quodam
modo); 15,4 (sunt igitur presbyteri in Ecclesia et pro Ecclesia velut repraesentatio
sacramentalis Christi capitis et pastoris … exsistunt et operantur … et nomine
et persona Christi capitis et pastoris); 16,6 (locum coram Ecclesia occpupat –
per suum ministerium – quod non nisi signum et continuatio sacramentalis et
visibilis est ipsuis Christi)].
La relazione obiettiva del sacerdote
a Cristo capo e pastore è la relazione che costituisce il sacerdozio. Dunque è
un’identità di relazione; una identità che sussiste in una relazione.
Dal
punto di vista soggettivo che cosa significa questa particolare forma di
identità? Significa l’identificazione del proprio io colla missione, la
coincidenza della coscienza del proprio io colla missione. Vorrei fare alcune
essenziali riflessioni su questo punto.
La relazione a Cristo è sempre
pensata nella Tradizione in termini di missione
[«come il Padre ha mandato me, così io mando voi»], in continuità colla
relazione di Cristo al Padre. Il contenuto del rapporto dell’apostolo con
Cristo è l’essere mandato da Cristo medesimo come segno efficace della sua
presenza operante. La sua identità è la
sua missione.
Il sacerdote viene espropriato del
chiuso “essere per se stesso” e consegnato ad “essere per e mediante il
Signore” [cfr. Rom 14,7-8], che poi significa concretamente “cercare di
compiacere il prossimo nel bene, per edificarlo” [cfr. Rom 15,2-3].
A Simone viene cambiato il nome
«poiché egli è ciò che dice il suo nome» [1Sam 25,25]. Poiché l’identità del
sacerdote sussiste nella relazione di vicarietà [vius gerens Christi] o rappresentanza;
egli diventa se stesso quanto più dimentica la sua privata soggettività e si
identifica sempre più colla sua missione.
Ho concluso questo primo punto, in
cui ho cercato di riflettere sull’identità del sacerdote, e sul versante
oggettivo e sul versante soggettivo.
Sul primo, l’identità diventa
comprensibile alla luce dell’analogia
fidei, che tiene assieme la dimensione
sacramentale dell’economia salvifica e il realismo della salvezza. Sul versante
soggettivo, l’identità è definibile come coincidenza del proprio io colla
missione.
2. Nella
condizione attuale
«Certamente c’è una fisionomia
essenziale del sacerdote che non muta… Il presbitero del terzo millennio sarà
in questo senso, il continuatore dei presbiteri che, nei precedenti millenni,
hanno animato la vita della Chiesa … Altrettanto certamente la vita e il
ministero del sacerdote devono anche adattarsi ad ogni epoca … dobbiamo perciò
cercare di aprirci, per quanto possibile, alla superiore illuminazione dello
Spirito Santo, per scoprire gli orientamenti della società contemporanea,
riconoscere i bisogni spirituali più profondi» [Es. ap. Pastores dabo vobis
5,5].
L’esortazione apostolica
post-sinodale prospetta precisamente quell’ermeneutica della continuità che
guida questa riflessione. Il testo post-sinodale infatti parla di una
“fisionomia essenziale del sacerdote che non muta” ed ugualmente della
necessità che essa prenda corpo in relazione agli “orientamenti della società
contemporanea ed ai suoi bisogni spirituali più profondi”.
Cercherò ora di mettere in atto
questa “ermeneutica della continuità”, dopo aver descritto nel paragrafo
precedente quella “fisionomia essenziale del sacerdote che non muta”. Ed inizio
dalla descrizione di quello che mi sembra il bisogno spirituale più profondo.
L’itinerario
mentis in Deum partiva sempre da un presupposto, poggiava i piedi su una
terra ferma: l’intelligibilità del reale di cui ho esperienza. E pertanto la
convinzione che il desiderio insonne della ragione di scoprire
l’intelligibilità del reale, non era da considerare un desiderio vacuo che non
poteva trovare risposta.
L’incontro
fra l’intelligibilità del reale e la ragione che cerca è la verità. Come
scrisse C. Fabro in due aforismi: «la verità è una qualità fondamentale del
reale e una qualità fondamentale dell’essere», e «la verità è un atteggiamento
radicale esistenziale: di stare in attesa della rivelazione dell’essere» [Libro dell’esistenza e della libertà
vagabonda, Piemme, Casale M. 2000, pag. 116].
Ne deriva che la ricerca di Dio e l’esistenza
della verità simul stant et simul cadunt. Se si nega che esista la verità, la ricerca di Dio non può neppure
cominciare.
Secondo
studiosi competenti, chi ha scalzato questa base è stato Nietzsche, e la piena
accettazione, fino ai suoi esiti finali, di quella demolizione è diventata la
temperie spirituale del tempo presente. In che senso? Almeno in due
significati.
Il primo. È accettato, come nostro
destino, come il destino dell’Occidente, quello di pensare che l’universo degli
enti non nasconda, non rimandi, non significhi una Presenza che non sia a misura
dell’ente stesso. Esiste solo la verità propria dei progetti tecnici dell’uomo.
Un esempio. L’atto di porre le condizioni della venuta all’esistenza di una
nuova persona - l’atto procreativo - non
ha in se stesso una verità che rimanda ad una Presenza. È un mero fatto che può
essere anche tecnicamente riprodotto in laboratorio.
Il secondo. La domanda quindi di
senso è una domanda priva di senso: si vive, e basta. E così si dica di ogni
fondamentale vissuto umano. L’assenza di Dio è il destino dell’uomo, e, alla
fine, si vive ugualmente bene. È questo il volto più tragico [per noi] del
nichilismo, non tanto il relativismo morale conseguente.
Abbiamo così individuato il bisogno
spirituale più profondo: il bisogno della
Presenza. Nella lettera inviata da Benedetto XVI a tutti i vescovi nel
marzo scorso, il S. Padre confida che attribuisce al suo pontificato come
compito supremo quello di rendere presente Dio nella vita degli uomini. Ed è a
questo bisogno supremo che il sacerdote, la cui identità abbiamo già schizzata,
è chiamato oggi a rispondere. Come?
La questione dunque è questa: è
possibile riconoscere una Presenza eccedente l’universo dell’ente, ma che abita
dentro esso? Esiste la possibilità di toccare
l’Infinito mentre vivo nel finito? o dobbiamo rassegnarci all’impossibilità
di fare questo incontro?
Queste sono le domande ultime a cui
oggi il sacerdote è chiamato a rispondere.
Sarebbe un grave errore ritenere che
il problema sia fondamentalmente di carattere etico; e che quindi il bisogno
spirituale principale sia il bisogno di una seria proposta etica. Errore,
perché una tale diagnosi confonderebbe i sintomi colla malattia. E sarebbe come
pensare che ad una persona in preda ad una grave indigestione, la cosa più
necessaria sia di spiegargli la chimica della digestione.
Non dobbiamo mai dimenticare che
comunque l’immagine di Dio impressa nell’uomo non può essere cancellata, e che
pertanto, pur confuso in mezzo a tanti rumori, il “mormorio del cuore” che
invoca la Presenza beatificante continua a farsi sentire. La capacità della
verità resta indistruttibile nell’uomo.
L’uomo che vive oggi la gaia farsa
dell’Assenza, ha bisogno di essere risvegliato alla coscienza della sua dignità
di persona e ciò lo può fare solo la
testimonianza della carità. Nell’inferno del non-senso che furono i lager
nazisti, dove ogni possibilità di avvertire la Presenza era consumata, P. Kolbe
ha riconosciuto una ragione per cui vivere è bene: la ragione del dono di sé.
Una ragione che era il segno e la voce di una Presenza reale.
Non si intenda questo come in primo
luogo un dovere derivante dal sacramento dell’Ordine, assieme ad altri doveri.
È la “forma vitae”, quel Logos intrinseco di cui ho parlato
all’inizio poiché il sacerdote è e agisce “in persona Christi”: di Cristo che
redime l’uomo nel dono della Croce, eucaristicamente sempre presente dentro al
nostro mondo dell’Assenza.
È quanto insegna anche l’Es ap Pastores
dabo vobis: «Il principio interiore, la virtù che anima e guida la vita
spirituale del presbitero in quanto configurato a Cristo capo e pastore è la
carità pastorale, partecipazione della stessa carità pastorale di Gesù Cristo …
Il contenuto essenziale della carità pastorale è il dono di sé» [23,1.2].
Tralascio le conseguenze pedagogiche nella formazione dei futuri sacerdoti. Non
sono oggetto della presente riflessione.
3. A modo di
conclusione
Abbiamo saputo dopo la sua morte,
che la B. Teresa di Calcutta ha condiviso per lunghi anni l’esperienza
dell’Assenza con l’uomo di oggi.
Essa l’ha vissuta nella certezza che
in fondo l’uomo, quell’uomo di cui condivideva il destino, aveva solo bisogno
di essere amato. La cifra dell’esistenza sacerdotale è la cifra eucaristica.