Convegno Teologico
Aula Magna
della Pontificia Università
Lateranense,
giovedì 11 e venerdì 12 marzo 2010
Comunicazione di S.E. Mons. Willem
Eijk,
Arcivescovo di Utrecht
Esperienze
di discontinuità
riguardante
l’identità sacerdotale
Si sente spesso dire che l’identità sacerdotale ha cominciato di vacillare in seguito al Concilio Vaticano II (1962-1965). Siccome il Concilio aveva riscoperto il laico e gli aveva attribuito pure una vocazione e missione, è sorta la domanda che cosa fosse specifica del sacerdozio. Io dubito se questo sia la storia completa e se la confusione fra l’identità del prete e quella del laico sia stata davvero il risultato del Concilio. Ci sono molti segnali che questa crisi ha cominciata prima.
Un libro
informativo in questo rispetto, scritto fra l’altro dal preside del seminario
minore dell’arcidiocesi di Utrecht, Mons. Ramselaar, è stato pubblicato nel
1947 sotto il titolo significativo Onrust
in de zielzorg (Fermento nella cura delle anime).[1]
Da questo libro risulta che lo ‘tsunami’ di rivoluzioni almeno nella Chiesa nei
Paesi Bassi negli anni sessanta del secolo scorso, era percettibile già nella
seconda meta degli anni quaranta. Detto libro conteneva una critica non tenera
ai preti:
1. Il primo punto
di critica era che i preti si occupavano troppo di cose che non appartenevano
al proprio compito. Il rimprovero non era che i laici occupavano la sede del
prete, ma vice versa: i preti occupavano le sedi dei laici. Nel rete delle
organizzazioni cattoliche i preti erano i leader e le figure centrali.[2]
Laici cominciavano di esigere i loro posti, non in questo senso che volevano
fare da preti, ma che volevano avere anche un ruolo come leader nelle
organizzazioni cattoliche.
2. In secondo
luogo, si rimproverava ai preti di non vivere abbastanza la propria identità
sacerdotale. Si trovava il loro agire troppo profano. I laici, pur apprezzando
gli impegni e lo zelo dei preti, sentivano nei preti la mancanza del contenuto
spirituale: la conversazione spirituale e la guida spirituale. La
secolarizzazione, che fra i cattolici olandesi cominciava più tardi che negli
altri paesi dell’Europa Occidentale, si infiltrava lentamente a partire dagli
anni venti del secolo scorso.[3]
Questo sviluppo aveva le sue ripercussioni anche sul prete. Fra parecchi preti
il senso del mistero calava nel immediato secondo dopoguerra, secondo il citato
preside del seminario minore.[4]
Il medesimo fenomeno si manifestava pure in altri paesi, come risulta da un
articolo nella rivista Frankfurter Hefte,
scritto dalla scrittrice tedesca Ida Görres nel 1946:
“Sempre si scontra con la domanda che tormenta: perché vi
sono così pochi preti, che nel loro agire riflettono almeno qualche raggio di
una frequentazione quotidiana con Dio, con cui il laico che desidera un cibo
spirituale, può attaccare un discorso spirituale? Perché sono tanto rare le
canoniche in cui c’è qualcosa di una atmosfera spirituale?”[5]
Bisogna concludere che il prete irradiava poco la sua identità intrinseca, cioè la sua identità sacramentale come uomo che rappresenta Cristo in persona, sopratutto nella celebrazione dell’eucaristia, come un intermediatore fra Dio e gli esseri umani. Al contrario, molti preti risultavano di essere affezionati alla loro identità estrinseca, cioè le loro funzioni come leader nella società profana, come leader delle organizzazioni cattoliche, come insegnanti e politici. La causa era fra l’altro che il loro compito proprio, la cura delle anime, diventava sempre più difficile a seguito alla secolarizzazione furtiva.
Un aspetto
intrigante è quale influenza aveva tutto questo sui seminaristi in quell’epoca.
Loro avranno conosciuto almeno teoricamente qualcosa dell’identità intrinseca
del prete, ma nondimeno: per molti giovani cattolici l’unica possibilità di
studiare era di studiare a un seminario. Al giovane seminarista toccava un
trattamento particolare nel mondo cattolico e nella propria famiglia a una età,
a cui gli mancava ancora per questo la maturità necessaria. I seminari olandesi
avevano annate record riguardanti i numeri di studenti alla fine degli anni
cinquanta. Tuttavia, in seguito alla crescita rapida della prosperità, la
possibilità aumentata di frequentare la scuola media e le borse statali per
studi universitari gli studenti avevano in breve tempo l’opportunità di seguire
altri studi per professioni profane. Conseguentemente i seminari si svuotavano
nella prima metà degli sessanta in tempi stretti. Osservando questo, non si ci
riesce a togliere di mente l’idea che l’identità estrinseca del prete, il suo
imago che gli dava lustro nella società, era stata un motivo importante per la
scelta di andare al seminario. Un missionario anziano, ordinato prete nel 1957,
raccontava di recente in un programma televisivo come fu ricevuto come neomista
solennemente nella sua parrocchia di nascita sotto archi trionfali e con lo
squillo di trombe della banda locale: “come neomista si era l’eroe del villaggio.”
Io mi ricordo come pochi anni dopo, circa 1965, nel mio villaggio di nascita al
confine di Amsterdam si guardava compassionevolmente l’unico seminarista
rimasto che il villaggio contava ancora.
Nello stesso
periodo come tutte le persone autorevoli di un tempo, il notaio, il medico,
anche il prete è caduto dal suo piedestallo, Tuttavia, mentre il medico e il
notaio mantenevano nondimeno la loro identità, quella del prete attraversava
una crisi profonda. Bisogna segnalare però che questa crisi riguardava
soprattutto la sua identità estrinseca in seguito dei cambiamenti culturali e sociali
dell’epoca. Come abbiamo visto, il vivere l’identità intrinseca era stato
indebolito già molti anni prima.
Vedendo tutto
questo, che cosa dovremmo pensare dell’idea che molti hanno in mente, cioè che
il Concilio Vaticano II ha portato nella vita della Chiesa una discontinuità?
Si tratterebbe soprattutto di una discontinuità, sentita come drastica, nella
devalutazione della posizione del prete, nella rivalutazione di quella del
laico e nella celebrazione della liturgia. Ciò che il Concilio, inteso come
pastorale e non dottrinale, ha fatto, è che ha aggiornato la vita e la prassi
della Chiesa ai cambiamenti culturali, in quanto necessario, mantenendo però
pienamente il depositum fidei. Riguardo
all’identità del prete il Concilio ha fatto questo in modo molto chiaro e
deciso. Il Concilio, pur fissando l’attenzione sulla partecipazione dei laici
al sacerdozio comune (Lumen Gentium n.
34), ha mantenuto pienamente la dottrina concernente l’identità intrinseca del
prete, accentuando la differenza specifica del sacerdozio particolare. Il
Concilio ha affermato esplicitamente che il sacerdozio comune e quello
ministeriale o gerarchico differiscono “essenzialmente e non solo di grado” (Lumen Gentium n. 10). Inoltre il decreto
Presbyterorum Ordinis dice:
“... il sacerdozio dei presbiteri, pur presupponendo i
sacramenti dell'iniziazione cristiana, viene conferito da quel particolare
sacramento per il quale i presbiteri, in virtù dell'unzione dello Spirito
Santo, sono segnati da uno speciale carattere che li configura a Cristo sacerdote,
in modo da poter agire in nome di Cristo, capo della Chiesa” (n. 2).
Il Concilio non ha introdotto una discontinuità nell’identità del prete. Si, c’è stata una tale discontinuità, fuori del contesto del Concilio, in due fasi diverse, come abbiamo visto sopra. La prima è stata una erosione graduale del modo in cui i preti vivevano la loro identità intrinseca, che si manifestava pian piano almeno nell’Europa del Nord Ovest negli anni quaranta del secolo scorso. Nella seconda fase l’identità estrinseca che il prete aveva fino alla fine degli anni cinquanta, è caduta in modo rapidissimo nell’epoca rivoluzionaria degli anni sessanta. Costatando tutto questo, bisogna concludere di fatti che grazie al Concilio Vaticano II la continuità dell’identità intrinseca non è affatto stata minata, ma al contrario salvaguardata in tempo. Il Concilio, conficcando i picchetti giusto in tempo, ha prevenuto che la crisi avesse minato in modo ancora più grave la consapevolezza dell’identità intrinseca del prete.
Il trovare il
bilancio fra la sua identità intrinseca e quella estrinseca in un dato contesto
sociale e culturale rimarrà sempre una sfida per il prete. Lui è e rimane pure
un essere umano. Senza la Chiesa, senza la sua Tradizione e senza il suo
magistero, guidati dalla Spirito Santo, molti elementi del depositum fidei non sarebbero stati chiariti e perfino sarebbero
stati perduti. Da questa prospettiva si deve considerare anche il Concilio
Vaticano II.
Il mantenere la
continuità riguardante la identità del prete è essenziale, sia per il modo in
cui i preti vivono il loro sacerdozio, che per il modo in cui i nostri
seminaristi saranno formati e per il modo in cui diamo corpo alla pastorale
vocazionale. Riguardo all’ultima bisogna evitare tentativi di svegliare
vocazioni sacerdotali, fissando l’attenzione sulla identità estrinseca, uno sbaglio
evaso troppo poco nel passato. Riguardo alla formazione sacerdotale bisogna
sapere quali preti vogliamo avere. Non vorrei sottostimare la importanza della
identità estrinseca di preti, connessa al fatto che loro, pur “in un certo modo
segregati in seno al popolo di Dio,” non rimangono “separati da questo stesso
popolo o da qualsiasi uomo,” con cui vivono e per cui lavarono in una data
epoca e cultura (Prebyterorum Ordinis n.
3). Tuttavia, intendiamo formare futuri preti in primo luogo in base alla
identità sacerdotale intrinseca. I preti sono quotidianamente esposti alla
pressione, alle tensioni e ai delusi connessi alla proclamazione del Vangelo
nella nostra società poco aperta alla fede cristiana. Perciò c’è dopo
l’ordinazione per i preti sempre la seduzione di far prevalere la identità
estrinseca sopra quella intrinseca. Per prevenire una discontinuità personale
nel vivere la identità sacerdotale intrinseca devono curare il più possibile il
loro rapporto con Cristo Sacerdote, Maestro e Pastore, mediante la preghiera,
la lettura della Parola di Dio e i sacramenti, soprattutto la celebrazione quotidiana
dell’eucaristia (Presbyterorum Ordinis n.
13). In Gesù, infatti, a cui i preti sono stati configurati mediante il
sacramento d’ordine, si radica l’identità del prete, come ha formulato in modo
conciso Giovanni Paolo II nella sua Esortazione Apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis:
“La vita e il ministero del sacerdote sono continuazione
della vita e dell'azione dello stesso Cristo. Questa è la nostra identità, la
nostra vera dignità, la sorgente della nostra gioia, la certezza della nostra
vita” (n.
18).
[1] H. Boelaars, G. de Gier, J. van der Hoeven, A. Lutterman, C. Moonen, A.C.
Ramselaar, J.N. van Rosmalen, G. Smit, F. Thijsen, J.J.M. van der Ven, J.
Vermeulen, Onrust in de zielzorg, Utrecht/Brussel: Het Spectrum, 1949.
[2] J. van der Hoeven, J.N. van Rosmalen, “Clericaal traditionalisme,” in: Onrust in de zielzorg, op. cit., p. 31.
[3] Il beato Titus Brandsma ha
osservato questo nel suo discorso inaugurale, tenuto quando è diventato
rettore-magnifico della Università cattolica di Nimega nel 1932, v. H.
Nota, Titus Brandsma onder ons, Bolsward: Stichting Archief- en
Documentatiecentrum voor R.K. Friesland, 2003, p. 81; Alphons Ariëns, un prete
dell’arcidiocesi di Utrecht e fondatore del movimento degli operai cattolici in
Olanda osservava i primi segni negli anni venti, v. H. Lohman, Portret van
een priester. Het leven van Alphons Ariëns in woord en beeld, Hilversum: Gooi en Sticht, 1980, pp. 169-171.
[4] A.C. Ramselaar, “Priesterlijke heiligheid,” in: Onrust in de zielzorg, op. cit., pp. 197-212.
[5] I.Fr. Görres, “Brief über die Kirche,” Frankfurter
Hefte (1946), quotato da A.C. Ramselaar, “Crisis in de zielzorg,” in: Onrust in de zielzorg, op.cit., pp.
209-210.