Convegno Teologico
Aula Magna
della Pontificia Università
Lateranense,
giovedì 11 e venerdì 12 marzo 2010
L’analisi di alcuni mutazioni antropologiche che
sembrano di particolare rilievo per un accostamento sociologico ai problemi che
il sacerdozio cattolico incontra oggi è condotta in questo contributo secondo i
principi della teoria sociologica detta dell’economia religiosa. I fondatori di
questa teoria sono i sociologi statunitensi Rodney Stark, Roger Finke e
Laurence R. Iannaccone, e il punto di partenza del loro metodo è l’idea che alla sociologia delle
religioni sia possibile applicare con frutto modelli che derivano dagli studi
sull’economia. Il “campo religioso” è studiato anche come una forma di
“mercato” in cui organizzazioni in concorrenza fra loro si contendono la
fedeltà di “consumatori religiosi”. La teoria può sembrare brutale e perfino
“scandalosa” in alcune sue formulazioni: va interpretata con un certo beneficio
d’inventario, non senza affiancarle altri modelli interpretativi. Quella del
“mercato religioso” non può che essere una metafora,
un utensile metodologico, se non si
vuole correre il rischio di ridurre la religione a un prodotto fra altri. Con
queste precisazioni, la teoria si è rivelata però spesso utile come strumento
sia d’interpretazione ex post sia di previsione ex ante.
Occorre, del resto, sgomberare il
terreno da un equivoco frequente in tema di teorie dell’economia religiosa. Potrebbe sembrare che queste teorie
s’interessino solo di come è “venduto” ciascun “prodotto” religioso,
trascurando le dottrine. È precisamente il contrario. Proprio se si applicano
modelli mutuati dalla scienza economica non ha senso ignorare le dottrine,
perché sono le dottrine il “prodotto” che le “aziende religiose” offrono.
Sarebbe come occuparsi del mercato delle automobili ignorando le automobili.
Scrivono Stark e Finke che “nella pratica i comportamenti religiosi e la
teologia sono collegati. Contrariamente alle proteste dei nostri critici
meno attenti secondo cui il nostro accostamento riduce semplicemente la
religione al marketing, abbiamo sempre sostenuto che l’incapacità di
alcune denominazioni, quelle ‘progressiste,’ di ‘vendersi’ con successo trova
le sue radici nelle loro dottrine – solo vivide concezioni di un soprannaturale
attivo e provvidente possono generare un’atmosfera religiosa vigorosa” (Stark e
Finke 2000a, 257-258).
Le teorie dell’economia religiosa si sono occupate
anche del sacerdozio e della vita consacrata cattolica. Corre quest’anno il
decennale di uno studio molto famoso e anche discusso – che vorrei
particolarmente analizzare in questo intervento – pubblicato nel numero di
dicembre del 2000 della Review of Religious Research, organo della
Religious Research Association, dagli stessi Stark e Finke, con il titolo Catholic
Religious Vocation: Decline and Revival, “La vocazione religiosa cattolica:
declino e risveglio” (Stark e Finke 2000b). A giusto titolo, questa ricerca è
stata considerata un esempio tipico e paradigmatico di come “funziona” in
concreto il metodo dell’economia religiosa. Potrà essere il punto di partenza
anche per le nostre considerazioni.
I due sociologi prendono in esame la caduta libera
delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa maschile e femminile
cattolica in sei Paesi – Stati Uniti d’America, Canada, Francia, Germania, Gran
Bretagna e Olanda – nei trent’anni successivi al Concilio Ecumenico Vaticano II
e ne indagano le cause. Dal punto di vista quantitativo, la caduta è stata
indubbiamente spettacolare soprattutto fra i candidati al sacerdozio – da -81%
in Olanda a -54% in Gran Bretagna –, quindi fra le vocazioni religiose
maschili, da -82% in Gran Bretagna a -68% in Francia, nonché, in misura minore,
fra quelle femminili: da -51% in Olanda a -43% in Gran Bretagna (ibid., 125-126). Per una serie di
ragioni metodologiche – prima fra tutte la popolarità dei gender studies
nella sociologia delle religioni di lingua inglese – la maggior parte degli
studi si sono concentrati, più che sui sacerdoti, sulle suore, e sono stati
dominati dai lavori dalla sociologa dell’Università di Houston Helen Rose Ebaugh
(a partire da Ebaugh 1977; Ebaugh 1993) e dei suoi allievi. Secondo la Ebaugh,
il numero delle suore è diminuito a causa delle maggiori possibilità offerte
alle donne cattoliche — cui la scelta della vita religiosa offriva in
precedenza opportunità uniche di mobilità verso l’alto — nei campi
dell’educazione e del lavoro secolari.
Stark e Finke nella ricerca citata contestano questa
conclusione della sociologa di Houston. Pur riconoscendola come “elegante” e
bene argomentata (Stark e Finke 2000b, 126), i due teorici dell’economia
religiosa sospettando che la tesi della Ebaugh abbia qualcosa a che fare con la
sua stessa biografia di ex-suora (dell’ordine della Divina Provvidenza) sposata
e non sia completamente confermata dai dati empirici. E questo per diverse
ragioni, di cui tre decisive. Anzitutto, perché negli stessi anni insieme al
numero di vocazioni religiose femminili è diminuito anche quello delle
vocazioni maschili sia religiose sia sacerdotali – anzi, quest’ultimo in misura
maggiore –, che non dovrebbe avere relazioni dirette con le opportunità di
realizzarsi nella vita secolare offerte alle donne. Tra l’altro le mutazioni
sono “recenti” fra virgolette – come nel titolo che gli organizzatori hanno
assegnato a questa comunicazione – perché la ricerca di Stark e Finke mostra
come la caduta davvero impressionante negli Stati Uniti delle vocazioni
maschili inizi alla fine degli anni 1960 e abbia i suoi tassi più significativi
in un’epoca precedente agli episodi
di pedofilia attribuiti a sacerdoti, i quali dunque – per quanto possano avere
contribuito alla crisi vocazionale – non ne sono la causa principale.
In secondo luogo la tesi della Ebaugh non appare
convincente perché applicando gli “indici” costruiti dalla sociologa del Texas
per misurare le “possibilità secolari” offerte alle donne, si conclude che
queste “possibilità” aumentano in modo continuo almeno a partire dal 1948. Ma,
dal 1948 al 1965, pur crescendo le possibilità di educazione e carriera
secolari offerte alle donne negli Stati Uniti, cresce anche il numero di suore.
Dal 1965 in poi, le “possibilità secolari” continuano a crescere, ma il numero
di suore invece diminuisce.
Infine, mentre il processo di crescita delle
“possibilità secolari” – anche per i cattolici americani di sesso maschile, le
cui comunità hanno conosciuto una notevole mobilità sociale verso l’alto – è
graduale e continuo, la caduta del numero delle vocazioni è repentina e
discontinua, e avviene principalmente nel quadriennio 1966-1969, con successiva
stabilizzazione verso il basso fino almeno alla fine del XX secolo. Finke e
Stark ne concludono che si deve cercare come causa principale del declino delle
vocazioni un avvenimento, o una serie di avvenimenti, che si è verificato nella
seconda metà degli anni 1960 in modo improvviso e che ha coinvolto sia gli
uomini sia le donne cattoliche. Questo avvenimento, secondo i due sociologi
americani, può essere solo l’insieme di fattori che derivano dalla crisi
successiva al Concilio Ecumenico Vaticano II, come è noto particolarmente grave
negli Stati Uniti. Applicando il modello dell’economia religiosa, Stark e Finke
affermano che, con questi avvenimenti, i costi della scelta sacerdotale
e religiosa cattolica sono diminuiti in modo marginale – forse la disciplina si
è rilassata, ma la struttura fondamentale improntata a rinuncia al matrimonio, povertà
e obbedienza è rimasta ben presente – mentre i benefici sono diminuiti
in modo repentino e drammatico. La crisi postconciliare ha reso meno viva sia
la communitas all’interno dei presbiteri e dei conventi, sia la stima unica
di cui le figure sacerdotali e religiose godevano all’interno del mondo
cattolico in generale, anche in forza della loro “separatezza” segnata da particolari
caratteristiche distintive.
Giacché la teoria
dell’economia religiosa postula che le scelte vocazionali non si sottraggono
alla normale dinamica di una stima implicita del rapporto costi-benefici, Finke
e Stark concludono che questo rapporto è stato improvvisamente e drammaticamente
alterato negli anni tumultuosi del postconcilio statunitense, evidentemente sia
per gli uomini sia per le donne. Lo stesso Benedetto XVI ha notato che “in un
mondo in cui la visione comune della vita comprende sempre meno il sacro, al
posto del quale, la ‘funzionalità’ diviene l’unica decisiva categoria”, “la
concezione cattolica del sacerdozio” ha rischiato “di perdere la sua naturale
considerazione, talora anche all’interno della coscienza ecclesiale” (Benedetto
XVI 2009a). La visione esclusivamente
funzionalistica del sacerdozio, che ne attenua l’unicità e la visibilità –
mentre per Benedetto XVI la concezione “sacramentale-ontologica” e quella
“sociale-funzionale” non devono essere “contrapposte, e la tensione che pur
esiste tra di esse va risolta dall’interno” (ibid.) – deriva certamente da condizioni esterne alla Chiesa, ma ha
pure cause interne: “anche all’interno della coscienza ecclesiale”, afferma il
Papa.
È possibile una controprova empirica. Se si paragona
la situazione dei sei Paesi studiati da Stark e Finke con quella del
Portogallo, della Spagna e dell’Italia – trascuriamo la Polonia, la Lituania o
Malta, dove giocano fattori nazionali identitari che rendono il paragone con
gli Stati Uniti o il Nord Europa meno omogeneo – ci si accorge che dopo il 1965
in questi Paesi il numero di vocazioni, se diminuisce, non lo fa con lo stesso
ritmo drammatico. Qui il declino delle vocazioni sembra essere stato frenato
anzitutto da ragioni di tipo culturale: le figure sacerdotali e religiose continuano
a godere di autorevolezza e stima confermata da numerose indagini statistiche e
anche dalla cultura popolare. Pensiamo a come nei film e negli sceneggiati
televisivi in Italia i sacerdoti e le suore siano rappresentati in modo in
genere più favorevole rispetto ai prodotti di Hollywood. Ma è anche vero che in
Italia o nella penisola iberica la crisi e il dissenso postconciliari, pure non
assenti, non hanno raggiunto quel grado di virulenza bene illustrato per gli
Stati Uniti da un piccolo libro giustamente famoso e influente del grande
filosofo e romanziere cattolico recentemente scomparso Ralph McInerny (1929-2010),
What Went Wrong With Vatican II
(McInerny 1998).
Non si deve naturalmente esagerare la tenuta dei dati
quantitativi relativi alla Chiesa Cattolica in Paesi come l’Italia. Sappiamo
che anche qui ci sono problemi, non solo in tema di sacerdoti ma anche di
fedeli. Tra l’altro i dati sulla partecipazione alla Messa, che non è l’unico
indice dello stato di salute sociologico di una Chiesa ma è considerato da
molti il più significativo, devono tenere conto del cosiddetto over-reporting, cioè della discrepanza
fra quanti affermano di andare a
Messa tutte le domeniche nelle survey
condotte per telefono o via questionari e quanti di fatto sono contati alle
porte delle chiese in un week-end
tipo. Sono in grado di anticipare i risultati di una ricerca, non ancora
pubblicata, da me diretta nel 2009 nella diocesi siciliana di Piazza Armerina,
che comprende oltre al capoluogo alcuni grossi centri come Enna e Gela. Questa
ricerca ha cercato di superare obiezioni metodologiche rivolte a precedenti
studi analoghi e ha combinato una survey
telefonica (metodo CATI) con una rilevazione molto minuta dei presenti a tutte
le Messe in un week-end considerato
tipico, considerando anche le celebrazioni di piccoli gruppi e movimenti e
perfino le comunioni portate a casa ai malati. Ebbene nell’area della ricerca
dichiara di andare a Messa almeno una volta la settimana il 30,1% della
popolazione (il 33,6% afferma di partecipare alla Messa o ad altri riti
religiosi ma si deve considerare un 3,5% di fedeli di confessioni religiose non
cattoliche, in un’area che ha una forte presenza di protestanti pentecostali).
La rilevazione alle porte delle chiese ha attestato una frequenza del 18,3%.
Leggendo questi dati occorre evitare la tentazione di
considerare la rilevazione come lo strumento che ci permette di scoprire i
praticanti “veri”, nella specie il 18,3%, contrapposti a ipotetici praticanti
“falsi”, il 30,1%. Al dato statistico non va fatto dire più di quello che
effettivamente dice. Anche il risultato della survey telefonica è a suo modo importante, oltre che in linea con survey italiane precedenti, e non è
“smentito” dalla rilevazione. Indica un’intenzione e un’aspirazione a partecipare
alla Messa che è di assoluto rilievo per ogni discorso sull’identità e
l’identificazione dei cattolici della zona. Ci sono poi, emerse dalla stessa
ricerca, le cerchie più vaste dei praticanti occasionali (51,4%) e dei
cattolici che dichiarano di sentirsi parte della Chiesa (92,2%), dato
quest’ultimo a sua volta inferiore al numero dei battezzati, il quale comprende
pure persone che dopo il Battesimo hanno aderito ad altra religione o che si
dichiarano non credenti. Una situazione, come si vede, complessa. Ma che mostra
come anche in Italia i “numeri della crisi” meritino qualche riflessione.
Un’altra controprova delle tesi di Stark e Finke,
sulla cui pista metteva precisamente già la loro ricerca del 2000, consiste nel
fatto che dove è promossa, in particolare a partire dagli anni 1990, una vita
religiosa e sacerdotale più immune dalla contestazione, più vivace e calorosa e
più fedele alle indicazioni del Magistero della Chiesa, lì le vocazioni
riprendono ad aumentare. Questo si verifica in comunità e ordini religiosi
considerati – almeno nel linguaggio giornalistico – “conservatori” e anche in
alcune diocesi statunitensi. In base a certi parametri, già Stark e Finke
costruivano nella loro ricerca due elenchi, uno delle diocesi statunitensi
considerate – almeno dalla stampa – più “ortodosse” e l’altro di quelle più
toccate dal dissenso e dalla contestazione del Magistero. Esaminavano poi i
dati relativi alle ordinazioni e ai seminaristi negli anni 1990 per concludere
che il loro numero in percentuale sul numero dei cattolici diocesani era tre
volte superiore nelle diocesi “ortodosse” rispetto a quelle dove più forte era
il dissenso.
Stark e Finke – che non sono cattolici, anche se Stark
ha recentemente annunciato, proprio sulla base di una riflessione sociologica
sulla storia, il suo ritorno al cristianesimo, che non è però maturato
nell’adesione a una specifica comunità o Chiesa – ribadivano nel loro studio di
non volere affatto sostenere “che la
Chiesa cattolica deve adottare una soluzione conservatrice per risolvere i suoi
problemi di vocazioni” (Stark e Finke 2000b, 136). Evidentemente fornire
indicazioni di questo genere non spetta alle scienze umane. Dal loro punto di
vista, meramente tecnico, Stark e Finke osservavano che la Chiesa Cattolica
avrebbe potuto risolvere la crisi vocazionale in due modi: diminuendo i costi o
“restaurando i benefici tradizionali”
(ibid., 137). Come emergeva in quello
studio (ibid.), e ancor più nelle
discussioni che ha generato, “diminuire i costi” è una formula che è stata
perseguita, per esempio, da diverse branche della Comunione Anglicana: “paghe alte” – soprattutto negli Stati
Uniti, buoni stipendi da manager per
i vescovi – e “virtualmente nessuna
restrizione”; porte aperte ai divorziati, agli omosessuali praticanti, e
così via. I risultati anglicani, come è noto, non sono stati brillantissimi.
“Restaurare i benefici tradizionali” sembrerebbe dunque più promettente che
“diminuire i costi”.
Tutta la discussione sulla ricerca di Stark e Finke va
inquadrata in un contesto sociologico più generale. Da molti anni la sociologia
delle religioni nota che – contrariamente alla vulgata secondo cui il
cristianesimo perde colpi perché non è in sintonia con il mondo moderno e
mantiene posizioni anacronistiche e premoderne, soprattutto in tema di morale
sessuale – di fatto, nel mondo protestante avanzano le denominazioni evangelical e pentecostali, la cui
morale sessuale è spesso rigorosa, e il cui antagonismo verso la modernità è
notevole. Perdono invece membri le comunità liberal, che pure ricevono l’applauso di
certi media per le loro posizioni
tolleranti in materia di aborto, eutanasia o omosessualità. Questo non avviene
perché i cristiani siano irragionevoli e masochisti ma, al contrario, perché
quelli che la teoria che ho illustrato chiama “consumatori religiosi” sono a
loro modo eminentemente ragionevoli e, come tutti i consumatori, non
considerano né i soli costi, né i soli benefici, ma il rapporto costi-benefici,
che nelle religioni è spesso più favorevole là dove i costi sono più alti.
Questi fenomeni sono stati spiegati applicando alle
organizzazioni religiose la teoria del free rider (cfr. Iannaccone 1992,
1994; Iannaccone, Olson e Stark, 1995). La formulazione classica di questa
teoria si deve a Mancur Olson (1932-1998). Il free rider, il viaggiatore
“che non paga il biglietto”, è
colui che partecipa a una qualunque forma di organizzazione sociale cercando di
ottenerne i benefici senza pagare i costi. Chi sale a bordo di un autobus senza
pagare corrisponde perfettamente alla definizione: riesce a “viaggiare gratis”, ma solo nel senso
che in realtà sono gli altri a pagare per lui. Secondo Olson la strategia del free
rider può avere successo solo se il numero degli stessi free rider è
limitato. Se alcuni non pagano
il biglietto, l’autobus continuerà a viaggiare – al massimo, ai viaggiatori
onesti sarà chiesto di pagare di più. Ma se quasi nessuno paga il
biglietto la linea di autobus sarà costretta a chiudere, e nemmeno il free
rider potrà più viaggiare gratuitamente. Lo stesso vale per organizzazioni
assai più complesse di una linea di autobus, comprese le parrocchie: possono tollerare
un certo numero di free rider, ma se il numero cresce, si trovano di
fronte a problemi sempre più difficili da risolvere e infine cessano di
funzionare. Anche nelle organizzazioni religiose o tra chi frequenta i
sacerdoti e va a Messa molti vogliono solo “assistere”, non “partecipare” o
contribuire. Sono tipici free rider.
Il problema, però, è che i beni simbolici offerti dalle organizzazioni
religiose sono non soltanto fruiti, ma anche prodotti
collettivamente.
Le organizzazioni, le congregazioni e le parrocchie
più rigorose e “ortodosse” chiedono di più, e quindi diminuiscono il numero di free rider. Si potrebbe ritenere che
chiedendo di più – in linguaggio economico, aumentando i costi – sia i fedeli
sia le vocazioni diminuiscano. In realtà spesso avviene il contrario. Le teorie
economiche infatti c’insegnano che i consumatori cercano di minimizzare i costi
e massimizzare i benefici. Non cercano soltanto di
limitare i costi, a qualunque condizione, ma si sforzano di arrivare a un
ragionevole equilibrio fra costi e benefici. Chi acquista un’automobile non
cerca semplicemente di spendere il meno possibile: anzi, sa che spendendo troppo
poco sarà verosimilmente ingannato dal proverbiale venditore disonesto di auto
usate. Anche i “consumatori religiosi” sono disposti a pagare di più – entro
certi limiti – se pensano di ottenere di più. Nel loro caso non si tratta
principalmente di costi economici, ma di costi simbolici. Chiedendo di
rispettare norme che creano tensione con la maggioranza sociale in settori come
la morale sessuale o il rapporto con la verità in una cultura dominata dal
relativismo, le organizzazioni religiose creano barriere di entrata e riducono
il numero di potenziali free rider che potrebbero entrare.
Naturalmente perché una congregazione cattolica sia
viva, non sia composta in maggioranza di free
rider, abbia un buon rapporto con i suoi sacerdoti e generi anche vocazioni
sacerdotali e religiose non basta una sociologia dell’efficienza. Occorre che
ciascuno si senta partecipe e non solo spettatore, e prima di dare il suo
contributo si senta “preso in cura” personalmente dal sacerdote. Da questo
punto di vista se si vuole ridurre il numero di free rider occorre assicurarsi che il contatto personale e autorevole
fra sacerdote – particolarmente, parroco – e fedeli sia sempre garantito. E ci
si può chiedere se sia proprio così quando si passa dalle parrocchie alle unità
pastorali, con la conseguenza di “allungare” le relazioni mentre sono proprio
quelle che la sociologia chiama “relazioni corte”, più personali e dirette, a
garantire contro la proliferazione dei free
rider: i quali, si potrebbe dire, non sono sempre free rider per colpa loro.
Ancora una volta, da sociologo, vorrei insistere sul
fatto che la sociologia di per sé non risolve nessun problema pastorale e può
dare contributi utili solo se si presenta con la necessaria umiltà
metodologica. L’accostamento alla religione in termini di mercato, consumatori,
costi e benefici potrà perfino scandalizzare chi ha meno familiarità con le teorie
della religious economy. E sarebbe
giusto che fosse così se queste non fossero – insisto sul punto, a costo di
ripetermi – soltanto metafore, elementi metodologici da considerare come
semplici – e umili – strumenti. Ultimamente, vale anche per i sociologi il
richiamo di Benedetto XVI nel discorso all’udienza generale del 1° luglio 2009,
dedicata all’Anno Sacerdotale: “A fronte di tante incertezze e stanchezze anche
nell’esercizio del ministero sacerdotale, è urgente il recupero di un giudizio
chiaro ed inequivocabile sul primato assoluto della grazia divina, ricordando
quanto scrive san Tommaso d’Aquino [1225-1274]: ‘Il più piccolo dono della
grazia supera il bene naturale di tutto l’universo’ (Summa Theologiae,
I-II, q. 113, a. 9, ad 2)” (Benedetto XVI 2009b).
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