Convegno Teologico
Aula Magna
della Pontificia Università
Lateranense,
giovedì 11 e venerdì 12 marzo 2010
Comunicazione di S.E. Mons.
Francesco Moraglia,
Vescovo di La
Spezia-Sarzana-Brugnato
Ogni presbitero
è chiamato ad accogliere, come fosse indirizzata a lui, la parola rivolta da
Dio al profeta Geremia: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle
nazioni» (Ger 1, 5). Per Geremia la
vita s’identifica con quella missione alla quale Dio lo chiama fin dal seno materno;
Geremia è profeta dalla nascita alla morte e, lo è, con tutta la vita.
Non é stato
così per tutti i profeti; Amos esercitò il ministero in modo episodico, seppur
prolungato; Isaia lo esercitò per tutta la vita con la predicazione; Geremia,
invece, è stato profeta per tutta la vita, non solo con la parola, ma con la
sua stessa esistenza; quindi, con Geremia si dà un radicamento esistenziale e
ontologico del profeta nella sua missione.
Su tale linea,
attraverso il sacramento dell’ordine, si pone ogni presbitero. Il presbitero è
un battezzato che, nella sua persona, grazie all’imposizione delle mani del
Vescovo, diventa, nella Chiesa, una particolare ripresentazione sacramentale di
Cristo.
I presbiteri -
deputati ad agere in persona Christi
capitis - esistono e operano per annunciare il Vangelo, per edificare la
Chiesa. «In quanto rappresenta Cristo capo, pastore e sposo della Chiesa, il
sacerdote si pone non soltanto nella
Chiesa, ma anche di fronte alla
Chiesa» (Pastores dabo vobis,
16). Questo riferimento all’identità del sacerdote ordinato che, con
un’immagine spaziale, é visto nella
Chiesa e di fronte alla Chiesa, consente
fondarne, con rigore, la spiritualità legandola, direttamente, alla realtà
stessa del sacramento. Così il punto prospettico idoneo per riflettere sulla spiritualità
presbiterale è considerare come il sacerdote ordinato sia nella Chiesa - ossia, al suo interno - e, nello stesso tempo, di fronte alla Chiesa - ovvero, in rapporto
ad essa -.
Se
caratteristica specifica del presbitero, in forza del sacramento dell’ordine, è
stare nella Chiesa e di fronte alla Chiesa, allora tutto
quello che riguarda la spiritualità e la santità della sua vita e del suo
ministero, si dovrà considerare a partire, esattamente, dal suo essere, a un
tempo, nella e di fronte alla Chiesa. Il ministero, però, non va considerato come
qualcosa d’esteriore; piuttosto appartiene intimamente al presbitero e si
caratterizza per la vocazione che richiede l’esercizio fedele di questo
ministero. In tal modo, non solo non gli è esteriore, ma gli appartiene in modo
strutturale e lo perfeziona intrinsecamente in forza del sacramento che gli è
donato.
Sant’Agostino -
nel sermone 340 - rende ragione della realtà teologica e spirituale del sacerdote
partendo dal suo simultaneo essere nella
Chiesa e di fronte alla Chiesa: «Per
voi, infatti, io sono Vescovo, con voi sono cristiano… di più mi consola il
pensiero d’essere stato redento con voi, che non il fatto d’essere stato
preposto a voi. Seguendo perciò il comando del Signore, d’essere ancora più
pienamente al vostro servizio… Aiutateci con la vostra preghiera e la vostra
obbedienza, perché troviamo la nostra gioia non tanto nell’essere vostri capi,
quanto nell’esservi utili servitori» (Sant’Agostino, Discorso 340, 1PL38, 1483-1484).
E’ proprio
attraverso le sacre azioni e l’esercizio personale del ministero, in unione ai
confratelli e sotto la guida del Vescovo - di cui il sacerdozio di secondo
grado è estensione - che il presbitero si dispone al conseguimento della
perfezione della vita. Così, mentre esercita il ministero presbiterale e ne
compie gli atti propri, sull’esempio di Cristo, il sacerdote ordinato raggiunge
l’unità di vita e, con l’aiuto della grazia, la perfezione e la santità.
L’unità di vita
è l’esito, non scontato, del legame armonico che intercorre fra vita spirituale
del prete e ministero pastorale. Per giungere a tale unità di vita, bisogna
rifarsi al concetto di carità pastorale; e, in proposito, il Direttorio per il Ministero e la Vita dei
Presbiteri afferma: «La carità pastorale costituisce il principio interiore
e dinamico capace di unificare le molteplici e diverse attività pastorali del
presbitero e, dato il contesto socio-culturale e religioso nel quale egli vive,
è strumento indispensabile per portare gli uomini alla vita della Grazia.
Plasmata da tale carità, l’attività ministeriale deve essere una manifestazione
della carità di Cristo, di cui il presbitero saprà esprimere atteggiamenti e
comportamenti» (n. 43).
L’azione
pastorale del sacerdote, in ultima istanza - direttamente o indirettamente -, è
esito della carità pastorale; infatti, l’azione del presbitero è, seppur a vario
titolo, connessa alla consacrazione presbiterale. Quando nel presbitero
s’infrange l’unità interiore, non si dà più carità pastorale, si provoca una
sorta di cortocircuito tra l’essere e l’agire del sacerdote. Il rischio,
soprattutto nella nostra società - come ricorda il Direttorio per il Ministero e la Vita dei Presbiteri (cfr. n. 44)
-, è cadere nel funzionalismo.
Ma se il
presbitero si lega quotidianamente a Cristo nell’ascolto della Parola, nella
vita sacramentale - celebrazione e adorazione eucaristica -, allora,
dall’incontro con Lui, passerà spontaneamente a quello col suo Corpo, i
fratelli, il Christus totus. Su tale
punto è illuminante il pensiero di Giovanni Maria Vianney, il Santo Curato
d’Ars: «Quanto è infelice un sacerdote che non ha vita interiore… ma per questo
occorre la tranquillità, il silenzio, il ritiro… Ciò che impedisce a noialtri
preti d’essere santi è la mancanza di riflessione. Non si rientra in noi
stessi, non si sa cosa si fa. E’ la riflessione, l’orazione, l’unione con Dio che
ci occorrono» (Bernard Nodet, Il pensiero
e l’anima del Curato d’Ars, Torino 1967, pp. 130-131).
Questa, per il ministro ordinato, è la strada
maestra che gli consente di non dissipare o frammentare la propria azione,
sganciandola dalla realtà sacramentale e dall’unità che caratterizza la sua
persona. Il sacerdote deve essere un contemplativo in azione, se vuole
esercitare il suo compito secondo le esigenze del ministero, in cui è chiamato
a esprimere l’agire di una persona ontologicamente conformata a Cristo. Quando
in un presbitero viene meno l’unità della persona - ossia, del cuore -, allora
s’infrange la scala dei valori che pone Cristo al primo posto sia nella Parola,
sia nell’Eucaristia, sia nei fratelli; si tratta, sempre e di nuovo, d’assimilare
- far propria - la carità di Cristo e, mai, prescindere dall’incontro con Lui;
così, sempre potrà donare Lui e, con Lui, ogni altra cosa.
Essere
sacerdoti, vuol dire vivere, in modo reale e in pienezza, il rapporto col
proprio Vescovo; infatti, il sacerdozio di secondo grado - quello del
presbitero - mai prescinde da quello del Vescovo di cui, come già detto, è
estensione. Nello stesso tempo, essere sacerdote significa esserlo con gli
altri, come bene indica la liturgia dell’ordinazione attraverso il gesto che i
confratelli compiono sul nuovo ordinato stendendo le mani su di lui, non in
segno di trasmissione del potere, ma d’accoglienza nel comune presbiterio.
Da ciò deriva che la spiritualità sacerdotale comporta, sempre, il legame affettivo-spirituale ed effettivo-sacramentale con i confratelli; é, questa, la realtà e la ricchezza del presbiterio, riscoperto e vissuto come luogo di reciproco scambio dei differenti doni all’interno del comune dono del sacerdozio.