Convegno Teologico

Aula Magna

della Pontificia Università Lateranense,

giovedì 11 e venerdì 12 marzo 2010

 

«Fedeltà di Cristo, fedeltà del Sacerdote»

 

Conferenza del R Rev. Prof. Réal Tremblay, C.Ss.R.,

Pontificia Accademia Alfonsiana

 

Cristologia e identità sacerdotale

 

 

Cristo non è esteriore a Dio; non è esteriore agli uomini. È Dio con Dio, uomo con gli uomini. [...] Per questa ragione, la sua mediazione [...] è perfetta. Albert Vanhoye

 

Se ho ben compreso l’idea di coloro che mi hanno invitato a trattare l’argomento indicato nel titolo del mio intervento: “Cristologia e identità sacerdotale”, si tratta di riflettere sulla “identità sacerdotale” del ministro ordinato alla luce del mistero di Cristo. Allo stesso tempo, si trova precisato l’aspetto in cui considerare la persona di Cristo: il suo sacerdozio, e cercare di conseguenza di mettere in rilievo i dati teologici essenziali di questo titolo cristologico assai presente nella grande tradizione della Chiesa di sempre, anche se esso è, come tale, piuttosto raro nelle fonti neotestamentarie[1].

La questione è ora di sapere come arrivare allo scopo in alcune pagine senza cedere alla superficialità. Dopo aver considerato vari tipi di intervento, ho optato per una riflessione di ispirazione biblica vicina alla Lettera agli ebrei, il solo scritto neotestamentario che propone, come sappiamo, un’articolata teologia del sacerdozio di Cristo. Dopo aver consultato numerosi esegeti e teologi che si sono dedicati ad un argomento analogo al mio[2] ed aver approfondito personalmente la questione, sono giunto ad optare per un percorso unico a tre ondate successive che prendono rispettivamente i nomi di solidarietà, di offerta e di salvezza.

Strutturerò la mia esposizione in tre tappe. Dopo aver precisato con cura il contenuto di questi tre sostantivi applicati al Cristo sacerdote (1), tenterò di vedere come si applicano mutatis mutandis al ministero ordinato nella Chiesa (lascio qui da parte il diaconato) e come contribuiscono così a definirne l’identità. In quest’ottica, parlerò del ministro ordinato come dell’uomo della solidarietà, dell’oblazione filiale e della comunicazione dell’intimità paterna (2). In conclusione, mi resterà da indicare brevemente dove e come si situa un tale approccio del sacerdozio ministeriale in rapporto al sacerdozio comune dei fedeli (3).

Prima di cominciare la mia esposizione vorrei insistere sulle sue vere dimensioni. Sarebbe evidentemente incongruo cercare in queste poche pagine un trattato esaustivo sul sacerdozio. In realtà, il mio intervento è molto più modesto. Si tratta di scandagliare le fonti del pensiero secolare della Chiesa (soprattutto scritturistico) per trarne alcuni dati che mi sembrano di grande valore per risvegliare in noi, ministri ordinati, una coscienza più viva della grandezza della nostra vocazione sacerdotale e, pertanto, favorire una vita più conforme a questo dono assolutamente inestimabile per il bene di tutta la Chiesa.

 

 

1. Il Cristo sacerdote: solidarietà, offerta e salvezza

 

1.1.  “In tutto simile ai fratelli” (Eb 2, 17)

 

     L’essere del sacerdote, in regime cristiano, è essenzialmente un essere di mediazione tra l’uomo e Dio. “Scelto fra gli uomini e per gli uomini”, il sacerdote “viene costituito tale nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni sacrifici per i peccati” (Eb 5, 1). È la ragione per la quale, nel Nuovo Testamento come nell’Antico, l’uomo non può arrogarsi questo ruolo. Occorre  “esservi chiamati da Dio”. Questo vale in primo luogo per Cristo, il vero “sommo sacerdote”. Egli riceve questa chiamata dal Padre che gli dice: “Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato” (Sal 2, 7). Ed ancora: “Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’ordine di Melchisedek (Sal 110, 4) (cf. Eb 5, 5-6). La chiamata divina è potenziata nel caso di Gesù dalla proclamazione del suo nome, della sua identità. Egli è sacerdote a motivo della sua appartenenza al mondo di Dio, della sua parentela di natura con il Padre. Si comprende allora perché l’autore della Lettera agli Ebrei ponga all’inizio del suo scritto l’affermazione senza equivoco e assai eloquente dell’identità propriamente filiale di Gesù:

 

5 A quale degli angeli Dio ha mai detto: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato? E ancora: Io sarò per lui padre, ed egli sarà per me figlio? 6 Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: Lo adorino tutti gli angeli di Dio (Eb 1, 5-6)[3].

 

Questo passo è per così dire la prova scritturistica dell’affermazione che precede: il Figlio che “tutto sostiene con la sua parola potente” è divenuto, a seguito del suo mistero pasquale, “tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato” (Eb 1,3-4).

L’identità filiale di Gesù[4], che lo pone per chiamata dalla parte di Dio nell’opera di intercedere in favore degli uomini, ha bisogno di un’altra dimensione: quella di essere, mediante la sua “carne”, in comunione con l’umanità, di essere solidale con essa, solidarietà che evoca non soltanto una parentela o una identità di natura con l’essere umano, ma anche una parentela-identità con la situazione peccaminosa nella quale languisce l’umanità.

Numerosi sono i testi neotestamentari della tradizione sinottica e delle altre tradizioni più vicine al “Cristo” della fede pasquale che vanno in questa direzione[5]. Vi è per esempio questo passo della più pura vena paolina che li ricapitola tutti in una formula particolarmente espressiva: “colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (2Cor 5, 21; cf. anche Gal 3, 13; Rm 8, 3)[6]. A questo testo, fa eco questo passo della Lettera agli Ebrei che contiene in più un’allusione esplicita a Gesù “sommo sacerdote”, collegata all’esclusione del peccato personale, esclusione che è in definitiva condizione di possibilità del potere sacerdotale di intercessione:

 

Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato (Eb 4, 15).

 

L’autore prepara già ciò che dirà più sotto a proposito degli avvenimenti drammatici della vita terrena di Gesù che, con tutta evidenza, rinviano alla sua agonia al Getsemani e alla sua morte in croce[7]:

 

 7 Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. 8 Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì (Eb 5, 7-8).

 

Tra i numerosi elementi contenuti in questo passo (ritornerò dopo su alcuni di essi), si ritrova, espresso sotto forma di supplica drammatica e di “forti grida”, il legame di Gesù con la condizione umana nella sua consistenza di creatura e di creatura implicata in una storia di peccato. È a questo grado di profondità che Gesù discende nella miseria umana, condivide la povertà annichilente dell’uomo peccatore. Per essere salvato dalla morte, frutto per eccellenza del peccato (cf. Eb 2, 14-15), egli grida, piange, implora, supplica il Padre che lo poteva allontanare da essa. Nulla dell’uomo sfugge al Figlio incarnato. Con il quarto “carme del Servo” di Isaia, si può e si deve dire: “è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti” (Is 53, 12).

 

1.2.“Ecco, io vengo per fare la tua volontà” (Eb 10,7)

 

Le “grida” del Figlio che provengono dalla sua sofferenza sono presentate, lo abbiamo visto, come una implorazione che permette all’Orante mediatore di “imparare l’obbedienza”. L’espressione è sorprendente, dato che è proprio dell’identità del Figlio, della sua natura filiale, di ritornare al Padre che lo ha generato[8]. “Il suo cibo”, come dice San Giovanni, “è fare la volontà” del Padre suo (cf. Gv 4, 34). Come può dunque imparare ad obbedire?

Senza esitazione, si può dire con l’autore della Lettera che tutta la vita di Gesù fu una vita di offerta filiale. Essendo i sacrifici dell’Antico Testamento incapaci di togliere i peccati, Cristo, entrando nel mondo, si indirizza al suo Dio in questi termini:

5Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. 6 Non hai gradito né olocausti, né sacrifici per il peccato. 7 Allora ho detto: “Ecco, io vengo [...] per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10, 5-7).

 

Gli avvenimenti della passione a cui fa allusione l’apprendimento dell’obbedienza non hanno certamente smentito l’atteggiamento oblativo innato di Gesù. Essi vi si iscrivono, lo confermano e lo consolidano come fanno i momenti forti di prova. Si potrebbe dire che l’obbedienza di fondo di Gesù si affina e si rinforza nel seno della resistenza sperimentata esteriormente e interiormente dallo scatenarsi del peccato al Getsemani e sul Golgota.

Apriamo ora un commentario esegetico.

Sicuramente, questo ed altri testi, scrive Vanhoye, ci proibiscono d’immaginare che Gesù fosse stato, in un primo tempo, indocile a Dio, e che un castigo l’avesse ridotto alla sottomissione. Ma la nostra natura di “sangue e carne” che egli aveva assunto (Eb 2, 14) era una natura deformata dalla disobbedienza ed aveva dunque bisogno di essere come foggiata di nuovo al fuoco della sofferenza e della morte. L’apostolo Paolo non esita a dire che Dio “ha inviato suo Figlio in una carne simile a quella del peccato” e che “ha condannato il peccato nella carne” (Rm 8,3); il che significa che il peccato era in un certo modo presente nella carne di Cristo – non come indocilità personale, evidentemente, ma mediante le sue conseguenze che deformavano la carne e la rendevano debole (cf. Mt 26, 41; 2Cor 13, 4), destinata alla sofferenza e alla morte. Una trasformazione radicale era necessaria. Nessuna persona umana era in grado di sottomettervisi in maniera positiva, perché tutti gli uomini erano debilitati dal peccato. Cristo si è presentato per sottomettervisi, a vantaggio di tutti[9].

Siamo dunque in presenza di due approcci differenti. Il primo, teologico, parte dall’identità filiale di Gesù e la definisce in rapporto al peccato; la seconda, esegetica, parte dalla “carne di peccato” assunta da Gesù e la definisce commisurandola alla sua filiazione divina. La prima permette alla filiazione di affermarsi in un contesto ostile alla sua presenza; la seconda permette alla natura umana di vedersi trasformata dalla potenza della filiazione. In realtà, i due approcci non si oppongono. Si completano reciprocamente. La presenza indefettibile della filiazione nella “carne di peccato” di Gesù è forza trasformante per questa “carne” in direzione di una carne non chiusa su se stessa, ma aperta, offerta al Dio vivente.

A questo proposito, la Lettera agli Ebrei precisa che Cristo ha offerto se stesso a Dio “con uno Spirito eterno”. Affermazione di grande valore che vuol evidenziare, per contrasto, la limitata efficacia delle offerte del “sangue di capri e di vitelli” del culto antico, restando essi ad una purificazione esteriore della carne. Offerto dallo Spirito, invece, il sangue di Cristo purifica “la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente” (Eb 9, 14). “Con uno spirito eterno” dunque. Come comprendere questa espressione unica, al dire degli esegeti, nella Scrittura? Bisogna comprenderla nel senso di una semplice disposizione interiore di Gesù, dello slancio naturale della sua identità filiale (Spicq) o dello Spirito personale di Dio? Vanhoye che ha esaminato le differenti interpretazioni si pronuncia, in accordo con i Padri greci, per la persona dello Spirito. Oltre a motivi di ordine letterario che giustificano la sua posizione, egli pensa che

 

Cristo è stato un sacerdote efficace, perché aveva in lui lo Spirito Santo, che gli ha comunicato, per così dire, la forza ascensionale necessaria per elevare la nostra natura umana fino a Dio[10].

 

1.3.   “Assiso per sempre alla destra di Dio” per la nostra santificazione

 

Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore (Eb 9, 24).

 

L’oblazione pneumatica del Figlio di cui si è appena detto rinvia incontestabilmente al sacrificio della Croce, iscritto certo nel tempo, ma anche compiuto, contrariamente ai sacrifici dell’Antico Testamento, “una volta per tutte” (Eb 9, 26; cf. 7, 27). Questa offerta filiale di Gesù gli apre il cielo. Egli passa così al mondo di Dio. Si trova dinanzi al Padre ed ha accesso al “trono della grazia” (cf. Eb 4, 16) con tutta l’umanità con cui si è fatto solidale. È in questo compimento che si esercita oramai la sua mediazione. Egli è il “sommo sacerdote” della nuova Alleanza. La sua offerta è perfetta ed eterna (cf. Eb 7, 27; 9, 12. 25-28; 10, 10-14) ed è fonte inesauribile di santificazione per chiunque lo invoca.

*

Al termine di questo profilo teologico del Cristo “sommo sacerdote”, si potrebbe citare, come conclusione, questo testo di Georges:

 

Il VT aveva distinto le mediazioni del re e del sacerdote (il temporale e lo spirituale), del sacerdote e del profeta (l’istituzione e l’evento); distinzioni necessarie per comprendere i valori propri della rivelazione. Poiché la sua trascendenza lo colloca al di sopra degli equivoci della storia, Gesù riunisce nella sua persona tutte queste mediazioni diverse: Figlio, egli è la parola eterna che porta a termine e supera il messaggio dei profeti; Figlio dell’uomo, egli assume tutta l’umanità, ne è il re con un’autorità e un amore fino a lui sconosciuti; mediatore unico tra Dio e il suo popolo, egli è il sacerdote perfetto per mezzo del quale gli uomini sono santificati[11].

 

 

2. L’identità del ministro ordinato

 

La santificazione degli uomini dovuta all’unico sacerdozio di Cristo non può che essere trasmessa da uomini chiamati a partecipare di questo sacerdozio. Su questo passaggio da Cristo “sommo sacerdote” al sacerdozio ministeriale, il Concilio Vaticano II si esprime così:

 

Ma lo stesso Signore, affinché i fedeli fossero congiunti in un solo corpo, nel quale « non tutte le membra hanno la medesima funzione » (Rm 12,4), costituì alcuni tra loro quali ministri, che nella comunità dei fedeli avessero la sacra potestà dell’ordine [...] ed esercitassero per gli uomini in forma pubblica il sacerdozio in nome di Cristo. Pertanto, dopo aver mandato gli apostoli come egli stesso era stato mandato dal Padre, Cristo per mezzo degli stessi apostoli rese partecipi della sua consacrazione e missione i loro successori, cioè i vescovi, il cui compito fu trasmesso in grado subordinato ai presbiteri [...].

Per questo motivo il sacerdozio dei presbiteri, pur presupponendo i sacramenti dell’iniziazione cristiana, viene conferito da quel particolare sacramento per il quale i presbiteri, per l’unzione dello Spirito Santo, sono insigniti di uno speciale carattere che li configura a Cristo sacerdote, in modo da poter agire in persona di Cristo capo[12].

 

Non ho l’intenzione di soffermarmi sul contenuto di questo testo conciliare che esplicita chiaramente il legame di Cristo “sommo sacerdote” con i ministeri ordinati nella Chiesa e al suo servizio. Il contenuto di questo testo è molto conosciuto ed è stato continuamente ripreso, senza variazioni sostanziali, da altri documenti recenti del Magistero come il Catechismo della Chiesa cattolica[13], l’enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucharistia[14], l’esortazione apostolica post-sinodale di Benedetto XVI Sacramentum caritatis[15].

Nel contesto di tale rapporto tra Cristo “sommo sacerdote” e il sacerdozio ministeriale, questo testo parla anche della funzione che incombe a quest’ultimo. In quanto è unita all’ordine episcopale, “la funzione dei presbiteri [...] partecipa dell’autorità con la quale Cristo stesso fa crescere, santifica e governa il proprio corpo”[16]. Senza mettere in questione l’esistenza di questa funzione e dilungarmi sul suo significato[17], vorrei indicare qualche pista di riflessione sull’identità del sacerdote nel solco dei tre aspetti del Cristo sommo sacerdote ritenuti precedentemente[18].

 

2.1.     Il sacerdote, uomo della solidarietà

 

Vi è una solidarietà che si potrebbe dire d’uso comune. È quella di cui si sente parlare tutti i giorni nei media e nei gruppi di volontariato di provenienza ecclesiale o meno. Ma non è di questo che si tratta qui. Si tratta piuttosto di quella solidarietà che segna l’essere del sacerdote, ne fa un essere di condivisione, di comunione con gli altri. Nella sua persona, sono misteriosamente presenti tutti gli uomini con le loro gioie, le loro aspirazioni alla felicità, ma anche con le loro pene, le inquietudini, le debolezze, le miserie, i peccati, ecc… Si potrebbe veder realizzato questo stato d’essere del sacerdote nel tormento che Paolo prova al pensiero della defezione dei credenti. Nella difesa che fa a suo favore alla fine della Seconda Lettera ai Corinzi, egli parla della sua ossessione quotidiana, della preoccupazione di tutte le Chiese. “Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?” (2Cor 11, 29). Egli parla anche di una “grande tristezza”, di “un dolore incessante nel suo cuore” al pensiero che Israele ha rifiutato Cristo e continua a farlo (cf. Rm 9, 1-4). Infine, vi è questo passo che lascia senza parole, a tal punto l’Apostolo si è svuotato di se stesso per far posto a tutti:

 

Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto come Giudeo per i Giudei, per guadagnare i Giudei. Per coloro che sono sotto la Legge – pur non essendo io sotto la Legge – mi sono fatto come uno che è sotto la Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la Legge. Per coloro che non hanno Legge – pur non essendo io senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo – mi sono fatto come uno che è senza Legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono senza Legge. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno (1Cor 9, 19-22).

 

In questa confidenza di Paolo, parrebbe di sentir risuonare ciò che dice la Lettera agli Ebrei quando parla (l’abbiamo visto) di Gesù divenuto “in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio” (2, 17).

È un tratto forte dell’identità sacerdotale ad essere qui indicato. Da questo punto di vista, il sacerdote non può concepirsi come un individuo chiuso su di sé, che gode per se stesso della sua dignità. Egli è un essere, passatemi l’espressione, “crocevia”, un essere in cui tutti i cammini degli uomini si incrociano, dove si incontrano le persone di tutte le provenienze, culture, tipi di esperienza, dove vi è posto per tutti. In una parola, è un essere “pro-esistente”, un essere essenzialmente rivolto verso gli altri, un essere al servizio degli altri. Precisiamo che non si tratta in questo caso di una semplice filantropia di ordine naturale o soprannaturale. Si tratta di un comportamento che confina con il mistero cristologico, che ha le sue radici nella solidarietà misteriosa di Gesù con tutta l’umanità. È la ragione per cui questo tratto appartiene all’essere sacerdotale come tale. Considerarlo come un semplice ornamento o un’aggiunta da cui ci si potrebbe separare senza che l’essere sacerdotale sia toccato nella sua consistenza essenziale, sarebbe una visione deformata del sacerdozio ministeriale. Sulla scia di San Paolo, molti sacerdoti onorati ufficialmente dalla Chiesa o almeno conosciuti della grande comunità ecclesiale, furono nel passato, e sono ancor oggi, incarnazioni viventi di questa dimensione del mistero di Cristo.

Quante persone si sono viste condotte o ricondotte al “trono della grazia” dal ministero e dalla preghiera silenziosa di questi sacerdoti! La figura di San Giovanni Maria Vianney (†1859) che serve da icona a questo anno sacerdotale voluto da Benedetto XVI fu certamente una di queste incarnazioni della solidarietà cristica.

 

2.2.    Il sacerdote, uomo del sì filiale

 

Questa elevazione dei fratelli al mondo della grazia è reso anche possibile da un’offerta di sé alla volontà di Dio. L’affermazione sembra banale. In realtà, è ben lungi dall’esserlo, perché implica dalla parte del sacerdote che porta, per le ragioni già note, tutta l’umanità, un sì alle disposizioni del Signore di una densità del tutto particolare. In che senso? Il sì del sacerdote alla volontà del Padre è un più rispetto al sì di ogni figlio di Dio nel senso che comprende il sì di tutti. È un sì inglobante, dalle dimensioni universali, che abbraccia tutti i tempi[19].

Un tale tipo di offerta non può che realizzarsi in legame con l’oblazione del Figlio, assumendo in pari tempo il suo aspetto drammatico poiché Gesù ha pronunciato il suo sì in mezzo al peccato dell’umanità, presente, condensato nella sua umanità. È come dire che un sacerdote che non mettesse anche in conto o non provasse concretamente la resistenza degli uomini alla volontà del Padre per cambiarne così la consistenza, sarebbe solo parzialmente fedele alla sua identità sacerdotale.

Molti veri sacerdoti lo hanno compreso e lo comprendono quando rifiutano, a rischio della loro propria vita, di abbandonare le loro comunità minacciate dal “rampino” (espressione cara al curato d’Ars per designare il demonio) o anche quando affrontano direttamente queste minacce per trasformare coloro che ne sono seguaci e irrobustire coloro che ne sono le vittime. Gli esempi sono qui molteplici. Si potrebbe ricapitolarli tutti nella figura contemporanea e molto conosciuta, almeno in Italia, di don Giuseppe Puglisi (†1993). Egli si è misurato alla terribile malvagità della mafia siciliana nella speranza di cambiare i cuori dei suoi futuri assassini e con l’intenzione di rafforzare contro il male la comunità di cui aveva la cura. Bisogna leggere i testi che ci ha lasciato sul senso del suo impegno sacerdotale per misurare fino a che profondità è sceso nell’offerta drammatica di Gesù[20].

Ciò vuol dire che il martirio dev’essere visto come il luogo privilegiato della realizzazione della vita sacerdotale. È un’esperienza che ogni sacerdote dovrebbe desiderare di aver la grazia di vivere poiché essa è, per lui, la ripresa, la riproduzione istituzionale, per così dire, dell’offerta filiale di Gesù. Ciò che Stefano Zamboni, nel suo grande libro sul martirio, dice dei credenti in generale si applica a fortiori, per le ragioni già note, ai ministri ordinati:

 

Come Gesù Cristo, ricco della gloria divina, si fa povero «svuotando» se stesso, per compiere in piena disponibilità di obbedienza la volontà d’amore del Padre (cf. Fil 2,6ss; Gv 4,34), così il discepolo che agisce in Filio, deve necessariamente assumere in sé una tale kenosi, per poter paradossalmente divenire, nel suo abbassamento, epifania della grandezza del dono di Dio[21].

 

2.3.     Il sacerdote, uomo della comunicazione dell’intimità paterna

 

“Epifania” qui non vuole evocare soltanto lo splendore, la luminosità, la manifestazione del dono divino. L’espressione comprende anche l’idea di comunicazione, di condivisione di questo dono, un po’ come i raggi del sole che non solo rischiarano, ma anche riscaldano, portano il calore. Inserito a titolo speciale nell’intimità paterna mediante la comunione all’offerta cruciforme del Figlio, il sacerdote ha accesso con il Risorto al “trono della grazia” (cf. Eb 4, 16). Lo è, unitamente all’ordine episcopale. A un grado subordinato e per mezzo di un sacramento particolare che lo segna con un carattere speciale, egli partecipa “della autorità con la quale Cristo stesso fa crescere, santifica e governa il proprio corpo”[22]. Come definire questo ministero sacerdotale? Il Vaticano II ha consacrato a questo argomento pagine brevi, ma di grande densità dottrinale e pastorale. Come cooperatori del vescovo, esso afferma, i sacerdoti hanno la funzione “di annunciare a tutti il Vangelo di Dio”[23]. Nelle sacre celebrazioni, dice ancora, agiscono “come ministri di colui che nella liturgia esercita ininterrottamente il suo ufficio sacerdotale in nostro favore per mezzo del suo Spirito”[24]. Essi esercitano, infine, “l’ufficio di Cristo capo e pastore per la parte di autorità che spetta loro”[25].

Non conviene in questo contesto riprendere tutti gli elementi ricordati dal Concilio per illustrare queste affermazioni. Per restare nella logica interna del mio intervento, vorrei piuttosto insistere sul movimento che parte dall’alto, e cioè dal Cristo “sommo sacerdote” che è penetrato, per la sua offerta filiale a nome di tutti, al di là del velo nel “santo dei santi” dell’intimità paterna. È in questa “perfezione eterna” (cf. Eb 7, 26-28) che si radica il sacerdozio ministeriale ed è in ragione di essa che la funzione centrale (non già unica) del sacerdote è di “fare l’eucaristia” compresa come presenza del Risorto nel mondo. È interessante constatare come il documento conciliare Presbyterorum Ordinis citato più di una volta in questo intervento, attribuisca all’eucaristia un posto privilegiato nel ministero e nella vita del sacerdote. Cito:

 

A ciò (all’eucaristia) tende e in ciò trova compimento il ministero dei presbiteri. Effettivamente, tale ministero che comincia con l’annuncio del Vangelo, attinge la propria forza ed efficacia dal sacrificio di Cristo, e ha come scopo che «tutta la città redenta […] si offra a Dio”[26].

 

Questa convinzione del Concilio si armonizza pienamente con il pensiero della Lettera agli Ebrei. Commentando Eb 10, 19-21. 25[27], Vanhoye osserva che il testo sacro parla al presente e dunque che i credenti hanno ora a disposizione il “sangue di Gesù”, la sua “carne” e la sua presenza sacerdotale. Come diviene accessibile questa mediazione di Cristo, si domanda il nostro autore? La risposta più plausibile, risponde, è che lo scrittore ispirato “faccia… allusione alla celebrazione dell’eucaristia”. Poi aggiunge, per rafforzare la sua interpretazione:

 

ci sono buone ragioni per pensare che l’autore (della Lettera) abbia composto il suo magnifico sermone sul sacerdozio di Cristo al fine di pronunciarlo nel corso di riunioni cristiane che comportavano precisamente l’eucaristia (cf. 1Cor 11, 17-34)[28].

 

Tra Gesù, il “sommo sacerdote” assiso ormai nel santuario presso il Padre, e il tempo della Chiesa, vi è l’eucaristia. E il sacerdote ha la missione di celebrarla in persona Christi e così di trasmettere agli uomini l’intimità di Gesù con il Padre suo.

 

 

3. Conclusione

 

Per finire, una domanda: come si situa il ministro ordinato in rapporto al sacerdozio comune dei fedeli chiamato a un “culto spirituale” (cf. Rm 12,1)[29]? È fuori della comunità, al di sopra di essa o semplicemente confuso con essa? Sappiamo che questa domanda e altre connesse furono fortemente dibattute prima del Vaticano II. La decisione del concilio di porre il “Popolo di Dio” al primo posto della sua riflessione sul mistero della Chiesa fu un punto dottrinale fondamentale per risolvere questo problema[30]. Riprendendo l’idea appena ricordata del sacerdote “uomo dell’eucaristia” e ispirandomi al contributo determinante del Concilio, mi sembra che si potrebbe rispondere alla questa domanda nella seguente maniera: il sacerdote ordinato offre al Padre a nome del Figlio “sommo sacerdote” la comunità con cui è mistericamente solidale e di cui fa parte come battezzato. Questa offerta è resa possibile dalla sua unione al Cristo sacerdote che lo incarica per dare alla Chiesa l’accesso al Padre ottenuto dal suo sacrificio glorioso. Il ministro ordinato è dunque fondamentalmente connesso alla comunità dei credenti che supera però come il “Capo”-Fonte a cui è unito supera il “Corpo”[31]. La supera non per dominarla, ma per concederle di alimentarsi alla vita filiale e condurla all’oblazione di se stessa al Padre (cf. Es 19, 6; Rm 16, 27; 1Pt 2, 9; Ap 1, 6)[32].  In altri termini, il sacerdote ordinato non è un “mercenario” che sfrutta il gregge (cf. Gv 10, 12s; Ez 34, 3-8. 14) a suo proprio vantaggio, ma un pastore che serve il suo gregge “al seguito” di Gesù, “il Pastore grande delle pecore”, come lo chiama ancora la Lettera agli Ebrei (13, 20).

 



[1] Per un buono studio delle fonti vetero- e neotestamentarie, cf. J.-M.-R. Tillard, “Sacerdoce”, in Dictionnaire de Spiritualité, t. 14, Beauchesne, Paris, 1990, 2-10.

[2] F.-X. Durrwell, La résurrection de Jésus, mystère de salut, Xavier Mappus, Le Puy/Lyon, 1963; J. Delorme (éd.), Le ministère et les ministères selon le Nouveau Testament. Dossier exégétique et réflexion théologique, Paris, Seuil, 1974; Enrique Tarancón, Les prêtres (US., 68), Cerf, Paris, 1968; G. Concetti (éd.), Il prete per gli uomini d’oggi, Ave, Roma, 1975; A. Chapelle, Pour la vie du monde. Le sacrement de l’ordre, Institut d’Études théologiques Éditions, Bruxelles, 1978; A. Vanhoye, Prêtres anciens, prêtres nouveaux selon le Nouveau Testament, Cerf, Paris, 1980; A. Manaranche, Le prêtre, ce prophète, Cerf, Paris, 1982 ; G. Greshake, Priestersein, Zur Theologie und Spiritualität des priesterlichen Amtes, Herder, Freiburg-Basel-Wien, 19915; J. Lécuyer, Le sacrement de l’ordination. Recherche historique et théologique, Beauchesne, Paris, 1983; A. Vanhoye, La ‘teleiôsis’ du Christ: point capital de la christologie sacerdotale d’Hébreux, in New Testament Studies 42(1996), 321-338; G. Ferraro, Il sacerdozio ministeriale. Dottrina cattolica sul sacramento dell’Ordine, Grafite, Napoli, 1999 ; G. Berceville, Le sacerdoce du Christ dans le commentaire de l’Épître aux Hébreux de saint Thomas d’Aquin, dans RT 99(1999), 143-156; B.-D. de La Soujeole, Prêtre du Seigneur dans son Église, Parole et Silence, Paris, 2009; B. Sesboüé, Invitation à croire. II: Des sacrements crédibles et désirables (Théologies), Paris, Cerf, 2009, 254-276.

[3] Le citazioni bibliche sono tratte dalla nuova versione della traduzione della Conferenza episcopale italiana (2008).

[4] Che è da sempre, ma che è anche trasformatrice della sua “carne” mediante la croce di obbedienza. Ritornerò dopo su questo punto.

[5] Si vedano per esempio i racconti marciani del battesimo, della tentazione, dell’agonia e della morte di Gesù con i commentari rispettivamente di R. Pesch, Das Markusevangelium (HThKNT., II), Herder, Freiburg-Basel-Wien, 1976, di S. Légasse, L’Évangile de Marc (LecDivCom. 5), I-II, Cerf, Paris, 1997, di A. Feuillet, L’agonie de Gethsémani. Enquête exégétique et théologique suivie d’une étude du “mystère” de Jésus de Pascal, Gabalda, Paris, 1977.

[6] Su 2Cor 5, 21, cf. il mio studio L’«élévation» du Fils, axe de la vie morale, Fides, Montréal, 2001, 124s. (con bibliografia). Per Gal 3, 13 et Rm 8, 3, cf. rispettivamente i commentari di S. Légasse, L’épître de Paul aux Galates (LecDivCom., 9), Cerf, Paris, 233s.; S. Légasse, L’Épître de Paul aux Romains (LecDivCom., 10), Cerf, Paris, 484s; R. Penna, Lettera ai Romani, II. Rm 6-11, Versione e commento, EDB, Bologna, 2006, 136-142.

[7] Questi avvenimenti sono raccontati con accenti e sfumature diversi dalla tradizione sinottica (cf. Mt 26, 36 e parall.). Cf. anche Gv 12, 27.

[8] Cf. Gv 1, 18; 7, 33; 8, 21; 12, 35; 13, 3; 16, 5; 17, 11.13; 20, 17.

[9] A. Vanhoye, Gesù Cristo il mediatore nella Lettera agli Ebrei (Commenti e studi biblici, Sezione Studi biblici), Cittadella Editrice, Assisi, 2007, 132. (Traduzione corretta da me e sottolineatura mia). Per uno studio recente sull’argomento, vedere J. Kurianal, Christ having been perfected through suffering declared High priest (Heb 5, 1-4), dans Ephrem’s Theological Journal 11(2007), 5-22.

[10] Ibid. 152. È l’opinione più comune presso gli esegeti. Vi si oppose invece, recentemente, H.W. Attridge, La Lettera agli Ebrei, LEV, Città del Vaticano, 1999, 420-421.

[11] A. Georges, “Sacerdozio”, in Dizionario di Teologia Biblica, Marietti, Genova, 19765, 966. Citiamo anche in questo contesto questa osservazione di J.-M.-R. Tillard: “Dans la ligne d’Irénée, en écho à Éph 1, 10, on pourrait dire que s’opère dans le Christ Jésus comme une anakephalaiôsis, une récapitulation du sacerdoce primordial dont celui d’Aaron lui-même dépendait de par sa bénédiction donnée au père de sa race, Abraham, par Melchisédech, le mystérieux roi de Salem (donc de paix) prêtre du Dieu Très-Haut (He 7, 1)”, “Sacerdoce”, 5.

[12] Presbyterorum Ordinis, 2 (PO) (Enchiridion Vaticanum, 1, 1245.1246).

[13] N. 1142; 1369; 1562-1563; 1566; ecc.

[14] N. 29.

[15] N. 23.

[16] PO, 2 (Enchiridion Vaticanum, 1, 1246).

[17] Ritornerò dopo e in un altro contesto sulla funzione di santificazione in rapporto con l’eucarestia.

[18] È a ragione che B. Sesboüé precisa: “L’évêque et le prêtre ne sont pas des médiateurs au sens de l’ancien sacerdoce: ils sont les ministres de l’unique Médiateur, Jésus, le Christ. Ils rendent visible et effective son unique médiation” Invitation, 274. (Sottolineatura dell’autore).

[19] Senza negare che si possa attribuire un analogo atteggiamento ai membri del popolo di Dio, “popolo sacerdotale”, a condizione di precisare che questo atteggiamento è di costituzione differente da quello dei ministri ordinati. Si sono visti grandi santi come Caterina da Siena, Teresa di Lisieux e tanti altri prima e dopo di loro, offrire loro vita a Dio a nome dei non credenti. Ecco la testimonianza di Teresa di Lisieux a questo riguardo: “Hélas! Les ténèbres n’ont pas compris que ce Divin Roi était la lumière du monde... Mais Seigneur, votre enfant l’a comprise votre divine lumière, elle vous demande pardon pour ses frères. Elle accepte de manger aussi longtemps que vous le voudrez le pain de la douleur et ne veut point se lever de cette table remplie d’amertume où mangent les pauvres pécheurs avant le jour que vous avez marqué... [...] Ô Jésus s’il faut que la table souillée par eux soit purifiée par une âme qui vous aime, je veux bien y manger seule le pain de l’épreuve jusqu’à ce qu’il vous plaise de m’introduire dans votre lumineux royaume” Manuscrit C, 6ro, in Sainte Thèrèse de l’Enfant-Jésus et de la Sainte-Face, Oeuvres complètes, Cerf/DDB, Paris, 1996, 241-242. (Sottolineatura mia).

[20] Cf. il mio articolo, Il martirio oggi. Forme e motivi, in HTh 24(2006), 439-451 (con bibliografia).

[21] S. Zamboni, Chiamati a seguire l’Agnello. Il martirio compimento della vita morale, EDB, Bologna, 2007, 361.

[22] PO, 2 (Enchiridion Vaticanum, 1, 1246).

[23] PO, 4 (Enchiridion Vaticanum, 1, 1250).

[24] PO, 5 (Enchiridion Vaticanum, 1, 1252).

[25] PO, 6 (Enchiridion Vaticanum, 1, 1257).

[26] PO, 2 (Enchiridion Vaticanum, 1, 1247).

[27] “Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che gli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero […]; non disertiamo le nostre riunioni, come alcuni hanno l’abitudine di fare, ma esortiamoci a vicenda, tanto più che vedete avvicinarsi il giorno del Signore”.

[28] Vanhoye, Gesù Cristo, 255.

[29] Culto su cui insiste la recente Esortazione Apostolica post-sinodale di Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, 70.

[30] Su questo punto, cf. G. Philips, La Chiesa e il suo mistero. Storia, testo e commento de la Lumen Gentium, Jaca Book, Milano, 19863, 119s.

[31] Leone Magno ha il suo modo di esprimere questa diversità nell’unità: “è così che si celebra nell’intero corpo della Chiesa il mistero unico del sacerdozio: quando l’olio della benedizione si è diffuso, esso scorre più abbondantemente, è vero, sulle membra superiori, ma non è con parsimonia che raggiunge anche le membra poste più in basso” Sermo IV: In anniversario die ejusdem assumptionis,1 (PL 54, 149).

[32] Per completare, cf. il CCC, 1548. 1551, ecc.