Convegno Teologico
Aula Magna
della Pontificia Università
Lateranense,
giovedì 11 e venerdì 12 marzo 2010
LA LITURGIA FERITA
All’origine del Movimento liturgico, vi era la volontà
del Papa san Pio X, in particolare nel motu proprio Tra le sollecitudini (1903), di restaurare la liturgia e renderne
maggiormente accessibili i tesori affinché ridiventasse la fonte di una vita
autenticamente cristiana, proprio per rilevare la sfida di una crescente
secolarizzazione e incoraggiare i fedeli a consacrare il mondo a Dio. Da qui,
la definizione conciliare della liturgia come “culmine e fonte della vita e
della missione della Chiesa”. Contro ogni aspettativa, come hanno spesso
rilevato Papa Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI, l’attuazione della
Riforma liturgica, a volte, ha portato ad una sorta di desacralizzazione sistematica,
mentre la liturgia si è lasciata progressivamente pervadere dalla cultura
secolarizzata del mondo circostante perdendo così la sua natura e la sua
identità: “Questo Mistero di Cristo la
Chiesa annunzia e celebra nella sua Liturgia, affinché i fedeli ne vivano e ne
rendano testimonianza nel mondo”: (CCC n. 1068).
Senza
negare i frutti autentici della riforma liturgica, si può dire tuttavia che la
liturgia è stata ferita da ciò che Giovanni Paolo II ha definito “pratiche non accettabili”
(Ecclesia de Eucharistia, n. 10) e
Benedetto XVI ha denunciato come “deformazioni al limite del sopportabile”
(Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum). Così è stata ferita
anche l’identità della Chiesa e del sacerdote.
Negli
anni postconciliari si assisteva ad una sorta di opposizione dialettica fra i
difensori del culto liturgico e i promotori dell’apertura al mondo. Siccome
questi ultimi arrivavano a ridurre la vita cristiana al solo impegno sociale,
in base a un’interpretazione secolare della fede, i primi, per reazione, si
rifugiavano nella pura liturgia fino al “rubricismo”, col rischio di incoraggiare
i fedeli a proteggersi eccessivamente dal mondo. Nell’esortazione apostolica Sacramentum Caritatis, Benedetto XVI
pone fine a questa polemica e ricompone questa opposizione. L’azione liturgica
deve riconciliare la fede e la vita. Proprio in quanto celebrazione del Mistero
pasquale di Cristo, reso realmente presente in mezzo al suo popolo, la liturgia
dà una forma eucaristica a tutta la vita cristiana per farne un “culto
spirituale gradito a Dio”. Così, l’impegno del cristiano nel mondo e il mondo
stesso, grazie alla liturgia, sono chiamati ad essere consacrati a Dio.
L’impegno del cristiano nella missione della Chiesa e nella società trova,
infatti, la sua sorgente e il suo impulso nella liturgia, fino ad essere
attirato nel dinamismo dell’offerta d’amore di Cristo che vi è attualizzata.
Il
primato che Benedetto XVI intende dare alla liturgia nella vita della Chiesa –
“Il culto liturgico è l’espressione più alta della vita sacerdotale ed episcopale”,
ha detto ai vescovi di Francia riuniti a Lourdes il 14 settembre 2008 in
assemblea plenaria straordinaria – vuole mettere di nuovo l’adorazione al
centro della vita del sacerdote e dei fedeli. Invece e al posto del
“cristianesimo secolare” che ha spesso accompagnato l’attuazione della riforma
liturgica, Papa Benedetto XVI intende promuovere un “cristianesimo teologale”, il
solo in grado di servire quella che ha definito la priorità che predomina in questa
fase della storia, ossia “rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli
uomini l’accesso a Dio” (Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica, 10 marzo
2009). Dove, infatti, meglio che nella liturgia, il sacerdote approfondisce la
propria identità, così ben definita dall’autore della Lettera agli Ebrei: “Ogni
sommo sacerdote, preso fra gli uomini, viene costituito per il bene degli
uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i
peccati” (Eb 5, 1)?
L’apertura al mondo auspicata dal Concilio Vaticano II
è stata spesso interpretata, negli anni postconciliari, come una sorta di
“conversione alla secolarizzazione”: questo atteggiamento non mancava di
generosità, ma portava a trascurare l’importanza della liturgia e a minimizzare
la necessità di osservare i riti, ritenuti troppo lontani dalla vita del mondo
che bisognava amare e con il quale bisognava essere pienamente solidali, fino a
lasciarsi affascinare da esso. Ne è risultata una grave crisi di identità del
sacerdote che non riusciva più a percepire l’importanza della salvezza delle anime
e la necessità di annunciare al mondo la novità del Vangelo della Salvezza. La
liturgia è, senza dubbio, il luogo privilegiato dell’approfondimento
dell’identità del sacerdote, chiamato a “combattere la secolarizzazione”;
poiché, come dice Gesù, nella sua preghiera sacerdotale: “Non chiedo che tu li
tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno. Essi non sono del mondo,
come io non sono del mondo. Consacrali nella verità. La tua parola è verità” (Gv 17, 15-17).
Questo certamente sarà possibile attraverso una più
rigorosa osservazione delle prescrizioni liturgiche che preservano il sacerdote
dalla pretesa, pur inconsapevole, di attirare l’attenzione dei fedeli sulla sua
persona: il rituale liturgico che il celebrante è chiamato a ricevere filialmente
dalla Chiesa permette, infatti, ai fedeli di giungere più facilmente alla
presenza di Cristo Signore del quale la celebrazione liturgica deve essere il
segno eloquente e che deve avere sempre il primo posto. La liturgia è ferita
quando i fedeli sono lasciati all’arbitrio del celebrante, alle sue manie, alle
sue idee o opinioni personali, alle sue stesse ferite. Ne consegue anche l’importanza
di non banalizzare dei riti che, strappandoci al mondo profano e dunque alla
tentazione dell’immanentismo, hanno il dono di immergerci di colpo nel Mistero
e di aprirci alla Trascendenza. In questo senso, non si sottolineerà mai
abbastanza l’importanza del silenzio che precede la celebrazione liturgica,
nartece interiore dove ci si libera delle preoccupazioni, pur legittime, del
mondo profano, per entrare nel tempo e nello spazio sacri, dove Dio rivelerà il
suo Mistero; del silenzio nella liturgia per aprirsi più sicuramente all’azione
di Dio; e la pertinenza di un tempo di azione di grazia, integrato o non nella
celebrazione, per prendere la misura interiore della missione che ci attende, una
volta ritornati nel mondo. L’obbedienza del sacerdote alle rubriche è anch’essa
segno silenzioso ed eloquente del suo amore per la Chiesa di cui non è che il
ministro, cioè il servitore.
Ne deriva l’importanza anche della formazione dei
futuri sacerdoti alla liturgia e specialmente alla partecipazione interiore,
senza la quale la partecipazione esteriore preconizzata dalla riforma sarebbe
senz’anima e favorirebbe una concezione parziale della liturgia che si
esprimerebbe in termini di teatralizzazione eccessiva dei ruoli,
cerebralizzazione riduttiva dei riti e autocelebrazione abusiva dell’assemblea.
Se la partecipazione attiva, che è il principio operativo della riforma liturgica,
non è l’esercizio del “senso soprannaturale della fede”, la liturgia non è più
opera di Cristo, ma degli uomini. Insistendo sull’importanza della formazione
liturgica dei sacerdoti, il Concilio Vaticano II fa della liturgia una delle
discipline principali degli studi ecclesiastici, evitando di ridurla ad una formazione
puramente intellettuale: infatti, prima di essere un oggetto di studio, la
liturgia è una vita, o meglio, è “passare la propria vita a passare nella vita
di Cristo”. È l’immergersi per eccellenza di ogni vita cristiana: immersione
nel senso della fede e nel senso della Chiesa, nella lode e nell’adorazione,
come nella missione.
Siamo dunque chiamati ad un autentico “sursum corda”. La frase del prefazio “in
alto i nostri cuori” introduce i fedeli al cuore del cuore della liturgia: la
Pasqua di Cristo, cioè il suo passaggio da questo mondo al Padre. L’incontro di
Gesù Risorto con Maria Maddalena, la mattina della Risurrezione, è in questo senso
molto significativo: con il suo “noli me
tangere” Gesù invita Maria Maddalena a “guardare alle realtà dell’alto”, facendole
notare di non essere ancora salito al Padre nel suo cuore e invitandola appunto
ad andare a dire ai discepoli che egli deve salire al suo Dio e nostro Dio, a suo
Padre e nostro Padre. La liturgia è esattamente il luogo di questa elevazione,
di questa tensione verso Dio che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con questo,
il suo orientamento decisivo. A patto di non considerarla come materiale
disponibile alle nostre manipolazioni troppo umane, ma di osservare, con
un’obbedienza filiale, le prescrizioni della Santa Chiesa.
Come affermava Papa Benedetto XVI nella conclusione
della sua omelia nella solennità dei Santi Pietro e Paolo del 2008: “Quando il
mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, quando nella sua realtà
sarà diventato adorazione, allora avrà raggiunto la sua meta, allora sarà sano
e salvo”.