Convegno Teologico

Aula Magna

della Pontificia Università Lateranense,

giovedì 11 e venerdì 12 marzo 2010

 

«Fedeltà di Cristo, fedeltà del Sacerdote»

 

Comunicazione di Mons. Fortunatus Nwachukwu,

Capo del Protocollo, Segreteria di Stato

 

 

CELIBATO, CASTITÀ E VERGINITÀ

           

Introduzione: vecchie o nuove questioni?

           

            Il celibato «deve ancor oggi sussistere per coloro che intendono  accedere agli ordini sacri maggiori? È oggi conveniente l'osservanza di un tale obbligo? Non sarebbe maturato il tempo per scindere il vincolo che unisce nella Chiesa il celibato al sacerdozio? Non potrebbe essere facoltativa questa difficile osservanza? Non ne sarebbe favorito il ministero sacerdotale, facilitato l'avvicinamento ecumenico?».

            Non facciamoci ingannare. Queste non sono domande nuove e non sono mie. Se le è poste Paolo VI, più di quarant'anni fa, nell'enciclica Sacerdotalis caelibatus (24 giugno 1967, n. 3). Tuttavia, rassomigliano perfettamente alle preoccupazioni di oggi. Sembra mancare soltanto una domanda, forse perché il problema che affronta non era a quel tempo tanto concreto come è oggi. La scelta del matrimonio non contribuirà a impedire i reati di pedofilia perpetrati dai sacerdoti?

            Sia chiaro: i problemi legati alla pratica del celibato non sono nuovi. Sono sempre esistiti, ma hanno acquisito una rilevanza e un'urgenza particolare in questi ultimi anni (cfr Congregazione per l'Educazione Cattolica, Orientamenti educativi per la formazione al celibato sacerdotale, 1974, n. 3). A questo proposito, Paolo VI stesso ha osservato che «si è manifestata anche la tendenza, anzi l'espressa volontà  di sollecitare  la Chiesa a riesaminare questo suo istituto caratteristico, la cui osservanza secondo alcuni sarebbe resa ora  problematica e quasi impossibile nel nostro tempo  e nel nostro mondo» (Sacerdotalis caelibatus, n. 3).

            Sebbene i problemi non siano nuovi, attualmente le questioni emerse a tale proposito sembrano avere maggiore persistenza e risonanza. Ciò è attribuibile a un notevole aumento della consapevolezza pubblica, dovuto al ruolo crescente dei mezzi di comunicazione sociale, nonché a un migliore accesso all'educazione e alla conoscenza dei diritti umani e della legge. Oggi, a volte, la Chiesa stessa è messa sotto pressione dall'opinione pubblica e spesso condizionata da correnti ideologiche che la vorrebbero indurre nella tentazione di cercare risposte socialmente allettanti, che non necessariamente corrispondono alla fondazione evangelica del suo insegnamento. Piuttosto spesso, ciò che è messo abilmente in dubbio non è l'importanza dell'una o dell'altra pratica nella Chiesa, ma di la centralità Gesù Cristo stesso il quale è alla base di ogni insegnamento.

            Tuttavia, le questioni non sono sempre sollevate da avversari esterni alla Chiesa. A volte, provengono anche da cattolici devoti e ben intenzionati, forse preoccupati perché sanno che alcuni sacerdoti sarebbero bravi, se non «faticassero» a soddisfare le esigenze del celibato, e che l'infedeltà di alcuni di essi tende a rendere difficile per la Chiesa rendere una testimonianza credibile del Vangelo. Come ha osservato il professor Heid nel suo intervento, le pratiche del celibato, della castità e della verginità sacerdotali risalgono ai primissimi giorni della Chiesa. Tuttavia, il recente magistero ha continuato a nutrire grande interesse per questo argomento. Oltre alla summenzionata Enciclica di Paolo VI, si potrebbero ricordare anche, negli ultimi sessant'anni, la Lettera Enciclica Sacra Virginitas di Pio XII (25 marzo 1954), i Decreti del Concilio Vaticano II Optatam totius (28 ottobre 1965) sulla formazione dei sacerdoti  e Presbyterorum ordinis (7 dicembre 1965), sul ministero e sulla vita dei presbiteri o anche l'esortazione post-sinodale sulla formazione dei sacerdoti, Pastores dabo vobis di Giovanni Paolo II (25 marzo 1992). A questi documenti si possono aggiungere le indicazioni contenute nel Codice di Diritto Canonico e nel Catechismo della Chiesa cattolica, le varie istruzioni pubblicate dai Dicasteri della Curia Romana, in particolare dalle Congregazioni per il Clero e per l'Educazione cattolica nonché le differenti omelie e i vari discorsi a tale riguardo del Romano Pontefice Papa Benedetto XVI. Il Papa è anche ritornato sulla questione con un certo numero di interventi e di colloqui spontanei con il clero e con i seminaristi durante alcune sue visite pastorali. Per esempio, il 6 agosto 2008, durante l'incontro con il Clero della Diocesi di Bolzano-Bressanone, ha affermato che «ci sarà sempre bisogno del sacerdote che è completamente dedito al Signore e perciò completamente dedito all'uomo». Poi ha continuato affermando che «il celibato» è «un'espressione fondamentale di questa totalità» ed «esso ha senso soltanto se crediamo veramente  la vita eterna e se crediamo  che Dio ci impegna e che noi possiamo esserci per Lui»

            Il fine di questo intervento non è studiare in che modo la Chiesa deve rispondere a questi problemi, a queste domande e obiezioni. Si tratta piuttosto di individuare il significato, nonostante tutto, di una vita di celibato, di castità e di verginità. Di certo, molto dei contenuti dei documenti summenzionati resta valido ancora oggi, come i problemi che essi affrontano. Uno sguardo alla storia e alle esperienze di altre tradizioni ecclesiali (non latine), dimostrerebbe che anche l'opzione del matrimonio non è una panacea per la lotta ai problemi  spesso sollevati come obiezioni al celibato sacerdotale, mentre il rimedio fondamentale è una formazione valida. Inoltre, uno sguardo alle comunità religiose con regole di vita esigenti e a ordini monastici di stretta osservanza, tende a evidenziare che, perfino ai nostri giorni, i giovani sono ancora in cerca di sfide e se i livelli vengono abbassati, molti non sono più attratti perché possono trovare facili alternative altrove.

 

 

Un'importanza perenne e una sfida universale

           

            L'interesse dimostrato dal magistero per i temi del celibato, della castità e della verginità sacerdotali sottolinea la loro rilevanza e la loro importanza costanti per la vita e la missione della Chiesa. Evidenzia anche il carattere perenne e universale della sfida implicita in tali pratiche. Essa non è né legata ai tempi né geograficamente circoscritta. Nessuna persona che vive in qualsiasi parte del nostro pianeta dovrebbe considerarsi immune da tali questioni o comportarsi come se le avessero eliminate. È semplicemente non vero che certe popolazioni o culture sono meno adatte di altre a queste pratiche. Quello che si può dire è che alcune esperienze storiche, nei rapporti fra popolazioni, hanno spesso prodotto certi stereotipi e una tendenza a concentrarsi solo sugli errori di alcuni e ad applicarli in modo generalizzato a tutti i membri di una stessa popolazione, denigrando così la loro cultura e la loro mentalità, insinuando che sono incapaci o, in ogni caso, meno adatti di altri al celibato, alla castità e alla verginità. Tuttavia, i recenti spiacevoli avvenimenti in varie regioni del mondo sono un aspro rimprovero a questa tendenza arrogante. La debolezza umana, che causa infedeltà all'impegno al celibato, è universale. Così anche, a Dio piacendo, è la grazia divina che permette l'adesione feconda all'impegno assunto con l'ordinazione sacerdotale. Il celibato è un dono di Dio, attraverso lo Spirito Santo che soffia dove vuole (Giovanni 3, 8) e deve essere alimentato da fede, amore e umiltà.

            Si può anche affermare che ovunque l'opera di evangelizzazione sia stata efficace, e alcuni missionari sono stati eccellenti non solo  nel radicamento iniziale della fede, ma anche nella formazione dei seminaristi, spesso ci si imbatte nel passaggio, nel lasso di tempo di tre generazioni, dalla pratica della poligamia a quella della monogamia e poi a quella del celibato. È il caso di sacerdoti o religiosi  che sono felicemente celibi, sebbene i loro genitori siano stati monogami e i loro nonni poligami.

            Il principio di universalità non si applica solo alla sfida del celibato, della castità e della verginità, ma anche al riconoscimento del loro valore. La maggior parte delle culture ha a cuore la verginità, fino a una certa fase della vita, spesso fino al matrimonio, forse per  garantire che il primo figlio di una donna sia del marito. Nello stesso modo, in molte società, la castità, almeno per un certo periodo di tempo, è molto valutata e a volte considerata indispensabile nella preparazione per alcuni riti religiosi. Questi casi non vanno confusi  con il celibato sacerdotale e con la verginità e la castità ad esso collegate, ma indicano la presenza di un terreno fertile o di un certo primo seme di questa pratica sacerdotale.

            A tale proposito, nel 2005, in occasione del Sinodo dei Vescovi sull'Eucaristia, il Cardinale Peter Turkson ha affermato che i ministri delle religioni tradizionali africane si astengono per tre giorni dai rapporti sessuali prima di compiere i riti religiosi. Quindi ha detto: «chi dice che per la mentalità africana il celibato è inconcepibile dice una cosa non vera» (30 giorni, ottobre 2005). Infatti, fra gli Igbo della Nigeria il periodo di astinenza era a volte superiore a tre giorni, secondo il significato dell'evento, ed era accompagnato da rituali speciali di autopreparazione che si supponeva creassero contatti con il mondo spirituale e ancestrale. Alla fine di questo periodo, il «sacerdote» veniva considerato carico di particolari poteri spirituali. Queste pratiche sono state una base utile per i missionari per insegnare la castità permanente, intrinseca al celibato sacerdotale. Spiegano anche, in una certa misura, l'alta considerazione di quelle  persone per i sacerdoti cattolici che, oltre alla temporanea continenza praticata anche dai loro «sacerdoti tradizionali», sceglievano una vita di astinenza perpetua.

           

 

Concetti differenti, ma interrelati

           

            Sebbene presenti in varie forme e in differenti culture, il celibato, la castità e la verginità praticate nella Chiesa hanno un significato  distinto da quello che viene loro comunemente attribuito e che tende a considerarli concetti differenti. In questo tipo di terminologia popolare, il celibato è inteso come lo stato civile dell'essere soli, distinto da quello di avere un coniuge. Non richiede né implica necessariamente la castità o la verginità. D'altro canto, la castità, che non è legata ad alcun particolare stato civile, tende a essere intesa secondo la sua etimologia latina (castitas, ossia «pulizia», «purezza») o greca (sophrosyne, ovvero «moderazione»), per cui per alcuni implica l'evitare i rapporti sessuali e per altri significa semplicemente moderazione o autocontrollo in tali rapporti. La verginità è concepita comunemente come l'assenza di esperienza sessuale dalla nascita. Questo, per alcune persone, implica l'integrità di alcuni organi, in particolare nelle donne, mentre per altre l'integrità si riferisce all'essere «puri» o semplicemente «nuovi».

            Contrariamente all'idea popolare, il celibato sacerdotale nella Chiesa cattolica è intrinsecamente legato alla castità e alla verginità. Non implica soltanto uno stato civile, ma anche uno stato di continenza che è il risultato della donazione totale di sé al Signore nella Chiesa. Il Codice di Diritto Canonico è piuttosto chiaro su cosa ci si aspetta dagli ecclesiastici a questo proposito (can. 277 § 1):

            «I chierici sono tenuti all'obbligo  di osservare  la continenza  perfetta e perpetua per il regno dei cieli, perciò sono vincolati al celibato, che è un dono particolare di Dio mediante il quale i ministri sacri possono aderire più facilmente a Cristo con cuore indiviso e sono mesi in grado di dedicarsi più liberamente al servizio di Dio e degli uomini».

            È in questa continenza perfetta e perpetua che il celibato sacerdotale trova il suo significato autentico, che condivide con la castità e con la verginità. Infatti, la «purezza» e la «moderazione» indicate dalla «castità» nonché l'«assenza di esperienza sessuale» indicata dalla verginità, al di là di qualunque connotazione fisica o corporea, convergono tutte in questo concetto di continenza perfetta che per il sacerdote deve anche essere perpetua. Di conseguenza, un celibato sacerdotale autentico implica non solo lo stato sociale dell'essere soli, ma anche la virtù della castità e la condizione di verginità. Ciò significa che, sebbene un sacerdote diocesano non emetta voti specifici di castità o di verginità, come i religiosi, il suo impegno per il celibato implica la stessa continenza perfetta e perpetua prevista  dai voti.

            Ci si potrebbe chiedere: in che senso al sacerdote celibe viene richiesto di essere vergine?

            Sebbene l'uso comune tenda ad applicare la verginità solo alle donne, il concetto che essa esprime non è limitato ad un solo sesso  e può anche, in alcune circostanze, essere applicato a un sacerdote casto. Si è osservato che la verginità implica non solo un'integrità sessuale fisica o «l'essere nuovi», ma anche una condizione  di perfetta continenza dalla nascita. Per il cristiano, la nascita non è  soltanto fisica. La nascita più importante non è necessariamente  quella fisica, ma anche la nascita o rinascita sacramentale in Cristo, attraverso lo Spirito Santo.

            Gesù stesso dichiara enfaticamente che «se uno non nasce anothen (greco per “dall'alto”)... da acqua e Spirito, non può vedere il regno  di Dio» (Giovanni 3, 3,5). Questo concetto di rinascita è presente in tutto il Vecchio Testamento e sottende l'intero messaggio cristiano. Paolo VI lo sottolinea nell'Enciclica Sacerdotalis  caelibatus (n. 19):

            «Il Signore Gesù, unigenito di Dio,  inviato  dal Padre  nel mondo,  si fece uomo affinché l'umanità., soggetta  al peccato  e alla morte,  venisse  rigenerata  e, mediante una nascita nuova (Giovanni 3,5; Tito, 3, 5) entrasse  nel regno  dei cieli. Consacratosi tutto alla volontà  del Padre, (Giovanni 4, 34; 17,4) Gesù compì mediante il suo mistero pasquale questa nuova creazione,(2 Corinzi 5, 17; Galati 6, 15) introducendo  nel tempo e nel mondo una forma nuova, sublime, divina, di vita che trasforma la stessa condizione terrena dell'umanità (Galati 3, 28)».

            Infatti, il concetto di rinascita è talmente fondamentale che il Nuovo Testamento tende a suddividere l'intera vita di un cristiano in due parti: prima e dopo l'incontro con Cristo (1 Pietro 1, 23; Tito 3; 2 Corinzi 5,17; Efesini 2, 12; 1 Corinzi 2, 14; Apocalisse, 1, 8; Romani 8, 9b). Nella vita della Chiesa, questa rinascita viene realizzata attraverso i sacramenti, che sono «efficaci segni della grazia... attraverso i quali  ci viene elargita  la vita divina» (Catechismo  della Chiesa cattolica, n. 1131). Il rinnovamento della rinascita si realizza anche attraverso i sacramentali, istituiti dalla Chiesa «per la santificazione di alcuni ministeri, di alcuni stati di vita, di circostanze molto varie  della vita cristiana, così come dell'uso di cose utili all'uomo» (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1668). Sia nei sacramenti sia nei sacramentali, il principio di rinascita è lo Spirito Santo. Per il cristiano, il Mistero dell'Incarnazione, divide la storia umana in due parti: prima e dopo Cristo. Nello stesso modo, l'incontro con Gesù Cristo, «l'Alfa e l'Omega» (Apocalisse, 1, 8) divide la vita del cristiano in un «prima e in un dopo», che cominciano rispettivamente dalla nascita fisica e dalla rinascita spirituale in Cristo.

            Questo significa che, se la verginità implica generalmente integrità sessuale o «purezza» dalla nascita a livello fisico, per il cristiano significa anche un'integrità simile - la perfetta continenza! - coltivata coscientemente dal momento della rinascita o «rinnovamento».

            Questa interpretazione della verginità non sminuisce il suo contenuto né il suo valore. Anzi ne amplia e nobilita il significato. L'importanza dell'integrità fisica non è messa in dubbio. Per il cristiano resta una partecipazione simbolica basilare alla passione e alla morte di Cristo nella carne. Tuttavia, la verginità, quando è limitata solo all'integrità sessuale fisica dalla nascita, può non essere necessariamente una decisione e una scelta, ma anche il frutto di circostanze fuori dal controllo di una persona, come l'ambiente in cui è nata e cresciuta. Se, tuttavia, ad essa si aggiunge la dimensione di rinascita, la verginità acquisisce pienamente la dignità di una condizione scelta, amata e alimentata coscientemente. È anche enfatizzato il ruolo dello Spirito Santo, nel principio della rinascita. È lo Spirito Santo che costantemente rinnova la vita e la decisione presa, e conforma la persona vergine all'immagine di Gesù Cristo, che oltre ad avere la divina perfezione, è stato pienamente umano in tutte le cose, inclusa la tentazione e le necessità fisiche (fame, sete, dolore), eccetto il peccato. Come afferma la Lettera degli Ebrei (2, 18) «Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e aver sofferto, personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova»  

            Quest'idea di verginità si ripropone nella tradizione liturgica della Chiesa. Si pensi a varie persone consacrate che sono celebrate dalla Chiesa come vergini, sebbene siano cresciute in circostanze particolarmente difficili, che potrebbero aver compromesso la loro integrità fisica prima del loro incontro  con Cristo e della loro rinascita in Lui. Un esempio recente è la nobile figura di santa Josephine Bakhita, presa come schiava quando era ancora una bambina. Non è difficile immaginare in che modo i padroni trattassero le giovani schiave e che cosa quella bambina abbia dovuto sopportare nelle mani dei suoi padroni arabi e ottomani, prima di venir acquistata dal diplomatico italiano Callisto Legnani. Fu il signor Legnani a portare Bakhita in Italia dove riguadagnò la sua libertà, si convertì al cristianesimo e divenne una religiosa. In un certo senso, la sua vera vita cominciò solo con il suo incontro con Cristo e la sua entrata nell'Istituto delle Figlie della Carità, dette Canossiane. È un segno di grande saggezza da parte della Chiesa renderle onore e celebrarla nella  liturgia come «religiosa e vergine». Prima di lei, un trattamento simile era stato riservato ad altri come sant'Afra, che, dopo essere stata una prostituta, conobbe Cristo e in seguito venne martirizzata a motivo della sua fede. Anche lei è celebrata dalla Chiesa come «vergine e martire» ed è stata eletta patrona della città e della Diocesi di Augusta in Germania.

           

 

Più di un mero digiuno perpetuo

           

            Ho già detto che il celibato sacerdotale condivide il nucleo comune della perfetta continenza con la castità e la verginità. Alla base dell'idea di continenza ci sono le pratiche dell'autolimitazione e dell'astinenza, e, di conseguenza, del digiuno. Ciò significa che celibato, castità e verginità implicano tutti una certa forma di digiuno permanente. Implicano tutti una rinuncia a qualcosa che altrimenti sarebbe desiderabile, una mortificazione, e di conseguenza un sacrificio. Tutti, come il digiuno, presuppongono un certo desiderio o appetito umano, potenziale o reale, che come la fame o la sete nel digiuno, non viene soddisfatto, ma controllato attraverso l'autolimitazione. Per quanto riguarda il celibato questo desiderio è legato al matrimonio, mentre per la castità e la verginità è associato all'attività sessuale e al godimento. Nel digiuno, l'oggetto dell'astinenza di una persona non può essere una cosa per cui non ha appetito. Un individuo che non fuma non può scegliere di astenersi dal fumo così come uno a cui non piacciono i dolci, o non ne mangia, non può scegliere di «digiunare» non ingerendo cheese-cake! Nello stesso modo, solo persone capaci di attività sessuale e di godimento possono validamente intraprendere la pratica del celibato sacerdotale.

            Il punto debole di quest'analogia con il digiuno è che tende a concentrarsi su una sola dimensione del celibato, quella dell'astinenza o dell'elusione di certi comportamenti e pratiche. Se considerato solo da questo punto di vista, il celibato diventa uno stile di vita triste e perfino terrificante, composto solo una serie di mortificazioni. Ciò sarebbe scorretto perché il celibato è essenzialmente uno stile di vita positivo, che mette il sacerdote totalmente al servizio di Dio e degli altri. Il sacerdote celibe è conformato all'immagine di Gesù Cristo, Eterno Sacerdote, che, nello stesso tempo, era completamente dedito alla volontà del Padre e totalmente al servizio degli altri, al punto di divenire non solo il loro cibo (nell'Eucaristia), ma anche il sacrificio per la loro salvezza. In tal modo, il sacerdote può considerarsi veramente alter Christus, totalmente per Dio e per gli altri. La dimensione dell'astinenza, sebbene essenziale, dovrebbe servire soltanto come strumento per raggiungere questo più pieno significato  del celibato. È per questo  motivo che l'uso del digiuno qui ha solo funzione di esempio.

            Tuttavia, sarebbe anche sbagliato considerare il digiuno come essenzialmente negativo. Bisogna evitare un'idea dura e restrittiva di tale pratica. Il digiuno è apprezzato e praticato, in una forma o nell'altra, nella maggior parte delle culture e delle religioni, in particolare in relazione alla preghiera, a riti di purificazione e di rinnovamento, e a nuove imprese. Nella Bibbia il digiuno si riscontra regolarmente in riferimento alla preghiera e alla penitenza (Giudici 20, 26; 1 Samuele 31,13; Neemia 9, 1; Tobia 12, 8; Luca 2, 37) sia per necessità personali e nazionali (Salmi 25,13; Gioele 2, 15) o come osservanza liturgica (Zaccaria 8, 19), in particolare nella festa del Giorno dell'Espiazione (Levitico 16, 29-34). Inoltre, per avere un significato (Isaia  58), deve essere accompagnato da compassione e sollecitudine per la giustizia sociale.

            Il digiuno non è la stessa cosa della carestia. È un atto liberamente scelto di astinenza volto a conseguire benefici maggiori sia fisicamente sia spiritualmente. Il digiuno nella nostra analogia con il celibato non è astensione da qualsiasi cibo e bevanda, altrimenti non potrebbe essere perpetuo. Si intende come astinenza da particolari cibi, bevande, abitudini, che può essere sia completa sia permanente. Infatti, Papa Leone Magno parla di digiuno «non soltanto con la parsimonia del cibo, ma soprattutto con l'astinenza dal peccato» (Sermone Quaresimale, 1-2). Non dovrebbe sorprenderci che alcune persone possano essere terrorizzate dal digiuno, mentre altre siano semplicemente scoraggiate dall'idea del celibato stesso. Dopo tutto, molte persone sono disturbate anche dall'immagine della croce e tuttavia ciò non diminuisce il suo valore per i cristiani. L'astinenza implicita nel celibato può essere la croce che il sacerdote è chiamato a portare seguendo il Signore (Matteo 10, 38). Per alcuni, la croce  può essere più pesante, per altri più leggera, ma questo non la rende di meno una croce!

            L'analogia con il digiuno ha il grande merito di fungere da importante fonte di orientamento biblico per la pratica efficace del celibato sacerdotale. Da una parte, sebbene vari testi biblici vengano citati a sostegno del celibato nonché della castità e della verginità (in particolare Matteo 19,11-12, Luca 18, 29-30 e 1 Corinzi 7, 33-35), nessuno di essi offre direttive bibliche specifiche per l'esercizio di questo modello di vita. Infatti, il testo di Matteo 19, 11-12 viene generalmente citato per presentare il celibato sacerdotale come un dono divino (v.11: «ai quali è stato concesso»), ricevuto da quanti si rendono (V.12: «eunuchi per il regno dei cieli»; Luca 18, 29-30 ricorda l'abbondante ricompensa promessa a quanti lasciano  casa, famiglia, moglie e figli  per il bene del Regno di Dio, e 1 Corinzi 7, 33-35 viene citato per presentare il sacerdote celibe come colui che aderisce totalmente  e direttamente al Signore, e si preoccupa soltanto di Lui e delle sue cose (cfr Sacerdotalis caelibatus, n. 20-22).                         Dall'altra, la Bibbia offre chiare indicazioni su come il digiuno possa essere reso  fecondo e accettabile al Signore. Sono questi i suggerimenti che vengono qui proposti, per analogia, come principi e caratteristiche di un corretto esercizio del celibato, della castità e della verginità sacerdotali. Non intendo fare qui un'esposizione dettagliata o l'esegesi di tutti i testi biblici relativi al digiuno. Dovrebbe essere sufficiente ricordare che Gesù stesso non solo ha digiunato in un certo numero di occasioni (ovvero nella tentazione e all'inizio del suo ministero), ma ha anche lasciato un chiaro insegnamento su questa pratica che potrebbe dunque essere applicata all'esercizio del celibato sacerdotale.

            A questo riguardo il testo più importante è quello di Matteo 6,1-18, una «trilogia» di Gesù relativa all'esercizio della pietà, dikaiosyne. Dopo un'ammonizione iniziale contro la pratica della pietà «davanti agli uomini per essere ammirati da loro», Gesù prosegue  e offre istruzioni precise sui tre pilastri della pietà secondo la tradizione ebraica: preghiera, elemosina e digiuno. Un rapido sguardo al testo  rivela il legame intrinseco fra i tre elementi. Infatti, l'ammonizione introduttiva di Gesù e i paragrafi sulla preghiera, sull'elemosina e sul digiuno sono legati da un flusso logico stabilito dalle espressioni di congiunzione, hotan oun (v. 2: «Dunque, quando...», «Invece, mentre»), kai hotan (v. 5 «E quando...»), hotan de (v. 16: “E quando ..», «Invece, quando...»).

            Questo vincolo fondamentale fra digiuno, preghiera ed elemosina  ha conseguenze di vasta portata. Le tre pratiche implicano un rapporto triplice: con se stessi (digiuno), con Dio (preghiera) e con il prossimo (elemosina). Il digiuno contribuisce a dominare i propri appetiti e le proprie abitudini per accrescere l'autodisciplina e in particolare per distogliere l'attenzione da se stessi (dai propri bisogni,  appetiti, desideri ardenti, brame) e concentrarla, invece, su Dio e sul proprio prossimo. In questo modo, il digiuno rende disponibili a Dio e al prossimo. Dunque, il digiuno (e ciò include tutti gli atti di astinenza e di negazione di sé, come i voti di povertà, castità e obbedienza), senza preghiera (apertura a Dio) e senza elemosina, che precorre  la condivisione cristiana o carità (apertura al prossimo), non è solo vuoto e insignificante, ma potrebbe anche equivalere a un ipocrita sadismo o divenire semplicemente un atto deliberato di orgoglio e di ostentazione di spiritualità.

            Al contrario, quando il digiuno è veramente posto alla base della preghiera e della carità, aumenta così tanto la concentrazione sul divino da divenire un canale molto efficace per la forza divina. L'implicita astinenza lascia uno spazio nel soggetto, che la preghiera riempie con la presenza e la forza divine.

            Un'altra osservazione riguarda le parole che Gesù pronuncia proprio a proposito del digiuno (Matteo 6, 16-18):

            «E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un'aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano... Invece, quando tu digiuni, profumati la testa  e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».

            Il testo è chiaro. Il digiuno non si dovrebbe praticare per ottenere l'approvazione o l'ammirazione degli altri. La domanda essenziale non è «che lode ottengo dalla gente?», ma «Che cosa pensa Dio di questa mia azione?». Pensiamo alle parole del profeta Gioele (2, 13): «Laceratevi il cuore e non le vesti». Il termine ipocrita (hypocrites, ossia attore), ripetuto varie volte in tutto il testo, chiarisce bene questo concetto. La persona che digiuna non è un attore che cerca di intrattenere spettatori umani e di ottenerne il plauso, ma una persona che, con le proprie azioni, mira all'approvazione divina. Il digiuno  deve essere vissuto come un atto gioioso («profumati la testa»  e «lavati il volto»), che crea un rapporto d'intimità («in segreto»!) fra la persona e Dio.

            Quali sono le implicazioni di questo per la pratica del celibato sacerdotale? Grazie all'analogia con il digiuno, le parole di Gesù in questo testo divengono pienamente applicabili al sacerdote impegnato nel celibato, nella castità e nella verginità. Come il digiuno, queste tre pratiche divengono, insieme con quelle della preghiera e della carità, elementi costitutivi della pietà, al servizio del Regno di Dio. Per essere completo, il celibato sacerdotale deve essere accompagnato dalla preghiera e dalla carità, che rendono il sacerdote aperto a Dio (preghiera) e al prossimo (carità).

            Quando la preghiera e la carità mancano, il celibato si concentra sul sé e si trasforma facilmente in una vuota auto-indulgenza e in un certo sadismo, in un atto di ipocrisia, di ostentazione e di orgoglio. In seguito alimenta arroganza e intolleranza verso il prossimo, in particolare verso quanti sono considerati meno capaci di onorare quell'impegno. Al contrario, l'astinenza implicita nel celibato  dovrebbe creare uno spazio, che il sacerdote dovrebbe riempire con la preghiera, con la presenza e con la forza di Dio nonché con l'amore  per il prossimo. Infatti, l'astinenza senza la carità è vana. Come afferma san Paolo: «E se anche consegnassi il mio corpo, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1 Corinzi 13, 3). Nello stesso modo un sacerdote o un religioso celibe che però è privo di amore può essere definito un rinnegato.

            Infatti, l'elemento della mortificazione insito nel concetto di digiuno, fa pensare alla dichiarazione categorica di Gesù secondo la quale «se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Giovanni 12, 24). Questo si può applicare al «morire» a se stessi implicito nel digiuno e, per analogia, nel celibato, al fine di vivere nel Signore e per il proprio prossimo? Ciò evidenzierebbe il fatto che il celibato, come il digiuno, non è un fine in sé, ma un mezzo per raggiungere una pienezza di vita a immagine di Gesù che, come pienamente umano, digiunò, fu tentato, soffrì e morì prima di risorgere in gloria (Ebrei 2, 18).

            Riassumendo, come il digiuno, il celibato non dovrebbe essere trattato come una cosa triste, per la quale il sacerdote o il religioso deve assumere un'aria mesta o disfatta per mostrare la serietà della sua devozione. Gesù desidera che l'astinenza del celibato sacerdotale sia vissuta come una fonte di intimità («in segreto») con Dio, che vede e ricompensa anche «in segreto», dunque come un rapporto che ispiri nel sacerdote una gioia, che non è solo interiore, ma anche esternamente visibile (profumati la testa e lavati il volto»). Un celibato triste è un cattivo celibato.