Convegno Teologico
Aula Magna
della Pontificia Università
Lateranense,
giovedì 11 e venerdì 12 marzo 2010
CELIBATO SACERDOTALE, CARISMA ISTITUZIONALE
Le intuizioni del sensus fidei
Meditando sul celibato sacerdotale a nessuno sfugge l’esistenza di un
problema che, se visto alla luce della fede, commuove veramente, perché fa
capire bene come la totalità di questo corpo profondamente vivo che è il Popolo
profetico di Cristo si sconvolge a volte e trema per lo stesso profondo dramma
della limitatezza umana che ha segnato la vita dei profeti e dei santi, nel
vedere con quale tremenda insufficienza della parola l’uomo deve comunicare
all’uomo la forza del messaggio e la ricchezza del dono ricevuti da Dio. Forse
non è ancora nato l’artista, il poeta, il regista cinematografico capaci di
cogliere nella vastità del suo significato questa specie tanto poco conosciuta
di incomunicabilità umana: sicuramente la più drammatica forma di
incomunicabilità, anche se al tempo stesso la più serena, perché profondamente
pervasa di umile certezza. La storia della teologia non è altro, se ben si
guarda, che la storia di questo dramma della Chiesa. E la teologia ha vissuto e
vive ancora questo stesso problema a proposito del celibato sacerdotale, nel
desiderio di tradurre in ragioni e argomenti espliciti questa profonda certezza
che la Sposa dl Cristo ha avuto sempre sul valore del dono ricevuto dallo
Sposo: « Non è da oggi — ricorda Paolo VI — che si riflette sulla molteplice
convenienza del celibato per i ministri di Dio, e anche se le ragioni
esplicite sono state varie per le varie mentalità e le varie situazioni, esse
furono sempre ispirate a considerazioni specificamente cristiane, al fondo
delle quali è la intuizione dei motivi più profondi »[1].
Ecco i due termini del
problema a cui abbiamo accennato:
a) da una parte il sensus fidei del
Popolo di Dio — l’istinto soprannaturale della comunità profetica consacrata
dallo Spirito (cfr. 1 Gv. 2, 20) — ha presentito, intuito sin dai primi
secoli della Chiesa, con intensità sempre crescente, l’intima tensione, i
vicendevoli legami che vincolavano tra loro, in un modo meraviglioso, la
verginità e il sacerdozio ministeriale istituito da Cristo;
b) d’altra
parte i Padri, i Dottori della Chiesa, i santi percepivano la realtà di tale fenomeno
carismatico: lo attestano la stima in cui è sempre stata tenuta l’esistenza di
questo vincolo e la testimonianza vissuta di una legione senza numero di
ministri di Dio che del sacro celibato facevano oggetto della loro totale
donazione al mistero di Cristo. Nasceva
pertanto la necessità di spiegare perché, non essendo la perfetta continenza
una esigenza della natura stessa del sacerdozio (cfr. 1 Tim. 3, 2-5; Tt. 1, 5-6), ma piuttosto uno speciale
carisma (cfr. Mt 19, 11-12),
c’era nondimeno in seno al Popolo di Dio l’intuita certezza che un intimo e
reale rapporto intercorreva tra la sacra verginità e la vocazione al sacerdozio
ministeriale. Rapporto che è stato progressivamente istituzionalizzato.
Cominciò così lo sforzo del
linguaggio umano per spiegare con motivi di convenienza la radice teologica di
questa vincolazione carismatica tra il sacerdozio e la perfetta continenza per
il Regno. Ma si noti bene che si è sempre trattato di motivazioni
teologiche, cioè di ragioni per tradurre in logica umana il significato di
un dono divino. Tutto ciò significa
che da una parte non si devono identificare le motivazioni di una verità con la
stessa verità motivata; e, d’altra parte, queste motivazioni — appunto perché
sono logica umana elaborata da uomini e per uomini di un determinato tempo e
mentalità — possono cambiare di valore, soffrire cioè il logorio della storia.
Il Concilio Vaticano II ha tenuto buon conto di questo fatto, a proposito del
celibato sacerdotale. Parecchie, infatti, delle motivazioni addotte a suo
favore in altre epoche e culture non avevano più lo stesso valore: non erano
più — si potrebbe dire — veicolo di comunicabilità. Anzi, alcune di
queste motivazioni — per esempio l’invocata necessità di purezza nei ministri
del culto, o il maggior grado di santità richiesto ai sacerdoti — potevano
sembrare in contrasto con la dottrina della perfetta castità coniugale e con il
carattere sacro del matrimonio cristiano, e perfino con la dottrina della
vocazione universale alla santità, uno dei capisaldi del Magistero conciliare.
D’altra parte, la perfetta
e perpetua continenza propter Regnum
cœlorum, la vocazione cioè al celibato apostolico è uno speciale dono di
Dio, un carisma, una gratia gratis data,
non necessariamente né esclusivamente unito al sacerdozio ministeriale, ma
distribuito dal Signore a fedeli di tutti i vari stati canonici (candidati al
sacerdozio, membri degli istituti di vita consacrata e delle società di vita
apostolica, fedeli laici uomini e donne con o senza qualche speciale
consacrazione), tutti però resi dallo Spirito Santo capaci di capire le divine
ricchezze che in questo dono si contengono (cfr. Mt. 19, 11).
È stato necessario
approfondire la spiegazione razionale, le motivazioni espressive cioè di quella
realtà carismatica, sbocciata spontaneamente nel Popolo di Dio e tramandata attraverso
tante generazioni; di quella realtà che il Concilio Vaticano II ha formulato
così: « La perfetta e perpetua continenza per il Regno dei cieli,
raccomandata da Cristo Signore (cfr. Mt. 19, 12), nel corso dei secoli e
anche ai nostri giorni gioiosamente abbracciata e lodevolmente osservata da non
pochi fedeli, è sempre stata considerata dalla Chiesa come particolarmente
confacente alla vita sacerdotale »[2].
I motivi della « molteplice
convenienza »
Alla
domanda circa quale sia la vera, profonda radice su cui poggiano tutte le
motivazioni teologiche del celibato sacerdotale, il Magistero ecclesiastico —
sia nel Concilio Vaticano II che nel successivo Magistero pontificio,
soprattutto nell’Enciclica Sacerdotalis
cœlibatus — ha risposto con una riflessione, ricca di suggerimenti e spunti
dottrinali, sul mistero di Cristo e sulla natura stessa del sacerdozio
ministeriale da Cristo inaugurato. Poi, attraverso la successiva considerazione
della figura di Cristo come unico Mediatore, come Pastore del suo
Popolo, e finalmente come Pontefice dei beni futuri, ha esposto le diverse ragioni per le
quali appare sommamente conveniente che il ministro di Cristo —
sacramentalmente configurato a Lui riproduca in se stesso le intime vincolazioni
tra sacerdozio e verginità, che appaiono così evidenti nella figura del
Sacerdote eterno. Questo aspetto cristologico del celibato sacerdotale è
onnipresente e non poteva
essere altrimenti, se si considera che pure gli altri due aspetti che si sono
voluti distinguere — l’aspetto cioè ecclesiologico e l’aspetto escatologico —
non sono in ultima istanza che conseguenze o derivazioni della speciale
configurazione dell’uomo-sacerdote alla stessa persona di Cristo.
Una prima e fondamentale
considerazione sulla natura del sacerdozio ministeriale cristiano è questa:
esso — a differenza di qualsiasi altro tipo di sacerdozio — non è una funzione
al cui adempimento un uomo è destinato dagli altri pèrché interceda in favore
di essi davanti alla divinità: è invece una missione divina, per la quale un
uomo è sacramentalmente assunto dallo stesso Dio. Il sacerdote cristiano non è,
davanti a Dio, un delegato del Popolo; e non è, davanti agli uomini, una
specie di funzionario o impiegato di Dio. Egli è — non per una vocazione
qualsiasi, ma per la grazia trasfigurante del sacramento dell’Ordine; e non con
una qualsiasi potestà, ma con la medesima potestà « con la quale Cristo
stesso fa crescere, santifica e governa il proprio Corpo »[3]
—, il segno vivo della costante presenza di Cristo in mezzo al suo Popolo.
Infatti il sacerdote cristiano è l’alter ego dell’Unigenito del Padre:
un uomo cioè che agisce non soltanto nel nome ma anche in persona ipsius
Christi Capitis[4], Pastore della nuova umanità
rigenerata dal suo Sacrificio.
Ma se questa è la
grandezza del sacerdozio ministeriale del Nuovo Testamento, inaugurato
dall’Unigenito del Padre nel
tempio del suo corpo (Gv. 2, 21), se sono tanti e
così intimi i vincoli che
uniscono il sacerdote alla persona e alla missione di Cristo, si capisce bene
quanto sia conveniente che il sacerdote abbracci nella propria vita la perfetta
e perpetua continenza di cui è prototipo la verginità di Cristo, l’Amore
incarnato fra gli uomini. Per la verginità infatti il sacerdote « nova et
eximia ratione Christo consecratur »[5], e così si conferma e irrobustisce in maniera
mirabile la unione mistica del ministro di Cristo con la stessa Persona da cui
è stato assunto e in cui è stato sacramentalmente trasfigurato.
Cristo, vissuto in stato
di verginità, consacrò in pienezza d’amore la totalità del suo essere alla
volontà del Padre (cfr. Gv. 4,
34; 17, 4) e si dedicò per intero anima e corpo, per tutta la durata
della sua vita — ai servizio del ministero di riconciliazione (cfr. Rm. 5,
11) per il quale era stato inviato. É evidente, perciò, che tanto più perfetta
sarà — o, meglio, tanto più perfettamente potrà essere attuata — la partecipazione
nel sacerdozio ministeriale di Cristo, « quanto più il sacro ministro sarà
libero da vincoli di carne e di sangue »[6].
Per la perfetta continenza, infatti, più facilmente il sacerdote aderisce a
Cristo con un cuore non diviso (cfr. Mt. 19, 12; 1 Cor.
7, 32-34), e più
liberamente può dedicare l’integrità della sua persona, delle sue forze e
capacità, e del suo tempo all’amorosa intimità con Dio e al servizio degli
uomini.
Così facendo, poi, il sacerdote non
solo rende ossequio all’esempio offerto dal Sacerdote vergine, ma viene anche
incontro a un suo esplicito consiglio, quello di rinunciare a tutto, anche a
cose buone e sante — famiglia, moglie,
figli — propter me et propter Regnum cælorum (Mc. 10, 23-30; cfr.
Mt. 19, 23-29; Lc. 18, 24-30). Cristo consigliò con
parole dense di mistero una consacrazione ancora più perfetta al Regno dei
cieli con la verginità, in conseguenza di un particolare dono (Mt. 19, 11-12), che il Padre
non nega a chi lo sa chiedere con umile perseveranza (cfr. Lc. 11, 9-13). É un consiglio — lo
abbiamo già ricordato prima — che il Signore ha dato a tutti i fedeli, perché
tutti, in una forma o in un’altra, ha reso partecipi del suo sacerdozio, ma che
evidentemente acquista un particolare significato e una particolare forza
persuasiva nel caso di quei fedeli elettissimi, i sacerdoti, i quali Gesù ha
specialmente introdotto all’intelligenza dei misteri del Regno dei cieli (cfr. Mt.
13, 11; Mc. 4,
11; Lc. 8-10), affinché essi siano dispensatori di questi misteri (cfr.
1 Cor. 4, 1) in mezzo a tutti gli altri membri del Popolo sacerdotale di
Dio e al cospetto dell’intera umanità da Cristo convocata. Il seguire questo
consiglio pare, soprattutto, oltremodo conveniente per il sacerdote, se si
considera che Cristo lo ha scelto, consacrato a sé, e destinato non perché
generi in altri la vita della carne continuando così l’opera della prima
creazione (cfr. Gn. 2, 18), ma perché comunichi una forma nuova — divina
— di vita, attuando nel tempo la nuova creazione operata da Cristo (cfr. 2 Cor. 5, 17; Gal. 6, 15). Perciò
è attraverso il celibato apostolico che il sacerdote meglio acquista e più
ampiamente partecipa della paternità spirituale di Cristo, della pienezza di
amore di Cristo, generatrice della nuova umanità: la cui origine, insegna San
Giovanni, proviene non ex sanguinibus, neque ex voluntate carnis [...] sed ex Deo (Gv. 1, 13).
Così il sacerdote adegua meglio
l’intimità dei suoi sentimenti non soltanto all’amore con cui Cristo lo ha amato,
ma anche all’amore col quale Cristo, Sacerdote vergine, ama la Chiesa, sua sposa
verginale (cfr. Ap. 19, 7; 21, 2-9; 22, 7; 2 Cor. 11, 2). Il
sacerdote — che come Cristo è il padre, il fratello, il servo universale — fa
donazione della sua vita e della sua capacità d’amore non a una propria
famiglia, ma alla famiglia universale di Cristo. Il sacerdote passa ad essere —
nella pienezza della sua esistenza — possesso della Sposa di Cristo. Allo stesso tempo lui,
l’uomo-sacerdote, si rende conto e sperimenta esistenzialmente nell’esercizio
del ministero pastorale che la sua capacità umana di generare, di educare e di
portare alla maturità i frutti del suo amore non è stata distrutta ma elevata,
sublimata e allargata oltre ogni limite. Il celibato, infatti, « consente
al sacerdote, com’è evidente, anche nel campo pratico, la massima efficienza e
la migliore attitudine psicologica ed affettiva per l’esercizio continuo di
quella carità perfetta che gli permetterà in maniera più ampia e concreta di
spendersi tutto a vantaggio di tutti (2 Cor. 12, 15) », nell’impegno pastorale e paterno (cfr. Gal.
4, 19) di generare il Popolo di Dio nella fede, e nutrirlo con i sacramenti
della vita nuova fino a condurlo alla pienezza della vita di Cristo[7].
Perciò il Magistero insegna che tale celibato può essere dovutamente capito
soltanto « nella sua logica luminosa ed eroica d’amore unico e illimitato a
Cristo Signore e alla sua Chiesa », perché
la ragione ultima di esso è appunto « la scelta di una relazione personale più
intima e completa con il mistero di Cristo e della Chiesa ». È anzi la
realtà di questa più intima relazione personale che introduce la dimensione
escatologica del celibato, perché fa anche apparire il sacerdote, davanti ai
suoi figli in Cristo, come « segno e pegno delle sublimi realtà del Regno di
Dio, di cui è dispensatore »[8].
Mi
pare che da questa esposizione sintetica delle motivazioni istituzionali, cioè
magisteriali, sul vincolo sacerdozio ministeriale-sacro celibato, si possa così
concludere:
1) Questo
vincolo nasce non da fattori o influenze estranei al sacerdozio ministeriale —
come sarebbe, per esempio, una equiparazione allo stato religioso — ma da
motivazioni che scaturiscono dalla stessa teologia del sacerdozio ministeriale.
La natura di esso non esige per se il celibato, ma lo richiama
fortemente.
2) La
chiave di questo profondo vincolo è lo spirito di fede, e la sua ultima ragione la logica luminosa ed eroica dell’amore
unico e illimitato a Cristo Signore e alla sua Chiesa.
3) Sono
motivazioni che, da una parte, appaiono esplicite e chiarissime, ma d’altra
parte, sono allo stesso tempo incoate, intuitive di più profondi motivi ancora da formulare. Una elegante sfida
ai teologi e agli educatori, per quel rilancio del sacerdozio
ministeriale di cui la Chiesa e il mondo hanno tanto bisogno.
[1] Enciclica
Sacerdotalis cælibatus, del 24 giugno 1967, n. 18
[2] Decr.
Presbyterorum Ordinis, n.
16.
[3] Decr. Presbyterorum
Ordinis, n. 2
[4] Cfr.
Cost. dogm. Lumen gentium,
nn. 10 e 28; Decr. Presbyterorum
Ordinis, n. 2.
[5] Decr. Presbyterorum Ordinis, n.
16.
[6] Enciclica Sacerdotalis
cœlibatus, n. 21.
[7] Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti In Cenaculum, 25 marzo 1988.
[8] Enciclica Sacerdotalis
cœlibatus, n.
31.