P. Rosario M. SammarCasella di testo: LA SPIRITUALITÀ SACERDOTALE DI DON DOLINDO

Casella di testo: Aspetto Liturgicoco, fi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


INTRODUZIONE

 

 

 

     Nell’indire l’Anno Sacerdotale, lo scorso 16 giugno, Papa Benedetto XVI volle presentare ai Sacerdoti, e soprattutto ai Parroci, la stupenda figura sacerdotale di s. Giovanni M. Vianney, Parroco vissuto tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX in Francia.

     Non mi pare che s. Giovanni M. Vianney abbia bisogno di presentazioni. Tutti quanti lo conosciamo, anche se non fa mai male una ripresa e un approfondimento della sua vita, della sua figura, della sua opera.

     Accanto a s. Giovanni M. Vianney questo Anno Sacerdotale sta ponendo sotto i nostri occhi di sacerdoti tante altre figure stupende. Pensiamo, per es. a s. Pio da Pietrelcina e al Servo di Dio Dolindo Ruotolo. Quest’ultimo è stato, accanto a P. Pio, un vero dono di grazia sacerdotale per Napoli e per l’Italia non solo per la fecondità del suo ministero come tale, ma anche perché ha contribuito a formare ed ispirare diversi sacerdoti che poi ne hanno continuato l’opera. Tra tutti, in questo momento il mio pensiero va al compianto don Vincenzo Cuomo, che è andato a raggiungere il suo maestro pochi mesi fa.

     Don Dolindo, come del resto P. Pio, è per noi Francescani dell’Immacolata “cosa nostra”: non solo perché ha contribuito, con P. Pio, alla formazione spirituale del nostro P. Fondatore, P. Stefano, ma anche perché ormai da qualche anno abbiamo preso in carico la sua causa di canonizzazione.

     Non è, pertanto, un caso se il Seminario Teologico Immacolata Mediatrice, ai cui docenti è affidata la cura di queste giornate di approfondimento per i sacerdoti FI, ha deciso di proporre uno studio sulla figura di questo nostro caro Servo di Dio.

     Come potete ben vedere dal programma delle conferenze, don Dolindo, consentitemi di chiamarlo familiarmente così, viene proposto quale modello di sacerdote e studiato in buona parte di quegli aspetti che a noi sacerdoti possono dire qualcosa.

     Al sottoscritto è stato affidato l’incarico di presentare l’aspetto liturgico della spiritualità sacerdotale di don Dolindo.

     Non sono un liturgista, e non ho la pretesa di dare a questo studio il rigore metodologico di uno studio fatto secondo tutti i crismi della scienza suddetta. Di fatto, più che uno studio questo sarà una meditazione e un invito alla lettura e all’approfondimento.

     Un problema che ho dovuto affrontare nell’accingermi a quest’opera è quello del “cosa trattare”. O meglio: in che termini trattare questa cosa. Dire: “aspetto liturgico” della spiritualità di don Dolindo, in effetti, significa aprire le porte ad un mare magnum di cui difficilmente si riuscirebbe a vedere la fine.

     Solo per limitarsi al bellissimo libro: Nei raggi della grandezza e della vita sacerdotale, infatti, le suggestioni sono numerosissime in quanto, per esempio, le elevazioni per la Santa Messa occupano oltre 300 pagine e commentarne anche solo qualcuna richiederebbe un lavoro improbo.

     Più alla portata nostra, invece, sono alcune considerazioni sulla vita e la grandezza sacerdotali, in particolare la XII e la XIII, che toccano due tematiche di carattere liturgico: l’Ufficio Divino e la S. Messa.

     Sono quelle che ci interessano perché la vita liturgica del Sacerdote ruota principalmente attorno a questo duplice perno: quello della recita della Liturgia delle Ore (detta anche “Ufficio Divino”) e quello della S. Messa. Entrambe le cose sono essenziali e vitali per il Sacerdote. Quando si fa male o non si fa proprio una delle due cose, o tutt’e due, si va contro la nostra missione di sacerdoti. E purtroppo, oggi come oggi, tra i Sacerdoti la Messa e il Breviario stanno patendo  delle trascuratezze non indifferenti, anche a causa di una sorta di deriva teologico-liturgica, più volte denunciata dagli ultimi due papi (almeno) che li rende sempre più incomprensibili ai sacerdoti stessi.

     È cosa di qualche giorno fa, per dirne una, che ho sentito un parroco confidare ad un altro parroco che lui celebrava la S. Messa solo in presenza di persone perché celebrare da solo per lui era un non celebrare...

     Affermazioni del genere sono preoccupanti, perché evidenziano una perdita di consapevolezza della liturgia come atto pubblico di tutta la Chiesa sempre e comunque, anche quando per qualche circostanza particolare, di essa sono presenti pochi o nessun membro[1].

     Nel corso di questa conferenza vedremo il contributo che offre don Dolindo Ruotolo sia ad una maggiore comprensione di ciò che è la recita dell’Ufficio Divino, sia di ciò che è la Messa.

 


L’UFFICIO DIVINO

 

     Don Dolindo Ruotolo, all’inizio della sua elevazione sull’Ufficio Divino, fa questa acuta osservazione: «Quando si parla di dovere sacerdotale di glorificare Dio e salvare le anime, e quando si medita la parola d’ordine del grande combattimento che il Sacerdote ingaggia contro il mondo, il demonio, e la carne, può venire spontaneo il pensiero di dover esplicare solo un’attività esterna, apologetica, sociale, organizzativa [...]. In questo assillamento di opere esterne, la preghiera prolungata si può credere un intralcio all’azione, o persino un’oziosità da potersi e doversi ridurre o eliminare»[2].

     Lungi dall’essere un’osservazione esagerata, questo è un pensiero che si trova in tanti laici, ma anche in tanti sacerdoti, che si domandano perché “perdere tempo a pregare quando c’è tanto da fare”.

     Prima di offrirvi la risposta che da Don Dolindo a questa questione,  mi voglio prendere il lusso di riportarvi la risposta che ha dato Benedetto XVI ad un sacerdote che gli faceva una domanda su questo tono, sia pure al puro scopo di averne dei suggerimenti di carattere spirituale. È una risposta che trovo molto attuale e che può servirci da punto di partenza per questo discorso.

     Ha detto dunque il Papa: «Quanto alla vita interiore, alla quale Lei ha accennato, direi che è essenziale per il nostro servizio di sacerdoti. Il tempo che ci riserviamo per la preghiera non è un tempo sottratto alla nostra responsabilità pastorale, ma è proprio «lavoro» pastorale, è pregare anche per gli altri. Nel «Comune dei Pastori» si legge come caratterizzante per il Pastore buono che «multum oravit pro fratribus». Questo è proprio del Pastore, che sia uomo di preghiera, che stia dinanzi al Signore pregando per gli altri, sostituendo anche gli altri, che forse non sanno pregare, non vogliono pregare, non trovano il tempo per pregare. Come si evidenzia così che questo dialogo con Dio è opera pastorale!

     Direi, quindi, che la Chiesa ci dà, quasi ci impone - ma sempre come una Madre buona - di avere tempo libero per Dio, con le due pratiche che fanno parte dei nostri doveri: celebrare la Santa Messa e recitare il Breviario. Ma più che recitare, realizzarlo come ascolto della Parola che il Signore ci offre nella Liturgia delle Ore. Occorre interiorizzare questa Parola, essere attenti a che cosa il Signore mi dice con questa Parola, ascoltare poi il commento dei Padri della Chiesa o anche del Concilio, nella seconda Lettura dell'Ufficio delle Letture, e pregare con questa grande invocazione che sono i Salmi, con i quali siamo inseriti nella preghiera di tutti i tempi. Prega con noi - e noi preghiamo con esso - il popolo dell'antica Alleanza. Preghiamo con il Signore, che è il vero soggetto dei Salmi. Preghiamo con la Chiesa di tutti i tempi. Direi che questo tempo dedicato alla Liturgia delle Ore è tempo prezioso. La Chiesa ci dona questa libertà, questo spazio libero di vita con Dio, che è anche vita per gli altri»[3].

     Penso di poter dire che queste osservazioni sarebbero state fatte proprie da don Dolindo, che aveva molto a cuore l’idea della preghiera, e della preghiera liturgica in particolare, come fondamento della vita apostolica del sacerdote.

     La preghiera liturgica, e quella dell’Ufficio Divino in particolare, sono vita del Sacerdote e anche suo aiuto contro le insidie del demonio, che costantemente cerca di impedire il lavoro apostolico e di portare l’anima del Sacerdote all’Inferno.

     Scrive a questo proposito don Dolindo: «Il demonio cerca in tutti i modi di disarmare il Sacerdote o di mettergli nelle mani delle armi scariche. Egli non teme le grandi conferenze apologetiche, non le grandi organizzazioni esterne, nelle gli è facile gettare il seme della zizzania, non le parate che spesso offrono il destro per gonfiare la vanità o accentuare le dissenzioni: teme la preghiera del Sacerdote, l’Ufficio Divino che più dipende dalla volontà e dalla libertà del Sacerdote, e cerca in tutti i modi di farlo tralasciare o strapazzare. Che cos’è il Sacerdote senza la preghiera ufficiale della Chiesa? È un infelice paralizzato prima nell’inerzia e poi nella morte; è un organismo senza cervello, inebetito nelle funzioni materiali [...]; è un essere ingombrante nelle battaglie del Signore, anche quando sembra occupato in molte attività esterne»[4].

     Se il Sacerdote è veramente Alter Christus, tutta la chiave per capire la questione sta nell’osservare il modello offertoci dalla vita di Gesù. E in questa vita il rapporto tra preghiera e attività è di 30 a 3: trent’anni di vita nascosto a pregare, e tre anni di apostolato, nei quali, peraltro, passava parte notevole del suo tempo a pregare.

     «I Sacerdoti santi - scrive ancora don Dolindo - che hanno prodotto tanto bene nella Chiesa, non erano dotati di speciali attitudini; essi pregavano bene ed avevano il cuore pieno d’ardore [...]»[5].

     La figura che queste parole mi richiamano nell’immediato alla mente è quella di s. Giovanni M. Vianney, che appunto non aveva grandi qualità oratorie, non aveva grande intelligenza, non aveva memoria. Sapeva solo pregare il Rosario e tanto bastò perché il Vescovo decidesse di ordinarlo Sacerdote.

     Anni dopo, diventato ormai famoso come “Il Curato d’Ars”, attirava alla sua parrocchia gente da ogni luogo e anche personaggi, per quell’epoca, famosi. Una volta capitò da quelle parti un celebre predicatore francese, il domenicano P. Lacordaire[6]. Saputo che questo celebre predicatore avrebbe tenuto un sermone proprio nella Chiesa del nostro curato, la gente si riversò in massa ad Ars. Al termine della predica qualcuno commentò: «Quando predica il celebre P. Lacordaire, la gente sale fin sopra i confessionali. Quando predica il nostro curato, la gente entra nei confessionali».

     Don Dolindo Ruotolo esorta i sacerdoti ad amare e venerare il Breviario: «L’Ufficio dev’essere per il Sacerdote il suo gioiello; deve prenderlo in mano come una reliquia, diremmo quasi come un ostensorio, dov’è posta fra mille fiamme di amore e di luce la Divina Parola. Egli deve amarlo, poiché è per lui il mezzo per comunicare con Dio e per ascoltarne le voci nell’intimo del cuore; è la sua radio soprannaturale, il suo apparecchio telefonico che lo collega col Cielo, la sua arma di precisione che colpisce infallibilmente il male»[7].

     È proprio per questo che Satana ha in grande odio il Breviario e fa di tutto per farlo fare male o non farlo fare del tutto.

     Don Dolindo elenca tutta una serie di tentazioni e di stratagemmi che il demonio mette in opera per allontanare i Sacerdoti dal Breviario.

     Tanto per cominciare, afferma don Dolindo, dà l’impressione che questa preghiera sia incomprensibile. La cosa a noi può sembrare strana, abituati come siamo alla recita del Breviario in italiano. Risulta meno strana se ricordiamo che all’epoca di don Dolindo il Breviario si recitava in latino. Risulta, poi, comprensibile quando ricordiamo magari le prime difficoltà che abbiamo sperimentato o che stiamo sperimentando se ci stiamo accostando in questo tempo al Breviario secondo la Forma Straordinaria, il cui uso i nostri Superiori stanno incoraggiando.

     Infatti, una delle obiezioni che sento più spesso arrivare circa il Breviario secondo la Forma Straordinaria riguarda la sua presunta incomprensibilità, motivata dal fatto di essere in latino. Confesso che è un’obiezione che mi lascia perplesso: abituati come siamo alla familiarità con i Salmi in italiano da anni; con una traduzione per uso liturgico eccellente come quella che abbiamo avuto finora e che è ancora in giro[8], come facciamo a dire di non capire i Salmi che leggiamo? Indubbiamente occorre un po’ di sforzo in più, soprattutto nei primi tempi, ma non vedo questa incomprensibilità. E poi, anche fosse, non è forse questa un’occasione in più, per chi ha una scarsa conoscenza del latino, per approfondirne lo studio? E non è, ancora, questa, una nuova occasione per accostarci con maggiore frequenza al Testo Sacro, magari in italiano, con la scusa del dover capire meglio quello che diciamo in latino?

     Scrive a questo proposito don Dolindo: «Eppure se si recitasse con vero spirito, come s’intenderebbe! Ci sono anime che non sanno il latino e ne vivono, perché, umiliandosi, recitano quelle preghiere nello spirito e nelle intenzioni della Chiesa. Il Sacerdote può fare di, può mettere fra le sue principali occupazioni lo studio di questo gioiello dell’Ufficio Divino  trarsi così ad intenderlo e a gustarlo»[9].

     Così don Dolindo.

     A volte, osserva don Dolindo, il demonio ci da una tale noia nella recita del Breviario da levarci quasi la forza di volontà di prenderlo in mano. In quei casi uno comincia a perdere tempo e arriva a ritenere importante di tutto, finanche leggere un libro umoristico, meno che recitare il Breviario. Altre volte la ripugnanza verso il Breviario è giustificata col fatto che per recitarlo bisogna cercare le varie parti nel libro. «È una tentazione stupida - osserva don Dolindo - ma può cagionare un’impazienza nervosa ch’è di grave ostacolo alla preghiera. Come! Si ha tanta pazienza nelle cose più insulse della vita, e viene poi meno la pazienza per ricercare una Lezione, un Inno, una Commemorazione?»[10]

     Bisogna tenere sempre bene a mente che dire “Breviario” significa dire “S. Scrittura”. E più in dettaglio significa dire, molto spesso, “Salmi”. Che cosa sono i Salmi? Sono Parola di Dio che diventa parola di uomo. Sono le sue parole che Dio mette in bocca agli uomini di modo che essi lo lodano, lo adorano e lo ringraziano con qualcosa che è allo stesso tempo suo e loro.

     Scrive a questo proposito don Dolindo: «Tutti i sentimenti dell’anima sono raccolti nei Salmi, e Dio li ha fatti suoi ispirando questi canti; li ha prima fatti quasi svaporare nel Cielo per purificarli e poi ce li ha ridonati tutti, nel soffio dello Spirito Santo, come acque zampillanti dal profondo dell’anima, come cristallina fontana che innanzi al trono di Dio, erompe dal cuore, ride, geme, sussurra, si espande e si riempie dei riflessi del sole [...]. È un insieme di pace e di combattimento, di dolcezza e di forza, di espansione e di raccoglimento, di allegrezza e di mestizia, che trovano nell’anima sempre un eco, proporzionandosi al suo stato particolare»[11].

     Proprio per questo la preghiera liturgica del Breviario è così importante ed è considerata preghiera di tutta la Chiesa. La Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium del Concilio Vaticano II, riguardo al Breviario usa queste parole, che non esito a definire sublimi: «Cristo Gesù, il sommo sacerdote della nuova ed eterna alleanza, prendendo la natura umana, ha introdotto in questo esilio terrestre quell'inno che viene eternamente cantato nelle dimore celesti Egli unisce a sé tutta l'umanità e se l'associa nell'elevare questo divino canto di lode. Cristo continua ad esercitare questa funzione sacerdotale per mezzo della sua Chiesa, che loda il Signore incessantemente e intercede per la salvezza del mondo non solo con la celebrazione dell'eucaristia, ma anche in altri modi, specialmente recitando l'ufficio divino. [...] Tutti coloro pertanto che recitano questa preghiera adempiono da una parte l'obbligo proprio della Chiesa, e dall'altra partecipano al sommo onore della Sposa di Cristo perché, lodando il Signore, stanno davanti al trono di Dio in nome della madre Chiesa»[12].

     Visto questo: «Quale Sacerdote potrebbe barattare tutta questa ricchezza di preghiere, per correre dietro a pensieri stolti di distrazione? Come potrebbe ridurre la parola potente di Dio ad una negligente articolazione di sillabe senza nesso? Come potrebbe far disseccare una fonte tanto salutare e ridurla a poche gocce? Quando si recita il Breviario negligentemente e distrattamente, in realtà si raccolgono ben poche gocce dell’immensa fiumana, e questo è desolante per le anime e per la Chiesa»[13].

     Fatte tutte queste considerazioni, si capisce perché secondo don Dolindo per il Sacerdote è una grave responsabilità quella di recitare con fedeltà il Breviario e recitarlo bene. Omettere questa preghiera, come già s’è visto sopra, segna un impoverimento per la sua spiritualità, ma anche un impoverimento per tutta la Chiesa, e, in definitiva, per tutto il mondo, perché Significa meno lode, meno ringraziamento, meno riparazione, meno impetrazione. E il Sacerdote che è chiamato a tutti questi atti in forza della sua configurazione a Cristo Sacerdote si snatura quando non li mette in pratica.

     Don Dolindo offre nelle pagine dedicate al Breviario anche diversi suggerimenti su come recitarlo. O, più propriamente, sull’importanza di non rinviarlo e come eventualmente gestire le situazioni in cui le ore canoniche non possono essere recitate a tempo e modo. Dobbiamo essere fermamente convinti che il Breviario per noi è un dovere grave e, pertanto, agire di conseguenza, piuttosto anticipando la recita delle ore che correre il rischio, col rimandarle, di non farle.

     Il discorso sul Breviario potrebbe andare ancora avanti. Il tempo e lo spazio che abbiamo, tuttavia, sono limitati. È d’uopo, pertanto, occuparci ora dell’altro elemento cardine della spiritualità liturgica del Sacerdote: la S. Messa.

 


LA S. MESSA

 

     Don Dolindo, per quel poco che ho letto, è stato certamente tra i più grandi e validi cantori del Mistero Eucaristico, e della S. Messa in particolare. Non è per adulazione verso un sacerdote che è comunque stato confessore di P. Stefano, ma per sincera convinzione che dico che il suo posto è, da questo punto di vista, affianco a s. Leonardo da Porto Maurizio e a s. Alfonso M. De Liguori. Le stesse elevazioni del libro citato in quest’opera basterebbero a testimoniarlo, tra i tanti suoi scritti.

     In questa occasione mi limiterò a rilevare alcuni spunti da lui offerti sulla Messa in rapporto alla spiritualità del Sacerdote.

     Giovanni Paolo II nella Ecclesia De Eucarestia riflettendo sulla sublimità del Mistero Eucaristico in rapporto al Sacerdote si è espresso in questi termini: «Questo pensiero ci porta a sentimenti di grande e grato stupore. C'è, nell'evento pasquale e nell'Eucaristia che lo attualizza nei secoli, una “capienza” davvero enorme, nella quale l'intera storia è contenuta, come destinataria della grazia della redenzione. Questo stupore deve invadere sempre la Chiesa raccolta nella Celebrazione eucaristica. Ma in modo speciale deve accompagnare il ministro dell'Eucaristia. Infatti è lui, grazie alla facoltà datagli nel sacramento dell'Ordinazione sacerdotale, a compiere la consacrazione. È lui a pronunciare, con la potestà che gli viene dal Cristo del Cenacolo: “Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi... Questo è il calice del mio sangue, versato per voi...”. Il sacerdote pronuncia queste parole o piuttosto mette la sua bocca e la sua voce a disposizione di Colui che le pronunciò nel Cenacolo, e volle che venissero ripetute di generazione in generazione da tutti coloro che nella Chiesa partecipano ministerialmente al suo sacerdozio»[14].

     Una ventina d’anni prima, il Servo di Dio, nel rivolgersi ai Sacerdoti, così scriveva: «Il sacerdozio ministeriale o gerarchico, il sacerdozio dei Vescovi e dei presbiteri e, accanto a loro, il ministero dei diaconi - ministeri che iniziano normalmente con l'annuncio evangelico - sono in strettissimo rapporto con l'eucaristia. Essa è la principale e centrale ragion d'essere del sacramento del sacerdozio, nato effettivamente nel momento dell'istituzione dell'eucaristia e insieme con essa. Mediante la nostra ordinazione - la cui celebrazione è vincolata alla santa Messa sin dalla prima testimonianza liturgica - noi siamo uniti in modo singolare ed eccezionale all'eucaristia. Siamo, in certo modo, “da essa” e “per essa”»[15].

     Stupore, amore, gratitudine, dipendenza. Tutti questi elementi evidenziati da Giovanni Paolo II nella spiritualità sacerdotale in rapporto alla Messa si ritrovano in modo stupendo nel pensiero di don Dolindo, che, tra le altre cose, scrive: «Il tesoro ineffabile del Sacerdote che non trova l’eguale in nessuna delle stesse elevazioni mistiche alle quali può giungere un’anima, il tesoro che non potrà mai valutarsi abbastanza nella sua natura e nei suoi mirabili effetti, è la Santa Messa, tesoro mille volte più grande di tutta la creazione [...] sacrificio incruento e realissimo del Corpo e del Sangue di Gesù Cristo, immolazione sintetica ed ammirabile di ogni creatura che in Gesù e per Gesù manda a Dio l’applauso del suo cuore e l’inno del proprio essere. [...] In questa mirabile azione il Sacerdote è come trasfigurato in un’altra creatura, non è più un uomo, è superiore agli Angeli, è un altro Gesù Cristo. La Chiesa sente il bisogno di vestirlo coi sacri paramenti per mostrarlo anche all’esterno trasfigurato, ed egli, così vestito, risplende della potestà divina quasi fosse sul Tabor circondato da Mosé e da Elia, dalla Legge e dai Profeti. Quello che legge nel Messale è come una sintesi dell’Antico e del Nuovo Patto, ed egli conversa con Dio ed ascende a Lui in nome di tutto il popolo, quasi novello Mosé, nella magnificenza dell’Altare e nella maestà del Tempio»[16].

     Nel contemplare il rapporto tra Messa e Sacerdote, don Dolindo indugia brevemente nel mostrare come ogni cosa, dall’altare, ai fiori, ai paramenti, a ogni preghiera del rito della Messa sia come un cammino di elevazione sublime, nel quale ogni cosa è trasfigurata, divinizzata, introdotta, attraverso la grande opera della Messa, nella Trinità. Ne vengono fuori delle pagine che sono allo stesso tempo teologia, poesia, mistica[17].

     «L’umanità - scrive il Servo di Dio a conclusione del suo discorso - è uno degli atomi che la S. Messa trasporta luminosamente nel cielo, ma non il solo, è tutto l’universo ch’è trasportato dal fulgore della divina immolazione. La luce eterna, riflessa in terra in Gesù, si rifrange sull’Altare e ritorna in Cielo come un’applauso ammirabile che risuona in Dio e in tutti i cori degli Angeli e dei Santi. Ogni Messa, ogni offerta, ogn’immolazione rende tutta l’umanità un’armonia ammirabile, rende il mondo tutto vivificato dall’Eterno Sole e il Cielo esultante nell’eterna gloria»[18].

     Ora, se questa è la Messa; se questo è il rapporto tra il Sacerdote e la Messa, ne consegue che questa Somma Opera di Dio non può essere fatta con negligenza, indifferenza, o, peggio ancora, trascuratezza. Don Dolindo fa un paragone molto interessante, a questo proposito, tra un sacerdote e un attore. È un paragone su cui vi invito a fare attenzione, perché effettivamente, tra i due c’è una grande somiglianza, ma allo stesso tempo una differenza che dire radicale è poco.

     Questo perché un attore rappresenta, mentre un sacerdote ripresenta. E se un attore fa di tutto per calarsi completamente nella parte da recitare, per diventare in qualche modo il personaggio che si appresta a rappresentare, quanto più questo non deve avvenire per il Sacerdote.

     Certo, il Sacerdote non può fare l’attore sull’Altare. Quando fa così[19] diventa una caricatura di Cristo e trasforma la Messa in una pagliacciata. Egli deve fare ben più che l’attore. Egli è chiamato a fare veramente suoi, per citare s. Paolo, «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5).

     Il Sacerdote, scrive don Dolindo, «è vestito dalla Chiesa con paramenti speciali che lo dividono interamente dal mondo, non per rappresentare una scena, ma per essere un altro Gesù; or come può fare le veci del suo Signore quando ne è dissimile, e come può indossare le vesti della divina regalità quando ha un corpo degradato dal peccato e, diciamolo pure, dalla volgarità ripugnante del tratto?»[20]

     Da qui la necessità, per il Sacerdote, di acquisire questa delicatezza nei modi, che non è affettazione, o ostentazione, ma consapevolezza del proprio essere e della propria missione.

     E parte integrante di questa missione; anzi, parte fondamentale, è la devota celebrazione della s. Messa.

     A questo proposito scrive il nostro: «Una Messa ben celebrata è una grande predica per il popolo, come una Messa acciavattata è uno scandalo che penetra nell’intimo della vita cristiana e l’avvelena. Una Messa sacrilega, poi, è un orrore, non distrugge l’essenza del sacrificio, ma ne devasta la fioritura. [...] Le sacre cerimonie, fatte con precisione ed accompagnate dallo spirito interiore, sono una parola eloquentissima che nessun gesto o espansione della propria devozione privata può sostituire»[21].

     Conseguenza di questo, per don Dolindo, è che il Sacerdote deve osservare fedelmente le rubriche del Messale, senza personalismi inutili e senza pigrizie. La Messa è già ricchissima di suo: non ha bisogno delle aggiunte delle nostre fantasticherie e dei nostri sentimentalismi. «Bisogna vivere le parole della Messa - scrive don Dolindo - e recitarle con grande attenzione. C’è in questo un incomparabile tesoro di pietà che nutrisce fortemente l’anima propria e quella dei fedeli [...]»[22].

     Alla luce di tutto questo, appare evidente come celebrare la S. Messa non sia un’azione da prendere alla leggera. Per richiamarmi ad un’espressione usata diverse volte da Benedetto XVI, nel celebrare la Messa occorre un’autentica ars celebrandi, un’arte di celebrare che esige una misura e un decoro particolari.

     Mi permetto di ripetere una cosa già detta prima: la Messa è ricchissima di suo. Non ha bisogno di aggiunte, o di spettacolarizzazioni, spesso più buone ad attirare la “devozione” di donnette e vecchiette e alimentare la vanità del sacerdote che non ad ispirare autentica devozione. Don Dolindo, sotto questo aspetto, ha le idee molto chiare: «La Chiesa non vuole che il Sacerdote si trattenga soverchiamente all’Altare, per non stancare il popolo; questo però non significa che si debba precipitare un’azione così santa; il popolo si stanca della lentezza, non della pietà, e l’esperienza mostra che ascolta volentieri la Messa dei santi Sacerdoti, anche quando è un poco prolungata. È impossibile dir bene la Messa in meno di mezz’ora; è assurdo dirla bene in un terzo d’ora[23]; è necessario in questo non favorire la rilassatezza del popolo, ma educarne la pietà, e pregare Dio che comprenda la grandezza del Divin Sacrificio e rimanga ad assistervi fino alle ultime preghiere. Il Sacerdote deve preoccuparsi di questo e non di contentare quelli ai quali par che scottino le sedie ed il pavimento del Tempio»[24].

     Don Dolindo dedica ampia riflessione anche alla necessità del ringraziamento dopo la Messa. Se siamo veramente consapevoli che essa è un dono ineffabile e sublime; se siamo consci della grandezza di chi abbiamo ricevuto nella s. Comunione, il ringraziamento è un atto dovuto, che non possiamo omettere assolutamente. Sono i momenti di unione più feconda e più preziosa del Sacerdote col suo Signore, quelli che seguono la S. Messa e la S. Comunione; momenti nei quali abbiamo agio di pregare per tutte le nostre intenzioni, per i nostri cari, per tutti coloro che ci sono raccomandati, e soprattutto per la nostra santificazione.

     Indubbiamente, tutto questo si può e si deve fare anche durante la S. Messa, ma quello del ringraziamento alla s. Comunione è un momento veramente intimo ed autenticamente nostro, e non dobbiamo, né possiamo privarcene senza grave ragione.

     Siamo obbligati a ringraziare per quanto abbiamo ricevuto. E poi, solo le persone di animo rude e poco sensibile non sentono il bisogno di ringraziare il loro benefattore. E un sacerdote non dovrebbe appartenere a questa categoria.

 

 
CONCLUSIONE

 

     A conclusione di questa nostra riflessione sull’aspetto liturgico della spiritualità sacerdotale di don Dolindo non possiamo che rilevare come, dal punto di vista tutto sacerdotale, e di sacerdote innamorato, di don Dolindo per il Sacerdote la Liturgia è vita. La Liturgia è la vita del Sacerdote. Il Sacerdozio, come già la rigenerazione battesimale, ci viene offerto con un atto liturgico, e noi sacerdoti siamo finalizzati, in un certo qual modo, alla Liturgia.

     Infatti, se il nostro essere Sacerdoti è essenzialmente un essere mediatori tra Dio e l’Umanità, tra Cristo e la Chiesa, e se questa mediazione si realizza principalmente nel Sacrificio Eucaristico e nella Preghiera della Lode, allora per noi Sacerdoti la Liturgia non può essere appendice, ma dev’essere vita.

     Vorrei richiamare un attimo una frase di don Dolindo, citata poc’anzi, che ci svela l’importanza e la profondità degli atti liturgici e della Messa in particolare.

     « L’umanità è uno degli atomi che la S. Messa trasporta luminosamente nel cielo, ma non il solo, è tutto l’universo ch’è trasportato dal fulgore della divina immolazione. La luce eterna, riflessa in terra in Gesù, si rifrange sull’Altare e ritorna in Cielo come un’applauso ammirabile che risuona in Dio e in tutti i cori degli Angeli e dei Santi. Ogni Messa, ogni offerta, ogn’immolazione rende tutta l’umanità un’armonia ammirabile, rende il mondo tutto vivificato dall’Eterno Sole e il Cielo esultante nell’eterna gloria».

     Quando vive bene la preghiera liturgica, il Sacerdote veramente realizza il suo essere più radicale: essere mediatore. Egli diventa veramente Pontifex, creatore di un ponte tra Dio e  l’Umanità peccatrice e bisognosa di redenzione. Attraverso il suo ministero sale da essa al suo Dio la lode, la gloria, l’offerta e l’immolazione di sé; e sempre attraverso il suo ministero da Dio discendono su di essa le grazie universali e singolari della salvezza, della riparazione, della misericordia.

     Nella recita del Breviario, il Sacerdote è come Mosé che sul monte prega per la vittoria degli Israeliti lungo il cammino verso la Terra Promessa. Se quella preghiera è fatta bene, se quelle mani sono alzate, il Popolo di Dio vince le sue battaglie per raggiungere il Paradiso. Se quelle mani, invece, si stancano, fanno altro, recedono dall’arduo compito, allora a vincerla è il Nemico di Dio e del Popolo Eletto.

     Nella celebrazione della S. Messa, invece, il Sacerdote è Cristo che rinnova il suo Sacrificio. Per il suo ministero continua ad essere presentato agli occhi del Padre il Sangue del nuovo Abele, che grida dalla Terra non vendetta ma misericordia.

     Don Dolindo fa osservare che siamo sacerdoti sempre. Non solo negli atti del culto liturgico, ma in ogni azione della nostra vita. Ma la liturgia deve permeare il nostro modo di pensare e di agire; deve far sì che noi possiamo ricordare che in ogni istante della nostra vita noi siamo ciò che viene svelato sull’altare: Alter Christus, Ipse Christus.

     La consapevolezza, poi, che tutto questo per noi è dono deve suscitare in noi quella profondissima gratitudine stupendamente espressa nella II Preghiera Eucaristica, laddove, poco dopo la Consacrazione, poco dopo che tra le nostre mani si è ripetuto il Mistero ineffabile della transustanziazione diciamo: «Mémores ígitur mortis et resurrectiónis eius, tibi, Dómine, panem vitæ et cálicem salútis offérimus, grátias agéntes quia nos dignos habuísti astáre coram te et tibi ministráre». «Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio, ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza, e ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale».

 

 

 



[1] Aggiungerei qua: membro “visibile”. Mi risulta molto difficile, anche sulla base delle testimonianze di diversi santi, credere che un sacerdote possa celebrare veramente “da solo”. Ad ogni S. Messa, ad ogni atto liturgico è sempre presente tutta la Chiesa, anche quella Purgante e quella Trionfante: Angeli, Santi, Anime Purganti... Un Sacerdote non è mai completamente solo. Ma qui si porrebbe un’altra questione: che familiarità hanno oggi tanti sacerdoti con queste verità? Parlo di familiarità e non di semplice conoscenza teoretica, che magari lascia il tempo che trova e che si finisce col negare o dimenticare nel corso degli anni.

[2] D. Ruotolo, Nei raggi della grandezza e della vita sacerdotale, Apostolato Stampa, Napoli 1940, p. 98.

[3] Benedetto XVI, Incontro del Santo Padre Benedetto XVI con i sacerdoti della Diocesi di Albano, Giovedì, 31 agosto 2006. http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2006/august/documents/hf_ben-xvi_spe_20060831_sacerdoti-albano_it.html

[4] D. Dolindo Ruotolo, op. cit., p. 99.

[5] Ivi.

[6] Il quale era, peraltro, uomo di santa vita.

[7] D. Dolindo Ruotolo, op. cit., p. 100.

[8] Mi dispiace, e lo dico con sincero rammarico, dover fare questo appunto circa l’ultima traduzione ufficiale dei Testi Sacri in italiano per l’uso liturgico. Ho un sacro rispetto per la Gerarchia Ecclesiastica, con tutto quanto essa rappresenta. Per spirito di obbedienza sono stato tra i primi, nonostante diverse critiche mossemi, ad acquistare i nuovi libri liturgici e ad utilizzarli. Ma non posso fare a meno di notare che, a fronte di poche migliorie nella traduzione di alcuni passi, l’italiano dell’attuale versione dei Testi Sacri per l’uso liturgico è pessimo. Lo dico da sacerdote, e lo dico da italiano.

[9] D. Dolindo Ruotolo, op. cit., p. 101.

[10] Ivi.

[11] D. Dolindo Ruotolo, op. cit., p. 106.

[12] SC nn. 83 e 85.

[13] D. Dolindo Ruotolo, op. cit., p. 106.

[14] Ecclesia de Eucarestia, n. 5.

[15] Giovanni Paolo II,  Lettera Dominicae Coenae, n. 2.

[16] D. Dolindo Ruotolo, op. cit., p. 110.

[17] E che vi invito a meditare alle pagine 113-115 del libro sui cui stiamo riflettendo.

[18] D. Dolindo Ruotolo, op. cit., p. 115.

[19] E vi posso assicurare che vi sono molti che lo fanno...

[20]  D. Dolindo Ruotolo, op. cit., p. 115.

[21] D. Dolindo Ruotolo, op. cit., p. 117.

[22] Ivi.

[23] Concretamente, 20 min.

[24] D. Dolindo Ruotolo, op. cit., p. 108.