Congresso nazionale del Serra Club

«Fedeltà di Cristo, fedeltà del Sacerdote, fedeltà del laico»

Sabato, 8 maggio 2010 (ore 09.15)

 

Intervento di S.E. Mons. Mauro Piacenza

Arciv. tit. di Vittoriana

Segretario della Congregazione per il Clero

 

«Collaboratori della vostra gioia»

Il ministero Sacerdotale al servizio della santificazione dei laici

 

X

 

Cari Amici Serrani e gentili intervenuti tutti,

è per me motivo di particolare gioia essere qui con voi oggi e ringrazio di cuore il vostro Presidente per il cordiale saluto rivoltomi e per avermi invitato ad intervenire. Il Titolo stesso del Vostro convegno, «Fedeltà di Cristo, fedeltà del Sacerdote, fedeltà del laico», unitamente alla specifica sensibilità del Serra, vi rendono particolarmente attenti alle tematiche dell’Anno Sacerdotale che, pur volgendo al suo compimento cronologico, rappresenta, in realtà, un autentico punto di partenza di rinnovamento spirituale.

Siamo nel tempo pasquale, ed è proprio il Mistero della Morte e Risurrezione di Cristo, ad avere inaugurato, nella storia dell’umanità, l’esistenza ed il significato del nuovo Popolo Sacerdotale, il quale, con Cristo, per Cristo e in Cristo, offre all’Eterno Padre il Culto definitivo, quello per il quale non si offre più altro da sé, ma la propria stessa esistenza.

La prima, e credo maggiormente esaustiva, oltre che corretta, interpretazione del sacerdozio comune, derivante dal Battesimo, del quale tutti siamo sempre partecipi, è proprio questa “interiorizzazione” e “personalizzazione” del rapporto con Dio, il Quale domanda all’uomo di entrare in relazione con Lui attraverso quello specialissimo dono che Egli stesso gli ha fatto: la libertà.

Tale interiorizzazione e personalizzazione, lungi dall’essere una riduzione spiritualistica, tendente a far “evaporare” la dimensione storica del Cristianesimo, ha il proprio fondamento teologico, sia prossimo, sia remoto, nello stesso Mistero dell’Incarnazione. In Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, si compie il Culto definitivo; in Lui l’umanità, realmente presente, offre il Culto perfetto, quello che solo il Verbo fatto carne poteva offrire al Padre.

Agli occhi del mondo, infatti, essere Cristiani è ritenuto appena come l’appartenenza ad una certa associazione religiosa, piuttosto estesa, caratterizzata innanzitutto da un rigoroso sistema morale, che mortificherebbe le più originarie aspirazioni dell’uomo e, a causa dei numerosi obblighi e rinunce che comporta, lo escluderebbe dalla pienezza della vita, tanto nella dimensione privata e personale quanto, ancor più, in quella sociale e pubblica. Ma se questa fosse la reale consistenza della nostra identità, ovviamente, non varrebbe la pena essere qui oggi, né tanto meno vantarsi di questo nome, come invece facciamo.

Ben altra è la nostra identità. Essere Cristiano, infatti, prima che un determinato atteggiamento morale, significa essere di Cristo e in Cristo: significa cioè essere, in virtù del dono sacramentale, in relazione autentica e permanente con la Persona del Signore Gesù. La nostra identità, e la fedeltà che ne deriva, non si definisce, né si modella o perfeziona nella relazione con Lui, ma consiste nell’essenza di tale relazione: il battezzato, colui che è immerso nel Mistero di Cristo, consiste di Cristo fino al vertice dell’espressione paolina: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).

Da questa identità, che, come abbiamo detto, è definitivamente donata, per mezzo del Battesimo, sgorga, come acqua dalla sorgente, il nostro libero agire alla sequela del Signore, il nuovo e perfetto Culto ch’Egli ha istituito, e ciò, almeno nel suo aspetto essenziale, cioè di dono, indipendentemente dal nostro prenderne coscienza, accoglierlo ed interiorizzarlo.

Sono due, quindi, gli elementi che entrano in gioco nel sacerdozio comune, in questo nuovo modo di relazionarsi con Sé che Dio ha istituito nel Mistero della Redenzione: l’identità sacramentale donata nel Battesimo, che è Opera di Dio che ci precede, e la libertà creaturale di immedesimarsi con questa nuova identità. È coinvolta, pertanto, tutta la nostra persona, cioè tutto il nostro cuore, tutta la nostra intelligenza, libertà e volontà nell’affrontare la realtà ed i rapporti in cui Dio ci ha inseriti.

Quindi l’essere Cristiani, l’essere di Cristo e in Cristo, riguarda non solo determinate azioni, quali quelle cultuali, e nemmeno soltanto le scelte di particolare importanza per la nostra vita, ma il nostro stesso vivere, ogni circostanza nella quale ci troviamo a vivere: la gratitudine per essere destati al mattino a vivere un nuovo giorno, il tratto nel modo di relazionarsi con le persone, a cominciare con quelle di famiglia, la quotidianità dei gesti più semplici, la fedeltà e la professionalità del lavoro, la magnanimità nella carità, la fedeltà e la delicatezza nel ricordarci del Signore in più momenti della nostra giornata, se possiamo, la partecipazione quotidiana alla Santa Messa, almeno nei tempi forti, o almeno la visita quotidiana per qualche minuto al Santissimo Sacramento, il vivere momenti conviviali sempre con luminosità e trasparenza, fino al saper fare un giusto esame di coscienza al termine della giornata, chiedendo perdono per gli eventuali peccati ed errori e ringraziando per i tanti doni ricevuti.

Il recupero e l’approfondimento della “spiritualità del quotidiano” fa emergere come totalmente superata, oltre che profondamente illegittima, qualunque concezione che, come avvenuto nei decenni passati, tenda a contrapporre, all’interno dell’unico Corpo che è la Chiesa, il laicato e la Gerarchia. Non a caso, nel nuovo Codice di Diritto Canonico, entrambi sono contenuti nell’unico libro sul Popolo di Dio, e quando si utilizza tale categoria, che tanto successo ha avuto soprattutto in una certa interpretazione piuttosto demagogica del Concilio Ecumenico Vaticano II, deve sempre essere compresa, innanzitutto nel suo genitivo di possesso che la costituisce “di Dio”, cioè Popolo che appartiene a Lui, che Lui si è scelto; e, poi, nella inclusività che tale categoria implica, sia rispetto ai fedeli laici, sia rispetto ai chierici.

Sono tutti, laici e chierici insieme, unico Popolo di Dio; anche i chierici sono, a Dio piacendo, Christifideles, cioè fedeli di Gesù Cristo, fedeli credenti in Gesù Cristo, e dunque appartenenti all’unico Popolo dei salvati.

Ogni distinzione non fondata su meriti personali o morali, come detto, ma sulla divina Volontà e sulla positiva divina disposizione dello stesso Gesù Cristo, è interna al Popolo di Dio e ne garantisce l’ordinata e feconda vita.

In quest’ottica, dicevo, è superata ogni contrapposizione artificiale, nell’unica Chiesa, tra clero e laicato e, pur ammettendo che nella storia talora ci sia stata una concentrazione sul clero o sul laicato, a seconda delle epoche, il punto di partenza teologicamente più significativo è sempre l’unità di questo Popolo, chiamato a testimoniare il Risorto nel mondo, ad animare le realtà terrene e ad essere una autentica “comunione guidata”, nella quale i due termini “comunione” e “guidata” sono coessenziali e domandano un continuo riconoscimento reciproco.

Se non ci fosse la realtà comunionale, che è data gratuitamente da Cristo, in forza del comune Battesimo, non sarebbe concepibile la docile sequela della Gerarchia, nella quale riconoscere Cristo stesso, Buon Pastore, che ama, protegge, sostiene, difende e guida la Sua Chiesa. Allo stesso modo, se non ci fosse una “guida”, verrebbe meno l’idea stessa, oltre che la realtà, della comunione, la quale, per sua natura, domanda di essere ordinata, visibile, e perciò riconoscibile, soprattutto, in quell’universale “punto di comunione” che è il Romano Pontefice, supremo pastore della Chiesa universale e reale custode e promotore dell’autentica unità della Chiesa.

In tale duplice cornice, di una salvezza gratuitamente offerta e realizzata in Cristo e di un equilibrio tra laicato e Gerarchia, cosciente della coessenzialità dei due elementi e della comune appartenenza all’unico Popolo dei Christifideles, deve essere collocata ogni ulteriore riflessione sulla identità del Presbitero e sulla collaborazione dei fedeli laici al suo Ministero.

Dal punto di vista storico, è necessario riconoscere che l’esistenza di una “classe” sacerdotale, dedicata prevalentemente al Culto di Dio, in maniera stabile o rituale, accompagna ogni forma di civiltà e, trasversalmente, ogni tradizione religiosa. È come se, dal punto di vista antropologico, l’uomo intuisse l’esigenza che alcuni membri del corpo sociale si dedichino totalmente a Dio, anche in rappresentanza dell’intera società e di coloro i quali, presi da molte incombenze, non possono dedicare al culto tutto il tempo che vorrebbero. Questo dato storico-antropologico universale ci fa riflettere sul pericolo di una società che pretendesse di essere “asacerdotale”, cioè che volesse fare a meno dei sacerdoti, poiché sarebbe, necessariamente ed in maniera preoccupante, una società che vuole fare a meno di Dio.

Certamente il Sacerdozio neotestamentario, che si innesta in quello veterotestamentario, lo integra e lo supera, non è interpretabile unicamente attraverso le ordinarie categorie suppletive delle civiltà antiche, anche coeve all’inizio del Cristianesimo.

L’unico Sommo Sacerdote, nel Cristianesimo, è lo stesso Gesù di Nazareth, Signore e Cristo, il quale offre al Padre l’unico Culto realmente espiatorio e redentivo, e rende partecipi – questo sì – del proprio ministero, cioè servizio, i Sacerdoti di ogni tempo, che Egli stesso chiama al Ministero.

Potremmo dire che nel Sacerdozio neotestamentario l’elemento prevalente è la non auto-attribuibilità di tale Ministero, ma la coscienza, permanente, che sempre ha attraversato la vita della Chiesa, che ad un tale compito, che implica la configurazione ontologico-sacramentale allo stesso Cristo Sacerdote, si è chiamati, indipendentemente dalle proprie qualità, dai propri meriti, e, talvolta, soprattutto all’inizio del discernimento vocazionale, anche indipendentemente dalla propria volontà.

Questo elemento, troppo spesso dimenticato, determina una grande libertà, sia da parte del Sacerdote, sia da parte del fedele laico, nel riconoscimento del valore istituzionale del Sacerdozio ministeriale: il Sacerdote, nella continua, umile consapevolezza, che tale Dono gli è stato offerto gratuitamente dal Signore ed egli è chiamato a conformarvisi progressivamente, in un continuo cammino di santità, e il fedele laico, nella giusta accettazione della Volontà divina, la Quale, come ci ricorda l’evangelista, si attua nel: «Chiamò a Sé coloro che egli volle» (Mc 3,13).

Tale sguardo oggettivo, fondato sulla Fede soprannaturale, permette di superare sia le presunzioni clericali sia le pretese laicali, sia gli inutili pauperismi e vittimismi clericali sia i protagonismi laicali.

Uno dei fenomeni, peraltro noto, degli anni successivi alla chiusura del Concilio Ecumenico Vaticano II, non indipendentemente dai movimenti culturali legati alla contestazione del Sessantotto e da essa direttamente derivanti, è stato la secolarizzazione diffusa persino nella Chiesa e che ha toccato anche non pochi sacerdoti. A tale secolarizzazione del Clero, paradossalmente, ha fatto eco una inspiegabile clericalizzazione del laicato, che ha pensato di poter ridurre la propria vocazione a quei compiti di collaborazione o di supplenza, propria o impropria, degli uffici più essenzialmente ecclesiastici, invece che veleggiare, con il vento dello Spirito in poppa, negli ampi mari del mondo, testimoniando Cristo in ogni realtà.

Entrambi i fenomeni sono di preoccupante gravità. La secolarizzazione del Clero dimostra una perdita, almeno di coscienza, della grandezza e della profondità della propria identità, del fatto di essere alter Christus, di agire in Persona Christi Capitis, di essere e rappresentare Cristo stesso che continua, attraverso i Suoi Sacerdoti, l’opera della Salvezza. È un venir meno, in fondo, allo stesso dono che Cristo ha fatto alla Sua Chiesa e a ciascun singolo sacerdote, e, come ci ha ricordato il Santo Padre Benedetto XVI, nell’allocuzione tenuta il 12 marzo scorso, durante l’Udienza concessa ai partecipanti al Convegno Teologico “Fedeltà di Cristo, Fedeltà del Sacerdote”, organizzato dalla Congregazione per il Clero: «Per tale motivo è importante superare pericolosi riduzionismi, che, nei decenni passati, utilizzando categorie più funzionalistiche che ontologiche, hanno presentato il sacerdote quasi come un “operatore sociale”, rischiando di tradire lo stesso Sacerdozio di Cristo».

La Clericalizzazione del laicato, d’altro canto, rappresenta un reale impoverimento dell’ampio respiro missionario a cui sacramentalmente il Battesimo abilita e, paradossalmente, ma realmente, è frutto di un’errata interpretazione di quanto il Concilio Ecumenico Vaticano II intendeva indicare con la giusta promozione del laicato e l’ormai nota actuosa participatio.

Poste tali premesse, il primo atteggiamento richiesto a tutti i Christifideles, nei riguardi del corretto rapporto e della conseguente giusta collaborazione tra laici e chierici, è quello della fede.

Una fede che riconosca, umilmente e realmente, la comune vocazione alla santità e la dignità creaturale e cristiana, che l’opera della Salvezza ha prodotto; una fede che riconosca la libertà e la conseguente indisponibilità del Divino Volere, il Quale costituisce Sacerdoti e pastori indipendentemente dalla volontà e dalla approvazione del popolo, poiché la Potestà sacerdotale non è, in alcun caso, derivante dal basso, ma discende, per la mediazione ecclesiale ed apostolica, direttamente da Dio; una fede capace di riconoscere il legame necessario ed indissolubile tra Sacerdozio, Eucaristia e Riconciliazione sacramentale, e che sia così attenta all’importanza dell’Eucaristia e così assetata della Divina Misericordia, da veder fiorire, nella coscienza dei fedeli, una profonda, radicata, costante e rinnovata gratitudine a Dio, che sceglie di rimanere in mezzo al Suo Popolo, di continuare a farsi Pane di Vita nuova, di continuare a perdonare i peccati del mondo, attraverso i Suoi Sacerdoti.

Quale grande compito avete voi amici del Serra, nel pregare, nel sostenere e nel sensibilizzare sulla vera identità sacerdotale e sulla necessità di adoperarsi per le vocazioni!

Insieme ad una tale fede nel sacerdozio ministeriale, un’altra forma di collaborazione dei laici al Ministero dei Sacerdoti è quella che potremmo definire la “custodia nella comunione”. Sono persuaso infatti che non sia soltanto il pastore a custodire il gregge, ma sia anche, seppur non in modo istituzionale, il gregge a custodire il pastore, soprattutto attraverso la propria santità e docilità e domandando al pastore ciò che il pastore può e deve garantire al gregge. In una comunità parrocchiale, per esempio, non è solo il parroco a custodire, presiedere e guidare la comunità, ma è la comunità stessa, con le sue famiglie e i suoi giovani, i suoi anziani e i suoi malati, con la tradizione di fede e di pietà che la anima, con la storia di sacerdoti santi che la attraversa, a custodire la vita, l’ordine, la disciplina, la regola di preghiera e dunque il Ministero stesso del Sacerdote.

Analogo esempio si potrebbe fare per una Associazione nei confronti del proprio Assistente ecclesiastico o per una comunità diocesana nei confronti del proprio vescovo: se questi ne è il primo padre e custode, non di meno tutta la comunità diocesana, a partire dai presbiteri fino a tutti i fedeli laici, sono chiamati a “custodire nella comunione” il proprio pastore e tale custodia è il primo reale modo di autentica collaborazione.

Fedeltà dei fedeli laici deriva anche dalla fedeltà dei Sacri ministri e genera una sana cooperazione nella santità che, più efficacemente che attraverso un “fare”, trova la sua più compiuta attuazione in quell’indispensabile e quotidiana orazione, che sempre deve accompagnare la vita dei Sacerdoti. Se nelle circostanze attuali, dobbiamo con rammarico riconoscerlo, il senso del sacro è venuto progressivamente meno, e, con esso, l’attenzione alla preghiera e la fedeltà ad essa, come Cristiani non possiamo conformarci alla mentalità di questo secolo (cf. Rm 12,2), ma dobbiamo riscoprire che la prima e più fondamentale energia di collaborazione, efficace più di ogni altro umano mezzo, è proprio la reciproca custodia nella preghiera. Difficilmente una comunità abituata a pregare costantemente per il proprio sacerdote, lo vedrà smarrirsi, poiché lo stesso esercizio orante fungerà da profondo richiamo per il Ministro. Crediamo noi realmente nella forza di questa preghiera? Crediamo davvero che con la nostra preghiera, l’offerta della nostra vita, i nostri sacrifici, le nostre penitenze volontariamente scelte o accettate, possiamo fattivamente ed efficacemente collaborare al Ministero dei Sacerdoti? All’apostolato dei Vescovi? Allo stesso supremo Ministero del Successore di Pietro, il Vescovo di Roma?

Senza questo primato della preghiera, vissuto nella reciproca comunione e in un ampio respiro di fede autentica, non si danno ambiti di fedeltà né di collaborazione che possano avere una qualche efficacia.

Da essi, tuttavia, può emergere la grande preziosità della collaborazione dei laici al Ministero dei loro sacerdoti, soprattutto negli ambiti di praeparactio che favoriscono e talora semplificano le concrete circostanze, in cui i Sacerdoti, purtroppo sempre meno numerosi e sempre più occupati, sono chiamati ad adempiere al proprio ufficio.

Senza mai dimenticare, ovviamente, che l’adempimento fedele degli obblighi del proprio stato, come quelli professionali, sociali, famigliari ed educativi, i quali si declinano specialmente nel servizio alla vita e alla famiglia, costituisce, in sé, la migliore e più efficace, anche se remota, collaborazione al Ministero dei Sacerdoti, i quali, potranno trovare, in tal modo, un terreno fecondo e già arato nel quale poter proseguire il lavoro apostolico.

La collaborazione più specifica, inoltre, nella catechesi e nella formazione, a tutti i livelli, non soltanto quella dei fanciulli, ma anche dei giovani e degli adulti, senza escludere l’animazione della terza età, rappresenta un ambito importante di collaborazione, che, sotto la sapiente guida e la prudente supervisione del Sacerdote, sempre curando la formazione dei collaboratori pastorali e vigilando sulla piena comunione di fede e di disciplina dei contenuti e degli insegnamenti trasmessi, può rivelarsi non solo utile, ma, spesso, anche necessaria.

L’ambito della Liturgia, infine, che ha visto non pochi fraintendimenti negli ultimi decenni, risulta essere quello in cui la giusta collaborazione dei fedeli laici è stata particolarmente fraintesa. Se la collaborazione in alcuni uffici può essere utile e persino preziosa, non si dimentichi mai che, soprattutto in tutto ciò che è di ambito liturgico e, maggiormente, sacramentale, esiste un mandato di presidenza proprio del Sacerdote, che domanda di essere accolto e riconosciuto dai fedeli laici, soprattutto in quegli aspetti canonicamente normati e dunque indisponibili alla eventuale creatività degli stessi sacerdoti. Nella Liturgia, infatti, è Cristo stesso che opera, è Lui che santifica, è Lui che si rende presente attraverso il Ministero.

Tutto ciò che rende la Liturgia più adatta al suo unico scopo, cioè dare gloria a Dio, è assolutamente da perseguire e certamente non può essere realizzato unicamente dal Sacerdote. Se collaborare convenientemente ad alcuni servizi per lo svolgersi dignitoso della Celebrazione Eucaristica significa, certamente, rendersi disponibili al Sacerdote laddove egli lo ritenga correttamente conveniente, la forma di collaborazione più necessaria è, in verità, dettata dalla natura stessa del Sacramento dell’Eucaristia; essa pertanto domanda che ogni fedele si lasci generare a Vita nuova, corrispondendo sempre più al dono di grazia che lo stesso Sacramento è.

Se, come ha ribadito il Concilio, l’Eucaristia è fonte e culmine della vita della Chiesa, essa lo è sia per il Sacerdote, sia per il fedele laico, sia per l’intera comunità ecclesiale; pertanto, è proprio nella santità di ciascun fedele che si documenta la prima, più efficace collaborazione con l’azione liturgico-sacramentale del Sacerdote.

Di tale santità l’Eucaristia è “fonte e culmine”, origine e meta, e tanto più profondo sarà l’amore dei fedeli laici per Gesù Eucaristia, tanto più attenta e sacra sarà la Celebrazione del Sacerdote; un amore, quello per l’Eucaristia, che, al di là dei differenti ministeri ricevuti, unisce l’intera Chiesa, rendendola Corpo; Corpo Eucaristico, Corpo di Cristo, Corpo comunionale e Popolo dei redenti.

In tale ambito, tutti gli “amici serrani” possono essere di giusto stimolo e di esempio, mostrando come la fedeltà personale possa essere giustamente stimolata da quella dei Sacerdoti e, soprattutto, come il sostegno ai Sacerdoti e specialmente alle vocazioni, domandi continuamente quel rinnovamento interiore che solo la grazia può operare efficacemente, attraverso i Sacramenti celebrati da Cristo stesso nel Suo Corpo che è la Chiesa.

Quello stesso Corpo, che la Beata Vergine Maria ha portato in grembo, ha nutrito, ha profondamente amato, ha consegnato al dolore e nel dolore, e adesso contempla Risorto.

Ci sostenga Lei, Regina degli Apostoli e Aiuto dei Cristiani, in questo delicato cammino di comune fedeltà, nel costante rispetto dei differenti ruoli, derivanti dalle differenti chiamate e nella letizia di fede, che la medesima vocazione alla santità procura.

Grazie!