Meditazione
al Clero
Intervento
di S.E. Mons. Mauro Piacenza
Arciv.
tit. di Vittoriana
Segretario
della Congregazione per il Clero
«Parliamo di noi»
X
Eccellenza
Reverendissima,
Carissimi
sacerdoti,
è per me motivo di grande gioia trovarmi qui con voi,
in questo giorno, nel quale oltre quindici secoli fa nasceva al Cielo San Bernardino
da Siena, che con la sua intera esistenza ci richiama all’autentica vita
sacerdotale, all’amore totale ed incondizionato al Salvatore nostro Gesù Cristo
ed alla Sua Chiesa.
Il titolo del tema che mi è stato affidato per
l’odierna meditazione è: «Parliamo di noi». Apparentemente molto ampio, esso offre
immediatamente due spunti per la nostra riflessione: innanzitutto, nell’Anno
Sacerdotale indetto dal Santo Padre Benedetto XVI, siamo invitati a riconoscere
ciò che ci accomuna, ovvero il Mistero che, nel giorno della nostra Ordinazione
Sacerdotale, ci ha uniti in modo essenzialmente unico e definitivo alla Persona
di Cristo e, perciò, ci ha resi, per sempre suoi nel Ministero e fratelli nel presbiterio.
In secondo luogo, possiamo riconoscere, nel tema, un tratto della paterna sollecitudine
e sacerdotale vicinanza del pastore-Vescovo verso i sacerdoti che il Signore
gli ha affidato.
Ma, poiché di questa paternità non potete che
essere esperti, volgiamo il nostro sguardo più acuto e profondo, lo sguardo della
fede, al dono ricevuto nell’essere stati resi partecipi dell’unico Sacerdozio
di Cristo.
Gli Apostoli sono riuniti nel Cenacolo con Maria
Santissima, la Madre del Signore, e attendono oranti la effusione del
Paraclito. Anche noi, attendiamo e preghiamo con loro, mentre si avvicina la
Solennità di Pentecoste, memoria dell’Effusione definitiva e permanente dello
Spirito di Verità su di loro e su di noi, della conseguente prima
manifestazione piena della Chiesa, come narrano gli Atti degli Apostoli (cf.
At 2,1-41).
La memoria di tale Evento ci pone, sempre e di
nuovo, dinanzi alla precedenza assoluta dell’opera di Dio su ogni nostro agire,
come il Santo Padre ebbe modo di ricordare, l’ottobre scorso, nella Prima
Congregazione Generale della II Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei
Vescovi: «Ricordiamo che gli Apostoli dopo l'Ascensione non
hanno iniziato — come forse sarebbe stato normale — a organizzare, a creare la
Chiesa futura. Hanno aspettato l'azione di Dio, hanno aspettato lo Spirito
Santo. Hanno compreso che la Chiesa non si può fare, che non è il prodotto
della nostra organizzazione: la Chiesa deve nascere dallo Spirito Santo. Come
il Signore stesso è stato concepito ed è nato dallo Spirito Santo, così anche
la Chiesa deve essere sempre concepita e nascere dallo Spirito Santo».
Allo stesso modo, carissimi
confratelli, come sacerdoti non siamo chiamati ad organizzare, programmare,
creare il nostro Ministero, poiché il Sacerdozio, per sua natura, non è mai il risultato
di un nostro personale impegno, ma continuo Dono di Cristo alla nostra vita,
opera del Suo Spirito nella nostra esistenza, per la nostra personale salvezza,
per la conquista delle anime al Cielo e per l’edificazione della Chiesa.
Piuttosto, siamo chiamati ad accogliere
tale Dono, ricevuto da Dio tramite gli Apostoli e i loro successori, e domandare
di lasciarci conformare sempre più a tale nuova identità.
In questo contributo
desidero, pertanto, porre l’accento sui fondamenti della Vocazione sacerdotale,
sulla sua profonda natura, voluta da Cristo stesso, e accolta da duemila anni
di Tradizione ecclesiale, e sul Ministero del Sacerdote, in particolare sul
cammino di reale santificazione che, il servizio a Dio e agli uomini,
autenticamente vissuto, ci conduce a compiere.
1. Fondamenti e natura della Vocazione sacerdotale
La Pastores dabo vobis, al n. 42, riconosce la radice della Vocazione
sacerdotale nel dialogo tra Gesù e Pietro (cf. Gv 21): «Formarsi al Sacerdozio
significa abituarsi a dare una risposta personale alla questione fondamentale
di Cristo: “Mi ami tu?”. La risposta per il futuro sacerdote non può essere che
il dono totale della propria vita».
Ritengo che una tale
collocazione teologico-spirituale sia gravida di importanti conseguenze, che
andremo ad indagare.
Prima, tuttavia, vorrei
fare una premessa di carattere metodologico e semantico, sull’uso del termine:
“vocazione”. La mia impressione è che, ormai, si utilizzi troppo spesso questo
termine per indicare non tanto una specifica chiamata del Signore, quanto le
scelte di vita che gli uomini autonomamente compiono; la conseguenza è che
qualunque professione, lavoro, condizione o stato di vita, diviene una presunta
vocazione! Un simile errore di prospettiva da parte di un sacerdote non
potrebbe che causare un disorientamento di fondo nel personale cammino alla
santità e, insieme, un’errata direzione spirituale dei fedeli che sono affidati
alle sue cure.
Parafrasando un asserto
teologico del Card. Cottier, secondo il quale “se tutto è grazia, niente è
grazia”, potremmo dire: “Se tutto è vocazione, niente è vocazione!”.
Presentare tutto come
“vocazione” senza le necessarie distinzioni, porta con sé il rischio di un
grave appiattimento, di un artificiale orizzontalismo e di una
“normalizzazione” della vocazione, che risulterebbe essere l’esito di una mera
scelta umana.
Personalmente sono convinto
che si possa, e si debba, tornare a distinguere con grande chiarezza, tra
“vocazione naturale” e “vocazione soprannaturale”, riservando solo a
quest’ultima, in senso stretto, il significato autentico di vocazione. In
questo senso, ad esempio, il matrimonio è, e rimane, una bellissima realtà,
alla quale ogni uomo, sanamente orientato, è naturalmente chiamato; quindi,
propriamente, non avrebbe senso parlare di “vocazione” matrimoniale, se non
chiarendo che si tratta, più che di una “vocazione”, di una “naturale
inclinazione”.
Sarà, poi, il matrimonio
cristiano sacramentale a poter essere descritto con “accenti vocazionali”,
perché l’istituto naturale è stato elevato, da Nostro Signore, alla dignità di Sacramento
(cf. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1601). Ma, certamente, non tutti i
moti dell’animo umano possono essere di origine soprannaturale: ben immaginiamo
cosa accadrebbe se ogni “inclinazione” degli uomini fosse canonizzata in una
presunta “vocazione” divina. È chiaro che, una tale impostazione, non regge
l’impatto di verifica con la realtà e, soprattutto, il vaglio del dramma
universale del peccato, del quale non è mai lecito attribuire a Dio alcuna
responsabilità.
Allora, quando si parla di
“vocazione”, è necessario recuperare l’autentico significato dei termini,
riconoscendo certamente che già quella a divenire cristiani è un’autentica
vocazione soprannaturale, ma riservando, poi, il termine a quelle che,
classicamente, sono sempre state ritenute vocazioni (sacerdotali, alla vita
consacrata).
Se è vero che non si nasce
cristiani – se non, in certo senso, culturalmente – ma lo si diventa,
attraverso l’avvenimento dell’Incontro con Cristo, «che dà alla vita un nuovo
orizzonte» (cf. Deus caritas est, 1), è altrettanto vero, ed irrinunciabile, che la
Vocazione sacerdotale non è una scelta umana, ma una chiamata divina. È
l’ingresso soprannaturale di Dio nell’umana esistenza! Un Dio che chiama a
seguirLo radicalmente, totalmente, rinunciando a tutto quanto è umanamente
anche buono e lecito, per essere, per Lui e per il mondo, la “terra promessa”
alla tribù di Levi, la quale, per il culto al Signore, non possedeva terra in
questo mondo. Ricordiamo il Salmo: “Il
Signore è mia parte di eredità e mio calice” (Salmo 16,5).
Questo tentativo di
recupero semantico del termine “vocazione” ha enormi conseguenze di carattere
metodologico, soprattutto in ordine al discernimento vocazionale, cui è
chiamato ogni sacerdote, ed in particolare quanti sono responsabili della
formazione pre-sacerdotale dei candidati al Presbiterato: se la Vocazione è un
evento soprannaturale, il discernimento deve essere compiuto con metodi soprannaturali.
Diversamente, discernere la Vocazione, ad esempio, solo attraverso le tecniche
psicologiche, sarebbe una violenza all’oggetto, il quale impone, ex natura sui, il metodo della
conoscenza.
La psicologia è un metodo
naturale, dunque risulta inadeguato a discernere la Vocazione soprannaturale.
Le scienze umane, quando si riferiscono ad una sana antropologia, possono
risultare anche sommamente utili per “lavorare sull’umano”, che deve supportare
la grazia soprannaturale della Vocazione, ma non possono mai divenirne criterio
ultimo di discernimento vocazionale.
È necessario, poi, tener
presente che il Signore dona, a quelli che Lui chiama, anche la grazia di una
straordinaria “fioritura umana”: l’umanità, toccata dalla grazia della Vocazione
soprannaturale al sacerdozio, e più in generale alla verginità per il Regno dei
Cieli, fiorisce come mai si sarebbe potuto pensare e se abbandona la strada
della Vocazione, appassisce improvvisamente.
La Vocazione sacerdotale è,
quindi, un evento soprannaturale di Grazia, un intervento libero e sovrano del
Signore che «chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui. Ne
costituì Dodici che stessero con lui
e anche per mandarli» (Mc
3,13; cf. Pastores dabo Vobis n. 65). A questo
evento soprannaturale risponde la libertà umana, aderendo alla divina Volontà e
conformandovisi progressivamente.
Tornando, allora, all’incipit di questo contributo, a Pastores dabo vobis 42, potremmo dire
che, a fondamento della Vocazione sacerdotale, c’è il rapporto d’amore intenso,
appassionato, divampante, esclusivo e totalizzante tra Cristo Signore ed il
chiamato. Senza questa esperienza “travolgente”, che cambia, e in un certo
senso, sconvolge la vita, non si dà autentica Vocazione, vera comprensione
dell’agire potente di Dio, nella vicenda storica di ciascuno.
L’amore di predilezione del
Signore, la Sua assoluta fedeltà alla nostra persona, il Suo “Sì” alla nostra
vita, da noi accolto e almeno germinalmente corrisposto nell’azione
sacramentale, hanno costituito definitivamente il nostro nuovo essere,
facendoci eternamente partecipi dell’“Amore del Cuore di Gesù”, come, con
felicissima espressione, il Curato d’Ars amava definire il Sacerdozio.
Quest’amore, che ovviamente
ha origini divine, coinvolge realmente il cuore umano, l’intelligenza, la
libertà, la volontà e l’affettività del chiamato, poiché, in forza stessa della
profonda unità dell’uomo, tutte le dimensioni dell’io sono come “rapite” e
profondamente plasmate dalla Chiamata del Signore.
Quest’amore per il Signore,
poi, unico reale fondamento della Vocazione, si documenta in un aspetto, oggi
purtroppo non sufficientemente sottolineato, ma assolutamente centrale, della
vita del Sacerdote: l’amore alla divina, reale Presenza di Cristo Risorto
nell’Eucaristia. Credo che l’Adorazione eucaristica dovrebbe diventare una
pratica quotidiana e prolungata, tale da segnare la formazione sia iniziale che
permanente. Quante, quante cose maturano sotto il Sole eucaristico! E se ci si
abbronza la pelle rimanendo esposti ai raggi del sole astronomico, quale
processo di crescita, di “cristificazione” accadrà stando sotto i raggi del
Sole eucaristico? La Vocazione nasce,
cresce, si sviluppa, si mantiene fedele e feconda, solo nell’intenso rapporto
con Cristo.
Dall’Adorazione della
Presenza reale, l’intelligenza deve comprendere che è Gesù di Nazareth, Signore
e Cristo, l’unica verità, la verità totale, l’unico insurrogabile Salvatore!
Diversamente come si potrebbe acculturare cristianamente il Sacerdote? Dove
potrebbe trarre alimento quella missionarietà che deve urgere come un fiume in
piena?
Certamente, la promozione
dei valori umani ed un generico sentimento di solidarietà, non sono ragioni
sufficienti per dare la vita nel martirio quotidiano della verginità, dell’obbedienza
e del servizio e, se chiamati, nel martirio della testimonianza fino
all’effusione del sangue. Non si dà la vita per un’idea o per un “valore”! Si
dona la vita per una Persona! Una Persona conosciuta, amata, e dalla quale si è
amati: questo è il rapporto con Cristo, anche dell’intelligenza e della vera
formazione intellettuale.
Dall’Adorazione della
Presenza reale, il cuore deve sentire l’esclusività dell’amore. Un amore che
incendia tutto in noi e intorno a noi! La vera radice del sacro Celibato è in
quest’amore. Ben lungi dall’essere una mera norma disciplinare, come alcuni
vorrebbero far intendere, il sacro Celibato, o meglio la verginità per il Regno
dei Cieli, è la traduzione esistenziale dell’Apostolica vivendi forma che, a imitazione di Gesù stesso, pone Dio
al primo ed unico posto, anche negli affetti. È l’incontro fecondo tra il dono
di Dio, senza il quale nessun umano impegno potrebbe inventare un simile
sacrificio, e la sua accoglienza e continua mendicanza da parte dell’uomo. La
“legge” è solo unaovvia conseguenza.
Dall’Adorazione della
Presenza reale si comprende perfino il senso profondo della disciplina
ecclesiastica, cioè dell’essere discepoli di Cristo, nella Chiesa. La tanto
vituperata disciplina ecclesiastica non è altro che discepolanza! Ne dobbiamo
recuperare urgentemente le radici fatte di amore a Cristo ed alle anime, in
ragione di Lui.
L’Adorazione della Presenza
reale è la vera, e in fondo unica, “scuola della gioia”; in Cristo anche il
sacrificio è gioia, perché è partecipazione al grande disegno di salvezza
voluto dal Padre per la salvezza degli uomini.
La penitenza, in
quest’ottica, è recuperata nel suo valore soprannaturale, divenendo una vera e
propria virtù, in quella tradizione, mai banale, carica di amore e tenerezza
verso il Signore, fatta di continue attenzioni a Lui, di quella permanente memoria Crucis che caratterizza la vita
dei Santi e dei Mistici, fino al giusto recupero dei “fioretti”, cioè di quegli
atti continui di memoria e offerta, che rendono la giornata totalmente colma di
Cristo e della sua Presenza. Occorre però umiltà, semplicità, infanzia
spirituale. E quando si è umili si potenzia la comprensione, si capiscono con
gioiosa sorpresa le verità della fede, la logica del Vangelo.
Solo in quest’ottica, anche
nella formazione seminaristica e permanente, è possibile comprendere, nella
propria carne, che cosa sia l’appartenenza al Corpo Mistico e l’agire in Persona Christi, partecipando, anche
attraverso le proprie sofferenze, al mistero della sostituzione vicaria, che il
Sacerdote è chiamato a vivere in se stesso quotidianamente.
Un sacerdote che abbia
questa coscienza della Presenza reale di Cristo, sarà un uomo di Dio, casto,
obbediente, distaccato del tutto da se stesso, quindi libero! Senza
problematicismi, sarà invaso dentro di sé dalla pace, dalla beata pacis visio!
L’obbedienza, nella Chiesa,
è certamente un consiglio evangelico, una virtù morale, ma è, soprattutto, una
ripresentazione permanente di Cristo stesso, “obbediente fino alla morte e alla morte di Croce” (Cf. Fil
2,8), ripresentazione di quell’amore che è Redenzione che scorre dall’albero
della Croce, che è obbedienza e questa obbedienza è amore, puro Amore!
Solo a queste condizioni è
possibile educare al vero senso della Chiesa, all’amore alla Santa Madre che
tutti ci ha generati e genera, nella fede e nel santo Sacerdozio.
Per troppo tempo, e in
troppi luoghi, si è lasciato che il mondo, lo spirito del mondo monopolizzasse
l’opera educativa, in un diffuso clima relativista, soggettivista, edonista e,
in definitiva, anti-cattolico.
In tal modo, si è permesso
che il mondo condizionasse il pensiero anche dei sacerdoti, il loro dire, il
criticare e giudicare la Madre, ovvero la Chiesa, il cedere a categorie
storico-politiche, imposte dall’ermeneutica della “discontinuità”, all’interno
dell’unico soggetto ecclesiale. Infine perfino il vestire, il cantare, un certo
irresponsabile ed immaturo uso della gestualità, tutti aspetti mutuati dal
mondo! Ben sappiamo che spirito del mondo e Spirito di Dio sono in opposizione.
Così come sappiamo che il luogo teologico non è il mondo, bensì la Chiesa,
presenza di Cristo nel mondo.
Si è creata non un’eresia,
che avrebbe fatto reagire prontamente il Corpo ecclesiale, ma un clima
generale, come una nebbia che tutto avvolge, rendendo incapaci di vedere e
distinguere con chiarezza tra bene e male, vero e falso, virtù e vizio. Il
mondo non lo si capisce di più stando immersi nella sua mentalità ma lo si
capisce di più stando immersi nello Spirito di Dio. Di qui si coglie cosa sia
davvero pastorale e cosa sia l’antipastorale sotto l’etichetta di pastorale.
Potremmo trovare un’efficacia
analogia di ciò in quello che, a livello filosofico, e poi divulgativo, è
accaduto con il termine “moderno”: una realtà, nel linguaggio comune, è buona
se è moderna. Non importa se sia vera o falsa, se promuova veramente l’uomo o
lo danneggi, non ci si domanda nulla al riguardo. È sufficiente che sia
“moderna”, per trovare simpatia e perfino accoglienza nelle menti e nei cuori,
e quindi nei costumi.
Lo stesso capita in taluni
ambiti ecclesiali: basta usare le locuzioni ormai famose: “dopo il Concilio” o
“secondo lo spirito del Concilio” e nessuno osa nemmeno andare a verificare se
mai, quella nobile Assise di Padri, abbia fatto determinate affermazioni.
Basti pensare ad alcune
“parole chiave” con le quali, talvolta, si umiliano, e si perdono, ottime
vocazioni: “è troppo rigido”, “troppo legato alla forma”, “non è aperto alla
diversità”, “è troppo convinto”, “non ha dubbi”, “non ha elaborato criticamente
la fede”, “rompe la comunione” eccetera.
Occorre ora uscire
dall’equivoco e parlare chiaramente, con la semplicità del Vangelo per il quale
il nostro dire deve essere “sì, sì” “no,no”, ovvero schietto. L’accento
sproporzionato che i media internazionali hanno voluto porre sulle ferite,
tanto recenti quanto remote, inferte alla Chiesa talvolta anche da membri della
Gerarchia, ci spinge in questa direzione. Infatti, finché non si fa chiarezza
sui malanni, non si potrà mai individuare la cura e allora non si potrà
costruire un modo autenticamente cattolico e davvero moderno di formare il
futuro clero del mondo. In questo senso la disarmante chiarezza, profonda semplicità
ed autentica fede con le quali il Papa sta guidando il Popolo di Dio, ci sono
di vivo e continuo esempio.
2. Il Ministero,
cammino di santificazione
Alla luce di quanto fin qui
detto, si comprende, allora, come il Ministero debba essere presentato, accolto
e vissuto. Il Santo Padre Benedetto XVI, dalla sua prima Lettera Enciclica Deus caritas est alle catechesi ed omelie di quest’Anno Sacerdotale, ha
ripetutamente ribadito l’urgenza del superamento di ogni riduzione
funzionalistica ed attivistica dell’operare ecclesiale e, in specie, del
ministero sacerdotale.
La specificità della Vocazione
sacerdotale, essenziale ed insurrogabile per la vita e l’identità stessa della
Chiesa, postula come logica conseguenza la specificità del cammino di
santificazione che, attraverso l’esercizio del Ministero, ciascun sacerdote è
chiamato a compiere.
Anche in questo senso,
riscopriamo la centralità dell’Eucaristia: fonte e culmine di tutto il Ministero
sacerdotale, essa è anche centro propulsore della vita morale e della
santificazione del Clero. Se il Sacerdote ha bisogno di un momento di assoluta
Verità durante le lunghe e talvolta faticose giornate di apostolato, lo troverà
dinanzi all’Eucaristia; se vorrà stare con il Suo Signore, così come vi stavano
i pastori dinanzi alla grotta di Betlemme, o gli Apostoli, che Egli chiamò
lungo il mare di Galilea, oppure Nicodemo che andava a trovarLo nel cuore della
notte, o come San Giovanni che poggiò il capo sul Suo petto durante l’Ultima
Cena, o il ladrone crocifisso, che Lo riconobbe e pregò, ottenendone la
Misericordia, o l’incredulo San Tommaso, che mise il dito nella piaga della Sua
mano, oppure ancora come San Pietro sulla riva del lago di Tiberiade… Se vorrà
rivivere l’esperienza di questi fratelli, allora il Sacerdote sosterà dinanzi
al Tabernacolo, intimamente unito alla Beata Vergine, Madre sua e Maestra della
vera Adorazione. Se vorrà progredire nella conoscenza amorosa di Colui che lo
ha reso definitivamente partecipe del proprio agire salvifico, ancora sosterà
davanti alla Presenza eucaristica, sotto lo sguardo di verità ed amore che
Cristo continuamente poggia su di lui. Se infatti la virtù si apprende solo
frequentando chi è autenticamente virtuoso, quanto più solo frequentando la
Persona di Cristo si apprenderanno davvero i Suoi sentimenti, il Suo giudizio
sul mondo ed il Suo Amore per ciascuno di noi e per tutte le anime.
Celebriamo l’Eucaristia con
lo stupore grato di un bambino, con la coscienza profonda di un mistico, con la
preparazione accurata di un innamorato, nel silenzio orante di chi è
consapevole di trovarsi al servizio di Dio, desiderando quasi di sparire, di
“diminuire perché Egli cresca” (Cf. Gv 3,30).
Il Ministero, poi, non deve
essere distinto dalla vita del Sacerdote, il quale, in ogni attività che
compie, deve mantenere sempre uno stile sacerdotale: nel tratto umano, nel
linguaggio, nell’abito proprio, che esprime un pensare ed un agire specifici,
nell’agire costantemente con le modalità del Buon Pastore, che offre se stesso
per le pecore, che non è mai un mero amministratore o, peggio, un mercenario,
che è capace di attirare le pecore all’ovile della santa Chiesa.
Un tale tratto umano non
nasce da uno sforzo improvvisato, ma dalla consapevolezza, debitamente educata,
di essere, per la pura grazia e misericordia divina, un alter Christus, che cammina sulle vie del mondo. Questo è il
Sacerdote e questa è la vera pastoralità!
Non cedere alle mode e ai
gusti del tempo e degli uomini, non assecondarli addirittura nel peccato,
personale e sociale, ma curare le pecore, con particolare attenzione a quelle
disperse e malate, partendo dal desiderio bruciante che tutti conoscano Cristo,
unico vero Salvatore della storia e dell’uomo, e che, nel contempo, i confini
visibili della Chiesa si dilatino fino agli estremi confini del mondo e dei
cuori.
Tutti gli uomini sono «ordinati a far parte dell’ovile
di Cristo». Il sacerdote diviene santo, operando in tale
direzione, vivendo, soffrendo, offrendo perché tutti quelli che gli sono
affidati e che incontra, attraverso il suo Ministero ed il suo tratto umano,
possano fare una vera esperienza di Cristo.
Un sacerdote così, non può
rifugiarsi nella solitudine o nell’isolamento, non può pensare che l’età
canonica del pensionamento coincida con lo smettere di operare per il bene
delle anime.
Il Sacerdozio, infatti,
tramite il Sacramento, modifica ontologicamente l’identità di chi lo ha ricevuto.
Allora si è sempre Sacerdoti, in ogni ambiente, tempo, circostanza.
Educhiamo a questa
coscienza! Rinnoviamo la nostra appartenenza a Cristo e l’amore indefesso per
l’Eucaristia, che ci è stata elargita la grazia di celebrare.
Amiamo il confessionale, come
luogo, come servizio, come immedesimazione a Cristo misericordioso, datore
dell’Amore trinitario. In questo senso va anche il reiterato richiamo del
nostro padre e pastore Benedetto XVI: «Cari confratelli, è necessario tornare al
confessionale, come luogo nel quale celebrare il Sacramento della
Riconciliazione, ma anche come luogo in cui “abitare” più spesso, perché il
fedele possa trovare misericordia, consiglio e conforto, sentirsi amato e
compreso da Dio e sperimentare la presenza della Misericordia Divina, accanto
alla Presenza reale nell’Eucaristia»
(Udienza alla Penitenzieria Apostolica, 11 marzo 2010).
E mentre la Celebrazione di
quest’Anna di speciale grazia e preghiera per i Sacerdoti volge verso il suo
culmine nella Solennità del Sacro Cuore di Gesù, la Beata vergine Maria, Madre
dei Sacerdoti, protegga il nostro cammino di santificazione, rafforzi la nostra
coscienza di essere altri suoi figli
e, con la Sua onnipotenza supplice, doni alla Chiesa una nuova grande stagione
di fioritura vocazionale e di sacerdoti santi.
Grazie.