Meditazione al Clero

 

Intervento di S.E. Mons. Mauro Piacenza

Arciv. tit. di Vittoriana

Segretario della Congregazione per il Clero

 

 

«Parliamo di noi»

 

 

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Eccellenza Reverendissima,

Carissimi sacerdoti,

è per me motivo di grande gioia trovarmi qui con voi, in questo giorno, nel quale oltre quindici secoli fa nasceva al Cielo San Bernardino da Siena, che con la sua intera esistenza ci richiama all’autentica vita sacerdotale, all’amore totale ed incondizionato al Salvatore nostro Gesù Cristo ed alla Sua Chiesa.

Il titolo del tema che mi è stato affidato per l’odierna meditazione è: «Parliamo di noi». Apparentemente molto ampio, esso offre immediatamente due spunti per la nostra riflessione: innanzitutto, nell’Anno Sacerdotale indetto dal Santo Padre Benedetto XVI, siamo invitati a riconoscere ciò che ci accomuna, ovvero il Mistero che, nel giorno della nostra Ordinazione Sacerdotale, ci ha uniti in modo essenzialmente unico e definitivo alla Persona di Cristo e, perciò, ci ha resi, per sempre suoi nel Ministero e fratelli nel presbiterio. In secondo luogo, possiamo riconoscere, nel tema, un tratto della paterna sollecitudine e sacerdotale vicinanza del pastore-Vescovo verso i sacerdoti che il Signore gli ha affidato.

Ma, poiché di questa paternità non potete che essere esperti, volgiamo il nostro sguardo più acuto e profondo, lo sguardo della fede, al dono ricevuto nell’essere stati resi partecipi dell’unico Sacerdozio di Cristo.

Gli Apostoli sono riuniti nel Cenacolo con Maria Santissima, la Madre del Signore, e attendono oranti la effusione del Paraclito. Anche noi, attendiamo e preghiamo con loro, mentre si avvicina la Solennità di Pentecoste, memoria dell’Effusione definitiva e permanente dello Spirito di Verità su di loro e su di noi, della conseguente prima manifestazione piena della Chiesa, come narrano gli Atti degli Apostoli (cf. At 2,1-41).

La memoria di tale Evento ci pone, sempre e di nuovo, dinanzi alla precedenza assoluta dell’opera di Dio su ogni nostro agire, come il Santo Padre ebbe modo di ricordare, l’ottobre scorso, nella Prima Congregazione Generale della II Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi: «Ricordiamo che gli Apostoli dopo l'Ascensione non hanno iniziato — come forse sarebbe stato normale — a organizzare, a creare la Chiesa futura. Hanno aspettato l'azione di Dio, hanno aspettato lo Spirito Santo. Hanno compreso che la Chiesa non si può fare, che non è il prodotto della nostra organizzazione: la Chiesa deve nascere dallo Spirito Santo. Come il Signore stesso è stato concepito ed è nato dallo Spirito Santo, così anche la Chiesa deve essere sempre concepita e nascere dallo Spirito Santo».

Allo stesso modo, carissimi confratelli, come sacerdoti non siamo chiamati ad organizzare, programmare, creare il nostro Ministero, poiché il Sacerdozio, per sua natura, non è mai il risultato di un nostro personale impegno, ma continuo Dono di Cristo alla nostra vita, opera del Suo Spirito nella nostra esistenza, per la nostra personale salvezza, per la conquista delle anime al Cielo e per l’edificazione della Chiesa.

Piuttosto, siamo chiamati ad accogliere tale Dono, ricevuto da Dio tramite gli Apostoli e i loro successori, e domandare di lasciarci conformare sempre più a tale nuova identità.

 

In questo contributo desidero, pertanto, porre l’accento sui fondamenti della Vocazione sacerdotale, sulla sua profonda natura, voluta da Cristo stesso, e accolta da duemila anni di Tradizione ecclesiale, e sul Ministero del Sacerdote, in particolare sul cammino di reale santificazione che, il servizio a Dio e agli uomini, autenticamente vissuto, ci conduce a compiere.

 

1. Fondamenti e natura della Vocazione sacerdotale

La Pastores dabo vobis, al n. 42, riconosce la radice della Vocazione sacerdotale nel dialogo tra Gesù e Pietro (cf. Gv 21): «Formarsi al Sacerdozio significa abituarsi a dare una risposta personale alla questione fondamentale di Cristo: “Mi ami tu?”. La risposta per il futuro sacerdote non può essere che il dono totale della propria vita».

Ritengo che una tale collocazione teologico-spirituale sia gravida di importanti conseguenze, che andremo ad indagare.

Prima, tuttavia, vorrei fare una premessa di carattere metodologico e semantico, sull’uso del termine: “vocazione”. La mia impressione è che, ormai, si utilizzi troppo spesso questo termine per indicare non tanto una specifica chiamata del Signore, quanto le scelte di vita che gli uomini autonomamente compiono; la conseguenza è che qualunque professione, lavoro, condizione o stato di vita, diviene una presunta vocazione! Un simile errore di prospettiva da parte di un sacerdote non potrebbe che causare un disorientamento di fondo nel personale cammino alla santità e, insieme, un’errata direzione spirituale dei fedeli che sono affidati alle sue cure.

Parafrasando un asserto teologico del Card. Cottier, secondo il quale “se tutto è grazia, niente è grazia”, potremmo dire: “Se tutto è vocazione, niente è vocazione!”.

Presentare tutto come “vocazione” senza le necessarie distinzioni, porta con sé il rischio di un grave appiattimento, di un artificiale orizzontalismo e di una “normalizzazione” della vocazione, che risulterebbe essere l’esito di una mera scelta umana.

Personalmente sono convinto che si possa, e si debba, tornare a distinguere con grande chiarezza, tra “vocazione naturale” e “vocazione soprannaturale”, riservando solo a quest’ultima, in senso stretto, il significato autentico di vocazione. In questo senso, ad esempio, il matrimonio è, e rimane, una bellissima realtà, alla quale ogni uomo, sanamente orientato, è naturalmente chiamato; quindi, propriamente, non avrebbe senso parlare di “vocazione” matrimoniale, se non chiarendo che si tratta, più che di una “vocazione”, di una “naturale inclinazione”.

Sarà, poi, il matrimonio cristiano sacramentale a poter essere descritto con “accenti vocazionali”, perché l’istituto naturale è stato elevato, da Nostro Signore, alla dignità di Sacramento (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1601). Ma, certamente, non tutti i moti dell’animo umano possono essere di origine soprannaturale: ben immaginiamo cosa accadrebbe se ogni “inclinazione” degli uomini fosse canonizzata in una presunta “vocazione” divina. È chiaro che, una tale impostazione, non regge l’impatto di verifica con la realtà e, soprattutto, il vaglio del dramma universale del peccato, del quale non è mai lecito attribuire a Dio alcuna responsabilità.

Allora, quando si parla di “vocazione”, è necessario recuperare l’autentico significato dei termini, riconoscendo certamente che già quella a divenire cristiani è un’autentica vocazione soprannaturale, ma riservando, poi, il termine a quelle che, classicamente, sono sempre state ritenute vocazioni (sacerdotali, alla vita consacrata).

Se è vero che non si nasce cristiani – se non, in certo senso, culturalmente – ma lo si diventa, attraverso l’avvenimento dell’Incontro con Cristo, «che dà alla vita un nuovo orizzonte» (cf. Deus caritas est, 1), è altrettanto vero, ed irrinunciabile, che la Vocazione sacerdotale non è una scelta umana, ma una chiamata divina. È l’ingresso soprannaturale di Dio nell’umana esistenza! Un Dio che chiama a seguirLo radicalmente, totalmente, rinunciando a tutto quanto è umanamente anche buono e lecito, per essere, per Lui e per il mondo, la “terra promessa” alla tribù di Levi, la quale, per il culto al Signore, non possedeva terra in questo mondo. Ricordiamo il Salmo: “Il Signore è mia parte di eredità e mio calice” (Salmo 16,5).

Questo tentativo di recupero semantico del termine “vocazione” ha enormi conseguenze di carattere metodologico, soprattutto in ordine al discernimento vocazionale, cui è chiamato ogni sacerdote, ed in particolare quanti sono responsabili della formazione pre-sacerdotale dei candidati al Presbiterato: se la Vocazione è un evento soprannaturale, il discernimento deve essere compiuto con metodi soprannaturali. Diversamente, discernere la Vocazione, ad esempio, solo attraverso le tecniche psicologiche, sarebbe una violenza all’oggetto, il quale impone, ex natura sui, il metodo della conoscenza.

La psicologia è un metodo naturale, dunque risulta inadeguato a discernere la Vocazione soprannaturale. Le scienze umane, quando si riferiscono ad una sana antropologia, possono risultare anche sommamente utili per “lavorare sull’umano”, che deve supportare la grazia soprannaturale della Vocazione, ma non possono mai divenirne criterio ultimo di discernimento vocazionale.

È necessario, poi, tener presente che il Signore dona, a quelli che Lui chiama, anche la grazia di una straordinaria “fioritura umana”: l’umanità, toccata dalla grazia della Vocazione soprannaturale al sacerdozio, e più in generale alla verginità per il Regno dei Cieli, fiorisce come mai si sarebbe potuto pensare e se abbandona la strada della Vocazione, appassisce improvvisamente.

La Vocazione sacerdotale è, quindi, un evento soprannaturale di Grazia, un intervento libero e sovrano del Signore che «chiamò a sé quelli che volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli» (Mc 3,13; cf. Pastores dabo Vobis n. 65). A questo evento soprannaturale risponde la libertà umana, aderendo alla divina Volontà e conformandovisi progressivamente.

Tornando, allora, all’incipit di questo contributo, a Pastores dabo vobis 42, potremmo dire che, a fondamento della Vocazione sacerdotale, c’è il rapporto d’amore intenso, appassionato, divampante, esclusivo e totalizzante tra Cristo Signore ed il chiamato. Senza questa esperienza “travolgente”, che cambia, e in un certo senso, sconvolge la vita, non si dà autentica Vocazione, vera comprensione dell’agire potente di Dio, nella vicenda storica di ciascuno.

L’amore di predilezione del Signore, la Sua assoluta fedeltà alla nostra persona, il Suo “Sì” alla nostra vita, da noi accolto e almeno germinalmente corrisposto nell’azione sacramentale, hanno costituito definitivamente il nostro nuovo essere, facendoci eternamente partecipi dell’“Amore del Cuore di Gesù”, come, con felicissima espressione, il Curato d’Ars amava definire il Sacerdozio.

Quest’amore, che ovviamente ha origini divine, coinvolge realmente il cuore umano, l’intelligenza, la libertà, la volontà e l’affettività del chiamato, poiché, in forza stessa della profonda unità dell’uomo, tutte le dimensioni dell’io sono come “rapite” e profondamente plasmate dalla Chiamata del Signore.

Quest’amore per il Signore, poi, unico reale fondamento della Vocazione, si documenta in un aspetto, oggi purtroppo non sufficientemente sottolineato, ma assolutamente centrale, della vita del Sacerdote: l’amore alla divina, reale Presenza di Cristo Risorto nell’Eucaristia. Credo che l’Adorazione eucaristica dovrebbe diventare una pratica quotidiana e prolungata, tale da segnare la formazione sia iniziale che permanente. Quante, quante cose maturano sotto il Sole eucaristico! E se ci si abbronza la pelle rimanendo esposti ai raggi del sole astronomico, quale processo di crescita, di “cristificazione” accadrà stando sotto i raggi del Sole eucaristico?  La Vocazione nasce, cresce, si sviluppa, si mantiene fedele e feconda, solo nell’intenso rapporto con Cristo.

Dall’Adorazione della Presenza reale, l’intelligenza deve comprendere che è Gesù di Nazareth, Signore e Cristo, l’unica verità, la verità totale, l’unico insurrogabile Salvatore! Diversamente come si potrebbe acculturare cristianamente il Sacerdote? Dove potrebbe trarre alimento quella missionarietà che deve urgere come un fiume in piena?

Certamente, la promozione dei valori umani ed un generico sentimento di solidarietà, non sono ragioni sufficienti per dare la vita nel martirio quotidiano della verginità, dell’obbedienza e del servizio e, se chiamati, nel martirio della testimonianza fino all’effusione del sangue. Non si dà la vita per un’idea o per un “valore”! Si dona la vita per una Persona! Una Persona conosciuta, amata, e dalla quale si è amati: questo è il rapporto con Cristo, anche dell’intelligenza e della vera formazione intellettuale.

Dall’Adorazione della Presenza reale, il cuore deve sentire l’esclusività dell’amore. Un amore che incendia tutto in noi e intorno a noi! La vera radice del sacro Celibato è in quest’amore. Ben lungi dall’essere una mera norma disciplinare, come alcuni vorrebbero far intendere, il sacro Celibato, o meglio la verginità per il Regno dei Cieli, è la traduzione esistenziale dell’Apostolica vivendi forma che, a imitazione di Gesù stesso, pone Dio al primo ed unico posto, anche negli affetti. È l’incontro fecondo tra il dono di Dio, senza il quale nessun umano impegno potrebbe inventare un simile sacrificio, e la sua accoglienza e continua mendicanza da parte dell’uomo. La “legge” è solo unaovvia conseguenza.

Dall’Adorazione della Presenza reale si comprende perfino il senso profondo della disciplina ecclesiastica, cioè dell’essere discepoli di Cristo, nella Chiesa. La tanto vituperata disciplina ecclesiastica non è altro che discepolanza! Ne dobbiamo recuperare urgentemente le radici fatte di amore a Cristo ed alle anime, in ragione di Lui.

L’Adorazione della Presenza reale è la vera, e in fondo unica, “scuola della gioia”; in Cristo anche il sacrificio è gioia, perché è partecipazione al grande disegno di salvezza voluto dal Padre per la salvezza degli uomini.

La penitenza, in quest’ottica, è recuperata nel suo valore soprannaturale, divenendo una vera e propria virtù, in quella tradizione, mai banale, carica di amore e tenerezza verso il Signore, fatta di continue attenzioni a Lui, di quella permanente memoria Crucis che caratterizza la vita dei Santi e dei Mistici, fino al giusto recupero dei “fioretti”, cioè di quegli atti continui di memoria e offerta, che rendono la giornata totalmente colma di Cristo e della sua Presenza. Occorre però umiltà, semplicità, infanzia spirituale. E quando si è umili si potenzia la comprensione, si capiscono con gioiosa sorpresa le verità della fede, la logica del Vangelo.

Solo in quest’ottica, anche nella formazione seminaristica e permanente, è possibile comprendere, nella propria carne, che cosa sia l’appartenenza al Corpo Mistico e l’agire in Persona Christi, partecipando, anche attraverso le proprie sofferenze, al mistero della sostituzione vicaria, che il Sacerdote è chiamato a vivere in se stesso quotidianamente.

Un sacerdote che abbia questa coscienza della Presenza reale di Cristo, sarà un uomo di Dio, casto, obbediente, distaccato del tutto da se stesso, quindi libero! Senza problematicismi, sarà invaso dentro di sé dalla pace, dalla beata pacis visio!

L’obbedienza, nella Chiesa, è certamente un consiglio evangelico, una virtù morale, ma è, soprattutto, una ripresentazione permanente di Cristo stesso, “obbediente fino alla morte e alla morte di Croce” (Cf. Fil 2,8), ripresentazione di quell’amore che è Redenzione che scorre dall’albero della Croce, che è obbedienza e questa obbedienza è amore, puro Amore!

Solo a queste condizioni è possibile educare al vero senso della Chiesa, all’amore alla Santa Madre che tutti ci ha generati e genera, nella fede e nel santo Sacerdozio.

Per troppo tempo, e in troppi luoghi, si è lasciato che il mondo, lo spirito del mondo monopolizzasse l’opera educativa, in un diffuso clima relativista, soggettivista, edonista e, in definitiva, anti-cattolico.

In tal modo, si è permesso che il mondo condizionasse il pensiero anche dei sacerdoti, il loro dire, il criticare e giudicare la Madre, ovvero la Chiesa, il cedere a categorie storico-politiche, imposte dall’ermeneutica della “discontinuità”, all’interno dell’unico soggetto ecclesiale. Infine perfino il vestire, il cantare, un certo irresponsabile ed immaturo uso della gestualità, tutti aspetti mutuati dal mondo! Ben sappiamo che spirito del mondo e Spirito di Dio sono in opposizione. Così come sappiamo che il luogo teologico non è il mondo, bensì la Chiesa, presenza di Cristo nel mondo.

Si è creata non un’eresia, che avrebbe fatto reagire prontamente il Corpo ecclesiale, ma un clima generale, come una nebbia che tutto avvolge, rendendo incapaci di vedere e distinguere con chiarezza tra bene e male, vero e falso, virtù e vizio. Il mondo non lo si capisce di più stando immersi nella sua mentalità ma lo si capisce di più stando immersi nello Spirito di Dio. Di qui si coglie cosa sia davvero pastorale e cosa sia l’antipastorale sotto l’etichetta di pastorale.

Potremmo trovare un’efficacia analogia di ciò in quello che, a livello filosofico, e poi divulgativo, è accaduto con il termine “moderno”: una realtà, nel linguaggio comune, è buona se è moderna. Non importa se sia vera o falsa, se promuova veramente l’uomo o lo danneggi, non ci si domanda nulla al riguardo. È sufficiente che sia “moderna”, per trovare simpatia e perfino accoglienza nelle menti e nei cuori, e quindi nei costumi.

Lo stesso capita in taluni ambiti ecclesiali: basta usare le locuzioni ormai famose: “dopo il Concilio” o “secondo lo spirito del Concilio” e nessuno osa nemmeno andare a verificare se mai, quella nobile Assise di Padri, abbia fatto determinate affermazioni.

Basti pensare ad alcune “parole chiave” con le quali, talvolta, si umiliano, e si perdono, ottime vocazioni: “è troppo rigido”, “troppo legato alla forma”, “non è aperto alla diversità”, “è troppo convinto”, “non ha dubbi”, “non ha elaborato criticamente la fede”, “rompe la comunione” eccetera.

Occorre ora uscire dall’equivoco e parlare chiaramente, con la semplicità del Vangelo per il quale il nostro dire deve essere “sì, sì” “no,no”, ovvero schietto. L’accento sproporzionato che i media internazionali hanno voluto porre sulle ferite, tanto recenti quanto remote, inferte alla Chiesa talvolta anche da membri della Gerarchia, ci spinge in questa direzione. Infatti, finché non si fa chiarezza sui malanni, non si potrà mai individuare la cura e allora non si potrà costruire un modo autenticamente cattolico e davvero moderno di formare il futuro clero del mondo. In questo senso la disarmante chiarezza, profonda semplicità ed autentica fede con le quali il Papa sta guidando il Popolo di Dio, ci sono di vivo e continuo esempio.

 

 

2. Il Ministero, cammino di santificazione

Alla luce di quanto fin qui detto, si comprende, allora, come il Ministero debba essere presentato, accolto e vissuto. Il Santo Padre Benedetto XVI, dalla sua prima Lettera Enciclica Deus caritas est alle catechesi ed omelie di quest’Anno Sacerdotale, ha ripetutamente ribadito l’urgenza del superamento di ogni riduzione funzionalistica ed attivistica dell’operare ecclesiale e, in specie, del ministero sacerdotale.

La specificità della Vocazione sacerdotale, essenziale ed insurrogabile per la vita e l’identità stessa della Chiesa, postula come logica conseguenza la specificità del cammino di santificazione che, attraverso l’esercizio del Ministero, ciascun sacerdote è chiamato a compiere.

Anche in questo senso, riscopriamo la centralità dell’Eucaristia: fonte e culmine di tutto il Ministero sacerdotale, essa è anche centro propulsore della vita morale e della santificazione del Clero. Se il Sacerdote ha bisogno di un momento di assoluta Verità durante le lunghe e talvolta faticose giornate di apostolato, lo troverà dinanzi all’Eucaristia; se vorrà stare con il Suo Signore, così come vi stavano i pastori dinanzi alla grotta di Betlemme, o gli Apostoli, che Egli chiamò lungo il mare di Galilea, oppure Nicodemo che andava a trovarLo nel cuore della notte, o come San Giovanni che poggiò il capo sul Suo petto durante l’Ultima Cena, o il ladrone crocifisso, che Lo riconobbe e pregò, ottenendone la Misericordia, o l’incredulo San Tommaso, che mise il dito nella piaga della Sua mano, oppure ancora come San Pietro sulla riva del lago di Tiberiade… Se vorrà rivivere l’esperienza di questi fratelli, allora il Sacerdote sosterà dinanzi al Tabernacolo, intimamente unito alla Beata Vergine, Madre sua e Maestra della vera Adorazione. Se vorrà progredire nella conoscenza amorosa di Colui che lo ha reso definitivamente partecipe del proprio agire salvifico, ancora sosterà davanti alla Presenza eucaristica, sotto lo sguardo di verità ed amore che Cristo continuamente poggia su di lui. Se infatti la virtù si apprende solo frequentando chi è autenticamente virtuoso, quanto più solo frequentando la Persona di Cristo si apprenderanno davvero i Suoi sentimenti, il Suo giudizio sul mondo ed il Suo Amore per ciascuno di noi e per tutte le anime.

Celebriamo l’Eucaristia con lo stupore grato di un bambino, con la coscienza profonda di un mistico, con la preparazione accurata di un innamorato, nel silenzio orante di chi è consapevole di trovarsi al servizio di Dio, desiderando quasi di sparire, di “diminuire perché Egli cresca” (Cf. Gv 3,30).

Il Ministero, poi, non deve essere distinto dalla vita del Sacerdote, il quale, in ogni attività che compie, deve mantenere sempre uno stile sacerdotale: nel tratto umano, nel linguaggio, nell’abito proprio, che esprime un pensare ed un agire specifici, nell’agire costantemente con le modalità del Buon Pastore, che offre se stesso per le pecore, che non è mai un mero amministratore o, peggio, un mercenario, che è capace di attirare le pecore all’ovile della santa Chiesa.

Un tale tratto umano non nasce da uno sforzo improvvisato, ma dalla consapevolezza, debitamente educata, di essere, per la pura grazia e misericordia divina, un alter Christus, che cammina sulle vie del mondo. Questo è il Sacerdote e questa è la vera pastoralità!

Non cedere alle mode e ai gusti del tempo e degli uomini, non assecondarli addirittura nel peccato, personale e sociale, ma curare le pecore, con particolare attenzione a quelle disperse e malate, partendo dal desiderio bruciante che tutti conoscano Cristo, unico vero Salvatore della storia e dell’uomo, e che, nel contempo, i confini visibili della Chiesa si dilatino fino agli estremi confini del mondo e dei cuori.

Tutti gli uomini sono «ordinati a far parte dell’ovile di Cristo». Il sacerdote diviene santo, operando in tale direzione, vivendo, soffrendo, offrendo perché tutti quelli che gli sono affidati e che incontra, attraverso il suo Ministero ed il suo tratto umano, possano fare una vera esperienza di Cristo.

Un sacerdote così, non può rifugiarsi nella solitudine o nell’isolamento, non può pensare che l’età canonica del pensionamento coincida con lo smettere di operare per il bene delle anime.

Il Sacerdozio, infatti, tramite il Sacramento, modifica ontologicamente l’identità di chi lo ha ricevuto. Allora si è sempre Sacerdoti, in ogni ambiente, tempo, circostanza.

Educhiamo a questa coscienza! Rinnoviamo la nostra appartenenza a Cristo e l’amore indefesso per l’Eucaristia, che ci è stata elargita la grazia di celebrare.

Amiamo il confessionale, come luogo, come servizio, come immedesimazione a Cristo misericordioso, datore dell’Amore trinitario. In questo senso va anche il reiterato richiamo del nostro padre e pastore Benedetto XVI: «Cari confratelli, è necessario tornare al confessionale, come luogo nel quale celebrare il Sacramento della Riconciliazione, ma anche come luogo in cui “abitare” più spesso, perché il fedele possa trovare misericordia, consiglio e conforto, sentirsi amato e compreso da Dio e sperimentare la presenza della Misericordia Divina, accanto alla Presenza reale nell’Eucaristia» (Udienza alla Penitenzieria Apostolica, 11 marzo 2010).

 

E mentre la Celebrazione di quest’Anna di speciale grazia e preghiera per i Sacerdoti volge verso il suo culmine nella Solennità del Sacro Cuore di Gesù, la Beata vergine Maria, Madre dei Sacerdoti, protegga il nostro cammino di santificazione, rafforzi la nostra coscienza di essere altri suoi figli e, con la Sua onnipotenza supplice, doni alla Chiesa una nuova grande stagione di fioritura vocazionale e di sacerdoti santi.

                                     Grazie.