La spiritualità sacerdotale di Don Dolindo Ruotolo:
aspetti dogmatici
(P.
Massimiliano M. De Gasperi, fi)
Introduzione
Giovanissimo non ancora ventitreenne, dopo aver ottenuto da Roma una dispensa di ben 18 mesi, Dolindo Ruotolo (*6.10.1882- †19.11.1970) fu ordinato sacerdote il 24 giugno 1905. È interessante segnalare ciò che egli attesta al riguardo nella sua Autobiografia: «Io pregai Gesù di non darmi, quel giorno, né emozioni, né fervore. Badai con accuratezza che la cerimonia si svolgesse esattamente perché l’ordinazione fosse valida. Non ebbi né fervore né emozioni, siccome avevo domandato in grazia, ma mi sentii sensibilmente un altro uomo. Avvertii l’Ordine Sacerdotale, il Sacro carattere in una maniera che non so esprimere a parole»[1]. Non quindi solamente un partenopeo romantico e sentimentale, per capire don Dolindo è, questo, un primo dato da registrare, specie se si considera che, nel contesto della ponderosa Autobiografia scritta per obbedienza, si tratta qui di un commento ben conciso. A partire da tale singolare percezione di trasformazione, riguardo alla natura del sacerdozio e del suo carattere Padre Dolindo ebbe a riflettere costantemente e, pur trovando parole per un intero volume, volle spesso ritornare sull’aspetto di inesprimibile del mistero sacerdotale. Nel Libro sul Sacerdozio, Nei raggi della grandezza e della vita sacerdotale, più di trent’anni dopo la sua ordinazione ancora egli esclama:
«È ineffabile ciò che Dio
opera in un’anima quando la eleva alla dignità sacerdotale, è veramente
ineffabile; Egli compie una meraviglia che l’occhio umano non arriva a
scrutare; si direbbe che modella un’opera d’arte divina nella povera creta
umana, che cesella con mirabile delicatezza un capolavoro, e forma una
meraviglia più grande dei cieli»[2].
In quest’opera, la cui prima parte è l’ambito specifico della presente ricerca, Don Dolindo non compone un trattato teologico sul sacramento dell’Ordine, ma espone la dottrina cattolica sul sacerdozio con grande ricchezza di immagini e forza di argomentazione, nella piena dell’effusione del suo cuore innamorato di Gesù Sacerdote e del dono di essere prete.
Proprio in considerazione del genere letterario, nelle riflessioni dolindiane, non vanno cercate le distinzioni teologiche raffinate e la precisione terminologica esatta; trattasi, in effetti, nel Libro sul Sacerdozio, di meditazioni molto sostanziose dal punto di vista dottrinale, ma estremamente briose nello stile e dai risvolti pratici sapienziali. Il desiderio di rendere al lettore qualcosa di tali pregi dell’opera di Padre Dolindo, è la ragione della scelta, nel corso di questo studio, di stralciare brani anche piuttosto lunghi della stessa.
Non potendo allargare l’analisi ai fondamenti biblici della spiritualità sacerdotale di Don Dolindo, che pure sarebbe molto interessante esaminare vista l’ingente mole di materiale presente nell’ Opera princeps del servo di Dio, ossia il Commento alla Scrittura, il presente studio si propone di mettere maggiormente in evidenza gli elementi dogmatici. Tale presentazione cerca di offrire, inoltre, anche una certa sistemazione dei medesimi, secondo l’ordine in qualche modo suggerito dallo stesso indice di queste prime venti considerazioni del servo di Dio sul sacerdozio.
Il lavoro è diviso in quattro sezioni di tre paragrafi ciascuna. Nella prima è messo in risalto, a partire da accostamenti analogici fino ad un linguaggio reale che possa essere il meno inappropriato possibile, lo sforzo di Padre Dolindo di concepire il mistero del sacerdozio, mettendone in evidenza – via la liturgia – la ricaduta sulla vita morale e pratica del sacerdote. La seconda parte è dedicata alla marianità come coefficiente essenziale del sacerdote secondo Don Dolindo e al legame individuato tra la verginità materna di Maria e il celibato paterno del sacerdote. La terza parte organizza i dati offerti dal servo di Dio in relazione al munus profeticum, ossia la predicazione e l’insegnamento della Parola di Dio, con la speciale messa in risalto della funzione di araldo dei diritti di Dio presso il popolo che Padre Dolindo attribuisce come costitutiva per il sacerdote. La quarta ed ultima parte mette a fuoco la dimensione di vittima, con la relativa vita di immolazione, che ogni sacerdote, in quanto misterica ripresentazione (Vergegenwärtigung) di Gesù Cristo Sommo Sacerdote e Somma Vittima, è per il mondo.
Appunti ed aneddoti tratti dalla vita Don Dolindo, infine, sono offerti per punteggiare l’esposizione, essi hanno l’intento di mostrare quanto autobiografica sia la sapienza manifestatasi nel servo di Dio. È da rimarcare, in effetti, quanto egli abbia di fatto realizzato in se stesso tutto l’itinerario che la sua spiritualità, qui tratteggiata, presenta.
Schema di Lavoro:
Introduzione
I)
Gesù Sacerdote e il “Sacerdote Gesù”
a) Gesù Sacerdote e il
“Sacerdote Gesù”: tra analogie ed identità
b) L’identità con il
Mediatore nella Messa-Sacrificio e l’unione nella preghiera liturgica
c) Dalla verità dogmatica all’obbligo d’identificazione nella vita
del sacerdote con Cristo
II)
Il “Sacerdote Gesù”: essenzialmente mariano
con il gran privilegio del celibato
a) Maria Madre dei Sacerdoti e
le “analogie” di Verginità-Maternità in Maria e nel sacerdote
b) Il gran privilegio del
celibato sacerdotale
c) Altre ragioni contrarie al sacerdozio
uxorato dei
presbiteri
III)
Il “Sacerdote Gesù”: Maestro e Araldo
a) Il ministero della predicazione
b) La preparazione remota e prossima: la preghiera e lo studio in
spirito d’orazione
c) Il “sacerdote Gesù” araldo dei diritti di Dio
IV)
Il “Sacerdote Gesù”: vittima di amore con
il gran dono dell’immolazione
a) Il sacerdote nello stato di
vittima d’amore
b) Il gran dono
dell’immolazione
c) Padre Dolindo
sacerdote-vittima per i sacerdoti?
I) Gesù Sacerdote e il “Sacerdote Gesù”
a) Gesù Sacerdote e il “Sacerdote Gesù”: tra analogie ed identità
Il sacerdote è un capolavoro dell’arte divina più grande della stessa creazione, nel suo Libro sul Sacerdozio Don Dolindo si sforza di concepirlo ma, procedendo per approssimazione, egli preferisce inizialmente avvicinarsi a questo mistero con l’aiuto di parabole, perchè «nella loro semplicità possono darne per analogia qualche idea». «Più che metterci nella luce del sole smagliante» egli avverte «contempliamolo [il mistero del sacerdozio] fra le ombre ed i riflessi della sua luce».
Tra le diverse ombre della grandezza immensa del sacerdote che Padre Dolindo propone, c’è una immagine particolarmente significativa ed è quella del fiore.
Egli scrive: «Il Sacerdote è come un fiore: sboccia sull’albero della vita ch’è Gesù Cristo, quasi sintesi ed espressione della sua vita»[3]. La parabola, in effetti, è preziosa perché mostra fin da subito il fondamento cristologico del sacerdozio ministeriale. La partecipazione che il sacerdote riceve da Gesù Sacerdote, infatti, è ben espressa nella dipendenza vitale del fiore rispetto all’albero. Di più Padre Dolindo aggiunge che il sacerdote è sintesi ed espressione della vita di Cristo, e lo è a tal punto, che, come giustamente viene rimarcato, «non può essere perciò degenere da Colui che lo eleva a tanta dignità».
L’aspetto più profondo della parabola, tuttavia, lo si coglie quando il servo di Dio rileva:
«Il
fiore è una vittima: è tanto bello ma deve tutto immolarsi se vuol produrre il suo frutto.
La forza vitale
dell’albero sul quale nasce lo immola, facendo cadere da esso ciò ch’è inutile.
Si appassiscono i suoi petali, s’inaridiscono gli stami, ed è come devastato
dall’amore, poiché quando il fiore ama la pianta, per dir così, e bacia il suo
germe vitale, allora si annienta per produrle il frutto. Così il Sacerdote,
fiore spuntato nella magnificenza dell’amore di Gesù Cristo, vivificato da Lui,
fecondato dalla grazia, dona tutto se stesso al Signore, e sfronda la sua vita
terrena di ogni attrattiva, per dare a Dio il frutto dell’amore soprannaturale,
e glorificarlo nella continuazione dell’opera redentrice, che per il sacro
ministero rifiorisce in ogni tempo»[4].
Emerge già qui anche la ricchezza interiore del sacerdote napoletano, autentico discepolo del divin Maestro, il Quale ben prima di lui amò esporre i misteri del Regno in parabole tratte dalla vita quotidiana ed agreste. Per quanto concerne la realtà del sacerdozio espresso nell’ambito della spiegazione dell’immagine, l’aspetto importante messo in evidenza, nel fiore che si immola per dare il suo frutto, è quello della dimensione vittimale del sacerdote che, nell’identificazione sacramentale con Gesù Cristo Sacerdote e Vittima, offre se stesso per amore di Lui e della sua Chiesa e ne continua l’opera di redenzione.
Il paragone offre a Padre Dolindo il destro per sottolineare una prima conseguenza che ne deriva per la vita del sacerdote-vittima:
«Il fiore è sterile e
marcisce inutilmente quando è colto dalle creature; solo quando si dona alla
pianta che lo germina produce il frutto, cioè quando si lascia sfrondare dalla
sua forza vitale. Se il Sacerdote è colto in qualunque modo da mano profana, si
sfronda e s’isterilisce. La creatura non può toccarlo, egli è solo e tutto di
Dio»[5].
L’immagine del fiore offre, così, anche l’occasione di mettere in chiaro la costitutiva relazione del sacerdote nei confronti di Dio, il sacerdote alter Christus è essenzialmente «homo Dei» (1 Tm 6, 11), l’uomo di Dio scelto per il Suo servizio e per la Sua gloria.
L’amore di Don Dolindo per Gesù Sacerdote e per il “Sacerdote Gesù” spinge la sua intelligenza, riflettendo tra metafore ed analogie, ad approfondire ulteriormente come il sacerdote possa essere immagine somigliantissima di Gesù. Egli scrive ancora:
«Il Sacerdote è una
meraviglia, è un’opera d’arte divina, che riproduce Gesù Cristo nella povera
creatura umana a cui partecipa la sua potenza, la sua grandezza e lo splendore
della sua gloria. È un’immagine viva di Gesù celata e nascosta in una povera
spoglia umana, è Gesù stesso anzi, che si riflette in modo indelebile ed attivo
nell’anima e nel cuore sacerdotale, per mezzo del carattere sacro ricevuto
nell’Ordinazione»[6].
Per Padre Dolindo «Il Sacerdote nella sua arcana grandezza è tutto di Gesù e somiglia a Gesù». Come si comprende si tratta qui di un’immagine assolutamente particolare: il sacerdote è immagine di Cristo, ma in modo vivo, dinamico, partecipativo; tale partecipazione e il conseguente dinamismo vitale hanno come fondamento il carattere sacro ricevuto nell’Ordinazione.
È in questo contesto che il servo di Dio introduce un’altra parabola degna di menzione:
«Cento lenti esposte innanzi
al sole, ne raccolgono l’immagine reale e ne diffondono la luce ed il calore,
fino ad infiammare, quando sono a foco. Sono veramente distinte l’una
dall’altra, hanno un proprio diametro ed un proprio spessore, riflettono il
calore e la luce più o meno intensamente a seconda della loro posizione innanzi
al sole, ma sono tutte fonti splendenti di luce e di calore, per l’unico sole
che sta nel cielo. Così sono i Sacerdoti: anime immerse nei raggi del Sacerdote
Eterno, Gesù, di cui raccolgono l’immagine viva e reale, diffondendone la
potenza redentrice e santificante»[7].
Nella sua bellezza l’immagine dei sacerdoti-lenti come anime immerse nei raggi del Sacerdote Eterno Gesù, ad un tempo, abbellisce ed affina il ragionamento sul rapporto tra Cristo Sacerdote e i suoi sacerdoti: essi raccolgono quest’immagine viva e reale di Cristo Sacerdote e ne diffondono a mo’ di luce e calore la grazia che redime e santifica risanando ed elevando. Ciò che sembra emergere, qui, è quanto la parabola, pur nel suo contenuto di rapporto ancora piuttosto estrinseco, si avvicini tuttavia ad illuminare la realtà intrinseca della misteriosa unione sacramentale tra Gesù e il sacerdote. Don Dolindo l’avverte e difatti chiosa:
«È mirabile; c’è quasi
un’identità tra Gesù e il Sacerdote, di modo ch’egli non riceve solo un
mandato, quasi ambasciatore del Re Divino, ma una partecipazione vera della sua
regalità»[8].
Lo stesso termine «partecipazione», del resto, è vocabolo che porta con sé un significato tecnico legato all’ontologia e conduce, gradualmente, la riflessione dell’innamorato del sacerdozio dal piano dell’unità morale dinamica ad un livello più profondo, quello dell’essere che di quella è il fondamento.
Egli si chiede retoricamente infatti: «Che cosa fa il Vescovo quando ordina un Sacerdote?» La risposta arriva pronta ed elaborata:
«In certo modo lo crea come
novella creatura. La sua mano, distesa sul capo dell’eletto a tanta dignità, ha
una potenza divina; egli forma Gesù in quell’anima. La grandezza dell’Eterno
Figlio, splendore della gloria del Padre, […] e l’attività mirabile del Verbo
Umanato, glorificatore del Padre in terra e Redentore dell’umanità, si
riflettono nel Sacerdote, ed egli è un alter Christus. Il Sacerdote dona a Gesù
l’anima, il corpo e la vita, perché Egli viva in lui, operi per lui e si
diffonda per lui; gli si offre per continuare l’opera sua nelle anime, e Gesù
lo incorpora a Sé in una maniera arcana e singolare, lo rende sua voce, sua
attività, suo vivo strumento, ed opera in lui e per lui»[9].
Queste «creazione» e «formazione» di Cristo nell’anima che fa del sacerdote ordinato un alter Christus è spiegata dalla teologia dogmatica nella speciale configurazione ontologica che si verifica all’impressione del carattere sacramentale nell’anima dell’ordinato, il quale diviene così strumento incorporato a Cristo Sacerdote.
Quasi alludendo o prevedendo le accuse mosse, a questa teologia classifica del sacerdozio, da ambienti ispirantisi ad un certo personalismo novecentesco, il servo di Dio aiuta a comprendere come, in tutto ciò, il sacerdote ministro non resta per nulla come uno strumento “cosificato ed inerte”; lo rileva molto bene Padre Dolindo quando fa notare che, paradossalmente, è Gesù Dio umanato che si serve del suo strumento incorporato
«persino sottomettendo la
propria azione divina alla sua [del sacerdote ordinato] libera volontà: ciò
ch’egli lega e scioglie è legato o sciolto da Gesù, e nelle stesse azioni che
compie ex opere operato è necessaria la sua intenzione e la sua
volontà, perché si realizzi il miracolo sacramentale»[10].
Pertanto, questa sinergia, che la teologia coglie come una eminente causalità strumentale, a seconda delle Scuole fisica o morale, è operata dal Signore nei confronti della persona con una delicatezza che giunge persino a sgomentare, e anzi, di converso, di assoluta confusione si deve parlare davanti alla grandezza della persona del sacerdote, non solo per la sua elevazione a strumento di grazia nelle mani di Dio, che è già qualcosa di altamente perfettivo rispetto alle qualità della persona umana, ma addirittura perché nella confezione del Sacramento al sacerdote ministro giunge ad ubbidire lo stesso Figlio dell’Eterno Padre, Verbo di Dio e Signore dell’universo. Padre Dolindo ne è attonito e rimarcando giustamente l’assoluta mancanza di proporzione osserva:
«È una grandezza che
stupisce, quando si pensa all’infinita maestà del Verbo Umanato e all’estrema
spregevole piccolezza di un uomo»[11],
per poi esclamare: «Tu non sei più un uomo come gli altri, o Sacerdote, tu sei
un altro Gesù!»[12].
Ancora meglio si esprime teologicamente Padre Dolindo quando, numerosissime volte, parla del sacerdote ordinato come del “sacerdote-Gesù”. Tale espressione proveniente dall’esperienza mistica del servo di Dio cui Gesù ebbe a dire “Io sono Gesù Sacerdote e tu il Sacerdote Gesù” sembra realmente preziosa perché, felicemente, lascia intendere e sottolinea l’unità e la certa qual identità che si danno tra Gesù e il suo sacerdote. Il prete, in effetti, non è soltanto un riflesso di Cristo, una sua immagine, un suo strumento, è molto più anche di un suo mero “alter ego”, egli in virtù dell’impressione del carattere all’ordinazione, con la conseguente configurazione ontologica, diventa in qualche modo il «sacramento di Cristo Sacerdote», «presenza misterica di Cristo Sacerdote»[13].
b) L’identità con il Mediatore nella Messa-Sacrificio e l’unione nella preghiera liturgica
E’ dottrina della Chiesa che il sacerdozio si comprende
essenzialmente in relazione al sacrificio, e che il sacerdozio del Nuovo
Testamento è stato istituito dal Signore in relazione al suo sacrificio di
Croce, che si rinnova in modo incruento nella celebrazione dell’Eucaristia[14].
L’essenza del sacerdozio ordinato, in effetti, non consiste tanto nella
predicazione della Parola – seppure tale dimensione sia quasi propedeutica al
culto offerto nella Messa – quanto principalmente nell’offrire al Padre la
Vittima divina Gesù Cristo sull’altare dell’Eucaristia, per la santificazione
dei fedeli e la salvezza del mondo.
In tale sacra funzione il sacerdote, strumento personale
sotto l’influsso di Cristo Sommo Sacerdote, vive il massimo momento di unità
fino all’identità con Gesù, perché alla consacrazione egli opera in persona Christi, e quindi non è più solo alter Christus
ma effettivamente Ipse
Christus, come si evince dalla parole
dell’Istituzione “il mio Corpo … il calice del mio Sangue … in memoria di me”,
dove il soggetto del possedere non è il ministro ordinato ma Gesù Cristo
stesso.
Ciò posto, è facile riconoscere, quindi, quanto sia
centrale la realtà della Santa Messa-Sacrificio per la comprensione della
natura sacerdotale. Don Dolindo ne è consapevole, egli considera la santa Messa
come:
«Il tesoro ineffabile del
Sacerdote che non trova l’eguale in nessuna delle stesse elevazioni mistiche
alle quali può giungere un’anima, […] che non potrà mai valutarsi abbastanza
nella sua natura e nei suoi mirabili effetti, è la Santa Messa, tesoro mille
volte più grande di tutta la creazione, offerta divina mandata a Dio […] È la
più grande offerta che Dio possa avere e quindi rende la terra oggetto delle
compiacenze di Dio»[15].
In una delle descrizioni che Padre Dolindo offre della Messa egli spiega come dopo il solenne Trisagio – Santo Santo Santo è il Signore Dio degli eserciti –
«tutto tace, e le preghiere diventano sommesse voci adoranti,
offerte di amore, espansioni di tenerezze, ricordi di pene, slanci di speranza
… L’Altare è il Calvario … Il Sacerdote sparisce quasi … C’è Gesù solo, Gesù
solo! Egli [Gesù] con un amore ineffabile prende il pane, prende il vino,
pronunzia le divine parole per il ministero sacerdotale, e scende vivo e vero
sull’Altare in un modo di essere nuovo, nel quale il Sangue è separato dal
Corpo sotto le specie eucaristiche, rendendolo immolato come lo fu sulla Croce»[16].
Realmente eloquenti ed emblematiche risultano qui le annotazioni «Il sacerdote quasi scompare» e «c’è Gesù solo, Gesù solo»; si tratta di una vera e propria trasfigurazione sacramentale, così ne parla il servo di Dio:
«In questa mirabile azione
il Sacerdote è come trasfigurato in un’altra creatura, non è più un uomo, è
superiore agli Angeli, è un altro Gesù Cristo».
A questo proposito don Dolindo, opportunamente, fa notare che anche la bellezza dei sacri paramenti con cui la Chiesa riveste il sacerdote è giustificata, perché intende, precisamente, esprimere anche esteriormente ciò che avviene mistericamente nella Messa.
Perché l’identità sacramentale tra Gesù e il sacerdote possa risaltare maggiormente don Dolindo, del resto, è attento a raccomandare l’esattezza ai particolari per le sacre cerimonie, nelle quali «tutto ciò che non è prescritto è proibito». Diametralmente opposto a qualsivoglia “creatività liturgica”, vero e proprio ostacolo alla visibilità di Gesù Sacerdote nel sacerdote, il servo di Dio infatti riflette:
«Se non discendo dall’Altare
com’è prescritto, se apro di più le braccia, se m’inchino più profondamente di
quello ch’è comandato, se alzo la voce quando debbo pregare in segreto, o se
l’abbasso quando debbo farla sentire, non parlo alle anime, non le raccolgo in
Dio, non m’inchino innanzi alla Divina Maestà, agisco umanamente, m’inchino
alla mia volontà, compio dei semplici gesti che, lungi dall’alimentare la
pietà, la inaridiscono. Gesù sul Calvario si fece obbediente fino alla morte di
Croce ed io debbo obbedire alla Chiesa, umiliare il mio giudizio, vincere la
mia pigrizia, ed immolarmi almeno in questo, insieme con Gesù»[17].
Sebbene si debba essere coscienti del primato dell’offerta interiore del sacerdote, ovviamente, non sembra inutile sottolineare tale accuratezza esteriore raccomandata da don Dolindo, essa era da lui intesa non per formalismo ma come ars celebrandi al servizio del mistero celebrato, per il decoro del culto di Dio, ma anche per agevolare, una volta metabolizzati i gesti, la stessa unione del sacerdote con Cristo, nonché per il bene della vera partecipatio teologale dei fedeli grazie alla presentazione della bellezza oggettiva del rito, che si fa così più evidente occasione di incontro sacramentale con Dio, in cui venire toccati e trasformati dal divino.
La
liturgia, si sa, è la fede celebrata, luogo eminente di trasmissione della regula fidei, come esprime in
sintesi il giustamente celebre adagio di Prospero d’Aquitania († 455) «lex
orandi, lex credendi». Ora, se si considera che la teologia è l’intelligenza
della fede e che la liturgia è azione più di Dio che dell’uomo, è facile
comprendere come una adeguata valorizzazione della
Santa Messa celebrata, congiunta ad una maggiore conoscenza della
teologia della liturgia, viene a costituire un
mezzo di fondamentale importanza per la vita spirituale del sacerdote. Ciò
consente a questi, in effetti, di realizzare una identificazione sempre
crescente e maggiormente perfetta con il Cristo Sacerdote e, quindi, un sempre
più perfetto avvicinamento tra l’essere e il dover essere sacerdotali, con tutto ciò che ne consegue di
assolutamente benefico per quanto concerne non solo il garantito effetto
sacramentale ex
opere operato, ma anche il “valore aggiunto”
di ex opere
operantis come più perfetta manifestazione
e veicolazione dei frutti della
salvezza.
Scelto e chiamato ad una più stretta configurazione a Cristo per l’offerta del Sacrificio, il sacerdote continua l’opera salvatrice di Gesù Cristo, soprattutto con la Messa, ma non solo. L’efficacia di tale continuazione richiede, in effetti, tutta una vita di preghiera da parte del sacerdote come preparazione all’offerta del Sacrificio e come via alla realizzazione della configurazione di tutta la vita con Cristo Sacerdote. Don Dolindo ne è convinto e pertanto rincara:
«come il suo Maestro Divino,
[egli] deve pregare […] in unione delle sue divine intenzioni e in unione con
la Chiesa, fecondando così la propria attività»[18].
Al fine di illuminare il cammino di conformazione del sacerdote con Gesù, smascherando le facili tentazioni di quell’attivismo esteriore che si rivela sterile, un po’ iperbolicamente il Servo di Dio ricorda:
«Gesù Cristo rimase
trent’anni nel nascondimento e nella preghiera, e tre anni nell’apostolato» e,
pertanto, si può dire che «questa è la proporzione matematica che il Sacerdote
deve avere tra la preghiera e l’azione: trenta sta a tre»[19].
A questo proposito se la Messa rimane la preghiera somma, anche l’Ufficio Divino è indicato dalla “perla del clero napoletano” come il mezzo potentissimo, posto da Dio nelle mani dei suoi ministri ordinati alla mediazione in Gesù Cristo per il bene del popolo di Dio. Rispetto alla funzione pubblica della preghiera dei canonici delle cattedrali, per esempio, Padre Dolindo insegna:
«[essi] sono Angeli che
debbono adorare, ringraziare, riparare e pregare in unione di Gesù Cristo per
il popolo cristiano e per tutte le genti. Sono mediatori di grazie e messaggeri
di pace, e da essi può dipendere principalmente il bene spirituale e temporale
di un popolo. Oh, se si capisse questo! Se si intendesse la propria
responsabilità nella pubblica preghiera!». E ancora più in generale: «I
Sacerdoti oranti sono in Lei [la Chiesa] come anime aperte a Dio, collettori di
grazia e di vita per il popolo cristiano; quando si lasciano inaridire dal
bruco dell’accidia nel servire e lodare il Signore, non si espandono in Lui e
cagionano la sterilità delle anime»[20].
Dopo aver denunciato come «Satana perciò concentra su questo forte avanzato della vita sacerdotale tutte le sue batterie», Padre Dolindo, con finezza psicologica, giunge a svelare molte delle tentazioni che il diavolo suscita in tutti i modi contro l’Ufficio divino al fine d’impedirne o di deformarne la recita. Può essere interessante ricordarne una:
«A volte il demonio dà un
incubo di pigrizia e di accidia, che toglie quasi la volontà e la forza di
prendere in mano il Sacro Libro; l’anima allora si distrae in cento cose
estranee, perde il tempo, ozia, e non trova mai il momento propizio di
cominciare la preghiera. In questi momenti di tentazioni, le spese del tempo,
che si dice sempre di non avere, le fa l’Ufficio; tutto sembra più importante,
per una scusa o per un’altra, persino il leggere il giornale umoristico… tanto
per un sollievo; si rimanda sempre di ora in ora, fino a ridursi alla sera, si
affaccia poi la scusa del sonno o della pesantezza della testa, e si giunge a
tralasciarlo»[21].
L’insegnamento che don Dolindo ne ricava per i sacerdoti può essere il seguente:
«Non si guadagna tempo
trascurando l’Ufficio, ma praticamente se ne perde di più. È una esperienza
costante. L’ora della preghiera è come l’ora festiva della giornata; quando è
profanata, Dio non la benedice e diventa tempo sperperato, come diventa danaro
sperperato quello che si guadagna lavorando di festa. Si pretende di guadagnare
l’ora del Breviario, e si perde tempo in cose vane»[22].
Il motivo di questi meccanismi viziosi è immediatamente individuato dal servo di Dio che spiega:
«È logico: l’anima che non
compie un dovere così grave, è indisciplinata, accidiosa, rilassata; la
preghiera la scuoterebbe, la renderebbe vigilante e le farebbe raccogliere
speciali aiuti per operare; la mancanza di preghiera invece la rende meno
ordinata nelle sue occupazioni, più lenta, più pigra, e praticamente essa perde
più tempo»[23].
c) Dalla verità dogmatica all’obbligo d’identificazione nella vita del sacerdote con Cristo
Se la fede del dogma è espressa e celebrata dalla liturgia, sembra che una vita liturgica fervida ed accurata possa costituire il più efficace tratto d’unione perché l’identità sacramentale trovi conferma coerente nella prassi di vita quotidiana del sacerdote, il quale è chiamato a ripresentare Gesù Cristo non solo all’altare, ma in ogni dimensione della sua realtà esistenziale. Nell’esplicitare tale verità, illustrando le ricadute del dogma sulla vita concreta d’ogni giorno per il prete, Padre Dolindo si rivela ancora un maestro di spiritualità presbiterale, ecco un saggio tra i molti che si potrebbero riportare:
«Quanto grande sei tu, o
Sacerdote! Sei posseduto da Gesù e devi proiettarlo in questo mondo pieno di
tenebre. […] Tu hai in te Gesù con la sua potestà sacerdotale; chiuditi nel
raccoglimento, accenditi tutto d’amore, riflettilo nella tua vita come immagine
viva, proiettalo nel mondo come esemplare di virtù, come luce di verità, come
vita di carità. […] Tu sei tutto suo ed Egli vive in te, non ha altro corpo
visibile in cui mostrarsi che il tuo, non ha altra anima peregrinante in cui
rinnovare il suo cammino di amore che la tua, non altra bocca per parlare al
popolo […] che la tua, non ha altre mani per benedire ed assolvere che le tue.
Tu dunque devi vivere in Lui e di Lui, devi amarlo dandogli completamente te
stesso, affinché non trovi nulla in te che gli sia estraneo. Ogni scoria della
tua miseria gli è di ostacolo e lo eclissa da te, tu allora passi davanti a Lui
e con la tua ombra lo nascondi; Egli non può affiorare da ogni parte della tua
vita se tu la incrosti, per così dire, del gelo del mondo; non può risplendere
dalle tue attività, se tu le rendi opache alla sua grazia; non può sorridere
alle anime attraverso il tuo cuore intristito dalla tua vita disordinata, rimane
in te malmenato e crocifisso anzi chiuso nella tomba»[24].
Per la visibilità di Cristo nel sacerdote e la potenza della Sua azione di grazia nella vita ordinaria del sacerdote, in effetti, è da esigersi, prendendo in prestito un’espressione adottata in contesto analogo da Benedetto XVI, una vera e propria «coerenza eucaristica»[25]. Don Dolindo lo rimarca con vigore impressionante anche per la potenza lirica della sua riflessione che a tratti si fa preghiera:
«Or come potrebbe questa
carne fatta Gesù, scendere dall’Altare e tramutarsi in fango? Come potrebbe
questa creatura che conversa nei Cieli scendere dall’Altare e conversare tra le
creature, mescolandosi alle loro miserie? … O mio Gesù, trasfondimi la tua
vita, e fa’ che io sia nel mondo come sull’Altare, e che dimettendo le sacre
vesti, dopo essermi cibato di Te, ti faccia talmente rifulgere nella mia vita,
da essere anche in casa, per la strada e nelle occupazioni mie, Gesù-Sacerdote. Tutta la sacra e divina
azione è una continua supplica a Te, mio Signore, perché io sia in Te e Tu in
me, io sia Gesù-Sacerdote e Tu il Sacerdote Gesù. Comprendimi tutto di questo
mio dovere, rendilo speranza di questo cuore e vita di questa vita. Chi mi vede
deve vedere Gesù, e chi mi bacia la mano deve baciarla a Gesù; ho il dovere di
essere suo profumo, e di attrarre le anime a Lui con questo soavissimo odore.
Chi mi sente parlare deve rimanere attonito riconoscendo nella mia parola la
parola di Gesù, e deve pendere dal mio labbro come chi ascolta la voce solenne
del Verbo, l’onnipotente parola che venne dalle sedi regali. […] Chi mi vede
mangiare mi deve vedere come Gesù nel deserto per la penitenza, come Gesù a
mensa per la carità, e come Gesù nell’ultima cena per il desiderio che ho di
nutrirmi di Lui. […] chi mi vede per la strada deve vedermi come Gesù nelle vie
della Galilea, sempre evangelizzando con l’esempio, sempre dolce coi fanciulli,
sempre modesto negli sguardi, col volto di Angelo, […] Angelo che compie la sua
Volontà, di modo che il popolo al mio passaggio riconosca Gesù in me Sacerdote
e lo ami, s’infiammi per la gloria di Dio e lo lodi, vegga la bellezza della
virtù e la pratichi. O Gesù mio, non permettere neppure per una sola volta
ch’io non faccia passare Te attraverso di me, e neppure per una volta sola
ch’io non viva di Te, ma fa’ ch’io sia fedele alla missione che mi hai data,
sino alla morte!»[26].
Nel prete, dunque, in ogni dimensione della sua vita quotidiana, deve splendere Gesù Sacerdote, tuttavia, essendo ogni sacerdote ordinato un esule figlio di Eva, nato nel peccato originale, e anche dopo il Battesimo segnato dalle ferite lasciate da Dio a motivo della possibilità di meritare, va da sé che per realizzare questa sublime missione di trasfigurazione morale egli deve purificare il “vetro” della sua persona. Ciò comporta quello che è possibile definire come un vigoroso agonismo spirituale contro se stessi, ovvero contro le inclinazioni disordinate che ogni io umano post-adamitico porta normalmente con sé. Si situa qui tutto l’esercizio della ascetica, Padre Dolindo lo sa perfettamente e rincara con un riferimento prezioso rispetto alla vita d’apostolato:
«Il Sacerdote perciò
dev’essere Gesù Sacerdote, cioè deve talmente liberarsi del suo io, da far
risplendere in sé il Sacerdozio di Gesù, ed essere come filo conduttore della
corrente di un amore tutto divino, che non ha sussulti nella carne, non ha
fascino nei sensi, non ha risonanze né di ammirazione estetica, né di poesia
spirituale, ma ha la sazietà dell’amore di Gesù»[27].
Per contrasto, con una parafrasi potrebbe dirsi quasi «sub contraria specie», anche il sacerdote cattivo, nella sua deformità della grandezza sacerdotale, è prova eloquente di tale urgenza ascetica al fine di una maggiore cristo-conformazione che permetta a Gesù di splendere nel suo sacerdote. Il servo di Dio esprime dolorosamente tale realtà:
«Il Sacerdote cattivo,
benché non possa menomare la potenza di Gesù che opera in lui ex
opere operato,
può dolorosamente deformare in sé la sua immagine, e presentarla male al
popolo, fino al punto da allontanarlo da Lui. Il sole non si muta quando si
riflette nel mare in tempesta, ma i flutti ne tormentano l’immagine e lo fanno
apparire come diviso, sconvolto ed infranto sulle mobili onde. Il Sacerdote
cattivo, nel suo atteggiamento esterno, rende pessima testimonianza al suo Re.
C’è infatti nel Sacerdote che vive davvero il suo Sacerdozio, un tratto
inconfondibile che rivela la chiamata di Dio a quell’ordine speciale di grazia
che lo rende ministro dell’Altare. Egli può essere anche fisicamente deforme,
ma nella stessa deformità manifesta la compostezza, la bontà, la pace, la
sobrietà e la purezza della sua vita. Non ha nulla di mondano, di duro, di
arcigno, di orgoglioso, di repellente, ha una sfumatura di misticismo e di
carità, che rivela in lui una vita superiore. […] Il Sacerdote cattivo invece
mostra nel suo tratto, e in tutto il suo portamento, la deformità del suo
spirito […] è un uomo che non prega, […], celebra male, acquista un fare
secolaresco, […] è sguaiato nel gesto, […] è nervoso, indelicato, scostante,
[…] fa mormorare della Fede, perché col suo atteggiamento mostra di non
credere; ha un volto smarrito senza espressione spirituale […] ha uno sguardo
libertino che posa facilmente su ciò che può attrarre i sensi credendo di non essere
notato, […] non tollera osservazioni, s’annoia di tutti e cammina agitato come
Giuda nella valle dei rifiuti. […] Essi [i Sacerdoti cattivi] si presentano al
mondo e mostrano in loro Gesù, solo come degno di obbrobrio e di morte»[28].
Ricordando per un attimo la valanga di scandali morali sacerdotali, alcuni dei quali per la loro gravità di crimine contro l’infanzia innocente gridano perfino vendetta al cospetto di Dio, scandali mediaticamente rimbalzati, rispetto ai quali negli ultimi tempi si è spesso allibiti spettatori, il dolore e il desiderio di riparazione si fanno più vivi se si riflette con Padre Dolindo come:
«L’aspetto divinamente bello
della Vittima che si offre amando, che illumina morendo, che vivifica penando,
che si fa inchiodare le mani per tenderle continuamente all’uomo nell’amore,
che si fa inchiodare i piedi per fermarli sul dirupo dove s’era smarrita la
pecorella e riprenderla, che si fa aprire il Cuore per renderlo rifugio di
misericordia, è sfigurato nel povero Sacerdote traviato, senza luce di verità,
senza fiamma di amore senza gesti di bontà; per questo tante anime fuggono dal
Signore, e tanti perversi gridano ch’Egli è degno di morte. Gesù tollera questi
suoi ministri infedeli, li aspetta a penitenza, li chiama e li fa chiamare in
tutti i modi, ma la loro caratteristica è la durezza, e spesso il riepilogo
della loro vita è l’impenitenza finale»[29].
Anche in considerazione di ciò, ancor più impellente si fa per ogni sacerdote l’imperativo di far presente ed esprimere con la propria vita il Sacerdozio di Cristo che è «l’amore del Cuore di Gesù» per la vita dei suoi figli nel mondo.
Già, il mondo … Chi scrive è convinto che una delle maggiori cause di problemi per la vita sacerdotale, oggi, è proprio un malinteso nei rapporti con il mondo, nell’ambito di quel fraintendimento tipicamente postconciliare che si esplica in un approccio irenico nei confronti del mondo, non in quanto creato da Dio e quindi bello e buono, ma in quanto rovinato dall’azione del “principe di questo mondo” e dalla batteria di tutte le sue numerose arti seduttorie. L’aver deposto le armi nei confronti del mondo come si è insegnato a fare negli ultimi decenni ha fatto sì che i sacerdoti, come del resto i cristiani – ma per i sacerdoti in misura più grave degli altri fratelli, perché chiamati ad essere i loro rappresentanti di Cristo Capo Sposo e Pastore – si siano trovati, e si trovino, troppe volte inermi e in balia delle forze avverse e maligne operanti in questo. E non è forse vero che la accentuata mondanizzazione di buona parte del clero negli ultimi decenni, con tutto ciò che ne consegue per esempio come il venir meno delle ore di preghiera e dei santi desideri, è stata una sicura concausa della situazione di crisi in cui la cura pastorale e la missione della Chiesa si trovano? E come negare che anche in questa mondanità priva di difese immunitarie si trovino i germi delle centinaia di migliaia di defezioni che hanno segnato, dolorosamente, la vita sacerdotale e religiosa della Chiesa nella seconda metà del secolo scorso? A questo riguardo Don Dolindo mostra di avere idee e sentimenti, che potranno anche apparire retrò, ma intanto si caratterizzano per una chiarezza schiettamente evangelica contro questo genere di “mondo”. Vale la pena chiudere la presente sezione riportando un suo ragionamento su come i sacerdoti debbano stare in guardia rispetto al mondo. Ecco come egli fa riflettere con il suo sano realismo soprannaturale:
«Quale felicità più grande
che vivere lontani dal mondo, pregare, conversare con Gesù, amare Maria come
Mamma e vivere in contatto coi Sacri Misteri? Tutto passa, tutto finisce, tutto
si dilegua come ombra; viene la vecchiaia, viene la morte, e quale consolazione
allora il sentirsi tutti di Dio! Che importano i sacrifici dell’ora presente,
sacrifici dolcissimi perché fatti con amore, se essi portano all’anima tanta
felicità? Non guardiamo mai al mondo, non ci facciamo affascinare dai suoi
bagliori fantastici, non ci lasciamo turlupinare da satana, sognando come
poesia senza ombre la vita del mondo, che in realtà è prosa di grandi
afflizioni, dalle quali Dio ci ha liberati. […] Sono Sacerdote in eterno, o
Gesù, sono tuo amico, tuo ministro, tuo servo e questa è per me suprema
felicità! Come potrò ringraziarti abbastanza di avermi chiamato e di avermi
fatto giungere ai tuoi Altari?»[30].
II. Il “Sacerdote Gesù”: essenzialmente mariano con il gran privilegio del celibato
a) Maria Madre dei Sacerdoti e le “analogie” di Verginità-Maternità in Maria e nel sacerdote
Un aspetto della spiritualità sacerdotale oggi a volte trascurato, quando non addirittura disprezzato, è la dimensione mariana del sacerdozio e della vita sacerdotale. Padre Dolindo, al contrario, come la maggior parte degli autori del suo tempo ebbe a prestarvi una grande attenzione. Non si tratta per lui di una certa qual devozione tipica dei soggetti sacerdotali più sentimentali e romantici, la marianità del sacerdozio non rappresenta per il servo di Dio un qualcosa di facoltativo, bensì un coefficiente essenziale del sacerdozio cristiano, senza il quale questo va incontro a terribili naufragi.
È sua asserita convinzione, infatti, che «Il Sacerdote non può rispondere alla chiamata di Dio ed ai doveri della sua vocazione se non ricorre a Maria SS.». La ragione teologica più immediata e fondamentale è che Ella «essendo Madre vera dell’Eterno Sacerdote fatto uomo è madre di tutti i Sacerdoti». Una conseguenza della maternità divina di Maria rispetto al Sacerdote Sommo, nella sua ripercussione di maternità spirituale nei confronti dei sacerdoti ministri ordinati al servizio del suo Figlio, è poi che
«Non si forma Gesù Cristo
nel cuore e nella vita dei Sacerdoti senza Maria SS.; Colei che generò il
modello divino, deve formarne le immagini vive, Colei che donò al Redentore il
corpo dell’immolazione, deve dare ai Sacerdoti la grazia di formare della loro
vita una perenne immolazione»[31].
Si tratta di una maternità spirituale, ma vera e niente affatto metaforica, una maternità nell’ordine della grazia che è realmente testimoniata ad abundantiam nella tradizione della santità sacerdotale della Chiesa.
Stando così le cose, è logico che Maria debba essere immancabilmente presente nella formazione spirituale intellettuale e morale di quanti si preparano al sacerdozio. Spiega infatti Padre Dolindo:
«Maria vigila e custodisce
quelli che sono chiamati al Sacerdozio, come vigilò e custodì Gesù infante. È
necessario perciò, sin dai primi anni della vocazione, essere sottomessi a
questa Madre: Erat subidtus illis.»[32].
La tanto benefica marianità della vita sacerdotale, perciò, occorre venga assimilata al tempo del seminario, ma poi deve rimanere sempre come bussola d’orientamento in tutto l’esercizio della sua missione:
«Il Sacerdote […] dev’essere
in una maniera singolare figlio di Maria e vivere in comunione di amore filiale
con questa dolcissima Mamma»[33].
Occorre
segnalare che la devozione mariana caldeggiata dal Padre Dolindo si fonda anche
sulla scienza sperimentale. Egli ebbe, in effetti, favori speciali dalla Madre
di Dio, in particolare va riferito che la stessa intelligenza penetrante di cui
fu dotato è stato un dono di Maria Santissima[34].
Alla Vergine Don Dolindo fu sempre grandemente riconoscente e tutta la sua
sacerdotale fu spesa al di Lei servizio. Dal popolo napoletano, negli ultimi
anni della sua vita, il servo di Dio
era soprannominato “o’ vecchiarello della Madonna”.
Forte di tale della sua esperienza di vita con la Madonna, Padre Dolindo non mirava a sostenere nei preti una pietà mariana “ordinaria”, egli non voleva che rimanessero in superficie, ma li incoraggiava ad entrare e vivere il proprio sacerdozio nel Cuore Immacolato di questa Madre incomparabile. Queste le sue parole:
«[Il sacerdote] Deve perciò
essere convinto ch’Ella gli è Madre e rinchiudersi nel suo Cuore Immacolato,
per ricorrere a Lei continuamente e riscaldarsi nelle fiamme della sua carità.
Non basta considerare una volta sola la grandezza di Maria, né basta vederla in
una luce ideale, quasi fosse nella nostra vita un alone di poesia trascendente:
bisogna considerarla come Mamma, amarla come Mamma, ricorrere a Lei come a
Mamma, e vivere vigilando intorno a Lei; Beatus qui vigilat ad
foras meas quotidie»[35].
La tenerezza della devozione mariana insegnata da don Dolindo, quindi, come si evince dal ragionamento del servo di Dio, è volta all’obiettivo di portare il prete a quella soda virtù di vita di unione con Maria, che è disposizione di inestimabile valore come sostrato per la coltivazione di innumerevoli altre qualità sacerdotali. Lo si nota nel seguente brano:
«La devozione a Maria
dev’essere inesauribile in un Sacerdote, e l’amore filiale verso di Lei
dev’essere pieno; egli deve giungere al punto da affidarsi tutto a Lei e da
affidarle tutte le attività del proprio ministero; deve confidare pienamente in
questa dolcissima Mamma dandole un posto d’onore nella propria vita,
riguardandola come Mamma anche nelle piccole circostanze della sua giornata
sacerdotale, in modo da farsi guidare da Lei e da sentirsi da Lei sostenuto»[36].
Come naturale espansione del suo cuore mariano, nell’apostolato e nella predicazione il sacerdote non potrà essere un minimalista nei confronti di Colei che è la Madre del suo Signore, nonché la Madre ottima della sua vita cristiana e sacerdotale. Un tale assurdo, purtroppo oggi non infrequente, è già contrastato da don Dolindo negli anni ’30, allorché rimarca:
«I Sacerdoti, come gli
Apostoli e come i Padri del concilio di Efeso, debbono essere all’avanguardia
nel trionfo di Maria, Madre di Dio e Madre nostra; invece di confinare in
limiti ristretti la loro devozione, quasi paventando le stupide critiche dei
protestanti, debbono spiritualmente rinnovare la fiaccolata che il popolo
spontaneamente fece a Efeso, quando fu glorificata la Divina Maternità di
Maria. Debbono essere essi fiaccole ardenti di amorosa devozione, e fugare
satana e le eresie fin nel profondo abisso dell’inferno»[37].
Il riferimento ad Efeso appare qui davvero provvido, perché nel respiro delle sue prediche e di tutta la sua dottrina mariana Padre Dolindo ricorda, realmente, il sano massimalismo mariano di Padri e Dottori della Chiesa come san Cirillo d’Alessandria. Se poi si obiettasse che l’insegnamento di Don Dolindo non fa che ripetere gli stilemi ritriti della devozione mariana del tempo, e non è teologicamente stimolante, sembra opportuno far presente, innanzitutto, che l’affetto di Padre Dolindo per la Vergine Madre dona ai suoi scritti mariani un calore ed una vivacità fuori dal comune. È poi possibile offrire qui, proprio in riferimento al sacerdozio, una intuizione dolindiana che appare illuminante, per quanto non possa essere qui passata ad un rigoroso vaglio teologico. Egli scrive:
«Maternità di Maria e vita
sacerdotale sono due grandezze che si rassomigliano; la vita sacerdotale perciò
dev’essere avvolta, illuminata e sostenuta dalla Maternità di Maria»[38].
La marianità essenziale rispetto alla vita sacerdotale è fondata da Padre Dolindo anche in una certa somiglianza tra la generazione di Cristo secondo la carne da parte della Vergine Madre e la generazione della presenza eucaristica sull’altare da parte del sacerdote. Tale similitudine la si trova espressa poeticamente in Negli splendori della grandezza e della vita sacerdotale, si tratta di un’elevazione che è un vero e proprio cuore a Cuore, tra Don Dolindo figlio sacerdote e Maria la Madre dei Sacerdoti:
«Manifestami i tesori di
questo tuo Cuore verginale e materno, o Maria, affinché io esulti, come vuole la Chiesa, nel
celebrare le tue grandezze, io che vi partecipo generando all’Altare
eucaristicamente il tuo Figliuolo, la Vittima Divina. Ho bisogno di conoscere
il tuo Cuore verginale e materno per imitarti nel trattare Gesù, giacché debbo
circondarlo anch’io di candore e di amore. Ho bisogno di conoscere il tuo Cuore
verginale e materno per imitarti nel trattare Gesù, giacché debbo circondarlo
di tenerezze che siano almeno l’ombra lontana delle infinite tenerezze del
Padre verso il suo Figliuolo Eterno, generato da Lui ab
aeterno, nella
purezza infinita della conoscenza, e circondato dalle tenerezze dell’Amore sostanziale e personale, che procede
dal Padre e dal Figliuolo. Tu sola puoi guidarmi in questo cammino di amore,
poiché la sublime singolarità della tua eccelsa dignità materna, o Maria, ti
elevò fino alle altezze eterne: nella verginità Tu riflettesti i raggi della
purezza della divina
natura, e nella maternità la fiamma dell’Eterno Amore […] Tu dunque avesti una
rassomiglianza con Dio nella tua verginità e nella tua maternità»[39].
La riflessione di Padre Dolindo, in effetti, appare qui ancora più ardita: il sacerdote che rende presente Cristo sull’altare imita Maria che ha generato il Verbo incarnato, ma solo Maria può essere maestra e assistente in tale operazione, perché il suo stesso concepire e dare alla luce, come Vergine Madre, è stato a somiglianza della generazione e della spirazione proprie della natura della Trinità divina. Tali accostamenti in chiave di mariologia ascensionale appaiono grandemente suggestivi, anche se occorre riconoscere che solo impropriamente o in senso lato potrebbero esser detti analogie. Il servo di Dio, tuttavia, si direbbe con il metodo dei Padri, considera l’universo della fede come un tutto organico e, quindi, si cimenta nell’opera di illuminare i misteri accostando sapientemente le diverse verità della teologia. Le conseguenze morali di questi spunti sono altresì felicemente evidenziate, quando prega:
«Ed io sono Sacerdote, o
Maria, io chiamo dalle regali sedi il Verbo Umanato e la Vittima Divina, io
l’accolgo nelle mie mani, lo dono al Padre come lo donasti Tu, e ai fedeli come
cibo di vita … io! Quale dev’essere la mia purezza e la mia verginità, per
poterlo far riposare nelle mie povere mani, quale il mio candore per non
disdire col suo candore eterno, quale la mia illibatezza per poter accogliere
lo specchio senza macchia nel mio cuore! Mi sono dedicato al Signore e gli ho
dato il mio fiore; ma esso non era fresco, ahimè, e benché non fosse sfrondato,
era tutto macchie. Questa verginità che doveva essere ed è la culla della sua
nascita sacramentale, è incontaminata ancora, ma è una grotta ed una pietra,
tutta fuliggini di naturali miserie … Quale confusione, o Maria, rappresentare
così male la tua Verginità! Che cosa sarebbe di me se peccassi, se sfrondassi
il mio fiore, e andassi cercando le creature, profanandolo così miseramente?
Che cosa sarei io se presumessi di formare a Gesù una culla nella quale
riposasse prima un idolo, se presumessi di poter mettere l’Arca vicino a Dagone
[sic]»[40].
Quest’ultimo brandello dell’elevazione ha il pregio di mettere maggiormente in evidenza la somiglianza nella verginità del sacerdote con Maria, laddove la castità celibataria perfetta del ministro ordinato imita la verginità perpetua perfettissima della Madre di Dio. Tale ragionamento consente a Padre Dolindo di illuminare da una prospettiva insolita anche il bene prezioso, ma tanto avversato, del celibato sacerdotale proprio del sacerdozio ministeriale nella Chiesa Cattolica di disciplina latina.
b) Il gran privilegio del celibato sacerdotale
Il legame tra la verginità di Maria Madre di Dio e il celibato del sacerdote è molto accentuato nel pensiero di Don Dolindo. Ciò nasce, più in generale, anche da una consapevolezza personale della propria inadeguatezza in quanto creatura finita rispetto ad una dignità così grande, egli lo confessa lasciando intravedere la sproporzione tra la realtà umana e un così grande e tremendo mistero:
«Sono Sacerdote, o Maria,
sono Ministro dell’Altare; non mi basta pararmi per esserlo, debbo andarvi
ammantato di grazia, di candore di verginale purezza»[41].
In un’elevazione mirabile dalla grande potenza lirica Padre Dolindo si offre alla Madonna e La supplica in ogni modo di rivestirlo della sua verginità:
«Rivestimi di santità,
nascondi le mie miserie col manto della tua purezza, accendimi il cuore col tuo
amore, perché io non sia indegno del Signore. Mi consacro tutto a Te: ti
presento le mani: lavale e mondale; il capo: ricolmalo di pensieri di amore
divino; il corpo: rendilo casto Tempio di Dio; i lombi: legali nella purezza;
le braccia: riempile dei covoni del sacrificio; il cuore: suggellalo per Dio
solo con la stola dell’innocenza; la vita: rendila tutta sottomessa al giogo di
Dio. Rivestimi di Te, Mamma mia; prendi le mie mani e profumale della tua
purezza, cancellando da esse l’obbrobrio d’ogni impuro contatto; velami il capo
coi tuoi pensieri di contemplazione; donami il candore del tuo immacolata
corpo; cingimi del cingolo tuo, e fa’ che io ti rassomigli almeno col desiderio
d’essere tutto di Dio. Ornami coi tuoi dolori e con le tue lagrime, perché io
ascenda all’Altare come al Calvario, dammi la stola della tua intemerata
verginità, affinchè nasconda innanzi a Dio sotto i fulgori tuoi le mie
defezioni di amore; dammi il manto della tua regalità, affinché io possa
ricevere nelle mie mani il Re della gloria»[42].
Come si vede, la verginità intesa qui da Don Dolindo non è solo quella fisica ma anche quella spirituale, la si potrebbe definire una verginità integrale che porti, anche attraverso una riverginizzazione, alla purezza di una vita immacolata di totale dedizione senza alcuna defezione come è quella di Maria. «Fa’ che io ti rassomigli almeno col desiderio d’essere tutto di Dio» egli implora. Tale anelito alla totalità dell’amore, a ben vedere, è uno degli aspetti più importanti nella configurazione del celibato sacerdotale, esso infatti rende l’uomo ordinato una persona che vive, e dimostra come si possa vivere, fondamentalmente a disposizione solo di Dio[43].
La dottrina del celibato ecclesiastico – come viene spesso ricordato – in sé non è un dogma, ma una scelta, a partire da una vita di castità permanente richiesta ai chierici, risalente alla Chiesa apostolica delle origini, trasmessa dalla tradizione più antica, praticata per secoli concordemente sia ad Oriente che ad Occidente[44]. Scorrendo le pagine sacerdotali di Padre Dolindo si avverte ben presto la sua tenacia su questo punto, di cui egli rimane ancor oggi uno dei più fieri difensori. Tale attenzione è in lui tanto distinta da meritare, senz’altro, un degno rilievo anche nell’ambito della presente ricognizione, al fine di illustrare quello che sembra essere uno dei suoi maggiori contributi in materia di spiritualità sacerdotale.
Uno tra gli argomenti più convincenti che il reverendo napoletano offre è il seguente:
«Il Sacerdote ha una paternità
spirituale che non può conciliarsi con quella naturale, perché immensamente più
grande; nei limiti delle particolari attività, ha la Chiesa come sposa, e non
può essere legato ad una creatura; è consacrato a Dio, ne zela la gloria, ne fa
conoscere la bontà,
eleva le anime agli altissimi ideali dello spirito, e non può immeschinirsi
nella carne. Non può discendere da uno stato superiore a quello inferiore, non
può rappresentare in una figura scialba e spesso deformata dall’umana miseria,
quello ch’egli è realmente; non deve tradire l’Amore Infinito per un amore terreno
che molto spesso è debolezza dei sensi ed allucinazione di fantasia. Nel
matrimonio infatti l’uomo rappresenta Gesù Cristo e la donna la Chiesa; il loro
amore è figura dell’amore di Gesù per la Chiesa e della Chiesa per Gesù, e la
loro fecondità benedetta è santa, perché è diretta a quella dello spirito; essi
non si legano semplicemente per procreare dei figli, ma per donarli a Dio, per
generare i cittadini del Cielo.
È assurdo che colui ch’è un
altro Gesù per il carattere Sacerdotale, lo rappresenti in un’ombra; che colui
che deve amare le anime, ami una sola creatura, che colui che forma i cittadini
del Cielo nello spirito, si preoccupi di procrearli nella carne. È da questo
concetto logico e fondamentale che scaturisce la necessità e la ragionevolezza
del celibato ecclesiastico. Solo chi è fanciullone nella vita, o chi la
considera da un punto di vista semplicemente animale, può dubitarne. Tutte le
ragioni dell’egoismo e tutti i cavilli della passione non potranno mai
giustificare o coonestare ciò ch’è assurdo nei medesimi termini»[45].
Il ragionamento, presentato forse in modo troppo acceso, risulta però certamente valido: in breve, il matrimonio tra uomo e donna è immagine della realtà dell’unione tra Cristo e la Chiesa, ma il sacerdote ordinato soprattutto in rapporto all’Eucaristia rappresenta-ripresenta Cristo nei confronti della Chiesa: egli perciò è già sposato con la Chiesa. Il sacerdote che sposa una donna realizzerebbe pertanto un decadimento insensato, significherebbe voler scendere dal piano della realtà al livello delle immagini[46]. Non per il sacerdozio dei Vescovi più strettamente configurati a Cristo celibe nella pienezza del sacramento dell’Ordine, ciò potrebbe forse avvenire per quello dei presbiteri, ma sarebbe un enorme passo indietro per la teologia e la spiritualità del sacerdozio.
In risposta al mondo che pensa al celibato come una minorazione, Padre Dolindo, conscio del grande dono della dignità sacerdotale, fa notare invece che il sacerdote triste perché non si sposa sarebbe come il ministro di stato infelice perché non fa l’usciere del palazzo ministeriale, o come un generale che soffrisse per il fatto di non comandare un solo plotone[47].
Il servo di Dio, a dispetto del nome “Dolindo che significa dolore”, è rimasto celebre anche per l’umorismo dei suoi detti in napoletano stretto e delle sue storielle argute. Riguardo al tema in questione piace riferirne una che, nella sua immagine colorita ed in verità realmente eccessiva, riesce però a trasmettere il concetto con grande potenza espressiva:
«Un povero squilibrato una
volta, sentendo cantare i galli, si persuase che la sua vita era un’infelicità
e se ne andò nella stia, tentando di appollaiarsi su di un’asta. Egli, che
prima era accolto dai polli con festa, perché portava loro il cibo, quando
pretese di stare con essi, li fece fuggire spaventati in ogni direzione, e
benché matto, s’accorse che non ci stava bene. Ahimè, un Sacerdote che dal suo
stato nobilissimo di pastore di anime, si riducesse allo stato di un povero
traviato nel mondo, farebbe una figura immensamente più lagrimevole!»[48].
Rispetto ai sacrifici e alle rinunce richiesti al prete al fine di condurre una vita verginale nel celibato, Padre Dolindo si pone ancora in una posizione molto interessante e molto vera, egli ragiona:
«Chi si consacra a Dio
rinunzia al mondo, al demonio ed alla carne; rinunzia ai piaceri che passano, e
si dona al Signore, per combattere le sue battaglie. È una rinunzia che non
deve considerarsi in una maniera troppo eroica, se non si vuol dare l’agio al
nemico infernale di drammatizzarne ad arte le conseguenze, e di farla credere
praticamente impossibile all’umana fragilità»[49].
Egli attribuisce grande valore a tale approccio demistificatore e perciò rimarca:
«È questa una considerazione
di altissima importanza. La rinunzia infatti a certe esigenze o miserie della
carne, la fanno tutti quelli che hanno una responsabilità superiore e che sono
consci del loro dovere in certi momenti difficili. Chi va in guerra non può
pretendere di trasportarvi la sua casa e le sue comodità, né può concentrarsi
nelle debolezze dei sensi che distruggerebbero tutte le sue energie e la sua
serenità; sente il bisogno ed il dovere di menare una vita casta. Non si concepisce
un conquistatore effeminato; un esercito di soldati traviato dalla miseria dei
sensi, sarebbe un esercito già vinto […] Chi va a lavorare lontano per
guadagnare, chi naviga sui mari, chi scende nelle miniere, vive isolato, e non
ha neppure la consolazione di avere una famiglia spirituale. Ci sono anche
quelli che per particolari condizioni fisiche vivono in perfetta castità»[50].
È qui che l’arte dialettica di Don Dolindo incalza gli assertori del necessario sviluppo della dimensione d’integrazione affettiva del sacerdote nei confronti dell’altro sesso, con una serie di questioni retoriche:
«Ora come può un Sacerdote
che combatte le battaglie pacifiche di Dio, che avanza per cooperare alle
conquiste del Regno del Signore, che lavora per le anime e le accompagna nel
mare della vita, immaginare di avere necessità d’immeschinirsi in un ideale
ristretto, o peggio, di non poter evitare di degradarsi nelle miserie della
carne? Come può credere esageratamente eroica una rinunzia che tanta gente fa
per un semplice vantaggio temporale, come la può credere persino impossibile o
contraria ai diritti della natura?»[51].
La risposta di Don Dolindo è nella prima parte nitida e tranciante, mentre nella seconda fa ancora riflettere con l’enfasi di un’ultima domanda retorica:
«Chi si è consacrato a Dio
sta in una sfera così alta, ed abbraccia una vita tanto grande e nobile, che
non può senza vergognarsene, considerare la possibilità di scendere dal suo
trono per razzolare nel terreno.
È poi veramente un
sacrificio il rinunziare alla carne per vivere di spirito, o non è piuttosto un
grande privilegio ed un’immensa grazia?»[52].
c) Altre ragioni contrarie al sacerdozio uxorato dei presbiteri
La vita verginale del sacerdote nel celibato è realmente un grande privilegio e un’immensa grazia, soprattutto perché consente al prete di fondare la propria esistenza unicamente sull’amore di Dio e nella pienezza totale del dono di sé a questo Amore nel servizio alla Sua Chiesa.
Padre Dolindo fa rilevare, giustamente, la preternaturale attività diabolica nella diffusa avversione a tale grazia-privilegio che potenzialmente tanto bene può produrre – e di fatto nei secoli ha prodotto – nella vita sacerdotale e nelle sue ripercussioni sulla vita ecclesiale e missionaria:
«Solo la suggestione diabolica
o fantastica può far credere indispensabile alla vita ciò ch’è solo mezzo della
propagazione del genere umano in particolari circostanze […] Il demonio ha la
triste arte di mostrare in una falsa idealità anche le cose più brutte, pur
d’ingannare e trarre al male, e quindi circonda di poesia ciò ch’è amarissima
prosa, e fa apparire come vita ciò ch’è morte»[53].
Ciò nonostante Don Dolindo agevolmente, con sorprendente dovizia di particolari e in un crescendo argomentativo davvero travolgente, può giungere ad una netta confutazione degli inganni satanici. La pagina è tanto saggia e convincente da apparire meritevole di essere riportata pressoché per intero:
«Ma può dirsi proprio che
una creatura possa essere un termine di felicità o che una soddisfazione
materiale possa appagare la vita? Basta volgere attorno lo sguardo per
disingannarsi, e per vedere quale grazia Dio fa ad un uomo liberandolo da ciò
ch’è terreno e donandogli Se stesso come porzione e come eredità. Raccogliamo,
se è possibile, le lacrime sparse da quelli che si danno al mondo,
raccogliamone le ansie, i contrasti, le angustie, le pene, e vediamo se questo
torrente di afflizioni può equiparare la pena di una rinunzia terrena fatta per
l’acquisto di un’immensa eredità di beni spirituali e di pace temporale ed
eterna. Le creature infatti non sono pupattole, non possono considerarsi solo
nella loro estetica apparente, non sono fiori che si colgono e rimangono fiori;
hanno la ragione, la volontà, i capricci, le miserie e spesso gli squilibri che
rendono più che mai penosa e difficile la convivenza con loro. I caratteri sono
tanto diversi, tanto angolosi, tanto insopportabili, che a volte la convivenza
diventa veramente un inferno. Non è libero di sé chi dà ad una creatura, ma chi
si dà a Dio; non raccoglie la felicità chi la cerca nei sensi, ma chi la cerca
nello spirito, ed è un’immensa grazia il non andare incontro alle incognite
spaventose della vita dei sensi.
A questo si aggiunga che
gl’ideali terreni ben presto si sfrondano ed appassiscono, la bellezza si
sfiora […] i figliuoli che dovevano essere consolazione, spessissimo sono spine
nel cuore […] le necessità della vita assillano, i mezzi finanziari vengo meno,
le malattie tolgono la tranquillità, le morti falciano gli affetti, e praticamente
tutto ci risospinge a concentrarci in Dio solo o a cadere in un cupo ed
opprimente pessimismo. Questa è la verità. […] Ecco il riepilogo di una vita di
sogni terreni: la stanza coniugale si smonta, non ha più ragione di essere dove
la vecchiezza s’è sposata alla carne. Quello che sembrava il nido della
felicità, c’è ridotto un giaciglio di affanni; le melodiose parole d’amore,
ahimè, sono sostituite dalle sinfonie dei lamenti […] Che cosa dire poi del
riepilogo di una vita di colpa? Dove va finire la tempesta della passione che
sembrò poesia di felicità? Il riepilogo è un naufragio, dove le onde
dell’infelicità s’accavallano, ed i rottami di tutto ciò che si è amato sono
travolti. Il piacere
turpe dà il suo fungo velenoso d’infezioni di malanni, di piaghe […] termina
nella maledizione e stringe nelle spire della disperazione! I frutti del
peccato sono spine pungentissime; in fondo alla coppa dell’illusione d’un
momento c’è la feccia d’un tormento infernale!»[54].
Queste parole, si dirà, risentono del non sufficiente sviluppo della teologia del tempo rispetto al matrimonio, ma se è vero che quanto qui esposto da Padre Dolindo sembra trascurare le bellezze dell’amore umano degli sposi che si amano in Dio, l’esperienza e le cronache di tutti i giorni mostrano come la sua analisi degli aspetti di difficoltà della vita matrimoniale sono qualcosa di assolutamente reale. Non si deve dimenticare, inoltre, il contesto parenetico e apologetico, ossia che Don Dolindo scrive qui con il proposito di dissuadere i sacerdoti dal desiderio di sposarsi, e questo gli fa calcare un po’ la mano sugli aspetti di paradosso che di fatto tante volte si danno nel matrimonio. Se la scelta del matrimonio a scapito del sacerdozio è stata presentata da Don Dolindo con disincanto e realismo estremi, d’altro canto, mirabile è il quadro da lui sapientemente ritratto rispetto alla vecchiaia di colui che, fedelmente, ha vissuto il proprio sacerdozio nel celibato:
«La vita casta e santa del
Sacerdote fedele è invece freschezza di perenne giovinezza, poiché il suo
ideale non si sfronda con l’età, ma fiorisce come rosa di ogni mese, che anche
nell’inverno è ridente. Egli forma una generazione di anime e non conosce la
sterilità della vecchiezza. Più grande è il suo zelo e la sua carità, e più cresce
la sua bella famiglia spirituale, sempre infante innanzi a lui, perché egli
sempre la educa, la guida e la nutrisce spiritualmente. Egli ama col Cuore di
Gesù ed è amato solo perché in lui se ne vede l’immagine. Anche materialmente,
quando è stato veramente Sacerdote, trova cento cuori generosi che lo
soccorrono per soccorrere Gesù, lontani mille miglia dai calcoli dell’interesse
o dalle doppiezze della venalità. La vita per lui non passa ma si rinnova,
poiché ha sempre qualche cosa di nuovo da fare per la gloria di Dio e per la
salvezza delle anime. La vita che declina lo avvicina sempre più all’ideale
eterno tanto da lui sospirato, la divina poesia della Fede è più viva e più
fresca, la speranza diviene sempre più certezza ed aspettazione, la carità s’infiamma
di maggiori espansioni, le pene diventano il suo olocausto d’amore»[55].
Da tutte queste considerazioni sembra emergere per Don Dolindo la statura di vero maestro di vita sacerdotale. Riguardo ai mezzi per vivere serenamente il celibato è interessante notare come il servo di Dio, un po’ a sorpresa, proponga lo stesso apostolato da alcuni avvertito, a ragione, come un potenziale pericolo:
«L’esercizio del proprio
ministero, quando è fatto con vera coscienza di amore soprannaturale, è un
mezzo per tenersi puri, giacché chi genera nello spirito non desidera generare
nella carne. L’apostolato aiuta a tenere alto il senso della propria
responsabilità, giacché di fronte alle miserie del popolo od alle virtù dei
buoni, l’anima rimane più disgustata del male più attaccata al bene»[56].
Quando il ministero è rettamente esercitato nella fedeltà alla propria missione, in effetti, anch’esso diventa una grande motivazione al dono di sé in reazione alla corruzione dilagante. Ovviamente Don Dolindo non dimentica quelli che restano i grandi mezzi di sempre volti a tenere in alto l’anima, ossia la preghiera e una vita sacramentale intensa, nonché la necessaria mortificazione corporale così efficace per conseguire il dominio sui sensi. La risposta di Padre Dolindo a quanti caldeggiano e premono per una rinuncia da parte della Chiesa all’“ormai impossibile” celibato sacerdotale, infine, è molto severa:
«Proporre come rimedio alla
prepotenza dei sensi la pretesa di poter indulgere loro ufficialmente con
l’abolizione del celibato, è atto d’insipienza e d’incoscienza.
La Chiesa non può rinunziare
a questa sua gemma senza ridurre il Sacerdozio nel più penoso obbrobrio. Forse
il Signore ha permesso che lo tollerasse per la Chiesa greca, proprio per
dimostrarne la necessità. Il Sacerdote ammogliato non può essere mai un
apostolo né un santo; la sua famiglia naturale lo rende sospetto, interessato,
terreno e spesso anche vizioso. La moglie rappresenta sempre un’intrusa nel
cuore che deve darsi tutto a Dio, e non può ispirargli mai l’eroismo della
carità e della santità. Bisogna piuttosto pregare Dio che la Chiesa greca, nel
ritorno dell’Oriente cristiano alla Cattedra di S. Pietro, domandi essa stessa
di poter rinunziare al permesso strappato più che concesso, per le vicende dei
tempi passati, e rivesta i suoi ministri del dolcissimo ammanto della purezza
casta e verginale».
Per scongiurare tale pericolo Padre Dolindo non trova di meglio che rivolgersi in preghiera alla Madre della Chiesa. Egli lo fa, e ciò è estremamente interessante, confermando di nuovo lo stretto legame esistente tra la maternità vergine di Maria e il ministero celibe dei sacerdoti:
«O Maria, conserva Tu nella
Chiesa la purezza verginale dei Sacerdoti, affinché l’Arca che deve custodire
la manna del Cielo non sia ridotta a povero ripostiglio di cose umane! Non
permettere che questo cuore sia diviso con una creatura, perché sarebbe
assorbito da essa, non potendo
galleggiare sull’acqua una nave ricolma dei detriti e delle sabbie del
mondo. Fa’ rifulgere innanzi ai Sacerdoti la tua verginità intemerata, perché
essi intendano che non possono essere dissimili da Te, generando
sacramentalmente anch’essi il Verbo di Dio umanato, fatto vittima, dato come
cibo e bevanda delle anime»[57].
III) Il “Sacerdote Gesù”: Maestro e Araldo
a) Il ministero della predicazione
Il Sacerdote Gesù nella sua identità sacramentale con Gesù Sacerdote, la necessità di una prassi di vita corrispondente, l’accento sul carattere vittimale dell’identità sacerdotale, la dimensione mariana come essenziale all’essere e all’agire del prete, sono rilievi, questi, che costituiscono altrettante prove di come l’impostazione della spiritualità sacerdotale di Don Dolindo si situi nel solco della grande tradizione cattolica. Il forte accento sul sacerdote come costitutivamente ordinato al Sacrificio dell’Eucaristia, tuttavia, potrebbe indurre qualche interprete odierno a sospettare nella dottrina presbiterale dolindiana una qualche trascuratezza rispetto alla dimensione dell’oggi fortemente avvertito servizio alla Parola di Dio. Ebbene, niente di più lontano dalla verità! Chi conosce la vita di Padre Dolindo sa che, eccetto quando egli ne fu impedito da circostanze che è bene definire provvidenziali, ossia i lunghi anni delle sospensioni a divinis, egli è stato un infaticabile apostolo della Parola. Può essere interessante, a mo’ di provocazione, conoscere piuttosto che cosa Don Dolindo pensasse di questo ministero così fondamentale, specie nel confronto tra il suo esercizio nella vita religiosa e nella vita secolare. Così egli scrive nell’Autobiografia rispetto a quando era ancora Prete della Missione, giovane sacerdote di comunità presso il seminario di Molfetta nel 1907:
«Cercavo di fare tutto quel
bene che mi era possibile, ma mancavo di iniziative ed ero legato, perché in
Comunità non si poteva fare nulla, all’infuori delle poche occupazioni del
Seminario. È una cosa che ho sempre constatato con dolore: nelle Comunità si
lavora poco per la gloria di Dio e per la salvezza delle anime. Si crede di
aver fatto molto quando si è fatto un discorso ogni tanto una volta. In
Comunità io ero riguardato come uno dei più attivi soggetti per aver fatto un
centinaio di prediche in tre anni … Fuori Comunità invece nei pochi anni che
potetti predicare, pur non avendo la libertà piena del ministero, io ne feci
circa diecimila, delle quali molte sono scritte e molte accennate solo in
sintesi»[58].
Durante la lunga sospensione di sedici anni (1921-1937), proprio quando Padre Dolindo non poté esercitare in pienezza il sacro ministero, avvenne poi un fatto speciale che fu occasione per dare origine a quella che è stata la sua più grande opera letteraria. Come è noto, la missione di Padre Dolindo fu infatti quella di redigere, dal fondo della abiezione assoluta in cui si trovava, precisamente un commento alla Sacra Scrittura dall’attenzione pastorale, ossia proporzionandolo al bene e alla capacità dei fedeli. Quello che non molti sanno, invece, è ciò che diede inizio all’Opera, Don Dolindo lo spiega in una lettera a Mons. Giovanni Sanna, Vescovo di Gravina di Puglie, suo garante ecclesiastico: il principio si ebbe dal tentativo di redimere un povero sacerdote traviato, uno colto che aveva studiato alla Gregoriana ma ne aveva ricavato avversione per la Scrittura e l’Ufficio Divino. Così racconta Padre Dolindo:
«Nel 1925 mi fu presentato
un povero sacerdote traviato perché gli parlassi tentando di ricondurlo a Dio.
Era colto, aveva studiato alla Gregoriana e da quegli studi aveva riportato,
purtroppo, un’autentica avversione alla Sacra Scrittura, con conseguente odio
per il Divino Ufficio e una vita di disordini e di odio alla Chiesa, al Papa,
al Sacerdozio. Cominciai ad indurlo, dopo i primi approcci, ad una necessaria
confessione da un buon sacerdote: egli non lo faceva da molti anni pur
continuando a celebrare. Poi, per fargli capire la bellezza della Sacra
Scrittura e quindi dell’Ufficio divino, cominciai a meditare con lui e con le
anime che me lo avevano presentato, la Genesi. Chi assisteva prese gli appunti
di ciò che dicevo e poi me li diede pregandomi di svilupparli, per servirsene
nell’apostolato. Fu così che si cominciò a diffonderli fra persone di cultura e
fra molti sacerdoti e teologi illustri. Essi cominciarono a richiedere questi
scritti con frequenza sempre maggiore e, avendoli divulgati, da ogni parte
d’Italia mi giunsero esortazioni a pubblicarli e farne un tutto organico per il
bene che avrebbero potuto fare»[59].
I segreti misteriosi della Provvidenza di Dio! Il sacerdote che aveva abbandonato si convertì e Padre Dolindo paradossalmente, da sospeso a divinis, diede inizio così a quel grandioso commento alla Parola di Dio che avrebbe offerto nutrimento spirituale alle prediche di innumerevoli altri sacerdoti, come alle meditazioni personali di tanti religiosi e laici[60].
Nel Libro sul Sacerdozio, del resto, il servo di Dio offre magnifiche riflessioni sul ministero di insegnamento che si svolge nella predicazione della Parola. In esse risulta chiaramente espressa, fin dall’inizio, la ragione teologica della necessità e dell’impellenza di tale annuncio:
«Andate
ed insegnate a tutte le genti, disse Gesù Cristo agli Apostoli, dando loro il mandato di
evangelizzare il mondo. D’allora questo ministero importantissimo non è stato
mai interrotto nella Chiesa e non s’interromperà mai, fino al termine dei
secoli: predica il Papa dalla sua cattedra di verità, predicano i Vescovi nel
loro pastorale governo e predicano i Sacerdoti per mandato dei Vescovi. Da
questa nobilissima attività dipende la successiva conversione del mondo e la salvezza
delle anime, poiché la Fede viene dall’udito, ha detto S. Paolo, e l’udito
per la parola di Cristo»[61].
Circa la natura e le qualità della predicazione l’insegnamento di Padre Dolindo è pure di grande aiuto:
«Docete: insegnate; in questa
semplicissima espressione del Redentore c’è la sintesi mirabile di quello ch’è
la predicazione: un insegnamento. Non è dunque una vaga logomachia oratoria,
non è una ostentazione di letteratura o di arte, e tanto meno è una
glorificazione di se stessi; è un insegnamento che istruisce le anime, per
illuminarle nelle eterne verità e guidarle al bene secondo la Legge di Dio e
quella della Chiesa. […] Docete, insegnate; questo suppone necessariamente la
capacità per istruire e quindi una conveniente ed accurata preparazione remota
e prossima»[62].
Una tale docenza comporta, invero, la necessità dello studio sia come preparazione nei tempi del seminario, sia come formazione permanente durante il corso della vita; è curioso ricordare come Padre Dolindo, proprio nella smisurata amarezza degli anni della sospensione, ebbe maggiormente ad approfittare del tempo in un costante approfondimento della dottrina cattolica e delle sue fonti, la Sacra Scrittura e i Padri della Chiesa[63].
Benché lo studio sia fondamentale per l’insegnamento, tuttavia, per dirla con Don Dolindo se «Il Sacerdote vuol predicare e non dire parole» egli dovrà essere «un’anima profondamente raccolta nella meditazione delle eterne verità e profondamente unita a Dio». È qui che il maestro di spiritualità napoletano offre quello che sembra, in effetti, il suo contributo ad un tempo più meditato e più vissuto a proposito d’oratoria sacra:
«La sapienza soprannaturale
deve diventare nel Sacerdote preghiera, anzi più propriamente orazione. Egli
deve dimenticare di essere un oratore nel senso umano di questa parola, per
ricordarsi d’essere uomo di orazione; solo così può vivere della verità e farne
vivere, solo così può avere una parola efficace, penetrante l’intimo del cuore,
perché parola di Dio. Non si concepisce il ministero della parola senza
l’orazione, e gli Apostoli stessi, benché pieni del fuoco interiore dello
Spirito Santo, sintetizzarono in questo il loro apostolato: Noi saremo intenti
all’orazione ed al ministero della parola (Atti IV, 4).
Meditare, pregare, implorare
da Dio i lumi per penetrare le anime, la grazia per compungerle, e la
misericordia per convertirle, ecco la preparazione indispensabile al ministero
della parola; senza di questo si verbera l’aria, o tutto al più si lusingano le
orecchie, si raccolgono applausi vani, e si cade nell’oratoria da foro che non
converte i cuori ma li dissacra, non convince la mente ma può acuirne la
presunzione, non muta la vita ma la diverte, non muove alla riparazione del
male fatto ma, tutto al più, produce un momento di rossore che subito svanisce»[64].
Da queste ultime osservazioni usciva stimmatizzata l’omiletica del tempo, talvolta vuota retorica di forme senza contenuti di sostanza; oggi invece l’oratoria sacra, in genere, sembra talmente scaduta da non poter esser più chiamata tale. Ciò nonostante è possibile cogliere in queste parole, per analogia, l’insufficienza di tanta omiletica anche dei nostri giorni: dalle omelie ben scritte ma senz’anima, che sono invero già piuttosto rare, a quella predicazione umana e orizzontale - «poltiglia insulsa» - che è invece frequente nelle nostre chiese, dove non pochi fedeli non ne possono davvero più di sentirsi incitare a “volersi bene” e a cooperare semplicemente ad obiettivi equo-solidali. Ma che dire poi di quelle prediche così apparentemente cariche di erudizione, in genere di esegesi biblica filo-protestantica, incuranti del fatto di contraddire la dottrina cattolica, oppure ammiccanti alle tendenze filosofiche più in voga che accarezzano gli uditori con ciò che essi vorrebbero sentirsi dire? Sono discorsi corrosivi e distruttivi, questi, che non hanno nessun senso proferiti da un ambone, dove il sacerdote è maestro di fede e pastore che vuole far crescere il suo gregge, nutrendolo della buona dottrina di Cristo e tenendolo lontano dai lupi rapaci. Così, in effetti, non parlano nemmeno i mercenari pavidi, ma piuttosto i falsi maestri, gli adepti o gli ingannati cooperatori del «nemico di Dio e omicida fin dal principio» (Gv 8,44), di colui che vuole far perdere le pecorelle! E dire che per Padre Dolindo, ed è accenno estremamente interessante, una predicazione schietta della verità evangelica, sostanziata e resa efficace dallo slancio soprannaturale derivante dall’orazione, dovrebbe addirittura giungere ad essere una sorta di esorcismo al fine di allontanare il male del vizio dai cuori degli uditori. Così infatti egli ragiona:
«Si predica prima di tutto
con le ginocchia, oseremo dire, pregando cioè, perché si tratta di affrontare
lo spirito perverso e cacciarlo dalle anime. Non si predica per esporre una
dottrina particolare, quasi si trattasse di una scuola qualsiasi, ma per
illuminare le anime, sottrarle al dominio di satana e darle a Dio; è necessario
avere un tesoro di grazie per riuscirvi e questo si attinge solo dalla
preghiera. L’esperienza mostra che i così detti grandi oratori non producono un
vero e duraturo bene, mentre i Sacerdoti umili che attingono alle fonti della
grazia, penetrano il fondo dei cuori e li trasformano interamente. […] Chi si
converte non va a fare omaggio al predicatore, ma va a Dio e si getta ai piedi
d’un confessore per mutare vita. Questo è l’indice sicuro di una vera predica»[65].
Un ultimo aspetto su cui Padre Dolindo richiama l’attenzione, rispetto all’esposizione della verità evangelica, sono la chiarezza e la semplicità della stessa, l’obiettivo deve essere eminentemente pratico, infatti, aiutare i fedeli a conformare alla Parola di Dio la propria vita. Nel Libro sul Sacerdozio il servo di Dio insegna, ancora, dando nuova prova della sua sensibilità genuinamente pastorale:
«Bisogna far luce, esporre
la verità, farla penetrare nell’intelletto renderla convinzione e persuasione,
e facilitarne l’applicazione alla vita pratica […] Docete, insegnate. L’insegnamento
non dev’essere incomprensibile, ma semplice, famigliare, pratico. È necessario
ispirarsi all’Evangelo, scendere al livello degli umili e dei fanciulli,
parlare con parabole ed esempi che attirano, ed implorare dallo Spirito Santo
questa grazia che fa parte del dono dell’intelletto e del consiglio. Non bisogna salirsene sulle
nubi, né cantare con tono di voce che sembra fuori della vita; è
necessario interessare il popolo, spingerlo quasi a dialogare internamente col
predicatore, compungendone l’anima con intima convinzione, essere penetranti
con la dolcezza, come acqua che stilla, non come torrente che travolge;
riscaldare la parola con l’amore di Dio e con la carità vera, condirla sempre
con l’invocazione ed il ricordo di Maria SS., dei suoi dolori e della Passione
di Gesù Cristo; mostrare in altri termini di volere il bene delle anime, essere
apostoli e non mercanti della parola»[66].
b) La preparazione remota e prossima: la preghiera e lo studio in spirito d’orazione
Concretamente, come Padre Dolindo si preparava alla predicazione? Nella biografia esitata dalla Postulazione si legge:
«Ecco poi come Don Dolindo
si preparava per le prediche, che spesso raggiungevano il numero di sette
oppure otto nella stessa giornata, tra ritiri spirituali, tridui, novene e
ottavari nelle chiese, nei conventi, nei seminari [Era stato il Cardinale di
Napoli Ascalesi a volerlo]. Anche in questo caso egli premetteva anzitutto la
preghiera, che nella notte gli prendeva molte ore. Si levava in genere alle
2,30 di notte. Celebrava la Santa Messa e poi ancora faceva l’adorazione
eucaristica. Si preparava quindi sui vari testi scritturali, biografici o
ascetici, tenendosi al corrente delle più recenti pubblicazione che gli
venivano segnalate. La sua giornata, comunque, era un Rosario continuo. Aveva
sempre la corona in mano e ogni minimo intervallo di solitudine era riempito
dalle Ave Maria della corona. Pregava lungo la strada, pregava se si spostava
nei viaggi, pregava prima di ogni incontro con le anime. […] Alla preghiera che
lo preparava alle prediche e, diceva, lo riempiva di amore a Gesù, univa poi,
sempre che poteva, la santa confessione. Era per lui il … collirio che gli
schiariva l’anima. Si confessava anche ogni giorno, se predicava ogni giorno. E
così la parola
di Dio “passava per il piccolo servo suo” come la luce attraverso una lastra di
cristallo o la corrente attraverso un conduttore»[67].
La preghiera mattutina e poi costante durante la giornata, lo studio accurato, l’adorazione eucaristica, e – peculiarità particolarmente preziosa – il «collirio» della confessione sacramentale, si direbbe quasi per vedere bene nella predicazione dove andare a colpire e dove chirurgicamente operare, o anche come riferisce Padre Dolindo per poter essere «lastra di cristallo» e «conduttore» di quella luce e di quella corrente che è Gesù Sacerdote per mezzo del “Sacerdote Gesù”. Ciò che è importante mettere in evidenza, qui, è la perfetta coincidenza tra insegnamento ed esistenza, tra ortodossia dottrinale e ortoprassi della vita, in questo sacerdote non solo dotto ma di santa vita, e perciò autentico maestro di vita sacerdotale.
Fermandosi alle apparenze furono in molti a rimanere ingannati rispetto alle qualità Padre Dolindo, per il suo aspetto così umile e dimesso lo si riteneva facilmente un pretino devoto più che un sacerdote dotto. Eppure don Dolindo, al principio del suo ministero fu professore in seminari e scuole e, da giovane, prima della tempesta che lo portò all’espulsione, fu addirittura stimato come «episcopabile» in seno al suo ordine religioso[68]. In seguito, già prima degli anni ’20, Padre Dolindo, ricercato direttore spirituale, mise in piedi a Napoli la cosiddetta “Scuola di Religione” che ebbe numerose allieve molte delle quali laureate e laureande, la cui maggior parte, nonostante tutte le tribolazioni successive del servo di Dio, continuò a ricorrere a lui via via negli anni per la formazione intellettuale[69]. Tra le figlie spirituali, in particolare, ci furono le colte sorelle La Rovere, figure di spicco poi entrate nell’Azione Cattolica e conferenziere in varie località d’Italia. Per mezzo loro ci fu per Padre Dolindo anche il contatto con Armida Barelli, la quale «quando veniva a Napoli spesso lo incontrava trattenendosi a volte fino alle undici di sera insieme alle figlie dell’Opera per ascoltarlo»[70]. Piace riportare riguardo alla straordinaria statura intellettuale e morale di Padre Dolindo il commento di un suo convertito divenuto poi ascoltatore assiduo delle sue catechesi, egli diceva: «Dal pulpito è un gigante ed è un genio. Avvicinatelo e lo trovate tanto umile. Tutti i grandi uomini sono così»[71]. Nella sua densa sinteticità, questa affermazione appare realmente un ritratto fedele del sacerdote e maestro di fede Don Dolindo Ruotolo. In lui la scienza era anche arcano dono di Gesù che gli parlava nel cuore, una scienza divina ricevuta, certo, ma tuttavia il servo di Dio sapeva molto bene che ciò non lo si esimeva dallo studio. Egli fu sempre consapevole dell’importanza della scienza frutto dello studio per la vita sacerdotale, così ad esempio ne zela l’esercizio e la serietà nel Libro sul Sacerdozio:
«Il Sacerdote non può
presumere d’insegnare se non è in grado di essere veramente un maestro nelle
cose di Dio, né può credere che gli basti solo un’infarinatura di studi sacri o
un buon numero di libri più o meno suggestivi, per prepararsi un discorso sulla
falsariga degli
altri; egli, proprio come un maestro, deve avere la padronanza della dottrina
cattolica, in modo da poterla comunicare illuminandola e rendendola convinzione
e persuasione delle anime. L’insegnamento non è una lezione imparata a memoria,
è tutto un patrimonio di dottrina del quale l’anima sacerdotale deve vivere per
farne vivere gli altri; richiede perciò una cognizione completa delle verità
della fede e della morale, non solo speculativa, ma pratica, che sia come
circolazione di vita soprannaturale nel cuore del Sacerdote, ed erompa da lui
come fontana d’acqua viva che irrori le anime e le faccia germinare nel campo
del Padre Celeste»[72].
La dottrina, quindi, per il servo di Dio non deve essere semplicemente conosciuta, ma deve essere studiata a fondo, amata, praticata, in una parola effettivamente posseduta, perché possa essere illustrata convenientemente, sbriciolata proporzionandola alle esigenze degli ascoltatori e applicata con sicurezza alle varie situazioni della vita. Tutto questo richiede nel sacerdote, è evidente, una conoscenza profonda e vissuta della dottrina cattolica.
Così anche per l’altro importantissimo ministero sacerdotale, la Confessione, come pure per la direzione delle anime, il sacerdote necessita di una preparazione seria ed accurata. Ecco il pensiero di Padre Dolindo in proposito:
«È un ministero che richiede
una grande preparazione di scienze sacre ed una grande santità. Non si può
confessare senza un’adeguata esperienza della vita, frutto di serietà, di
ponderazione e sopra tutto di grazia»[73].
Anche in questo caso tuttavia lo studio e la scienza umani, per quanto importanti ed utili, non bastano, occorre sempre essere uomini di preghiera, capaci di intuire nella luce di Dio ciò che occorre per guarire le anime e condurle nelle vie di Dio:
«È necessario essere
soprannaturalmente psicologi, cioè saper conoscere le anime, e saperle educare.
Non basta ascoltare i peccati ed assolverli, bisogna indagarne le radici, e sradicarli
dall’anima; diciamo pure che bisogna intuire per lume celeste la portata di
certe posizioni morali che si presentano al confessionale, e porvi rimedio […]
Chi confessa, deve guidare l’anima nelle vie del bene e della santità,
ispirandole un grande amore a Dio, un grande rispetto alle sue leggi ed una
vera superiorità sulle misere cose del mondo; deve formare l’anima sinceramente
cristiana e svelenarla di tutto ciò ch’è mondano o pagano»[74].
Il “sacerdote Gesù”, in somma, secondo Padre Dolindo, per essere all’altezza della sua altissima missione, deve sforzarsi di coniugare in sé molte qualità: essere un contemplativo, uno scienziato della fede, un uomo solido di vita virtuosa, un maestro di verità, un pastore e un apostolo.
Rispetto a questo suo apostolato, infine, a Don Dolindo premeva indicare una priorità, ossia la cura particolare che il pastore di anime deve avere dell’infanzia e della gioventù, perché come rileva giustamente il servo di Dio: «le tenere generazioni di oggi saranno gli uomini e le donne del domani». Riguardo all’apostolato presso i giovani Don Dolindo fa così riflettere:
«Oggi specialmente che la
gioventù è insidiata in tanti modi, ed è distratta, se non disorientata, da
ideali esagerati o falsati, è più che mai necessario educarla e condurla nelle
grandi ascensioni dello spirito. Non basta raccoglierla, bisogna formarla; il
semplicemente raccoglierla, può dare anche il deplorevole frutto di renderla
indisciplinata e irrispettosa nel luogo santo, e produrre in essa tutto al più
una parvenza di devozione. Bisogna istillare nella gioventù una fede viva, una
speranza incrollabile negli eterni beni, una grande carità verso Dio ed il
prossimo ed una profonda stima della preghiera. Bisogna istruirla con parabole,
paragoni, esempi pratici, ed abituarla a vivere soprannaturalmente, a
conversare con Dio, ad amare teneramente Gesù Sacramentato e Maria SS.»[75].
E ancora, continuando ad illustrare il suo metodo per quei tempi innovativo:
«Non basta insegnarle le
formole [sic] del Catechismo, bisogna fargliele comprendere; non basta
suggerirle le formole delle preghiere, bisogna abituarla a conversare col
Signore ed a meditare; l’anima
infantile, essendo scevra da umane deviazioni perché semplice, è più atta di
quello che si creda alle grandi elevazioni del cuore. A poco a poco,
conciliandosi l’affetto e la fiducia d’un piccolo, dominandolo con la dolce e
soave paternità spirituale, si può ottenere da lui un grande progresso e
formare del suo cuore un tabernacolo vivo di Dio»[76].
c) Il “sacerdote Gesù” Araldo dei diritti di Dio
Tutto ciò che è stato riferito in questa sezione della presente indagine rispetto alle dimensioni dell’annuncio e dell’insegnamento, della confessione e della direzione delle anime, risulta una congrua introduzione all’esplicitazione di una qualità che deve essere presente e ben sviluppata nella mente e nel cuore, nella parola e nelle opere, del sacerdote prolungamento della vita e della efficacia di Gesù Sacerdote. Questa proprietà è quella di essere un araldo di Dio, la cui parola d’ordine ha da essere il motto di Gesù nel Vangelo «Rendete a Dio ciò che è di Dio» (cf. Mt 22,21).
A questa dimensione nel Libro sul Sacerdozio Don Dolindo dedica un’intera considerazione[77]. Egli ne scrive con un tale ardore di fuoco e con un’impronta così personale da permettere di conoscere più da vicino anche un aspetto intimo del suo cuore sacerdotale. In Padre Dolindo, realmente, lo zelo per i diritti di Dio fu accesissimo, al punto da ricordare quello di Gesù Figlio di Dio per la gloria del Padre suo nell’episodio della cacciata dei mercanti dal Tempio (Gv 2,13-25)[78]. A proposito della vita quotidiana del sacerdote, soprattutto in relazione al mondo in cui si trova a vivere e ad operare, questa è la visione che Don Dolindo propone, una concezione grintosa finanche militante:
«Giornata combattiva è la
vita del Sacerdote, poiché egli è araldo di Dio, e come tale riguarda con
immensa pena le manomissioni della divina gloria nel mondo, travolgendole con l’impeto santo del suo amore e con la
potenza della sua attività. L’anima sua, ardente di zelo, guarda indignata lo
scempio che si fa dei diritti divini, e vorrebbe essere un cherubino, per poter
rivendicare a Dio il trono di amore e di vita che spetta alla sua maestà sulla
terra. In mezzo alla ridda degli umani interessi, fra le insidie del male che
dilaga dovunque, egli è il difensore degl’interessi di Dio e l’argine posto
alla marea dell’iniquità»[79].
Vivissima, come si vede, fu in Don Dolindo la percezione della rovina morale del mondo in cui egli aveva a svolgere il suo ministero. Per Padre Dolindo il sacerdote araldo:
«Nella sua vita intemerata e
santa, […] sta ritto come sugli spalti della Chiesa, ed al mondo […] che trascinato dal
proprio tornaconto, non conosce altro ossequio che quello dovuto ai prepotenti che lo governano,
a tutte le genti apostate e ladre della divina gloria, grida con tutto l’impeto
della verità e della giustizia: Rendete a Dio ciò ch’è di Dio. È questa la
parola d’ordine del suo apostolato, ed egli, qual Cherubino dalla spada
fiammeggiante, non può tollerare che continui sulla terra questa pirateria della divina
gloria!»[80].
Rispetto a questa «pirateria della divina gloria» le riflessioni del servo di Dio, maturate nella prima metà del secolo scorso, risultano oggi, in effetti, anche più calzanti ed attuali, visti gli esiti di secolarizzazione cui la modernità è giunta, e considerata l’escalation inarrestabile di immoralità veicolata attraverso la televisione e il cinema, e soprattutto internet, mezzi di comunicazione, questi, che ai tempi in cui scriveva don Dolindo non erano ancora sviluppati. Per fronteggiare i guasti che lo spirito del mondo ha prodotto nei costumi, non solo della gente del mondo ma anche dei fedeli cristiani (basti pensare in Occidente alla bassissima frequenza alla Messa domenicale e al degrado della moda indecente e spersonalizzante, …), il sacerdote deve essere un uomo pieno dello Spirito di Dio, integro e di virtù provata in grado di denunciare, forte della sua libertà morale e con parresia credibile, l’assurdità che l’uomo creato libero da Dio e per Dio sia ribelle all’autorità di Dio e si ritrovi così infelice schiavo di sé e delle sue passioni disordinate, e in ultima analisi a motivo dei peccati sottomesso al “Principe di questo mondo” (cf. Gv 8, 34.44). Nel tentativo di ridestare nei sacerdoti questa esigenza derivante dalla loro identità e, quindi, intrinseca alla loro missione, Padre Dolindo mette a frutto le sue grandi qualità oratorie, quando scrive:
«È lui [il sacerdote] che deve chiamare al rendiconto il mondo
apostata e domandargli con la forza del suo amore: E’
lecito dare il tributo della propria vita al Cesare che domina nel mondo, alle esigenze della
supposta civiltà, alle pretese della carne ed alle prepotenze della natura? Si
può tollerare più che l’uomo, redento da Gesù Cristo, sia sotto il tributo di
satana o dei ministri di satana? Come si può dare al mondo, al demonio ed alla
carne chi ha l’impronta di Dio e le orme del Sangue del Redentore? […] Nessuna
moneta può avere un’iscrizione più chiara ed un’immagine più precisa, quanto la
moneta del nostro tributo di amore a Dio: noi stessi! Come potremmo esitare?
Chi creandoci ci ha impresso la sua immagine viva, e chi redimendoci ha segnato
con caratteri di Sangue divino il titolo del suo possesso? Diamoci a Dio perché
è un atto di giustizia: Reddite quae sunt Dei Deo.
Giornata di combattimento è
quella del Sacerdote, perché lo spettacolo che il mondo offre di sé, eccita
l’anima sua a reagire, a resistere al male, a vincere l’ingratitudine umana!»[81]
A meditare attentamente le considerazioni di Padre Dolindo, specie innanzi alle macerie morali del mondo in cui oggi si vive, c’è perfino di che commuoversi! Ma tali emozioni, se sono buone non possono lasciare inerti, devono muovere, appunto, essere finalizzate all’impegno per la causa di Dio. Prezioso è il contributo che Don Dolindo, con la sua intelligenza acuita e sostenuta dall’amore di Dio, si sforza di offrire anche in prospettiva di riflessione teologica apologetica, appoggiandosi a preambula fidei e ad armonie razionali. Egli, dopo aver descritto la gloria data a Dio dai cori degli angeli, dai cieli e dalla vita sulla terra, fa riflettere l’uomo:
«Tutto l’universo dunque,
tutto il creato ripete in mille modi svariati e in mille armonie: Rendete a Dio
ciò ch’è di Dio! E l’uomo solo potrà rimanere insensibile ed insensato fra
tante voci? L’uomo, fatto con disegno speciale ad immagine di Dio, e segnato
per divina misericordia dal carattere del Verbo Umanato, l’uomo che porta in sé
l’immagine del Re eterno e l’iscrizione del titolo del suo dominio, deturperà
l’immagine, cancellerà il titolo, e si renderà vile moneta del censo di Satana?
Come può delirare così questa piccola creatura, da pretendere di tacitare le
voci che gridano dai cieli e dall’universo, da proclamarsi senza Dio, e darsi a
satana, rendendosi sua schiava? Come può negare Colui che è, se egli è; Colui
che è Sapienza, se egli intende; Colui che è Amore, se egli sente in sé un
cuore che vuole amore? Il raggio non porta al sole? Come potrebbe esservi il
raggio senza il sole? Chi potrebbe troncare dal sole il sottilissimo filo d’oro
del suo raggio? Ascendi dunque sui fili della tua stessa natura, o uomo;
osserva quel che sei, e troverai in te l’immagine e l’iscrizione di Dio, mettiti
sul cammino stesso della tua intelligenza e della tua volontà, e vedrai da
quale fonte derivano questi raggi, giungendo fino a Dio. Il tuo tributo non è
schiavitù è elevazione, è libertà, è vita, tu dunque rendi un tributo che ti
frutta la vita»[82].
Chi non avverte quanto nel clima culturale di oggi, così secolarizzato da vivere e riflettere sistematicamente etsi Deus non daretur, ci sia bisogno di questo stile di annuncio a livello di teologia naturale fondata sul senso comune, su questi elementi di filosofia spontanea pre-riflessa che ogni uomo porta con sé? Don Dolindo ai suoi tempi ne fu consapevole e anche oggi rimane, perciò, un maestro da ascoltare attentamente. Nel Libro sul Sacerdozio egli insegna pregando:
«Il Sacerdote deve vivere
tutto compreso da questi pensieri, per vendicare l’onore e i diritti di Dio …
Non può cedere al male, all’errore, alla prepotenza, alla natura; è un araldo
della divina gloria! … Rendimi, o Gesù, tutto pieno di Te, affinché io faccia
sentire in me la tua voce, e vendichi, amando, la gloria del Padre tuo»[83].
Grande è il merito di Padre Dolindo nell’aver tanto sottolineato questa dimensione araldica nell’ambito del sacerdozio, talmente essenziale da investire non solo il ministero della predicazione, ma ogni aspetto della vita del “sacerdote Gesù” che vuole far “vedere e operare” Gesù Sacerdote, come si è visto nella prima sezione di questo studio. Tale opera di restituzione a Dio di quanto gli è stato sottratto in questo mondo secolarizzato nelle menti e dissacrato nei corpi, tuttavia, ha un mezzo che è il più potente e che è impossibile trascurare, ossia il Santo Sacrificio istituito da Cristo e affidato alla sua Chiesa perché sia ripresentato e riattualizzato in ogni luogo e tempo. Esso, come è universalmente noto, è volto a dare la possibilità ad ogni uomo di entrare in contatto con quel sacrosanto Corpo e Sangue, talmente prezioso che ne basta una sola stilla per riconsacrare tutto il mondo a Dio e riscattare l’umanità che lo riceve ben disposta. Don Dolindo, ovviamente, se ne mostra avveduto e così ne scrive:
«La Messa è un tributo di
sudditanza, poiché è il sacrificio che attesta e proclama la divina regalità;
or dunque io t’offro questo tributo che Tu stesso m’hai dato. […] Ti offro, o
Gesù, come tributo dell’umanità peccatrice: usaci misericordia! Ti dono come
prezzo del nostro riscatto: rinnovaci nell’amicizia di Dio!»[84].
I sacerdoti nella loro attività di araldi non devono dimenticare, ma bensì valorizzare massimamente, il valore immenso posto nelle loro mani nell’offerta del Santo Sacrificio. Nulla ha più valore nell’opera a cui sono chiamati, vale a dire la riconsacrazione a Dio delle anime e del mondo. Si situa qui, in effetti, la considerazione del legame intrinseco tra la dimensione dell’annuncio dei diritti di Dio e l’atto di religione che li riconosce. In questo contesto è da ribadire anche la necessità di offrire alla Divina Maestà un culto che sia degno, certo grazie alla fedeltà alle Sue promesse da parte di Gesù Cristo che ritorna realmente presente col Suo Sacrificio di Croce, ma anche per un culto che sia degnamente celebrato sugli altari nella liturgia, manifestandoLo così più chiaramente agli occhi degli uomini secolarizzati di oggi. In questo sembra da evidenziare come la legge promulgata dal Santo Padre Benedetto XVI nel Motu Proprio Summorum Pontificum abbia aperto la via alla ripresa di una grande fonte di sacralità in quella forma “più antica” del Rito Romano celebrata con il Missale del 1962, monumento di tradizione ecclesiale, che tanto può influire per il recupero e la conservazione della sacralità anche nella celebrazione del Santo Sacrificio nella sua forma ordinaria e oggi più diffusa, ossia secondo la riforma promulgata da Paolo VI[85].
IV) Il “Sacerdote Gesù”: vittima di amore con il gran dono dell’immolazione
a) Il sacerdote nello stato di vittima d’amore
La Santa Messa ripresenta misteriosamente, nel qui ed ora della celebrazione liturgica, l’offerta numericamente una del Sacrificio della Croce, nella quale Gesù Cristo è, ad un tempo, Sacerdote e Vittima. La consacrazione di Cristo Sacerdote, unto fin dal primo momento del suo concepimento nel Grembo dell’Immacolata, a motivo dell’unione ipostatica con la Persona divina del Verbo, fu una consacrazione vittimale[86]. Le parole di Gesù nell’ambito del discorso sacerdotale dell’Ultima Cena, ancora, lasciano intendere come anche la consacrazione degli Apostoli, ovvero dei primi sacerdoti ordinati della Nuova Alleanza, sia strettamente legata alla Sua consacrazione vittimale[87]. La qualità di vittima, perciò, può dirsi essenziale all’identità del prete e, pertanto, è importante che sia ben espressa nella vita sacerdotale.
Nella considerazione XX, ossia quella conclusiva della prima parte del Libro sul Sacerdozio, quasi a mo’ di sintesi eminente di quanto già esposto, Padre Dolindo parla in effetti del sacerdote come vittima di amore, come pure del gran dono dell’immolazione[88]. Egli ebbe, realmente, una comprensione speciale di questa dimensione essenziale, così egli ne scrive a più riprese:
«Il Sacerdote è vittima, e
deve immolarsi ogni giorno per la gloria del Signore e per la salvezza delle
anime come olocausto di grato odore innanzi al trono di Dio Uno e Trino; deve
risplendere innanzi alle anime come fiamma ardente, e fare atti di continua riparazione
per attrarre sulla terra la misericordia di Dio. […]
Senza bisogno di una
particolare offerta, il Sacerdote è per il suo medesimo stato, vittima di
riparazione, poiché rappresenta Gesù Cristo, vittima per eccellenza, e deve non
solo apprezzare questo stato privilegiato, ma desiderare che in lui si realizzi
sempre più, in modo da essere anch’egli come un crocifisso vivente, immagine
del suo Signore. […]
Il Sacerdote è anima vittima
per eccellenza; per il carattere sacro, rappresenta Gesù Sacerdote, rinnovando
sull’Altare la sua offerta incruenta, e nella propria vita il suo stato
d’immolazione. L’imposizione che lo rese Sacerdote in eterno, fu anche
l’imposizione consacratoria della vittima; egli allora divenne come il capro
espiatorio: raccolse su di sé le responsabilità altrui, fu separato dal mondo,
quasi come il capro che si cacciava lungi dalla città nel deserto, e scelse per
sua porzione il sacrificio»[89].
Da questi brani emergono vari dati interessanti: innanzitutto Don Dolindo ricorda come l’essere prete significa essere «vittima di riparazione», essere posto e costituito in uno stato vittimale. Egli fonda tale proprietà sull’imposizione delle mani alla ricezione del sacramento dell’Ordine e sulla realtà del carattere sacro che consente al sacerdote di essere la «rappresentazione di Gesù Sacerdote». La rappresentazione di cui Padre Dolindo parla, ovviamente, non è una mera rappresentazione esteriore, ma è una partecipazione ontologica e un’unione dinamica nella rinnovazione sull’altare dell’offerta incruenta. Ciò comporta per “la perla del clero napoletano” una conseguenza dal punto di vista morale, ossia che anche la vita quotidiana del sacerdote deve «rinnovare» e ripresentare quella «di immolazione» di Cristo.
Questo concetto è realmente molto caro a Don Dolindo, egli sa quanto sia importante per il sacerdote ponderare questo aspetto della sua identità per darsi totalmente a Dio, senza rimpianti per le cose del mondo cui ha rinunciato nella sua consacrazione. Egli vi ritorna a più riprese, convinto che questa consapevolezza «può staccare veramente e radicalmente un Sacerdote dalla vita del mondo». Da ciò per il servo di Dio può dipendere la stessa riuscita di una vita sacerdotale, con tutto ciò che ne consegue per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Così scrive:
«Egli [il Sacerdote] non
solo non deve guardare il suo altissimo stato quasi come un’infelicità, desiderando
il mondo come un campo di godimento e di libertà, ma deve apprezzare altamente
lo stato d’immolazione e di vittima nel quale si trova, perché sta in questo il
segreto per appartarsi dalle tristi abitudini del mondo, e per avere una grande
fecondità soprannaturale. […]
Quando si persuade di questa
sua particolare e privilegiata condizione, quando sa di dover adorare, ringraziare,
riparare e pregare per il popolo, quando pensa che deve riparare non con
semplici parole, ma con la penitenza, col sacrifico, con la piena immolazione
di sé, come possono nascergli nel cuore desideri di terra? […]
Egli non si sacrifica perché
subisce quasi una sorte infelice, come potrebbe suggerirgli satana, ma perché è
elevato ad altissimo stato di paternità soprannaturale che richiede per
necessità la piena immolazione di sé alla gloria di Dio ed al bene delle anime»[90].
È impressionante l’insistenza con cui Padre Dolindo non cessa di sottolineare tali concetti: lo stato di vittima è lo stato del sacerdote, la vita del sacerdote è una vita di immolazione, questo stato è frutto di una scelta che esalta la libertà nell’amore della persona umana e dona al sacerdote che lo vive la gioia di una grande fecondità spirituale. È così, in effetti, che il sacerdote diventa realmente «padre» delle anime. Don Dolindo ritiene che su questi punti ogni prete debba molto meditare:
«È
necessario perciò approfondire la fecondità dell’immolazione, e considerare il
pieno abbandono
col quale l’anima sacerdotale deve maggiormente darsi a Dio per accrescere
questa fecondità.
È un soggetto di altissima importanza, che può da solo dare alla vita del
Sacerdote tale elevazione di santità, da renderlo veramente padre, come lo
chiama spontaneamente il popolo, padre di una lieta
generazione di
anime rinnovate dal suo ministero, e sorrette nel loro cammino dalla sua
immolazione continua. Il non apprezzare sufficientemente la grandezza e la
natura dell’offerta ch’egli fa al Signore, quando pieno di gioia lo elegge come
sua porzione, e donandogli il suo giglio verginale gli si consacra, può essere
tante volte la causa di quelle deviazioni che isteriliscono la sua vita
facendogli persino credere di avere sbagliato strada, d’essersi perduto, di non
poter far altro bene in mezzo al popolo»[91].
Si vede qui come, per Don Dolindo, la mancanza di ponderazione della grandezza e della bellezza del sacerdozio come stato di vittima, come pure di ciò che ne deriva, non solo rischia di frustrare grandemente la fecondità sacerdotale, ma rende pure il prete maggiormente vulnerabile rispetto alle ingannevoli seduzioni di satana e, di conseguenza, rischia di minare anche la sua stessa perseveranza nel servizio del Signore.
b) Il gran dono dell’immolazione
Per far comprendere ancora meglio che cosa significhi per il sacerdote generare anime alla vita di grazia Padre Dolindo si lancia suggestivamente in uno dei suoi arditi paragoni. Egli osserva:
«L’uomo è come re del
creato, scruta le opere di Dio, modella la materia ch’Egli gli ha dato, applica
le leggi che scopre nell’armonia dell’universo, ma è sempre infinitamente
distante da Lui, e tutto il suo faticoso lavoro è quasi nulla di fronte alle
opere del creato. Anche le applicazioni di leggi naturali che più
c’inorgogliscono, come l’elettrotecnica, la radio e la televisione; anche le
opere che più ci sembrano colossali, come i grandi monumenti, i bacini
artificiali, le grandi arterie di comunicazioni col mondo, non aggiungono nulla
al creato e sono tanto lontane dall’avvicinarci al Signore e dal renderci
collaboratori della sua potenza»[92].
L’uomo modella la materia, la trasforma anche in modo molto sofisticato, ma non ne è mai il creatore in senso stretto ed in fondo, come Don Dolindo con umorismo si diverte a far notare:
«le nostre opere sono
giocattoli che servono ai nostri usi e che il tempo dissolve o il progresso
deride. Dio ci lascia operare, ma certo non ha bisogno delle nostre dighe o
delle nostre dinamo per regolare il corso delle leggi del mondo»[93].
Per il servo di Dio, tuttavia, c’è un caso che fa eccezione alla legge per la quale l’uomo non crea ma unicamente trasforma, si tratta però di una “energia” soprannaturale:
«Solo quando ci doniamo a Lui
come vittime di amore nel Sacerdozio, Egli ci fa in qualche modo creatori di
novelle manifestazioni della sua grazia, poiché si serve di noi per fecondarle,
per accrescerle, per farle fiorire e diffonderle»[94].
Padre Dolindo ha modo, così, di illustrare la profondità di questa sua dottrina della dimensione vittimale sacerdotale come creatrice di nuova vita soprannaturale, ecco come spiega:
«L’anima vittima è tutta
donata alla Vittima divina, fa parte di Lei, è parte privilegiata del suo Corpo
Mistico, e continua, e compie in tante anime quello che loro manca della
Passione e morte della Vittima di amore. Se si potesse valutare come una grazia
differisce dall’altra, e come un’immolazione può donare nuovi, originalissimi e
profumati fiori di grazia, s’intenderebbe come l’anima immolata genera il bene
cooperando con Dio. Essa non vivifica o sviluppa un germe comune, non riproduce
un tipo già esistente, ne forma uno nuovo, e per formarlo, dona a Dio se stessa
come sposa, e sotto l’azione della grazia diventa feconda del Cristo, perché lo
genera nelle anime, cooperando a dar loro una vita novella che le trasforma in
Lui e per Lui in nuove creature. Che cosa grande è un’anima vittima! […] Gesù
Cristo se l’associa, ha bisogno quasi di lei, poiché in lei quasi rinasce, e da
lei e per lei ancora una volta si dona come vittima cruenta, diffondendo nelle
anime novelli tesori di redenzione amorosa, purificandole, trasformandole,
sublimandole. Dio ha nell’anima vittima l’orto nel quale discende, il Verbo ha
il terreno nel quale semina la vita, lo Spirito Santo ha il canale per il quale
la fa fiorire e fruttificare. Non ci sono ristrettezze di attività per un’anima
vittima, perché donandosi a Dio è da Lui stesso arricchita, e possiede la
potenza di operare anche in distanza, fin là dove il vento delle tempeste che
l’agitano, porta, per così dire, il polline fecondante del suo amore»[95].
Meravigliosa quest’ultima similitudine nella quale l’immolazione dell’anima vittima, con la sua efficacia di grazia a distanza spazio-temporale, nel Corpo mistico di Cristo e secondo la Provvidenza di Dio, è accostata per il suo amore diffusivo al polline fecondante sbattuto e portato dal vento delle tempeste in cui essa si dibatte. A rimanere evidenziato, tra l’altro, è qui come la profondità della dottrina in Padre Dolindo sia spesso unita ad un’elevata ispirazione poetica, e allo stesso tempo ad una sapienza veramente biblica perché saporosa e sempre pratica, capace di applicazioni morali generatrici di conversione. Per Padre Dolindo, infatti, per quanto sublime e nobilissimo, «Il Sacerdote non può pretendere che il suo stato di vittima diventi uno stato di comodità». Ciò sarebbe, invero, una contraddizione che lo renderebbe falso rispetto a quella che è la sua identità. Su questo molto hanno da riflettere quanti propongono, oggi, modelli di vita sacerdotale compromessi con la vita provvista di ogni comfort secondo il mondo e dimentichi della sempre necessaria dimensione ascetica.
Ad ogni modo il servo di Dio ci tiene ad offrire argomenti anche a sostegno di quei sacerdoti che hanno inizialmente abbracciato la loro vocazione di vittime, ma che, col passare del tempo e per il peso delle sofferenze, si sentono venire meno e pregano Dio per trovarsi liberi da questo fardello così gravoso, Padre Dolindo per parte sua li fa riflettere:
«L’immolazione non si
ritratta, e per quanto l’anima si agiti nelle pene dicendo a Dio che non ne può
più, il Signore non può ascoltarla se essa immolandosi sta cooperando ad un
novello frutto di vita. Ritirarsi dalla croce, significherebbe troncare una
maternità spirituale ben più importante e sublime di quella corporale;
significherebbe l’aborto di una vita che doveva nascere, di una grazia che
doveva effondersi, di un amore che doveva accendersi»[96].
L’accostamento è qui ben noto: la paternità soprannaturale del sacerdote rispetto alle anime di Dio e la maternità naturale della sposa che dona figli al suo sposo. Questa sorta di tradizionale analogia, riposante sulle celebri parole di san Paolo: «figlioli miei, che io partorisco di nuovo nel dolore finché sia formato Cristo in voi» (Gal 4,19), è qui felicemente elaborata dal servo di Dio:
«Quale sposo, ascoltando le
grida della maternità della sua sposa spezzerebbe il vincolo che con lei ha
contratto? Egli, anzi, a quel grido esulta, poiché allora nasce una vita
novella. Le anime vittime gridano internamente o esternamente nella loro
maternità spirituale, per la debolezza della natura, ma Dio non può ascoltarle
e troncare la loro ammirabile maternità. Egli le aiuta, le sostiene, le
consola, ma non le ritira dall’Altare dove esse si sono immolate».
Padre Dolindo, sempre svolgendo l’analogia con la maternità naturale, già minacciata dalla tentazione svelta e terribile dell’aborto che a quei tempi era però ancora un reato perseguito dalla legge, fa anche riflettere in questo senso il sacerdote sulla grande responsabilità che egli ha contratto rispondendo a questa vocazione:
«Il Sacerdote non può in
nessuna maniera sfuggire all’immolazione che gl’impone il suo stato e pretendere
di conciliare la sua vita con quella del mondo. La madre che tronca
colposamente la maternità, volendo sfuggire ad un dolore, incorre nei rigori
della legge e cade in dolori più gravi, senza la gioia della vita che nasce.
L’anima vittima che si lascia ingannare dalle preoccupazione del suo sacrificio
e rifiuta praticamente di continuare la sua maternità spirituale, cade nei
rigori della giustizia divina, e passa dalla Croce di Gesù a quella del cattivo
ladro; croce disperata sulla quale echeggiano solo parole di mormorazione e di
maledizione»[97].
Se il sacerdote deve avere presente e temere questa possibilità tremenda, così drammaticamente esemplificata nell’immagine del passaggio dalla Croce di Cristo a quella del ladrone cattivo, Don Dolindo si premura di far notare come nell’analogia il sacerdote deve ricordarsi, in mezzo ai suoi spasimi, della «grazia immensa di poter cooperare alla vita di un’anima»:
«La concezione di una vita
umana produce tanti sconvolgimenti nel corpo: nausee, vomiti, svenimenti,
insonnie, gonfiori, fastidi; eppure la madre pensa alla vita che si sviluppa ed
è lieta nelle pene della sua maternità, abbandonandosi quasi ciecamente alle
arcane leggi di Provvidenza che la governano. Il Sacerdote, nei suoi dolori,
pensi alla grazia immensa di poter cooperare alla vita di un’anima, ed invece
di agitarsi, si abbandoni all’Amore di Dio che lo immola, esultando il Lui, in
una piena unione alla sua Volontà»[98].
Realmente può dirsi che Padre Dolindo, da vero maestro di vita sacerdotale, non trascura ogni sforzo, in positivo e in negativo, per stimolare ed ammonire i suoi confratelli a vivere questo stato vittimale nell’immolazione, che – in mezzo alle fatiche e alle prove che comporta – dona però all’anima la grande pace di vivere nella volontà di Dio e la gioia immensa di dare alla luce del Paradiso un’abbondante corona di figli.
c) Padre Dolindo sacerdote-vittima per i sacerdoti?
Solo chi conosce la vita di Don Dolindo, d’altra parte, può percepire quanto autobiografico si faccia il dettato dolindiano sul finire di questa ultima considerazione della prima parte del Libro sul Sacerdozio. Per esempio, quando egli scrive:
«La vita del Sacerdote che
di per sé è un’immolazione, può avere
un privilegio singolare quando è sacrificata tra le malattie, le umiliazioni e
le stesse persecuzioni. Chi vuol fare veramente del bene non può aspirare alla
tranquillità ed ai trionfi; si trova tra le lotte del mondo e tra quelle di
satana, e può anche essere ridotto come Giobbe, tutto piaghe, sotto un cumulo
di obbrobri»[99].
E ancor più, quando spiega:
«Non è raro il caso di un
Sacerdote che sembra quasi reietto, incompreso, oppresso, e che il mondo
riguarda come uno sventurato. La sua vita provata ed umiliata pare senza scopo,
la sua attività inesorabilmente troncata, il suo cuore è ulcerato, tante sono
le sventure che l’opprimono. È in questi periodi che bisogna maggiormente
donarsi a Dio in olocausto di amore, unendosi alla sua Volontà, e senza
indagare le ragioni di quello che avviene, abbandonarsi con piena fiducia al
Signore. È proprio in questi momenti che il Sacerdote è maggiormente Sacerdote,
e che la bontà di Dio lo cura. È necessario avere una grande fede per crederlo
e non smarrirsi. Nelle vie dell’immolazione Dio ci guida come infanti, e bisogna
lasciarsi portare dal suo amore»[100].
Se poi qualcuno, oltre a conoscere la vita sacerdotale di Padre Dolindo, si accosta ed approfondisce la sua dottrina e la sua spiritualità sacerdotali – come il presente studio ha tentato di fare, evidenziando le qualità di Don Dolindo come maestro di vita sacerdotale – si avverte, realmente, un certo smarrimento su come sia stato possibile che il servo di Dio abbia subito tante umiliazioni ed avvilimenti[101].
A lasciare perplessi sono soprattutto quei circa 19 anni di sospensione a divinis, imposti dalle competenti autorità della Chiesa con l’avallo dei regnanti Sommi Pontefici[102]. Più in particolare è la lunghissima seconda sospensione (16 anni: 1921-1937) a rimanere poco comprensibile per un sacerdote come il Padre Dolindo, impulsivo singolare e addirittura sui generis, sì, ma anche indubbiamente obbediente dotto e pio, autenticamente innamorato di santa Madre Chiesa. Se a questo si aggiunge, inoltre, l’amarezza del vedere messo all’Indice dei libri proibiti quella che è stata la grande Opera della sua vita come sacerdote maestro di fede, ossia i volumi del Commento alla Scrittura, che pure tanto favore avevano riscosso in un primo momento presso la gerarchia cattolica e il popolo di Dio! Davvero non si può che convenire che il Signore ha guidato il suo figlio Dolindo, nel cui cuore secondo la “canonizzazione” di Padre Pio vivente «C’è, c’è stato e sempre ci sarà il Paradiso», come un bimbo per le vie dell’immolazione, annichilendolo come olocausto del Suo Amore.
Perché? Come è stato possibile? Tra i molti motivi di storia del salvezza che potrebbero essere addotti per cercare di spiegare un disegno della Volontà di Dio assolutamente tra i più sbalorditivi, sembra opportuno indicarne uno precipuamente sacerdotale, ossia l’istanza della riparazione rispetto a quanti hanno abusato o vissuto indegnamente il loro sacerdozio, un’intenzione, questa, urgente forse come non mai negli ultimi cinquanta anni.
Se si scorrono le pagine dell’Autobiografia, del resto, si può dire che Don Dolindo ne fosse perfettamente cosciente. Ecco a mo’ d’esempio lo stralcio di una “parlata” (locuzione interiore) di Gesù a Padre Dolindo:
«Dissi di volerti fare un
monumento della mia misericordia e lo farò e lo faccio e lo sto facendo […]
Quando mai ho eletto un nulla come te a sintetizzare in sé i frutti del mio
Sangue? […] Sono quattro
anni che tu sei in questa via di misericordia, ma il lavoro che compirò su di
te sarà ben superiore e lo vedrai. Vedrai come ti tormenterò .. sarai
crocifisso con me […] ti farò agonizzare di pene, e questo sarà un tratta della
mia misericordia»[103].
Questo il relativo commento di Don Dolindo:
«Queste parole di Gesù sono
state una realtà grande sino ad oggi (1923), e per questo dico che non
potettero essere che sue. Erano un programma ed una promessa. Egli voleva la
mia immolazione, ed io la sera del 9 giugno 1910, innanzi al SS. Sacramento gli
giurai solennemente la mia totale dedizione e mi immolai a Lui come vittima»[104].
Qualunque valore si voglia attribuire alle “parlate-locuzioni” di cui Don Dolindo fu oggetto-soggetto nel suo sacerdozio, resta per lo meno la realtà dell’ispirazione interiore, confermata dal direttore spirituale (P. Volpe) cui il servo di Dio volle rispondere con generosità e dedizione assolutamente straordinarie.
Dieci giorni dopo, infatti, sempre previo permesso del padre spirituale, Padre Dolindo fece voto di celebrare la S. Messa senza elemosina come «atto di riparazione per tutti i sacrilegi che si fanno celebrando la S. Messa»[105]. Queste alcune delle parole di Padre Dolindo all’atto del voto, lette prima della Comunione durante una Messa servita a mons. Mazzella, Vescovo di Rossano Calabro, presso il quale il servo di Dio viveva:
«Gesù mio, in omaggio del tuo Sacerdozio, in espiazione dei
sacrilegi che si commettono e dei disprezzi che tu hai Sacramentato […] Mi ti
offro come vittima di espiazione e di amore, mi abbandono totalmente nelle tue
mani. Non sono più mio Gesù mio, ma solo e tutto tuo! Colmami di amarezze, di
strazi, di aridità, acciò io almeno ti faccia sorridere di amore a tanti
disprezzi che ricevi dai Sacerdoti che non ti amano. […] Mio Gesù, suggella
questo mio atto col tuo Corpo santissimo, e voglio che esso resti
incancellabile per qualunque evento. Io tuo povero figlio ingrato: Dolindo Ruotolo
Vittima del tuo Cuore e dei tuoi Sacerdoti. Amen.»[106].
Si comprende meglio, così, come attingendo alla sua stessa esperienza vissuta in Gesù Sacerdote e Vittima, come vittima del Suo Cuore e dei Suoi Sacerdoti, Padre Dolindo abbia potuto approfondire ed illustrare così magnificamente questo aspetto dell’identità sacerdotale. Ecco un ultimo saggio di questa sapienza sacerdotale vittimale, degno di menzione per il suo elevato riferimento teologico-trinitario:
«L’anima vittima è la più
umile e la più glorificante immagine della SS. Trinità fra le creature
ragionevoli; una trinità negativa, se può dirsi così, che raccoglie nella sua
convessità la luce dell’eterna ed individua Trinità. Essa è tutta dolore e nel
dolore è potenza che attira sulla terra la potenza di Dio; nel dolore conosce
se stessa e conoscendosi come nullità apprezza Dio sopra tutte le cose;
soffrendosi e conoscendosi s’immola, e la sua immolazione è amore che la
sublima nell’Eterno Amore»[107].
Se inestimabili sono, realmente, nell’economia di Dio Unitrino, il valore e l’efficacia di ogni anima vittima ad immagine ed in comunione con Cristo Vittima, particolarmente eminenti lo sono poi, evidentemente, quando l’anima vittima è quella di un sacerdote più strettamente configurato nel suo essere a Cristo Sacerdote e Vittima. In questo caso la «convessità» che attira e raccoglie la luce della Santissima Trinità offre agli occhi e ai cuori delle persone di questo mondo la realtà della ripresentazione di Colui che, nel Prologo di san Giovanni, è detto «la vita che è luce degli uomini» (Gv 1,4). È, questa, a partire dalla realtà sacramentale che si prolunga nella fedeltà ad una vita di immolazione, la più grande benedizione che possa darsi per la salvezza nella Chiesa degli uomini di questo mondo.
Giunti al termine della presente ricognizione, infine, sembra difficile trovare di meglio che richiamare le stesse parole conclusive della prima parte del Libro sul Sacerdozio, ovvero l’inno di gratitudine che il servo di Dio Dolindo Ruotolo, sacerdote vittima, eleva al suo Dio Uno e Trino che, per amore, gli ha dato la gloria eterna dell’immolazione vittimale. Così prega don Dolindo:
«O Amore Eterno, come potevi
manifestarmi maggiormente il tuo amore che immolandomi? Chi avrebbe potuto dare
al mio cuore la nobiltà della vittima, chi questi fiori del Calvario, chi
queste spine della tua regale corona, se non l’amore? Come potrei rispondere a
tanta carità lamentandomi? Come potrei crederti ingiusto o sordo, se Tu
m’avvinci con la misericordia?
Ti ringrazio che mi hai
immolata, o Gesù, e guardo alle mie
pene con la gratitudine di chi ha ricevuto un grande tesoro. Insegnami Tu a
custodirlo, poiché l’agitazione potrebbe farmelo sperperare, e la ribellione
potrebbe farmelo calpestare. Stringetevi al mio cuore, fiori del Calvario,
stringetevi alla mia fronte, spine del Crocifisso, ammantami pure, o veste
bianca del suo ludibrio, spogliami di tutto, o nudità regale della sua
immolazione.
O Santissima Trinità, io ti
lodo con la piccola armonia di tute le mie pene, e mentre il mondo ti rinnega e
ti bestemmia con la scusa di togliere il dolore dal cuore, io ti benedico e
bacio le tue divine disposizioni nella mia povera vita, adorandoti!»[108]
Se si richiamano per un attimo alla mente le parole di Padre Dolindo circa i suoi sentimenti ad avvenuta ordinazione – «Non ebbi né fervore né emozioni, siccome avevo domandato in grazia, ma mi sentii sensibilmente un altro uomo» – risulta evidente come la sua riflessione a partire da quella percezione così singolare – «Avvertii l’Ordine Sacerdotale, il Sacro carattere in una maniera che non so esprimere a parole» – in quello che è stato il meraviglioso approfondimento di tutta una vita in risposta ad una vocazione sacerdotale straordinariamente vittimale, lo spinse davvero ad una comprensione teologica altamente sapienziale, la quale rimane ancor oggi come uno scrigno di gioielli lasciato in eredità ai sacerdoti suoi figli e confratelli.
P. Massimiliano M. P. Degasperi, FI
ffi.benevento@gmail.com
[1] D. Ruotolo,
Fui chiamato
Dolindo, che significa dolore. Pagine d’autobiografia, I, Apostolato Stampa, Napoli-Benevento 41989,
81. Nel corpo del testo, per semplificare, tale opera è detta l’Autobiografia.
[2] D. Ruotolo,
Nei raggi
della grandezza e della vita sacerdotale. Meditazioni per i Sacerdoti, La Florindiana, Napoli 21940, 40. Nel
testo vi si fa riferimento come al Libro sul Sacerdozio. Questa opera è divisa in quattro parti. La prima è
appunto dedicata alla grandezza ed ai doveri del sacerdozio, la seconda è
costituita da elevazioni sulla Santa Messa (179-470; qui il commento fa
riferimento alla Santa Messa “tridentina”, ora ritornata d’attualità per il
rispristino che è avvenuto con il Motu Proprio Summorum Pontificum che la definisce come la forma antica e straordinaria
del Rito Romano). La terza parte sono meditazioni sullo Spirito Santo in
riferimento anche alla vita di apostolato (471- 638); la quarta infine è
intitolata Qui
pascitur inter lilia (639-764) e tratta
delle necessarie purezza e castità per vivere bene il sacerdozio. Il libro è
ancora disponibile nell’edizione citata presso la Casa Mariana Editrice di
Frigento (Av), tuttavia è ormai imminente la pubblicazione di una nuova
edizione, che dovrebbe arrivare entro l’Anno Sacerdotale. Per informazioni
rivolgersi a Casa Mariana Editrice - Apostolato Stampa”, Vico Strettola S.
Teresa degli Scalzi, 4 - 80135 Napoli Tel/Fax: 081/544.70.03; http://www.casamarianaeditrice.info/come_ordinare.html
.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem, 40-41. Il corsivo è del redattore.
[5] Ibidem, 41.
[6] Ibidem, 145.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem, 145-146.
[10] Ibidem, 146.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem, 148.
[13] A voler essere teologicamente precisi, in effetti, è
possibile seguire un maestro come Mons. Brunero Gherardini: «Il prete è come
requisito da Cristo il quale, per effetto dell'ordinazione presbiterale,
imprime nel consacrato una sorta di sfragis (cf
Rm 4,11; 1Cr 9,2): non una semplice impronta, ma una configurazione, una
trasposizione di sè e delle sue caratteristiche sacerdotali nell'essere più
profondo del prete. Questi, pertanto, diventa nel suo hic et nunc spaziotemporale il Cristo pastore-servo-mediatore. Il
sacramento di Cristo unico sommo ed eterno sacerdote. […] L'efficacia sacramentale dell'ordinazione
presbiterale tocca l'essenza ultima dell'ordinato e la trasforma una volta per
sempre (efapax) radicalmente profondamente
e definitivamente. Il prete diventa così il Cristo sacramentato, può
agire e parlare "in persona Christi", cioè in prima persona come non
un essere cristificato, ma un essere cristico, ed in quanto tale dire "io ti battezzo, io ti
assolvo", "questo è il mio corpo, questo il mio sangue".
E' infatti la
presenza misterica di Cristo». B.
Gherardini, Il prete presenza
misterica di Cristo. Il contributo è in
via di pubblicazione negli atti del Convegno Teologico “Il Sacerdozio
ministeriale: l’amore del Cuore di Gesù” organizzato dallo Studio Teologico dei
Frati Francescani dell’Immacolata nello scorso dicembre 2009 a Roma.
[14] Si veda al riguardo il recente ed esemplare studio M.
Gagliardi, La dottrina cattolica sul
sacerdozio ministeriale prima, durante e dopo il Concilio Vaticano II, in «Sacrum Ministerium» XV (2/2009), 65-99.
[15] D. Ruotolo,
Nei raggi
della grandezza e della vita sacerdotale. Meditazioni per i Sacerdoti, La Florindiana, Napoli 21940, 110.
[16] Ibidem, 112.
[17] Ibidem, 117.
[18] Ibidem, 99.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem, 100.
[21] Ibidem, 101.
[22] Ibidem, 108.
[23] Ibidem.
[24] Ibidem, 147-148.
[25] Benedetto
XVI, Es. Ap. Sacramentum
Caritatis (22 febbraio 2007), n. 83.
[26] D. Ruotolo,
Nei raggi
della grandezza e della vita sacerdotale. Meditazioni per i Sacerdoti, La Florindiana, Napoli 21940, 135-136.
[27] Ibidem, 129.
[28] Ibidem, 149.
[29] Ibidem, 149.
[30] Ibidem, 127.
[31] Ibidem.
[32] D. Ruotolo,
Nei raggi
della grandezza e della vita sacerdotale. Meditazioni per i Sacerdoti, La Florindiana, Napoli 21940, 150.
[33] Ibidem, 153.
[34] Così si legge nell’Autobiografia: «In memoria. Ero fanciullo insipiente, stentavo a
capire ed a studiare, avendo fatto tre volte la prima ginnasiale. Vestito
l’abito clericale nel giorno 15 giugno 1896, pregai innanzi a questa immagine
la Madonna e le domandai l’intelligenza. Recitavo con i condiscepoli il S.
Rosario, ed avevo davanti a me questa immagine appoggiata ad un libro. Dissi
alla Madonna: “O mia dolce Mamma, se mi vuoi Sacerdote dammi l’intelligenza,
perché lo vedi che sono un cretino”. D’un tratto, genuflesso, com’ero, mi
assopii, l’immagine si mosse, per il vento o per grazia speciale, non so dirlo,
mi toccò la fronte, e mi risveglai dall’assopimento con la mia povera mente
pronta e lucida. Discorrevo di tutto, verseggiavo, ero un altro, ma solo,
allora come ora, per ciò che glorificava Dio. Per il resto ero e sono un
autentico cretino. Ricorro a Te Mamma mia e tu mi illumini …» D. Ruotolo, Fui chiamato Dolindo, che
significa dolore. Pagine d’autobiografia,
I, Apostolato Stampa, Napoli-Benevento 41989, 42.
[35] D. Ruotolo,
Nei raggi
della grandezza e della vita sacerdotale. Meditazioni per i Sacerdoti, La Florindiana, Napoli 21940, 153-154.
[36] Ibidem, 154.
[37] Ibidem.
[38] Ibidem.
[39] Ibidem, 155-156.
[40] Ibidem, 157.
[41] Ibidem.
[42] Ibidem, 157-158.
[43] È quanto ha ribadito il Santo Padre Benedetto XVI
nell’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis
(22 febbraio 2007) al n. 24: «in unità con la grande tradizione ecclesiale, con
il Concilio Vaticano II e con i Sommi Pontefici miei predecessori, ribadisco la
bellezza e l'importanza di una vita sacerdotale vissuta nel celibato come segno
espressivo della dedizione totale ed esclusiva a Cristo, alla Chiesa e al Regno
di Dio, e ne confermo quindi l'obbligatorietà per la tradizione latina. Il
celibato sacerdotale vissuto con maturità, letizia e dedizione è una
grandissima benedizione per la Chiesa e per la stessa società».
[44] Uno studio di riferimento al riguardo resta quello
del Cardinale Stickler, Prefetto della Biblioteca Vaticana, di chiara memoria: A. M. Stickler, Il Celibato
ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994.
Un altro contributo più recente da conoscere è il seguente S. Heid, Zölibat in der frühen Kirche, Ferdinand Schöningh, Paderborn - Monaco - Vienna -
Zurigo 1997.
[45] D. Ruotolo,
Nei raggi
della grandezza e della vita sacerdotale. Meditazioni per i Sacerdoti, La Florindiana, Napoli 21940, 91.
[46] Recentemente tale argomento è stato oggetto di una
magistrale esposizione da parte del Vescovo di La Spezia SS. Ecc. Mons.
Moraglia al Convegno Teologico “Il Sacerdozio ministeriale: l’amore del Cuore
di Gesù”. Come già accennato se ne attende la pubblicazione degli atti.
[47] Cf. D. Ruotolo,
Nei raggi
della grandezza e della vita sacerdotale. Meditazioni per i Sacerdoti, La Florindiana, Napoli 21940, 91.
[48] Ibidem.
[49] Ibidem, 92.
[50] Ibidem.
[51] Ibidem.
[52] Ibidem. A qualcuno tanta ferma insistenza potrà apparire
eccessiva, una sorta di fissazione, è importante quindi ricordare che Padre
Dolindo, nella sua purezza cristallina, quasi si vergogna di indugiare tanto in
questi bassifondi, scrive infatti: «Se il demonio dolorosamente non tentasse in
tal modo tante anime sacerdotali, sarebbe in realtà penoso, e potremmo dire
vergognoso, anche il solo fermarsi su di un argomento ch’è più chiaro della
luce del giorno» Ibidem.
[53] Ibidem, 92.
[54] Ibidem, 93-94. In seguito Don Dolindo torna a
riflettere: «Come può nascere nella mente d’un Sacerdote l’assurdo pensiero
ch’egli possa essere benedetto in legame con una creatura? Come può immaginare
di poter essere nello stesso tempo vaso del Tempio e pentola di cucina, trono
di Dio e sgabello di un essere mortale, Cherubino dell’Altare e servo del
mondo? Come potrebbe Dio consacrare con la sua benedizione ed il suo Sacramento
un amore che dev’essere tutto suo, e che è sacrilego dare agli altri?» Ibidem,
157.
[55] Ibidem, 95.
[56] Ibidem, 97.
[57] Ibidem, 157.
[58] D. Ruotolo,
Fui chiamato
Dolindo, che significa dolore. Pagine d’autobiografia, I, Apostolato Stampa, Napoli-Benevento 41989, 110.
[59] Postulazione
(ed.), Don
Dolindo Ruotolo “Sacerdote Santo” (Padre Pio), Casa Mariana Editrice, Napoli 2008, 106. Da notare che «Il sacerdote
che aveva offerto a Don Dolindo l’occasione di meditare sulla Sacra Scrittura,
fu il primo a convertirsi: radicalmente. Menò vita di penitenza e
d’intensissima preghiera, nonché di apostolato fervente e pieno di sacrificio.
Morì santamente, alcuni anni dopo, mentre di notte portava la Comunione ad una
moribonda». Ibidem, 111. A questa opera si allude nel corpo del testo con la
dicitura la
biografia della Postulazione.
[60] La prima edizione del commento La Sacra Scrittura fu in 33 volumi e sotto lo pseudonimo di Dain
Cohenel. Dei Vangeli e delle Lettere Paoline si è avuta una recente ristampa in due soli volumi per opera della
Casa Mariana Editrice di Frigento (AV) cui da alcuni anni è stato affidato
l’Apostolato Stampa “Don Dolindo” a Napoli.
[61] D. Ruotolo,
Nei raggi
della grandezza e della vita sacerdotale. Meditazioni per i Sacerdoti, La Florindiana, Napoli 21940, 121.
[62] Ibidem, 121-122.
[63] Lo rivela lo stesso Don Dolindo in una lettera a
Mons. Giuseppe M. Palatucci ofm conv, Vescovo di Campagna e strenuo difensore dell’opera
di Padre Dolindo, qui il servo di Dio espone come si è preparato all’Opera. Tra
l’altro fa capire che durante gli anni di tribolazione ha speso anni ad
approfondire e meditare le verità della dottrina cattolica; cf. Postulazione (ed.), Don Dolindo Ruotolo
“Sacerdote Santo” (Padre Pio), Casa
Mariana Editrice, Napoli 2008, 112-113.
[64] D. Ruotolo,
Nei raggi
della grandezza e della vita sacerdotale. Meditazioni per i Sacerdoti, La Florindiana, Napoli 21940, 122.
[65] Ibidem, 122-123.
[66] Ibidem, 123-124. Del predicare di Don Dolindo si è
scritto infatti: «Don Dolindo parlava semplicemente: sono conservate su nastro
alcune delle meditazioni che teneva per le figlie spirituali e, con la stessa
semplicità e chiarezza, come detto altrove, scriveva. Si faceva capire da
tutti, era lepido, interessava e trascinava a Dio» Postulazione (ed.), Don Dolindo Ruotolo “Sacerdote Santo” (Padre Pio), Casa Mariana Editrice, Napoli 2008, 139. Tali
registrazioni acustiche fanno conoscere discorsi ricchi di dottrina,
esposizioni calde e finanche travolgenti per l’amore e lo zelo che le animano.
Esse sembrano ancora oggi la migliore esemplificazione di quanto sopra
teorizzato dal reverendo napoletano.
[67] Ibidem,
140-142. Questa immagine del filo conduttore era molto cara a Don Dolindo
perché gli ricordava lo scarso valore di chi è strumento rispetto al vero
Artefice, diceva infatti: «La parola è di Gesù quando vi passa; ma […] il servo
non può essere considerato dagli altri come Gesù. Sarebbe un errore stolto. […]
Il piccolo servo di Gesù è come il filo percorso dalla corrente: tu tocchi il
filo per comunicare con la corrente, ma non dirai mai che il filo è la
corrente. Il filo è una nullità ed è una condizione indispensabile, in quel
caso, al percorso della corrente». Ibidem.
[68] Lo afferma lo stesso Don Dolindo nella Autobiografia
scritta per obbedienza e sotto giuramento di dire solo la verità, cf. D. Ruotolo, Fui chiamato Dolindo, che
significa dolore. Pagine d’autobiografia,
I, Apostolato Stampa, Napoli-Benevento 41989, 83.
[69] Postulazione
(ed.), Don
Dolindo Ruotolo “Sacerdote Santo” (Padre Pio), Casa Mariana Editrice, Napoli 2008, 76.
[70]
Ibidem, 104. Anche Mons. Francesco Olgiati dell’Università del Sacro Cuore di
Milano, in seguito anche Presidente dell’Istituto G. Toniolo di studi superiori,
fu un estimatore di Padre Dolindo e della sua opera. Cf. F. Olgiati, L’indirizzo pastorale nello studio della Bibbia in «Rivista del Clero» 1939.
[71] Postulazione
(ed.), Don
Dolindo Ruotolo “Sacerdote Santo” (Padre Pio), Casa Mariana Editrice, Napoli 2008, 150.
[72] D. Ruotolo,
Nei raggi
della grandezza e della vita sacerdotale. Meditazioni per i Sacerdoti, La Florindiana, Napoli 21940, 122.
[73] Ibidem, 125.
[74] Ibidem. Nel corpo del testo Padre Dolindo offre
alcuni esempi di questa arte del confessore: «un atto d’impazienza, per es. può
essere non semplicemente un eccesso di nervi, ma un’esplosione di antipatia o
di odio; una mancanza di purezza può essere conseguenza di una posizione
pericolosa della vita; un atto di disprezzo per gli altri può rivelare nell’anima
una profonda presunzione; una leggerezza di moda può essere indice di uno
stravolgimento morale che comincia a manifestarsi e che potrà poi crescere in
maniera vergognosa», Ibidem.
[75] Ibidem, 126-127.
[76] Ibidem, 127. Per avere un saggio del metodo
catechetico di Padre Dolindo, cf. D.
Ruotolo, La
Dottrina Cattolica spiegata con parole e con paragoni ai fanciulli e al popolo.
Pratica pedagogica catechistica, Ed.
Segno, Udine 31998.
[77] Cf. Ibidem, 161-167.
[78] Così egli stesso prega al termine dell’accennata considerazione: «Trionfa, o Gesù, su di noi, trionfa del mondo
ingrato! Non rovesciasti Tu nel Tempio i banchi delle monete? Rovescia le mense
scellerate di quei tributi che si danno al mondo, al demonio, alla carne,
caccia dai loro seggi di usurpato potere i profanatori delle anime e della
Divina Maestà, insegui con le funi dei tuoi flagelli gli empi che rifiutano il
paterno dominio di Dio; vinci … venga il tuo Regno!» Ibidem, 167.
[79] Ibidem, 161.
[80] Ibidem, 161-162.
[81] Ibidem, 162.
[82] Ibidem, 166-167.
[83] Ibidem, 167. Un esempio davvero eroico di zelo di
araldo si ebbe in Don Dolindo allorchè, nei primi tempi che egli fu sospeso, la
madre preoccupata giunse a denunciarlo in prefettura come possibile promotore e
appartenente ad una associazione malavitosa. Così Padre Dolindo deferito parlò
all’ufficiale che lo interrogava nella sua convocazione in questura: «io le
parlerò, ma non già per soddisfare la sua curiosità, sibbene per farle un poco
di catechismo». E una volta riuniti attorno a sé gli altri funzionari il servo
di Dio ebbe a parlare al loro cuore: «Voi vedete in quale stato di apostasia è
ridotto il mondo e siete ridotti voi? Ecco siete creature di Dio e vi
vergognate persino di nominare il suo Nome. Siete ridotti schiavi della materia
e del peccato! Ma poiché voi non andate a Dio, Egli misericordiosamente vi
chiama. Ecco quale è la nostra associazione a delinquere! Bisogna fare
penitenza e ritornare alla Chiesa e per la Chiesa a Dio». Padre Dolindo
racconta sempre nell’Autobiografia come: «Essi cominciarono a farmi obiezioni sulla
fede, sul materialismo, sul panteismo, sulla Chiesa, ed io rispondevo e
catechizzavo. Parlai più di un’ora certamente» cf. D. Ruotolo, Fui chiamato Dolindo, che significa dolore. Pagine
d’autobiografia, I, Apostolato Stampa, Napoli-Benevento
41989, 169-170.
[84] D. Ruotolo,
Nei raggi
della grandezza e della vita sacerdotale. Meditazioni per i Sacerdoti, La Florindiana, Napoli 21940, 167.
[85] In proposito un testo da conoscere è il seguente: R. de Mattei, La Liturgia della Chiesa
nell’epoca della secolarizzazione,
Solfanelli, Chieti 2009.
[86] Lo si coglie nella seguente affermazione di Gesù: «il
Figlio dell'uomo […] non è venuto per essere servito, ma per servire e
dare la sua vita in riscatto per molti» Mt 20, 28. Il «dare la vita in riscatto
di molti» è evidentemente un linguaggio che denota la realtà sacrificale.
[87] Soprattutto quando Cristo prega «per loro io consacro
me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità» (Gv
17,19); su questo si veda B. Gherardini,
Il Prete presenza
misterica di Cristo. Il volume degli Atti
del Convegno Teologico “Il Sacerdozio ministeriale: l’amore del Cuore di Gesù”
(Roma 11-13 dicembre 2009) sono come già riferito in via di pubblicazione.
[88] Cf. D. Ruotolo,
Nei raggi
della grandezza e della vita sacerdotale. Meditazioni per i Sacerdoti, La Florindiana, Napoli 21940, 168-175.
[89] Ibidem, 168-170. Qui la riflessione di Padre Dolindo
continua in questi termini: «Qualunque iscrizione o consacrazione a particolari
contraternite che hanno per fine l’immolazione, non può equivalere questa del
Sacerdote, poiché nessun’anima è più unita di lui all’immolazione del
Redentore. È uno stato nobilissimo che eleva la vita umana a vette vertiginose
di grandezza, che l’associa alle grandi opere di Dio e la rende capace di un
premio immenso, dopo i pochi anni di dolore e di prova, che pur sono anni di
misericordie e di grazie».
[90] Ibidem, 168-170
[91] Ibidem, 168-169. Il corsivo è di Don Dolindo.
[92] Ibidem, 170.
[93] Ibidem.
[94] Ibidem.
[95] Ibidem, 170-171.
[96] Ibidem, 171.
[97] Ibidem, 172.
[98] Ibidem, 173.
[99] Ibidem.
[100] Ibidem, 173-174.
[101] Solo per fare un esempio tra i tanti, si pensi quando
da sacerdote sospeso in famiglia fu immobilizzato dai parenti per essere
sottoposto all’esorcismo per opera del penitenziere della Cattedrale di Napoli,
cf. D. Ruotolo, Fui chiamato Dolindo, che
significa dolore. Pagine d’autobiografia,
I, Apostolato Stampa, Napoli-Benevento 41989, 157-ss. Ma anche i pur
brevi periodi di carcerazione da parte del Santo Uffizio a san Martino al Macao a cavallo degli anni 1911-12, come
pure in seguito nel 1921 presso i Passionisti della Scala Santa. Per il
racconto che ne fa Don Dolindo, dove tra l’altro egli afferma di essere stato
portato da Gesù al Macao «per chiuderlo», cf. D. Ruotolo, Fui chiamato Dolindo, che
significa dolore. Pagine d’autobiografia,
I, Apostolato Stampa, Napoli-Benevento 41989, 345-ss.
[102] Nel 1906 don Dolindo, sacerdote da appena un anno, fu
trasferito a Taranto e poi a Molfetta al seguito del suo Superiore, lo strano
P. Volpe, tra l’altro suo direttore spirituale, che lo trattava come un servo
ma che don Dolindo non volle abbandonare quando si attirò le attenzioni del
Sant’Uffizio per le rivelazioni di una “veggente di Catania” che sembra
parlasse dell’Incarnazione dello Spirito Santo nel figlio di una sua sorella.
Un idiozia, questa, sarebbe troppo chiamarla eresia; eppure P. Volpe e P.
Dolindo si fecero un punto onore di difendere la mistica non nel concetto
accennato ma nella sua onestà personale. Poiché P. Dolindo non firmò l’atto
d’accusa del fatto che la donna fosse una ingannatrice, cosa che in coscienza
non si sentì di fare perché per lui c’era un malinteso (per Don Dolindo ella
non parlò mai di incarnazione bensì di manifestazione, la qual cosa come
visibilizzazione era sebbene strano in sé possibile, benchè Don Dolindo non
abbia sostenuto che ciò sia avvenuto di fatto), fu privato della Messa ed
espulso dall’ordine religioso dei Preti della Missione. Il P. Volpe anch’egli
sospeso lo abbandonò e don Dolindo finì in famiglia disonorato. Su queste
vicende cf. Postulazione (ed.), Don Dolindo Ruotolo
“Sacerdote Santo” (Padre Pio), Casa
Mariana Editrice, Napoli 2008, 46-ss. Rispetto come Padre Dolindo abbia
ricostruito la questione nell’Autobiografia, cf. D. Ruotolo, Fui chiamato Dolindo, che
significa dolore. Pagine d’autobiografia,
I, Apostolato Stampa, Napoli-Benevento 41989, 119-156. Padre Dolindo
prende le distanze totalmente dall’aver mai e poi mai inteso credere ad
un’incarnazione dello Spirito Santo, ma, eventualmente se ciò fosse stato
provato, egli riteneva possibile una apparizione-manifestazione della Terza
Persona divina. Il sacerdote napoletano fu sospeso per il fatto di aver difeso
l’onestà della veggente Serafina di Catania. Egli stesso in queste pagine dell’Autobiografia ammette d’aver commesso un errore di valutazione
nell’aver seguito il P. Volpe in questa difesa ad oltranza senza affidare tutto
alla preposta autorità della Chiesa, il Santo Uffizio, al quale però egli fu
sempre obbediente. Ciò gli valse i primi due anni di sospensione a divinis (1908-1910). La prima riabilitazione si ebbe grazie
alla mediazione di Mons. Mazzella Vescovo di Rossano Calabro.
[103] Ibidem, 224.
[104] Ibidem.
[105] Tale osservanza andò avanti per due anni fino a che
giunse nel 1912 lo scioglimento venne imposto da Papa Pio X su pressione di un
fratello di Don Dolindo, P. Elio M. Ruotolo, perché la famiglia era alla fame.
Su questo Ibidem, 225.
[106] Ibidem, 224-225. È interessante notare come,
effettivamente, nella sua vita di sacerdote vittima di riparazione, Padre
Dolindo abbia riconciliato e convertito diversi sacerdoti che si erano
spogliati o vivevano malamente il loro sacerdozio: per esempio cf. Ibidem, 109
(un sacerdote traviato a Molfetta). 205-216 (mons. Cantelmo a Rossano); come
pure il prete che fu occasione per l’inizio dell’Opera della Scrittura, cf. Postulazione (ed.), Don Dolindo Ruotolo
“Sacerdote Santo” (Padre Pio), Casa
Mariana Editrice, Napoli 2008, 106.111.
[107] D. Ruotolo,
Nei raggi
della grandezza e della vita sacerdotale. Meditazioni per i Sacerdoti, La Florindiana, Napoli 21940, 176.
[108] Ibidem, 177.