Omelia
del Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato
Incontro
Internazionale dei Sacerdoti – Anno Sacerdotale
Basilica
di San Paolo fuori le Mura, giovedì 10 giugno 2010
Signori Cardinali,
cari confratelli Vescovi,
carissimi Sacerdoti!
Ci siamo radunati
presso la tomba dell’Apostolo Paolo, nel secondo giorno dell’Incontro
Internazionale dei Sacerdoti, indetto per celebrare la chiusura dello speciale
Anno voluto dal Santo Padre Benedetto XVI, nel 150mo anniversario
del dies natalis di san Giovanni Maria Vianney.
Questa seconda
giornata, come la Meditazione del Cardinale Ouellet, Arcivescovo di Québec, ci
ha sapientemente indicato – e lo ringraziamo molto per questo – è pensata per
favorire la nostra immedesimazione con il clima spirituale del Cenacolo. La
prima Lettura ci ha presentato proprio l’icona biblica della Chiesa nascente: gli
Apostoli, dopo l’Ascensione, si stringono attorno alla Beata Vergine Maria, in
attesa del dono dello Spirito Santo, che darà loro la forza necessaria per la missione.
In tale clima, noi ci uniremo stasera con il Santo Padre, Successore di Pietro,
per la grande Veglia.
Sappiamo bene,
carissimi fratelli, quanto sia fondamentale e prioritaria la dimensione orante
del nostro ministero e del nostro stesso essere. Siamo costituiti nel
Sacerdozio ministeriale anzitutto per innalzare preghiere a Dio, in favore di
tutto il popolo a noi affidato; tale dimensione costituisce non soltanto un
compito, ma la stessa “nervatura” della nostra esistenza, la sua anima e il suo
respiro.
Il Cenacolo,
per gli Apostoli, rappresentava il luogo delle ultime ore condivise con il
Signore Gesù, prima della sua Passione; il luogo nel quale – come poi essi
avrebbero compreso nello Spirito Santo – sono stati istituiti i Sacramenti
dell’Eucaristia e dell’Ordine; il Cenacolo era, per loro, il luogo per
eccellenza dell’intimità divina, dell’intimità con Gesù Maestro e Signore, nel
Quale «abita corporalmente tutta la pienezza della Divinità» (Col 2,9).
In quel luogo, tanto caro agli Apostoli e alla perenne memoria cristiana, il Cristo
ha pronunciato il suo “testamento” spirituale, ha compiuto il gesto
ministeriale della Lavanda dei piedi ed ha ordinato agli Apostoli ciò a cui
noi, ogni giorno, obbediamo: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19).
In quel medesimo
Cenacolo, carico non solo di memorie storiche, ma anche di profonda valenza
spirituale ed eredità ministeriale, si radunano gli Apostoli dopo l’Ascensione,
dopo aver contemplato il Risorto, il Quale li aveva progressivamente introdotti
nella certezza della vittoria definitiva sul peccato, sul male e sulla morte.
Le parole
rivolte ai discepoli da parte dei due angeli, subito dopo che Gesù li aveva
lasciati salendo verso l’Alto (cfr At
1,11), sono l’indicazione esplicita del riconoscimento della nuova modalità di presenza
di Cristo nel mondo: il Risorto, ritornato glorioso nel seno del Padre,
continua a vivere nello Spirito Santo in mezzo agli Apostoli e alla comunità
dei credenti, primo nucleo della Chiesa, radunata in preghiera unanime e
concorde insieme con il suo perfetto modello, la Beata Vergine Maria (cfr At 1,12-14). Tale nuova forma di presenza
nella Chiesa, che manifesta la vittoria di Cristo ed è riflesso della sua
gloria, riceve il suo sigillo dallo Spirito Santo, che ne definisce l’identità
e la missione.
Nel giorno
della nostra Ordinazione, carissimi confratelli Sacerdoti, noi abbiamo fatto la
medesima esperienza. Dopo il cammino di formazione nella fede e nell’amicizia
personale con Gesù Cristo, mediante l’invocazione dello Spirito Santo e l’imposizione
delle mani del Vescovo è stata ridefinita la nostra identità, è stato tracciato
il nostro sentiero nel mondo, è stata come ridisegnata la nostra presenza nella
Chiesa e nella società; in una parola, lo Spirito santificatore ci ha
configurati al Signore Gesù, facendo di ciascuno di noi un alter Christus,
come afferma ampiamente la Tradizione ecclesiale.
Approfondire la
consapevolezza di questo processo, meditando e imitando l’esperienza originaria
degli Apostoli, che incontrarono il Risorto e invocarono con Maria lo Spirito
Santo, significa per noi rinnovare quotidianamente il nostro “sì” ad un
Ministero che non viene da noi, ma da Dio, e che si delinea a partire da una vocazione
soprannaturale. Questa chiamata si manifesta anche con l’esigenza del celibato
per il Regno dei cieli, quale condizione della integrale e definitiva consacrazione
che l’Ordinazione Sacerdotale comporta. Il celibato sacerdotale “è segno e
insieme stimolo della carità pastorale e fonte speciale di fecondità spirituale
nel mondo” (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Presbyterorum
Ordinis, 16). Il suo valore è ben presente e tenuto in grande onore alla
stessa tradizione delle Chiese Orientali, che pure conoscono anche la
possibilità di un ministero uxorato. La progressiva identificazione con il
nostro Ministero, sull’esempio di san Giovanni Maria Vianney, che ci ha
accompagnato lungo tutto questo Anno Sacerdotale, nasce dall’esperienza del
Cenacolo e, misteriosamente ma efficacemente, sempre al Cenacolo ci riconduce,
come al luogo, per così dire, sintetico, sia della vicenda storica di Dio con
gli uomini, sia dell’esistenza di ciascuno di noi che, di tale vicenda, è
divenuto co-protagonista nell’oggi della Chiesa.
La presenza di
Maria, anche prima dell’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste, indica
quanto essenziale sia il suo ruolo nella Chiesa: sia in quella nascente, sia in
quella di ogni tempo. La Madre di Gesù, infatti, rimanda immediatamente al Figlio
divino, e a quelle sue parole, raccolte da Giovanni sotto la croce: “Donna, ecco
tuo figlio!”, “Figlio, ecco tua madre!” (cfr Gv 19,26-27). In questo duplice affidamento è contenuta una
speciale consegna dei discepoli alla maternità spirituale di Maria; una
consegna che non ha pari, se non in quella fatta a Pietro di confermare i suoi
fratelli (cfr Lc 22,32).
Maria e Pietro
hanno dunque ricevuto da Gesù stesso uno specifico compito di custodia e di
guida nei confronti della Comunità, e in modo speciale dei suoi ministri, che
sono gli Apostoli e i loro successori, come pure i presbiteri. Si potrebbe
parlare di una maternità di Maria e di una paternità di Pietro verso la Chiesa,
e segnatamente verso i ministri ordinati. Entrambi infatti sono, in modi
diversi, custodi della comunione ecclesiale. In tal senso ciascun presbitero,
chiamato ad essere uomo di comunione – nell’accezione più profonda, teologica e
gerarchica, del termine communio – riconosce nella Santa Vergine, da una
parte, e nell’Apostolo Pietro e nei suoi Successori, dall’altra, i due
principali punti di riferimento per la sua azione e, prima ancora, per la sua
stessa identità ministeriale.
Il Vangelo
dell’odierna liturgia ci invita a soffermarci piuttosto sul ruolo della Vergine
Maria. Gesù risponde in modo apparentemente duro a chi lo avverte della
presenza della Madre e dei suoi parenti, che lo cercano. In realtà, Egli vuole,
anche in questa occasione, annunciare una Buona Novella, una inattesa ed
inimmaginabile nuova relazione con Dio. Dice Gesù: «Chi fa la volontà di Dio, costui
per me è fratello, sorella e madre» (Mc 3,35). In tale espressione, certamente
non dobbiamo leggere una presa di distanza dalla Madre o dagli altri legami
parentali e sociali del Signore, quanto l’indicazione chiara di una nuova forma
di parentela, il compimento di ciò che l’Apostolo delle genti, nel discorso
all’Areopago, definirà come il nostro essere “stirpe di Dio” (At 17,29).
Abbiamo, cari fratelli, la grande possibilità di diventare “parenti del
Signore”, suoi intimi. Questa nuova e impensabile comunione nasce, come è chiaramente
indicato dalle parole del Signore, dall’obbedienza alla sua parola, che un
ascolto autentico necessariamente implica. Per contro, la disobbedienza alla
divina volontà e il mistero dell’iniquità e del peccato generano, ben lo
sappiamo, una estraneità tanto più dolorosa e irragionevole, quanto più
pressante è l’invito del Signore alla comunione con Lui.
Essere “fratelli”
del Signore significa condividere la sua stessa vita, spezzare con Lui ogni
giorno il Pane eucaristico, avvertire la sua costante Presenza, capace di inesauribile
consolazione, di sicuro sostegno, di sempre nuova e fedele spinta missionaria.
Essere “madre” del Signore significa continuare a generare Cristo per il mondo,
sia in modo sacramentale, soprattutto attraverso la Celebrazione eucaristica, sia
in quella continua generazione esistenziale che è la testimonianza luminosa della
santità personale, capace di indicare a tutti, più di ogni altra esperienza, la
presenza del Signore, e di aiutare a riconoscerla. Questa nuova parentela,
questa nostra “consanguineità” con Gesù, chiede di essere costantemente
alimentata nella preghiera. Se infatti la preghiera è il respiro indispensabile
di ogni vita cristiana, lo è in modo peculiare dell’esistenza sacerdotale, come
lo è stata anche per Cristo stesso, sommo Sacerdote. Lo ricordava il Santo
Padre Benedetto XVI due giorni fa, nell’omelia della solennità del Corpus Domini. “Gesù – ha detto –
affronta la sua «ora», che lo conduce alla morte di croce, immerso in una
profonda preghiera, che consiste nell’unione della sua propria volontà con
quella del Padre. Questa duplice ed unica volontà è una volontà d’amore.
Vissuta in questa preghiera, la tragica prova che Gesù affronta viene
trasformata in offerta, in sacrificio vivente”.
Carissimi
Confratelli, imploriamo la Beata Vergine Maria, Regina degli Apostoli e Madre
dei Sacerdoti, perché ci aiuti sempre in questa docile obbedienza alla volontà
del suo Figlio, nella lieta certezza che proprio la progressiva configurazione
a Lui è il cammino della nostra santificazione: è il quotidiano sentiero che ci
conduce dalla santità ricevuta nella Sacra Ordinazione alla santità vissuta nel
Ministero quotidiano. Amen.