CONCLUSIONE DELL'ANNO SACERDOTALE
VEGLIA IN OCCASIONE
DELL'INCONTRO INTERNAZIONALE DEI SACERDOTI
COLLOQUIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
CON I SACERDOTI
Piazza
San Pietro
Giovedì, 10 giugno 2010
America:
D. – Beatissimo Padre, sono don José Eduardo
Oliveira y Silva e vengo dall’America, precisamente dal Brasile. La maggior
parte di noi qui presenti è impegnata nella pastorale diretta, in parrocchia, e
non solo con una comunità, ma a volte siamo ormai parroci di più parrocchie, o
di comunità particolarmente estese. Con tutta la buona volontà cerchiamo di
sopperire alle necessità di una società molto cambiata, non più interamente
cristiana, ma ci accorgiamo che il nostro “fare” non basta. Dove andare
Santità? In quale direzione?
R. – Cari amici, innanzitutto vorrei esprimere la mia
grande gioia perché qui sono riuniti sacerdoti di tutte le parti del mondo,
nella gioia della nostra vocazione e nella disponibilità a servire con tutte le
nostre forze il Signore, in questo nostro tempo. In merito alla domanda: sono
ben consapevole che oggi è molto difficile essere parroco, anche e soprattutto
nei Paesi di antica cristianità; le parrocchie diventano sempre più estese,
unità pastorali… è impossibile conoscere tutti, è impossibile fare tutti i
lavori che ci si aspetterebbe da un parroco. E così, realmente, ci domandiamo
dove andare, come lei ha detto. Ma vorrei innanzitutto dire: so che ci sono
tanti parroci nel mondo che danno realmente tutta la loro forza per
l’evangelizzazione, per la presenza del Signore e dei suoi Sacramenti, e a
questi fedeli parroci, che operano con tutte le forze della loro vita, del
nostro essere appassionati per Cristo, vorrei dire un grande “grazie”, in
questo momento. Ho detto che non è possibile fare tutto quello che si desidera,
che forse si dovrebbe fare, perché le nostre forze sono limitate e le
situazioni sono difficili in una società sempre più diversificata, più
complicata. Io penso che, soprattutto, sia importante che i fedeli possano
vedere che questo sacerdote non fa solo un “job”, ore di lavoro, e poi è libero
e vive solo per se stesso, ma che è un uomo appassionato di Cristo, che porta
in sé il fuoco dell’amore di Cristo. Se i fedeli vedono che è pieno della gioia
del Signore, capiscono anche che non può far tutto, accettano i limiti, e
aiutano il parroco. Questo mi sembra il punto più importante: che si possa
vedere e sentire che il parroco realmente si sente un chiamato dal Signore; è
pieno di amore del Signore e dei suoi. Se questo c’è, si capisce e si può anche
vedere l’impossibilità di fare tutto. Quindi, essere pieni della gioia del
Vangelo con tutto il nostro essere è la prima condizione. Poi si devono fare le
scelte, avere le priorità, vedere quanto è possibile e quanto è impossibile.
Direi che le tre priorità fondamentali le conosciamo: sono le tre colonne del
nostro essere sacerdoti. Prima, l’Eucaristia, i Sacramenti: rendere possibile e
presente l’Eucaristia, soprattutto domenicale, per quanto possibile, per tutti,
e celebrarla in modo che diventi realmente il visibile atto d’amore del Signore
per noi. Poi, l’annuncio della Parola in tutte le dimensioni: dal dialogo
personale fino all’omelia. Il terzo punto è la “caritas”, l’amore di
Cristo: essere presenti per i sofferenti, per i piccoli, per i bambini, per le
persone in difficoltà, per gli emarginati; rendere realmente presente
l’amore del Buon Pastore. E poi, una priorità molto importante è anche la
relazione personale con Cristo. Nel Breviario, il 4 novembre, leggiamo un bel
testo di san Carlo Borromeo, grande pastore, che ha dato veramente tutto se
stesso, e che dice a noi, a tutti i sacerdoti: “Non trascurare la tua propria
anima: se la tua propria anima è trascurata, anche agli altri non puoi dare
quanto dovresti dare. Quindi, anche per te stesso, per la tua anima, devi avere
tempo”, o, in altre parole, la relazione con Cristo, il colloquio personale con
Cristo è una priorità pastorale fondamentale, è condizione per il nostro lavoro
per gli altri! E la preghiera non è una cosa marginale: è proprio “professione”
del sacerdote pregare, anche come rappresentante della gente che non sa pregare
o non trova il tempo di pregare. La preghiera personale, soprattutto la Preghiera
delle Ore, è nutrimento fondamentale per la nostra anima, per tutta la
nostra azione. E, infine, riconoscere i nostri limiti, aprirci anche a questa
umiltà. Ricordiamo una scena di Marco, capitolo 6, dove i discepoli sono
“stressati”, vogliono fare tutto, e il Signore dice: “Andiamo via; riposate un
po’” (cfr Mc 6,31). Anche questo è lavoro – direi - pastorale: trovare e
avere l’umiltà, il coraggio di riposare. Quindi, penso, che la passione per il
Signore, l’amore del Signore, ci mostra le priorità, le scelte, ci aiuta a
trovare la strada. Il Signore ci aiuterà. Grazie a tutti voi!
Africa:
D. – Santità, sono Mathias Agnero e vengo
dall’Africa, precisamente dalla Costa d’Avorio. Lei è un Papa-teologo, mentre
noi, quando riusciamo, leggiamo appena qualche libro di teologia per la
formazione. Ci pare, tuttavia, che si sia creata una frattura tra teologia e
dottrina e, ancor più, tra teologia e spiritualità. Si sente la necessità che
lo studio non sia tutto accademico ma alimenti la nostra spiritualità. Ne
sentiamo il bisogno nello stesso ministero pastorale. Talvolta la teo-logia non
sembra avere Dio al centro e Gesù Cristo come primo “luogo teologico”, ma abbia
invece i gusti e le tendenze diffuse; e la conseguenza è il proliferare di
opinioni soggettive che permettono l’introdursi, anche nella Chiesa, di un
pensiero non cattolico. Come non disorientarci nella nostra vita e nel nostro
ministero, quando è il mondo che giudica la fede e non viceversa? Ci sentiamo
“scentrati”!
R. – Grazie. Lei tocca un problema molto difficile e
doloroso. C’è realmente una teologia che vuole soprattutto essere accademica,
apparire scientifica e dimentica la realtà vitale, la presenza di Dio, la sua
presenza tra di noi, il suo parlare oggi, non solo nel passato. Già san
Bonaventura ha distinto due forme di teologia, nel suo tempo; ha detto: “c’è
una teologia che viene dall’arroganza della ragione, che vuole dominare tutto,
fa passare Dio da soggetto a oggetto che noi studiamo, mentre dovrebbe essere
soggetto che ci parla e ci guida”. C’è realmente questo abuso della teologia,
che è arroganza della ragione e non nutre la fede, ma oscura la presenza di Dio
nel mondo. Poi, c’è una teologia che vuole conoscere di più per amore
dell’amato, è stimolata dall’amore e guidata dall’amore, vuole conoscere di più
l’amato. E questa è la vera teologia, che viene dall’amore di Dio, di Cristo e
vuole entrare più profondamente in comunione con Cristo. In realtà, le
tentazioni, oggi, sono grandi; soprattutto, si impone la cosiddetta “visione
moderna del mondo” (Bultmann, “modernes Weltbild”), che diventa il criterio di
quanto sarebbe possibile o impossibile. E così, proprio con questo criterio che
tutto è come sempre, che tutti gli avvenimenti storici sono dello stesso
genere, si esclude proprio la novità del Vangelo, si esclude l’irruzione di
Dio, la vera novità che è la gioia della nostra fede. Che cosa fare? Io direi
prima di tutto ai teologi: abbiate coraggio. E vorrei dire un grande grazie
anche ai tanti teologi che fanno un buon lavoro. Ci sono gli abusi, lo
sappiamo, ma in tutte le parti del mondo ci sono tanti teologi che vivono
veramente della Parola di Dio, si nutrono della meditazione, vivono la fede
della Chiesa e vogliono aiutare affinché la fede sia presente nel nostro oggi.
A questi teologi vorrei dire un grande “grazie”. E direi ai teologi in
generale: “non abbiate paura di questo fantasma della scientificità!”. Io seguo
la teologia dal ’46; ho incominciato a studiare la teologia nel gennaio ’46 e
quindi ho visto quasi tre generazioni di teologi, e posso dire: le ipotesi che
in quel tempo, e poi negli anni Sessanta e Ottanta erano le più nuove,
assolutamente scientifiche, assolutamente quasi dogmatiche, nel frattempo sono
invecchiate e non valgono più! Molte di loro appaiono quasi ridicole. Quindi,
avere il coraggio di resistere all’apparente scientificità, di non
sottomettersi a tutte le ipotesi del momento, ma pensare realmente a partire
dalla grande fede della Chiesa, che è presente in tutti i tempi e ci apre
l’accesso alla verità. Soprattutto, anche, non pensare che la ragione
positivistica, che esclude il trascendente - che non può essere accessibile -
sia la vera ragione! Questa ragione debole, che presenta solo le cose sperimentabili,
è realmente una ragione insufficiente. Noi teologi dobbiamo usare la ragione
grande, che è aperta alla grandezza di Dio. Dobbiamo avere il coraggio di
andare oltre il positivismo alla questione delle radici dell’essere. Questo mi
sembra di grande importanza. Quindi, occorre avere il coraggio della grande,
ampia ragione, avere l’umiltà di non sottomettersi a tutte le ipotesi del
momento, vivere della grande fede della Chiesa di tutti i tempi. Non c’è una
maggioranza contro la maggioranza dei Santi: la vera maggioranza sono i Santi
nella Chiesa e ai Santi dobbiamo orientarci! Poi, ai seminaristi e ai sacerdoti
dico lo stesso: pensate che la Sacra Scrittura non è un Libro isolato: è
vivente nella comunità vivente della Chiesa, che è lo stesso soggetto in tutti
i secoli e garantisce la presenza della Parola di Dio. Il Signore ci ha dato la
Chiesa come soggetto vivo, con la struttura dei Vescovi in comunione con il
Papa, e questa grande realtà dei Vescovi del mondo in comunione con il Papa ci
garantisce la testimonianza della verità permanente. Abbiamo fiducia in questo
Magistero permanente della comunione dei Vescovi con il Papa, che ci
rappresenta la presenza della Parola. E poi, abbiamo anche fiducia nella vita
della Chiesa e, soprattutto, dobbiamo essere critici. Certamente la formazione
teologica – questo vorrei dire ai seminaristi – è molto importante. Nel nostro
tempo dobbiamo conoscere bene la Sacra Scrittura, anche proprio contro gli
attacchi delle sette; dobbiamo essere realmente amici della Parola. Dobbiamo
conoscere anche le correnti del nostro tempo per poter rispondere
ragionevolmente, per poter dare – come dice San Pietro – “ragione della nostra
fede”. La formazione è molto importante. Ma dobbiamo essere anche critici: il
criterio della fede è il criterio con il quale vedere anche i teologi e le
teologie. Papa Giovanni Paolo II ci ha donato un criterio
assolutamente sicuro nel Catechismo della Chiesa Cattolica: qui vediamo
la sintesi della nostra fede, e questo Catechismo è veramente il criterio per
vedere dove va una teologia accettabile o non accettabile. Quindi, raccomando
la lettura, lo studio di questo testo, e così possiamo andare avanti con una
teologia critica nel senso positivo, cioè critica contro le tendenze della moda
e aperta alle vere novità, alla profondità inesauribile della Parola di Dio,
che si rivela nuova in tutti i tempi, anche nel nostro tempo.
Europa:
D. – Padre Santo, sono don Karol Miklosko e vengo
dall’Europa, precisamente dalla Slovacchia, e sono missionario in Russia.
Quando celebro la Santa Messa trovo me stesso e capisco che lì incontro la mia
identità e la radice e l’energia del mio ministero. Il sacrificio della Croce
mi svela il Buon Pastore che dà tutto per il gregge, per ciascuna pecora, e
quando dico: “Questo è il mio corpo … questo è il mio sangue” dato e versato in
sacrificio per voi, allora capisco la bellezza del celibato e dell’obbedienza,
che ho liberamente promesso al momento dell’ordinazione. Pur con le naturali
difficoltà, il celibato mi sembra ovvio, guardando Cristo, ma mi trovo
frastornato nel leggere tante critiche mondane a questo dono. Le chiedo
umilmente, Padre Santo, di illuminarci sulla profondità e sul senso autentico del
celibato ecclesiastico.
R. – Grazie per le due parti della sua domanda. La
prima, dove mostra il fondamento permanente e vitale del nostro celibato; la
seconda che mostra tutte le difficoltà nelle quali ci troviamo nel nostro
tempo. Importante è la prima parte, cioè: centro della nostra vita deve
realmente essere la celebrazione quotidiana della Santa Eucaristia; e qui sono
centrali le parole della consacrazione: “Questo è il mio Corpo, questo è il mio
Sangue”; cioè: parliamo “in persona Christi”. Cristo ci permette di
usare il suo “io”, parliamo nell’“io” di Cristo, Cristo ci “tira in sé” e ci
permette di unirci, ci unisce con il suo “io”. E così, tramite questa azione,
questo fatto che Egli ci “tira” in se stesso, in modo che il nostro “io”
diventa unito al suo, realizza la permanenza, l’unicità del suo Sacerdozio;
così Lui è realmente sempre l’unico Sacerdote, e tuttavia molto presente nel
mondo, perché “tira” noi in se stesso e così rende presente la sua missione
sacerdotale. Questo vuol dire che siamo “tirati” nel Dio di Cristo: è questa
unione con il suo “io” che si realizza nelle parole della consacrazione. Anche
nell’“io ti assolvo” – perché nessuno di noi potrebbe assolvere dai peccati – è
l’“io” di Cristo, di Dio, che solo può assolvere. Questa unificazione del suo
“io” con il nostro implica che siamo “tirati” anche nella sua realtà di
Risorto, andiamo avanti verso la vita piena della risurrezione, della quale
Gesù parla ai Sadducei in Matteo, capitolo 22: è una vita “nuova”, nella quale
già siamo oltre il matrimonio (cfr Mt 22,23-32). E’ importante che ci
lasciamo sempre di nuovo penetrare da questa identificazione dell’“io” di
Cristo con noi, da questo essere “tirati fuori” verso il mondo della
risurrezione. In questo senso, il celibato è un’anticipazione. Trascendiamo
questo tempo e andiamo avanti, e così “tiriamo” noi stessi e il nostro tempo
verso il mondo della risurrezione, verso la novità di Cristo, verso la nuova e
vera vita. Quindi, il celibato è un’anticipazione resa possibile dalla grazia
del Signore che ci “tira” a sé verso il mondo della risurrezione; ci invita
sempre di nuovo a trascendere noi stessi, questo presente, verso il vero
presente del futuro, che diventa presente oggi. E qui siamo ad un punto molto
importante. Un grande problema della cristianità del mondo di oggi è che non si
pensa più al futuro di Dio: sembra sufficiente solo il presente di questo
mondo. Vogliamo avere solo questo mondo, vivere solo in questo mondo. Così
chiudiamo le porte alla vera grandezza della nostra esistenza. Il senso del
celibato come anticipazione del futuro è proprio aprire queste porte, rendere
più grande il mondo, mostrare la realtà del futuro che va vissuto da noi già
come presente. Vivere, quindi, così in una testimonianza della fede: crediamo realmente
che Dio c’è, che Dio c’entra nella mia vita, che posso fondare la mia vita su
Cristo, sulla vita futura. E conosciamo adesso le critiche mondane delle quali
lei ha parlato. E’ vero che per il mondo agnostico, il mondo in cui Dio non
c’entra, il celibato è un grande scandalo, perché mostra proprio che Dio è
considerato e vissuto come realtà. Con la vita escatologica del celibato, il
mondo futuro di Dio entra nelle realtà del nostro tempo. E questo dovrebbe
scomparire! In un certo senso, può sorprendere questa critica permanente contro
il celibato, in un tempo nel quale diventa sempre più di moda non sposarsi. Ma
questo non-sposarsi è una cosa totalmente, fondamentalmente diversa dal
celibato, perché il non-sposarsi è basato sulla volontà di vivere solo per se
stessi, di non accettare alcun vincolo definitivo, di avere la vita in ogni
momento in una piena autonomia, decidere in ogni momento come fare, cosa
prendere dalla vita; e quindi un “no” al vincolo, un “no” alla definitività, un
avere la vita solo per se stessi. Mentre il celibato è proprio il contrario: è
un “sì” definitivo, è un lasciarsi prendere in mano da Dio, darsi nelle mani
del Signore, nel suo “io”, e quindi è un atto di fedeltà e di fiducia, un atto
che suppone anche la fedeltà del matrimonio; è proprio il contrario di questo
“no”, di questa autonomia che non vuole obbligarsi, che non vuole entrare in un
vincolo; è proprio il “sì” definitivo che suppone, conferma il “sì” definitivo
del matrimonio. E questo matrimonio è la forma biblica, la forma naturale
dell’essere uomo e donna, fondamento della grande cultura cristiana, di grandi
culture del mondo. E se scompare questo, andrà distrutta la radice della nostra
cultura. Perciò il celibato conferma il “sì” del matrimonio con il suo “sì” al mondo
futuro, e così vogliamo andare avanti e rendere presente questo scandalo di una
fede che pone tutta l’esistenza su Dio. Sappiamo che accanto a questo grande
scandalo, che il mondo non vuole vedere, ci sono anche gli scandali secondari
delle nostre insufficienze, dei nostri peccati, che oscurano il vero e grande
scandalo, e fanno pensare: “Ma, non vivono realmente sul fondamento di Dio!”.
Ma c’è tanta fedeltà! Il celibato, proprio le critiche lo mostrano, è un grande
segno della fede, della presenza di Dio nel mondo. Preghiamo il Signore perché
ci aiuti a renderci liberi dagli scandali secondari, perché renda presente il
grande scandalo della nostra fede: la fiducia, la forza della nostra vita, che
si fonda in Dio e in Cristo Gesù!
Asia:
D. – Santo Padre, sono don Atsushi Yamashita e
vengo dall’Asia, precisamente dal Giappone. Il modello sacerdotale che Vostra
Santità ci ha proposto in quest’Anno, il Curato d’Ars, vede al centro
dell’esistenza e del ministero l’Eucaristia, la Penitenza sacramentale e personale
e l’amore al culto, degnamente celebrato. Ho negli occhi i segni dell’austera
povertà di san Giovanni Maria Vianney ed insieme della sua passione per le cose
preziose per il culto. Come vivere queste dimensioni fondamentali della nostra
esistenza sacerdotale, senza cadere nel clericalismo o in un’estraneità alla
realtà, che il mondo oggi non ci consente?
R. – Grazie. Quindi, la domanda è come vivere la
centralità dell’Eucaristia senza perdersi in una vita puramente cultuale,
estranei alla vita di ogni giorno delle altre persone. Sappiamo che il
clericalismo è una tentazione dei sacerdoti in tutti i secoli, anche oggi;
tanto più importante è trovare il modo vero di vivere l’Eucaristia, che non è
una chiusura al mondo, ma proprio l’apertura ai bisogni del mondo. Dobbiamo
tenere presente che nell’Eucaristia si realizza questo grande dramma di Dio che
esce da se stesso, lascia – come dice la Lettera ai Filippesi – la sua propria
gloria, esce e scende fino ad essere uno di noi e scende fino alla morte sulla
Croce (cfr Fil 2). L’avventura dell’amore di Dio, che lascia, abbandona
se stesso per essere con noi - e questo diventa presente nell’Eucaristia; il
grande atto, la grande avventura dell’amore di Dio è l’umiltà di Dio che si
dona a noi. In questo senso l’Eucaristia è da considerare come l’entrare in
questo cammino di Dio. Sant’Agostino dice, nel De Civitate Dei, libro X:
“Hoc est sacrificium Christianorum: multi unum corpus in Christo”, cioè:
sacrificio dei cristiani è l’essere uniti dall’amore di Cristo nell’unità
dell’unico corpo di Cristo. Il sacrificio consiste proprio nell’uscire da noi,
nel lasciarsi attirare nella comunione dell’unico pane, dell’unico Corpo, e
così entrare nella grande avventura dell’amore di Dio. Così dobbiamo celebrare,
vivere, meditare sempre l’Eucaristia, come questa scuola della liberazione dal
mio “io”: entrare nell’unico pane, che è pane di tutti, che ci unisce
nell’unico Corpo di Cristo. E quindi, l’Eucaristia è, di per sé, un atto di
amore, ci obbliga a questa realtà dell’amore per gli altri: che il sacrificio
di Cristo è la comunione di tutti nel suo Corpo. E quindi, in questo modo
dobbiamo imparare l’Eucaristia, che poi è proprio il contrario del
clericalismo, della chiusura in se stessi. Pensiamo anche a Madre Teresa, veramente
l’esempio grande in questo secolo, in questo tempo, di un amore che lascia se
stesso, che lascia ogni tipo di clericalismo, di estraneità al mondo, che va ai
più emarginati, ai più poveri, alle persone vicine alla morte e si dà
totalmente all’amore per i poveri, per gli emarginati. Ma Madre Teresa che ci
ha donato questo esempio, la comunità che segue le sue tracce supponeva sempre
come prima condizione di una sua fondazione la presenza di un tabernacolo.
Senza la presenza dell’amore di Dio che si dà non sarebbe stato possibile
realizzare quell’apostolato, non sarebbe stato possibile vivere in
quell’abbandono di se stessi; solo inserendosi in questo abbandono di sé in
Dio, in questa avventura di Dio, in questa umiltà di Dio, potevano e possono
compiere oggi questo grande atto di amore, questa apertura a tutti. In questo
senso, direi: vivere l’Eucaristia nel suo senso originario, nella sua vera
profondità, è una scuola di vita, è la più sicura protezione contro ogni
tentazione di clericalismo.
Oceania:
D. – Beatissimo Padre, sono don Anthony Denton e
vengo dall’Oceania, dall’Australia. Questa sera qui siamo in tantissimi
sacerdoti. Sappiamo però che i nostri seminari non sono pieni e che, nel
futuro, in varie parti del mondo, ci attende un calo, anche brusco. Cosa fare
di davvero efficace per le vocazioni? Come proporre la nostra vita, in ciò che
di grande e bello c’è in essa, ad un giovane del nostro tempo?
R. – Grazie. Realmente lei tocca di nuovo un problema
grande e doloroso del nostro tempo: la mancanza di vocazioni, a causa della
quale Chiese locali sono in pericolo di inaridire, perché manca la Parola di
vita, manca la presenza del sacramento dell’Eucaristia e degli altri
Sacramenti. Cosa fare? La tentazione è grande: di prendere noi stessi in mano
la cosa, di trasformare il sacerdozio - il sacramento di Cristo, l’essere
eletto da Lui - in una normale professione, in un “job” che ha le sue ore, e
per il resto uno appartiene solo a se stesso; e così rendendolo come una
qualunque altra vocazione: renderlo accessibile e facile. Ma è una tentazione,
questa, che non risolve il problema. Mi fa pensare alla storia di Saul, il re
di Israele, che prima della battaglia contro i Filistei aspetta Samuele per il
necessario sacrificio a Dio. E quando Samuele, nel momento atteso, non viene,
lui stesso compie il sacrificio, pur non essendo sacerdote (cfr 1Sam
13); pensa di risolvere così il problema, che naturalmente non risolve, perché
se prende in mano lui stesso quanto non può fare, si fa lui stesso Dio, o
quasi, e non può aspettarsi che le cose vadano realmente nel modo di Dio. Così,
anche noi, se svolgessimo solo una professione come altri, rinunciando alla
sacralità, alla novità, alla diversità del sacramento che dà solo Dio, che può
venire soltanto dalla sua vocazione e non dal nostro “fare”, non risolveremo
nulla. Tanto più dobbiamo - come ci invita il Signore - pregare Dio, bussare
alla porta, al cuore di Dio, affinché ci dia le vocazioni; pregare con grande
insistenza, con grande determinazione, con grande convinzione anche, perché Dio
non si chiude ad una preghiera insistente, permanente, fiduciosa, anche se
lascia fare, aspettare, come Saul, oltre i tempi che noi abbiamo previsto.
Questo mi sembra il primo punto: incoraggiare i fedeli ad avere questa umiltà,
questa fiducia, questo coraggio di pregare con insistenza per le vocazioni, di
bussare al cuore di Dio perché ci dia dei sacerdoti. Oltre a questo direi forse
tre punti. Il primo: ognuno di noi dovrebbe fare il possibile per vivere il
proprio sacerdozio in maniera tale da risultare convincente, in maniera tale
che i giovani possano dire: questa è una vera vocazione, così si può vivere,
così si fa una cosa essenziale per il mondo. Penso che nessuno di noi sarebbe
diventato sacerdote se non avesse conosciuto sacerdoti convincenti nei quali
ardeva il fuoco dell’amore di Cristo. Quindi, questo è il primo punto:
cerchiamo di essere noi stessi sacerdoti convincenti. Il secondo punto è che
dobbiamo invitare, come ho già detto, all’iniziativa della preghiera, ad avere
questa umiltà, questa fiducia di parlare con Dio con forza, con decisione. Il
terzo punto: avere il coraggio di parlare con i giovani se possono pensare che
Dio li chiami, perché spesso una parola umana è necessaria per aprire l’ascolto
alla vocazione divina; parlare con i giovani e soprattutto aiutarli a trovare
un contesto vitale in cui possano vivere. Il mondo di oggi è tale che quasi
appare esclusa la maturazione di una vocazione sacerdotale; i giovani hanno
bisogno di ambienti in cui si vive la fede, in cui appare la bellezza della
fede, in cui appare che questo è un modello di vita, “il” modello di vita, e
quindi aiutarli a trovare movimenti, o la parrocchia – la comunità in
parrocchia – o altri contesti dove realmente siano circondati dalla fede, dall’amore
di Dio, e possano quindi essere aperti affinché la vocazione di Dio arrivi e li
aiuti. Del resto, ringraziamo il Signore per tutti i seminaristi del nostro
tempo, per i giovani sacerdoti, e preghiamo. Il Signore ci aiuterà! Grazie a
voi tutti!
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