Colloquio ad Ars
«Il Celibato sacerdotale, fondamenti, gioie, sfide…»
Foyer sacerdotale Giovanni Paolo II
24 – 26 gennaio 2011
«Gli insegnamenti del Papa
sull’argomento: da Pio XI a Benedetto XVI»
Intervento del Cardinal Mauro Piacenza
Prefetto della Congregazione per il Clero
Lunedì 24 gennaio – ore 16.15
Venerati
Confratelli nell’Episcopato,
Carissimi
Sacerdoti a Amici tutti,
Sono molto lieto di intervenire al vostro Colloquio
utilizzando le più moderne tecniche della comunicazione. Tale intervento
intende esprimere innanzitutto la più profonda stima e l’incoraggiamento mio
personale e della Congregazione per il Clero per gli organizzatori del
Colloquio, per il tema quanto mai opportuno, che è stato scelto e, soprattutto,
perché esso si svolge nel luogo che ha visto l’operare di San Giovanni Maria
Vianney, modello compiuto di Sacerdozio ministeriale ed immagine di continuo
riferimento anche per i sacerdoti del nostro tempo.
Il tema che mi è stato assegnato è molto specifico e
riguarda gli insegnamenti dei Papi sul Celibato sacerdotale, da Pio XI a Benedetto
XVI. Svolgerò il presente intervento prendendo in esame alcuni tra i più
significativi documenti di tali Pontefici, mostrando l’attualità dei loro insegnamenti
e tracciando alcune linee di sintesi che mi auguro siano utili da trasfondere,
di fatto, nella formazione ecclesiastica.
L’insegnamento dei Pontefici da
Pio XI a Benedetto XVI
Per mantenermi nei tempi assegnatimi, ho fatto la scelta
di prendere in esame solo i documenti più significativi dei Pontefici e,
segnatamente, alcune Encicliche, che, a tale riguardo, risultano
particolarmente rilevanti.
1. Pio XI e l’Enciclica Ad Catholici Sacerdotii
è storicamente acclarata la vera e propria passione
del Santo Padre Pio XI per le Vocazioni sacerdotali e la sua indefessa opera
per l’edificazione di Seminari, in tutto l’orbe cattolico, nei quali potessero
ricevere adeguata formazione i giovani che si preparavano al Ministero
sacerdotale.
All’interno di questa cornice deve essere adeguatamente
compresa l’Enciclica Ad Catholici
Sacerdotii del 20 dicembre 1935, promulgata in occasione del 56°
Anniversario di Ordinazione sacerdotale di quel Pontefice. L’Enciclica si
compone di quattro parti, le prime due dedicate più specificatamente ai
fondamenti, dal titolo 1. “La sublime dignità: Alter Christus” e 2. “Fulgido ornamento”, mentre la terza e la
quarta sono di carattere più normativo-disciplinare e concentrano la propria
attenzione sulla preparazione dei giovani al Sacerdozio e su alcune
caratteristiche della spiritualità.
Di particolare interesse per il nostro argomento è la
seconda parte dell’Enciclica, che dedica un intero paragrafo alla castità. Esso
tuttavia si colloca, nella seconda parte, dopo il paragrafo che parla del
sacerdote come “imitatore di Cristo” e quello dedicato a “la pietà
sacerdotale”, mostrando, in tal modo, come la concezione del Sacerdozio di Pio
XI fosse - come la Chiesa sempre ritiene - quella di carattere
ontologico-sacramentale. Da essa deriva l’esigenza dell’imitazione di Cristo e
della eccellenza della vita sacerdotale, soprattutto in ordine alla santità.
Afferma infatti l’Enciclica: «Il Sacrificio eucaristico, in cui si immola la
Vittima immacolata che toglie i peccati del mondo, in modo particolare esige
che il sacerdote, con una vita santa e intemerata, si renda il meno indegno
possibile di Dio, a cui ogni giorno offre quella Vittima adorabile, che è lo
stesso Verbo di Dio incarnato per nostro amore» e ancora: «Siccome il Sacerdote
è “ambasciatore di Cristo” (cf. 2Cor
5,20), egli deve vivere in modo da potere, con verità, far sue le parole
dell’Apostolo: “siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (cf. 1Cor 4,16;11,1), deve vivere come un
altro Cristo, che, col fulgore delle Sue virtù, illuminava e illumina il
mondo».
Immediatamente prima di parlare della castità, quasi a
sottolinearne l’inseparabile legame, Pio XI pone in evidenza l’importanza della
pietà sacerdotale, affermando: «Noi intendiamo la pietà soda, la quale, non
soggetta alle incessanti fluttuazioni del sentimento, si fonda sui principi
della dottrina più sicura, ed è quindi formata di convinzioni salde, che
resistono agli assalti e alle lusinghe della tentazione». Da tali affermazioni
emerge con chiarezza, come la comprensione stessa del Sacro Celibato sia in
stretta e profonda relazione con una buona formazione dottrinale, fedele alla
Sacra Scrittura, alla Tradizione e all’ininterrotto Magistero ecclesiale, e ad
un esercizio autentico della pietà, che oggi chiamiamo “intensa vita
spirituale”, al riparo sia dalle derive sentimentalistiche, le quali spesso
degenerano nel soggettivismo, sia da quelle razionalistiche, altrettanto
diffuse, le quali producono un criticismo scettico, ben lontano da un senso
critico intelligente e costruttivo.
La castità, nell’Enciclica Ad Catholici Sacerdotii, è definita come «intimamente congiunta con
la pietà, da cui deve ricevere consistenza e splendore». Di essa c’è un
tentativo di giustificazione razionale, secondo il diritto naturale,
nell’affermazione: «Un certo nesso tra questa virtù [la castità] ed il
Ministero sacerdotale, si scorge anche solo col lume della ragione: essendo Dio
Spirito, appare conveniente che chi si dedica e si consacra al servizio di Lui,
in qualche modo “si spogli del corpo”». A questa prima affermazione, che ai
nostri occhi risulta oggi piuttosto fragile, e che, in ogni caso lega la
castità alla purezza rituale e, conseguentemente, ne escluderebbe la
permanenza, legandola ai tempi dei riti del Culto, fa seguito il riconoscimento
della superiorità del Sacerdozio cristiano rispetto sia al sacerdozio
dell’Antico Testamento, sia all’istituto sacerdotale naturale proprio di ogni
tradizione religiosa.
L’Enciclica, a questo punto, pone al centro della
riflessione l’esperienza stessa del Signore Gesù, intesa come prototipica per
ogni sacerdote. Afferma infatti: «L’alta stima in cui il Divino Maestro mostrò
di avere la castità, esaltandola come cosa superiore alla comune capacità, […]
doveva quasi necessariamente far sì che i sacerdoti della Nuova Alleanza
sentissero il fascino celestiale di questa eletta virtù, cercando di essere nel
numero di quelli “ai quali è stato concesso di comprendere questa parola” (cf. Mt 19,11)».
È possibile, in queste affermazioni dell’Enciclica,
ravvisare una certa complementarietà tra l’intenzione di fondare la castità
sacerdotale su esigenza di purezza cultuale, e la ben più ampia, ed oggi
maggiormente compresa, esigenza di presentarla come imitatio Christi, via privilegiata per imitare il Maestro, che
visse esemplarmente in maniera povera, casta e obbediente.
Pio XI non tralascia, altresì, di citare i pronunciamenti
dogmatici riguardanti l’obbligo della castità, ed in particolare il Concilio di
Elvira ed il secondo Concilio di Cartagine, che, sebbene del IV secolo,
testimoniano con ovvietà una prassi ben precedente, consolidata e che,
pertanto, può essere tradotta in legge.
Con accento straordinariamente moderno, nel senso di
immediatamente accessibile alla nostra mentalità, l’Enciclica parla della
libertà, con la quale si accoglie il dono della castità, affermando: «Diciamo
“liberamente”, poiché, se dopo l’Ordinazione non saranno più liberi di
contrarre nozze terrene, all’Ordinazione stessa però accedono non costretti da
alcuna legge o persona, ma di propria spontanea volontà». Potremmo dedurre, in
risposta a talune obiezioni contemporanee, circa una presunta ostinazione della
Chiesa nell’imporre ai giovani il Celibato, che, il Magistero autorevole di Pio
XI, lo indicava quale esito della libera accoglienza di un carisma
soprannaturale, che nessuno impone, né potrebbe imporre. Piuttosto la norma
ecclesiastica va intesa come la scelta della Chiesa di ammettere al Sacerdozio
solo coloro che hanno ricevuto il carisma del Celibato e che, liberamente, lo
hanno accolto.
Se è legittimo sostenere che, secondo il clima
dell’epoca, il fondamento del Celibato ecclesiastico nell’Enciclica Ad Catholici Sacerdotii di Pio XI è
posto piuttosto in ragioni, comunque valide, di purità rituale, nondimeno è
possibile riconoscere nel medesimo testo un’importante dimensione esemplare sia
del Celibato di Cristo, sia della Sua libertà, che è la medesima a cui i
sacerdoti sono chiamati.
2. Pio XII e l’Enciclica Sacra
Virginitas
Un contributo determinante dal punto di
vista magisteriale è stato dato dall’Enciclica Sacra Virginitas, del 25 marzo 1954, del Servo di Dio Pio XII.
Essa, come tutte le Encicliche di quel Pontefice, rifulge per la chiara e
profonda impostazione dottrinale, per la ricchezza di riferimenti biblici,
storici, teologici, spirituali, e costituisce ancora oggi un punto di
riferimento di notevole rilievo.
Se, in senso stretto, l’Enciclica ha
come oggetto formale, non il celibato ecclesiastico, ma la verginità per il
Regno dei Cieli, nondimeno moltissimi sono, in essa, gli spunti di riflessione
e gli espliciti riferimenti alla condizione celibataria anche del Sacerdozio.
Il Documento si compone di quattro
parti: la prima delinea la “vera idea della condizione verginale”, la seconda
identifica e risponde ad alcuni errori dell’epoca, che non perdono la loro problematicità
anche nell’oggi, la terza parte delinea il rapporto tra verginità e sacrificio,
mentre l’ultima, a mo’ di conclusione, delinea alcune speranze e alcuni timori
legati alla verginità.
La verginità, nella prima parte, è
presentata come un modo eccellente di vivere la sequela di Cristo. «Che cos’è,
infatti, seguire se non imitare?» si domanda il Pontefice. E risponde: «Tutti
questi discepoli hanno abbracciato lo stato di verginità per la conformità allo
Sposo Cristo. […] La loro ardente carità verso Cristo non poteva contentarsi di
vincoli di affetto con Lui: essa aveva assoluto bisogno di manifestarsi con
l’imitazione delle Sue virtù e, in modo speciale, con la conformità alla Sua
vita tutta consacrata al bene e alla salvezza del genere umano. Se i sacerdoti
[…] osservano la castità perfetta, questo è in definitiva perché il loro Divino
Maestro è rimasto Egli stesso vergine fino alla morte».
In realtà, e non certo a caso, il
Pontefice assimila la condizione verginale sacerdotale a quella dei religiosi e
delle religiose, mostrando, in tal modo, come il celibato, che differisce dal
punto di vista normativo, abbia in realtà il medesimo fondamento teologico e
spirituale.
Un’altra ragione del celibato è
individuata dal Pontefice nell’esigenza, connessa al Mistero, di una profonda libertà
spirituale. Afferma l’Enciclica: «Proprio perché i sacri Ministri possano
godere di questa spirituale libertà di corpo e di anima, e per evitare che si
immischino in affari terreni, la Chiesa latina esige da essi che assumano
volontariamente l’obbligo della castità perfetta», e aggiunge: «I Ministri
sacri, però, non rinunciano al matrimonio unicamente perché si dedicano
all’apostolato, ma anche perché servono all’Altare». Emerge, in tal modo, come
alla ragione apostolica e missionaria si unisca propriamente, nel Magistero di
Pio XII, quella cultuale, in una sintesi che, oltre ogni polarizzazione,
rappresenta la reale e completa unità di ragioni a favore del celibato
sacerdotale.
Del resto già nell’Esortazione Apostolica
Menti Nostrae, lo stesso Pio XII
affermava: «Per la legge del celibato, il Sacerdote, ben lontano dal perdere la
paternità, la accresce all’infinito, perché egli genera figliuoli, non per
questa vita terrena e caduca, ma per la celeste ed eterna».
Missionarietà, sacralità del Ministero,
realistica imitazione di Cristo, fecondità e paternità spirituale
costituiscono, dunque, l’orizzonte imprescindibile di riferimento del celibato
sacerdotale, non indipendentemente dalla correzione di alcuni errori sempre
latenti, come il misconoscimento dell’eccellenza oggettiva, e non certo per
santità soggettiva, dello stato verginale rispetto a quello matrimoniale,
l’affermazione dell’impossibilità umana a vivere la condizione verginale o
l’estraneità dei consacrati alla vita del mondo e della società. A tal riguardo
afferma il Pontefice: «Le anime consacrate alla castità perfetta non
impoveriscono per questo la propria personalità umana, poiché ricevono da Dio
stesso un soccorso spirituale immensamente più efficace che il “mutuo aiuto”
degli sposi. Consacrandosi direttamente a Colui che è il loro Principio e
comunica la Sua Vita divina, non si impoveriscono ma si arricchiscono».
Tali affermazioni potrebbero essere
sufficienti a rispondere, con la necessaria chiarezza, a tante obiezioni di
carattere psico-antropologico, che ancora oggi vengono mosse al celibato
sacerdotale.
Ultimo grande e fondamentale tema
affrontato dall’Enciclica Sacra
Virginitas è quello, più propriamente sacerdotale, del rapporto tra verginità
e sacrificio. Osserva il Pontefice, citando Sant’Ambrogio: «La castità perfetta
non è che un consiglio, un mezzo capace di condurre più sicuramente e più
facilmente alla perfezione evangelica […] quelle anime “a cui è stato concesso”
(Mt 19,11). Essa non è imposta, ma proposta». In tal senso, è duplice l’invito
di Pio XII sulla scia dei grandi Padri: da un lato, egli afferma il dovere di
«ben misurare le forze» per comprendere se si è in grado di accogliere il dono
di grazia del celibato, consegnando a tutta la Chiesa, in tal senso,
specialmente ai giorni nostri, un sicuro criterio di onesto discernimento;
dall’altro, pone in evidenza l’intrinseco legame tra castità e martirio,
insegnando, con San Gregorio Magno, che la castità sostituisce il martirio e
rappresenta, in ogni tempo, la più alta ed efficace forma di testimonianza.
Appare evidente a tutti come,
soprattutto nella nostra società secolarizzata, la perfetta continenza per il
Regno dei Cieli, rappresenti una delle testimonianze più efficaci e maggiormente
capaci di “provocare” salutarmente l’intelligenza e il cuore dei nostri
contemporanei. In un clima sempre più grandemente, e quasi violentemente
eroticizzato, la castità, soprattutto di coloro che nella Chiesa sono insigniti
del Sacerdozio ministeriale, rappresenta una sfida, ancora più potentemente
eloquente, alla cultura dominante e, in definitiva, alla stessa domanda
sull’esistenza di Dio e sulla possibilità di conoscerLo e di entrare in
rapporto con Lui.
Mi pare ora doveroso mettere in luce un’ultima
riflessione sull’Enciclica di Pio XII, poiché essa, più delle altre, appare
decisamente controcorrente rispetto a molti dei costumi oggi diffusi anche tra
non pochi membri del Clero e in vari luoghi di “formazione”. Citando San
Girolamo, il Pontefice mette in luce come «a custodia della castità serve più
la fuga che la lotta aperta […] e tale fuga consiste non solo nell’allontanare
premurosamente le occasioni del peccato, ma soprattutto nell’innalzare la
mente, durante queste lotte, a Colui al Quale abbiamo consacrato la nostra
verginità. “Rimirate la bellezza di Colui che vi ama” raccomanda Sant’Agostino».
Apparirebbe oggi quasi impossibile
all’educatore trasmettere il valore del celibato e della purezza ai giovani
seminaristi, in un contesto nel quale risulti, di fatto, impossibile vigilare
sulle visioni, sulle letture, sull’utilizzo di internet, e sulle conoscenze. Se
è sempre più evidente e necessario il coinvolgimento maturo della libertà dei
candidati in una volontaria e consapevole collaborazione all’opera di
formazione, non di meno l’Enciclica giudica un errore, e concordiamo
pienamente, permettere a chi si prepara al Sacerdozio ogni esperienza, senza il
necessario discernimento e il dovuto distacco dal mondo. Permettere ciò
equivale a comprendere nulla dell’uomo, della sua psicologia, della società e
della cultura che ci circonda. Significa essere chiusi in una sorta di
ideologia preconcetta che va contro la realtà. Basta guardarsi attorno. Quanto
realismo nei versetti del salmo: “hanno occhi e non vedono…”!
Devo confidare, alla fine di questo breve excursus sull’Enciclica di Pio XII (ma
lo stesso potrei dire per quella di Pio XI), che rimango sempre sorpreso della
loro modernità e attualità. Pur permanendo la preminente focalizzazione sull’aspetto
sacrale del celibato e sul legame tra esercizio del Culto e verginità per il
Regno dei Cieli, il Magistero di questi due Pontefici presenta un celibato cristologicamente
fondato, sia nella direttrice della configurazione ontologica a Cristo Sacerdote-Vergine,
sia in quella della imitatio Christi.
Se appare in parte giustificata la lettura che vede nel
Magistero papale sul Celibato, anteriore al Concilio Ecumenico Vaticano II,
un’insistenza sulle argomentazioni sacrali-rituali, e, in quello successivo al
Concilio, un’apertura a ragioni più cristologico-pastorali, nondimeno è
doveroso riconoscere – e questo è fondamentale per la corretta ermeneutica
della continuità, ovvero per l’ermeneutica “cattolica” – che sia Pio XI, sia
Pio XII sottolineano ampiamente le ragioni di carattere teologico. Il celibato
risulta, dai menzionati pronunciamenti, non solo particolarmente opportuno e
appropriato alla condizione sacerdotale, ma intimamente connesso con l’essenza
stessa del Sacerdozio, compresa come partecipazione alla Vita di Cristo, alla
Sua Identità e, perciò, alla Sua Missione. Non è certo un caso che quelle
Chiesa di Rito orientale che ordinano anche viri probati, non ammettono
assolutamente all’ordinazione episcopale presbiteri uxorati!
3. Giovanni XXIII e l’Enciclica Sacerdotii
nostri primordia
Il Beato Giovanni XXIII ha dedicato, come voi ben sapete,
un’intera Enciclica al Santo Curato d’Ars, nel primo Centenario della sua
nascita al Cielo. In essa, i temi fondamentali della verginità e del celibato
per il Regno dei Cieli, sviluppati dal Pontefice Pio XI e, soprattutto, da Papa
Pio XII, vengono recepiti da Giovanni XXIII e come progressivamente declinati
nell’esemplare figura di San Giovanni Maria Vianney, che egli presenta quale quintessenza
del Sacerdozio cattolico.
Il Pontefice mette in luce come tutte le virtù necessarie
e proprie di un sacerdote siano state accolte e vissute da San Giovanni Maria
Vianney, e pone l’accento, nel testo dell’Enciclica, sull’ascesi sacerdotale,
sul ruolo della preghiera e del Culto eucaristico, e sul conseguente zelo
pastorale.
Citando, anche se indirettamente, Pio XI, l’Enciclica riconosce
come, per il compimento delle funzioni sacerdotali, si esiga una santità
maggiore di quella richiesta dallo stato religioso, ed afferma come la
grandezza del Sacerdote consista nell’imitazione di Gesù Cristo. Afferma
Giovanni XXIII: «La castità brillava nel suo sguardo, è stato detto del Curato
d’Ars. Realmente, chi si pone alla sua scuola è colpito, non solo dall’eroismo
con cui questo sacerdote ridusse in schiavitù il suo corpo (cf. 1Cor 9,27), ma anche dall’accento di
convinzione, con cui egli riusciva a trascinare dietro di sé la moltitudine dei
suoi penitenti». Emerge con chiarezza come, per il Beato Giovanni XXIII, nel
Curato d’Ars sia di luminosa evidenza il legame tra efficacia ministeriale e
fedeltà alla perfetta continenza per il Regno dei Cieli, e come quest’ultima
non sia determinata dalle esigenze del Ministero, ma, al contrario e contro
ogni riduzione funzionalistica del Sacerdozio, sia proprio il Ministero, nella
sua più ampia fioritura, ad essere determinato, quasi causato dalla fedeltà al
celibato. Continua il Pontefice: «Questa ascesi necessaria alla castità, lungi
dal chiudere il Sacerdote in uno sterile egoismo, rende il suo cuore più aperto
e più pronto a tutte le necessità dei suoi fratelli: “Quando il cuore è puro –
diceva ottimamente il Curato d’Ars – non può far a meno di amare, poiché ha
ritrovato la sorgente dell’Amore che è Dio”».
Da tale argomentare perfettamente teologico ben si
comprende come Spirito di Dio e spirito del mondo si trovino in diametrale
opposizione. Abbiamo dunque i parametri per capire e per costruire.
Nell’Enciclica è posto in evidenza il legame costitutivo
tra celibato, identità sacerdotale e celebrazione dei divini Misteri.
Particolare accento è posto sul legame tra offerta eucaristica del divino
Sacrificio e dono quotidiano di se stessi, anche nel sacro celibato. Già nel
1959, il Magistero pontificio riconosceva, così, come gran parte del disorientamento
rispetto alla fedeltà e alla necessità del celibato ecclesiastico dipendesse, e
di fatto dipenda, dalla non adeguata comprensione del suo rapporto con la
Celebrazione Eucaristica. In essa, infatti, non funzionalisticamente, ma
realmente, il Sacerdote partecipa all’offerta unica ed irripetibile di Cristo,
la quale tuttavia è sacramentalmente attualizzata e ripresentata nella Chiesa
per la Salvezza del mondo. Una tale partecipazione implica l’offerta di se
stessi, che deve essere integra, includente pertanto anche la propria carne
nella verginità.
Chi non vede allora come fra Eucaristia-culto divino e
Sacerdozio ordinato esista un nesso vitale? Le sorti del culto e del Sacerdozio
sono legate insieme. Impossibile curare un ambito senza curare l’altro. Occorre
rifletterci quando si pone mano alla formazione sacerdotale e occorre pure
essere consapevoli del fatto che alle sorti della riforma dei chierici è legata
la sorte della nuova evangelizzazione assolutamente indispensabile.
Vale ancora oggi, forse con accenti di maggiore drammaticità,
l’indicazione del Beato Pontefice: «Noi chiediamo ai nostri diletti sacerdoti
di esaminarsi periodicamente sulla maniera con cui celebrano i Santi Misteri,
sulle disposizioni spirituali con cui salgono all’Altare e sui frutti che si
sforzano di ricavarne». L’Eucaristia è, così, nel contempo fonte del sacro
celibato e “prova d’esame” della fedeltà ad esso, banco concreto di prova della
reale offerta di se stessi al Signore.
4. Paolo VI e la Sacerdotalis caelibatus
Pubblicata il 24 giugno del 1967, la Sacerdotalis caelibatus è l’ultima Enciclica interamente dedicata da un Pontefice al tema del
celibato. Nella temperie dell’immediato post-Concilio, recependo interamente la
Dottrina conciliare, Paolo VI sentì il bisogno di ribadire, con un autorevole
atto magisteriale, la perenne validità del celibato ecclesiastico, il quale,
forse in maniera ancora più veemente che non oggi, veniva contestato attraverso
veri e propri tentativi di delegittimazione sia storico-biblica che teologico-pastorale.
Come noto, la Presbyterorum
Ordinis, distingue tra celibato in sé e legge del celibato, laddove al n.
16 afferma: «La perfetta e perpetua continenza per il Regno dei Cieli,
raccomandata da Cristo Signore nel corso dei secoli e anche ai nostri giorni
gioiosamente abbracciata e lodevolmente osservata da non pochi fedeli, è sempre
stata considerata dalla Chiesa come particolarmente confacente alla vita
sacerdotale… per questi motivi – fondati sul Mistero di Cristo e della Sua
Missione – il celibato, che prima veniva raccomandato ai sacerdoti, in seguito
è stato imposto per legge, nella Chiesa latina, a tutti coloro che si avviano a
ricevere gli Ordini sacri». Tale distinzione è presente sia nel capitolo terzo
dell’Enciclica di Pio XI Ad catholici
Sacerdotii, sia al n. 21 dell’Enciclica di Paolo VI. Entrambi i documenti
riconducono sempre la legge del celibato alla sua vera origine, che è data
dagli Apostoli e, attraverso di essi, da Cristo stesso.
Il Servo di Dio Paolo VI, al n. 14 dell’Enciclica,
afferma: «Noi dunque riteniamo che la vigente legge del sacro celibato, debba
ancora oggi, e fermamente, accompagnarsi al Ministero ecclesiastico; essa deve
sorreggere il Ministro nella sua scelta esclusiva, perenne e totale dell’unico
e sommo Amore di Cristo e della consacrazione al Culto di Dio e al servizio
della Chiesa, e deve qualificare il suo stato di vita, sia nella comunità dei
fedeli, che in quella profana». Come è di immediata evidenza, il Pontefice
assume le ragioni cultuali proprie del Magistero precedente e le integra con
quelle teologico-spirituali e pastorali, maggiormente sottolineate dal Concilio
Ecumenico Vaticano II, ponendo in evidenza come il duplice ordine di ragioni
non sia mai da considerare in antitesi, ma in reciproca relazione e feconda
sintesi.
La medesima impostazione è riscontrabile al n. 19 del
Documento, che richiama al compito del Sacerdote, quale Ministro di Cristo e
amministratore dei Misteri di Dio, ed ha, in certo modo, il suo culmine al n.
21, che afferma: «Cristo rimase per tutta la Sua vita nello
stato di verginità, il che significa la Sua totale dedizione al servizio di Dio
e degli uomini. Questa profonda connessione tra la verginità ed il Sacerdozio,
in Cristo, si riflette in quelli che hanno la sorte di partecipare alla dignità
ed alla missione del Mediatore e Sacerdote eterno, e tale partecipazione sarà
tanto più perfetta, quanto più il sacro Ministro sarà libero da vincoli di
carne e di sangue». La titubanza, dunque, nella comprensione dell’inestimabile
valore del sacro celibato e nella conseguente sua adeguata valorizzazione e,
ove fosse necessario, strenua difesa, potrebbe essere intesa come non adeguata
comprensione della reale portata del Ministero ordinato nella Chiesa e della
sua insuperabile relazione ontologico-sacramentale, e dunque reale, a Cristo
sommo Sacerdote.
A tali imprescindibili
riferimenti cultuali e cristologici, l’Enciclica fa seguire un chiaro
riferimento ecclesiologico, anch’esso essenziale per l’adeguata comprensione
del valore del celibato: «Preso da Cristo Gesù fino all’abbandono totale di
tutto se stesso a Lui, il Sacerdote si configura più perfettamente a Cristo
anche nell’amore col quale l’Eterno Sacerdote ha amato la Chiesa, o Corpo,
offrendo tutto Se stesso per Lei, al fine di farsene una Sposa gloriosa, santa
e immacolata. La verginità consacrata dei sacri Ministri manifesta, infatti,
l’amore verginale di Cristo per la Chiesa e la verginale e soprannaturale
fecondità di questo connubio, per cui i figli di Dio né dalla carne, né dal
sangue sono generati» (n. 26). Come potrebbe Cristo amare la Sua Chiesa di un
amore non verginale? Come potrebbe il Sacerdote, alter Christus, essere sposo della Chiesa in modo non verginale?
Emerge, nel completo
argomentare dell’Enciclica, la profonda interconnessione di tutte le valenze
del sacro celibato, il quale, da qualunque lato lo si voglia guardare, appare
sempre più radicalmente ed intimamente connesso al Sacerdozio.
Continuando ad argomentare
delle ragioni ecclesiologiche a sostegno del celibato, l’Enciclica, nei nn. 29,
30 e 31, pone in evidenza il rapporto insuperabile tra celibato e Mistero
Eucaristico, affermando che, con il celibato, «il Sacerdote si unisce più
intimamente all’offerta, deponendo sull’altare tutta intera la propria vita,
che reca i segni dell’olocausto. […] Nella quotidiana morte a tutto se stesso,
nella rinunzia all’amore legittimo di una famiglia propria, per amore di Cristo
e del Suo Regno, troverà la gloria di una vita in Cristo, pienissima e feconda,
perché, come Lui e in Lui, il Sacerdote ama
e si dà a tutti i figli di Dio».
L’ultimo grande insieme di
ragioni, che vengono presentate a sostegno del sacro celibato, riguarda il suo
significato escatologico. Nel riconoscimento che il Regno di Dio non è di
questo mondo (cf. Gv 18,30), che alla
Risurrezione non si prende né moglie né marito (cf. Mt 22,30), e che «il prezioso dono divino della continenza perfetta
per il Regno dei Cieli costituisce […] un segno particolare dei beni celesti
(cf. 1Cor 7,29-31)», il celibato è
indicato anche come «una testimonianza della necessaria tensione del Popolo di
Dio verso l’ultima Meta del pellegrinaggio terrestre e incitamento per tutti a
levare lo sguardo alla cose superne» (n. 34).
Chi è posto in autorità
per guidare i fratelli al riconoscimento di Cristo, all’accoglimento delle
verità rivelate, ad una condotta di vita sempre più irreprensibile e, in una
parola, alla santità, trova, così, nel sacro celibato, una convenientissima e
straordinariamente forte profezia, capace di conferire singolare autorevolezza al
proprio Ministero e fecondità, sia esemplare sia apostolica, al proprio agire.
Con straordinaria
attualità, l’Enciclica risponde anche a quelle obiezioni che vedrebbero, nel
celibato, una mortificazione dell’umanità, privata in tal modo di uno degli
aspetti più belli della vita. Al n. 56, si afferma: «Nel cuore del Sacerdote,
non è spento l’amore. Attinta alla più pura sorgente, esercitata a imitazione
di Dio e di Cristo, la carità, non meno di ogni autentico amore, è esigente e
concreta, allarga all’infinito l’orizzonte del Sacerdote, approfondisce e
dilata il suo senso di responsabilità – indice di personalità matura –, educa
in lui, come espressione di una più alta e vasta paternità, una pienezza e
delicatezza di sentimenti, che lo arricchiscono in sovrabbondante misura». In
una parola: «Il celibato, elevando integralmente l’uomo, contribuisce
effettivamente alla sua perfezione» (n. 55).
Nel 1967, anno di
pubblicazione dell’Enciclica Sacerdotalis
caelibatus, il Servo di Dio Paolo VI pone uno degli atti di Magistero più
coraggiosi ed esemplarmente chiarificatori dell’intero suo Pontificato. Un’Enciclica
che andrebbe attentamente studiata da ogni candidato al Sacerdozio, fin
dall’inizio del proprio iter, ma certamente prima di inoltrare la domanda di
ammissione all’ordinazione diaconale, periodicamente ripresa nella formazione
permanente e fatta oggetto non solo di attento studio biblico, storico, teologico,
spirituale e pastorale, ma anche di approfondita, personale meditazione.
5.
Giovanni Paolo II e la Pastores dabo
vobis
Sin
dall’inizio del suo Pontificato, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riservato
grande attenzione al tema del celibato, ribadendone la perenne validità e
ponendone in evidenza il legame vitale con il Mistero Eucaristico. Il 9
novembre 1978, a poche settimane dalla sua elezione al soglio pontificio, nel
primo discorso al Clero di Roma, affermava: «Il Concilio Vaticano II
ci ha ricordato questa splendida verità sul “sacerdozio universale” di tutto il
Popolo di Dio, che deriva dalla partecipazione all’unico Sacerdozio di Gesù
Cristo. Il nostro Sacerdozio “ministeriale”, radicato nel Sacramento
dell’Ordine, si differenzia essenzialmente dal sacerdozio universale dei
fedeli. […] Il nostro Sacerdozio deve essere limpido ed espressivo […], strettamente
legato al celibato, […] per la limpidezza e l’espressività “evangelica”, alla
quale si riferiscono le parole di Nostro Signore sul celibato “per il regno dei
cieli” (cf. Mt 19,12)» (n. 3).
Certamente punto di particolare
rilievo, in ordine a tutti i temi riguardanti il Sacerdozio e la formazione
sacerdotale, è stata l’Esortazione Apostolica Pastores dabo vobis, nella quale il dono del celibato è colto nel
legame tra Gesù e il Sacerdote e, per la prima volta, è fatta menzione dell’importanza
anche psicologica di tale legame, non in modo separato dall’importanza
ontologica. Leggiamo infatti, al n. 72: «In
questo legame tra il Signore Gesù e il Sacerdote, legame ontologico e
psicologico, sacramentale e morale, sta il fondamento e, nello stesso tempo, la
forza per quella “vita secondo lo Spirito” e per quel “radicalismo evangelico”
al quale è chiamato ogni sacerdote e che viene favorito dalla formazione
permanente, nel suo aspetto spirituale».
Vita secondo lo Spirito e
radicalismo evangelico rappresentano, dunque, le due irrinunciabili linee direttrici,
lungo le quali corre la documentata e motivata permanente validità del celibato
sacerdotale. Il fatto che il Servo di Dio Giovanni Paolo II ne ribadisca
immediatamente la validità, ne proponga la lettura ontologico-sacramentale,
spingendosi fino all’accoglimento delle giuste implicanze psicologiche, che il
carisma del celibato ha nella delineazione di una matura personalità cristiana
e sacerdotale, incoraggia e giustifica la lettura di tale insostituibile tesoro
ecclesiale all’insegna della più grande ed ininterrotta continuità e, insieme,
della più audace profezia.
Potremmo, infatti,
affermare che la messa in discussione o la relativizzazione del sacro celibato
costituiscano atteggiamenti reazionari rispetto al soffio dello Spirito mentre,
al contrario, la sua piena valorizzazione, il suo adeguato accoglimento, la sua
luminosa ed insuperabile testimonianza costituiscono apertura e profezia. Vera
profezia, anche nell’oggi della Chiesa, perfino sotto il peso dei recenti
drammi, che ne hanno orribilmente inzozzato la candida veste, e con ancora
maggiore evidenza nei confronti delle società iper-eroticizzate, nelle quali
regna sovrana la banalizzazione delle sessualità e della corporeità.
Il celibato grida al mondo
che Dio c’è, che è Amore e che è possibile, in ogni epoca, vivere totalmente di
Lui e per Lui. Ed è del tutto naturale che la Chiesa scelga i suoi Sacerdoti
tra coloro che hanno accolto e maturato, ad un livello così compiuto, e perciò
profetico, la pro-esistenza: l’esistenza per un Altro, per Cristo!
Il Magistero di Giovanni
Paolo II, così attento alla valorizzazione sia della famiglia, sia del ruolo
della donna nella Chiesa e nella società, non ha affatto timore di ribadire la
perenne validità del sacro celibato. Non sono pochi gli studi che ormai si conducono
anche sul tema interessante, e gravido di enormi conseguenze, della corporeità
e della “teologia del corpo” nel Magistero del Servo di Dio.
Proprio il Pontefice che,
forse più di tutti, nei tempi recenti, ha elaborato e vissuto una grande
teologia del corpo, ci consegna una radicale affezione al celibato ed il
superamento di ogni tentativo di riduzione funzionalistica, attraverso le
acclarate dimensioni ontologico-sacramentali e teologico-spirituali.
Un ulteriore elemento, che
emerge, non tanto come novità quanto come sottolineatura preziosa, nel
Magistero di Giovanni Paolo II (e già presente nella Presbyterorum Ordinis), è quello della fraternità sacerdotale. Essa
è interpretata non nei suoi riduzionismi psico-emotivi, ma nella sua radice sacramentale,
sia in relazione all’Ordine, sia in rapporto al Presbiterio unito al proprio Vescovo.
La fraternità sacerdotale è costitutiva del Ministero ordinato, ponendone in
evidenza la dimensione “di corpo”. Essa è il luogo naturale di quelle sane
relazioni fraterne, di aiuto concreto, sia materiale che spirituale, e di
compagnia e sostegno nel comune cammino di santificazione personale, proprio
attraverso il Ministero a noi affidato.
Un ultimo cenno desidero
farlo al Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato durante il Pontificato
di Giovanni Paolo II, nel 1992. Esso è, come da più parti viene sottolineato, l’autentico
strumento a nostra disposizione, per la corretta ermeneutica dei testi del
Concilio Ecumenico Vaticano II. E deve divenire, con sempre maggiore evidenza, imprescindibile
punto di riferimento sia della catechesi, sia dell’intera azione apostolica.
Nel Catechismo è ribadita, con autorevolezza, la perenne validità del celibato
sacerdotale, quando, al n. 1579, si legge: «Tutti i Ministri ordinati della
Chiesa latina, ad eccezione dei diaconi permanenti, sono normalmente scelti fra
gli uomini credenti, che vivono da celibi e che intendono conservare il
celibato “per il Regno dei Cieli” (Mt
19,12). Chiamati a consacrarsi con cuore indiviso al Signore e alle “Sue cose”,
essi si donano interamente a Dio e agli uomini. Il celibato è segno di questa
vita nuova, al cui servizio il Ministro della Chiesa viene consacrato;
abbracciato con cuore gioioso, esso annuncia, in modo radioso, il Regno di Dio».
Tutti i temi sinora
toccati dal Magistero dei Pontefici, che abbiamo preso in esame, sono come
mirabilmente condensati nella definizione del Catechismo: dalle ragioni
cultuali a quelle dell’imitatio Christi
nell’annuncio del Regno di Dio, da quelle derivanti dal servizio apostolico a
quelle ecclesiologiche ed escatologiche. Il fatto che la realtà del celibato
sia entrata nel Catechismo della Chiesa Cattolica dice come essa sia
intimamente correlata al cuore della Fede cristiana e ne documenti
quell’annuncio radioso, del quale il medesimo testo parla.
6.
Benedetto XVI e la Sacramentum Caritatis
L’ultimo Pontefice, che
prendiamo in esame, è quello felicemente regnante, Benedetto XVI, il cui iniziale
Magistero sul celibato sacerdotale non lascia dubbio alcuno, sia sulla validità
perenne della norma disciplinare, sia, soprattutto ed antecedentemente, sulla
sua fondazione teologica e particolarmente cristologico-eucaristica.
In particolare, il Santo
Padre ha dedicato al tema del celibato un intero numero dell’Esortazione
Apostolica Postsinodale, Sacramentum
Caritatis. In esso leggiamo: «I Padri sinodali hanno voluto
sottolineare che il Sacerdozio ministeriale richiede, attraverso l'Ordinazione,
la piena configurazione a Cristo. Pur nel rispetto della differente prassi e
tradizione orientale, è necessario ribadire il senso profondo del celibato
sacerdotale, ritenuto giustamente una ricchezza inestimabile, e confermato
anche dalla prassi orientale di scegliere i Vescovi solo tra coloro che vivono
nel celibato e che tiene in grande onore la scelta del celibato operata da
numerosi presbiteri. In tale scelta del sacerdote, infatti, trovano peculiare
espressione la dedizione che lo conforma a Cristo e l'offerta esclusiva di se
stesso per il Regno di Dio. Il fatto che Cristo stesso, Sacerdote in eterno,
abbia vissuto la sua missione fino al sacrificio della Croce nello stato di
verginità costituisce il punto di riferimento sicuro per cogliere il senso
della Tradizione della Chiesa latina a questo proposito. Pertanto, non è
sufficiente comprendere il celibato sacerdotale in termini meramente
funzionali. In realtà, esso rappresenta una speciale conformazione allo stile
di vita di Cristo stesso. Tale scelta è innanzitutto sponsale; è
immedesimazione con il cuore di Cristo Sposo che dà la vita per la Sua Sposa.
In unità con la grande Tradizione ecclesiale, con il Concilio Vaticano II e con
i Sommi Pontefici miei predecessori, ribadisco la bellezza e l'importanza di
una vita sacerdotale vissuta nel celibato come segno espressivo della dedizione
totale ed esclusiva a Cristo, alla Chiesa e al Regno di Dio, e ne confermo
quindi l'obbligatorietà per la Tradizione latina. Il celibato sacerdotale
vissuto con maturità, letizia e dedizione è una grandissima benedizione per la
Chiesa e per la stessa società» (n. 24).
Come è facile notare, l’Esortazione
Apostolica moltiplica gli inviti affinché il Sacerdote viva nell’offerta di se
stesso, fino al sacrificio della croce, per una dedizione totale ed esclusiva a
Cristo. Particolarmente rilevante è il legame, che l’Esortazione Apostolica
ribadisce, tra celibato ed Eucaristia; se tale teologia del Magistero sarà
recepita in modo autentico e realmente applicata nella Chiesa, il futuro del
celibato sarà luminoso e fecondo, perché sarà un futuro di libertà e di santità
sacerdotale. Potremmo così parlare non solo di “natura sponsale” del celibato,
ma della sua “natura eucaristica”, derivante dall’offerta che Cristo fa di Se
stesso perennemente alla Chiesa, e che si riflette in modo evidente nella vita
dei sacerdoti. Essi sono chiamati a riprodurre, nella loro esistenza, il
Sacrificio di Cristo, al quale sono stati assimilati in forza dell’Ordinazione
sacerdotale.
Dalla natura eucaristica del
celibato ne derivano tutti i possibili sviluppi teologici, che pongono il
Sacerdote di fronte al proprio ufficio fondamentale: la Celebrazione della
Santa Messa, nella quale le parole: “Questo è il Mio Corpo” e “Questo è il Mio
Sangue” non determinano soltanto l’effetto sacramentale loro proprio, ma,
progressivamente e realmente, devono modellare l’oblazione della stessa vita
sacerdotale.
Il Sacerdote celibe è così
associato personalmente e pubblicamente a Gesù Cristo; Lo rende realmente
Presente, divenendo egli stesso vittima, in quella che Benedetto XVI chiama: «la
logica eucaristica dell’esistenza cristiana».
Quanto più si recupererà,
nella vita della Chiesa, la centralità dell’Eucaristia, degnamente celebrata e costantemente
adorata, tanto più grande sarà la fedeltà al celibato, la comprensione del suo
inestimabile valore e, mi si consenta, la fioritura di sante Vocazioni al
Ministero ordinato.
Nel Discorso in occasione
dell’Udienza alla Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, il
22 dicembre 2006, Benedetto XVI affermava ancora: «Il vero fondamento del
celibato può essere racchiuso solo nella frase: “Dominus pars mea – Tu, Signore, sei la mia terra”. Può essere solo
teocentrico. Non può significare rimanere privi di amore, ma deve significare
il lasciarsi prendere dalla passione per Dio, ed imparare poi, grazie ad un più
intimo stare con Lui, a servire pure gli uomini. Il celibato deve essere una
testimonianza di Fede: la Fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita,
che solo a partire da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di Lui, rinunciando
al matrimonio e alla famiglia, significa che io accolgo e sperimento Dio come
realtà e perciò posso portarLo agli uomini».
Solo l’esperienza della
“eredità”, che il Signore è per ciascuna esistenza sacerdotale, rende efficace
quella testimonianza di Fede che è il celibato. Come lo stesso Santo Padre ha
ribadito nel Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il
Clero, il 16 marzo 2009, esso è: «Apostolica
vivendi forma […], partecipazione ad una “vita nuova” spiritualmente
intesa, a quel nuovo “stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed
è stato fatto proprio dagli Apostoli».
L’Anno Sacerdotale recentemente
concluso ha visto vari interventi del Santo Padre sul tema del Sacerdozio, in
particolare nelle catechesi del mercoledì, dedicate ai tria munera, ed in quelle in occasione dell’inaugurazione e della
chiusura dell’Anno Sacerdotale e delle ricorrenze legate a San Giovanni Maria
Vianney. Particolarmente rilevante è stato il dialogo del Santo Padre con i
sacerdoti, durante la grande Veglia di chiusura dell’Anno Sacerdotale, quando,
interrogato sul significato del celibato e sulle fatiche, che si incontrano per
viverlo nella cultura contemporanea, egli ha risposto, partendo dalla
centralità della Celebrazione Eucaristica quotidiana nella vita del Sacerdote,
che, agendo in Persona Christi, parla
nell’“Io” di Cristo, divenendo realizzazione della permanenza nel tempo
dell’unicità del Suo Sacerdozio, aggiungendo: «Questa unificazione del Suo “Io”
con il nostro implica che siamo tirati anche nella Sua realtà di Risorto,
andiamo avanti verso la vita piena della Risurrezione […]. In questo senso il
celibato è una anticipazione. Trascendiamo questo tempo e andiamo avanti, e
così tiriamo noi stessi e il nostro tempo verso il mondo della Risurrezione,
verso la novità di Cristo, verso la nuova e vera vita». È così sancita, dal
Magistero di Benedetto XVI, la relazione intima tra dimensione
eucaristica-fontale e dimensione escatologica anticipata e realizzata del
celibato sacerdotale. Superando d’un sol colpo ogni riduzione funzionalistica
del Ministero, il Santo Padre lo ricolloca nella sua ampia e alta cornice
teologica, lo illumina ponendone in evidenza la costitutiva relazione, dunque,
con la Chiesa e ne valorizza potentemente tutta la forza missionaria derivante
proprio da quel “di più” verso il Regno che il celibato realizza.
In quella medesima
circostanza, con profetica audacia, il Santo Padre ha affermato: «Per il mondo
agnostico, il mondo in cui Dio non centra, il celibato è un grande scandalo,
perché mostra proprio che Dio è considerato e vissuto come realtà. Con la vita
escatologica del celibato, il mondo futuro di Dio entra nelle realtà del nostro
tempo».
Come potrebbe la Chiesa
vivere senza lo scandalo del celibato? Senza uomini disposti ad affermare nel
presente, anche e soprattutto attraverso la propria carne, la realtà di Dio?
Tali affermazioni hanno avuto compimento e, in certo modo, coronamento nella
straordinaria Omelia pronunciata a chiusura dell’Anno Sacerdotale – che mi
permetto di invitarvi a rileggere – nella quale il Papa ha pregato perché, come
Chiesa, siamo liberati dagli scandali minori, perché appaia il vero scandalo
della storia, che è Cristo Signore.
Conclusioni
(in 7 punti)
Al termine di questo
percorso, che ci ha visti porre in evidenza alcuni passaggi più significativi
del Magistero pontificio sul celibato, da Pio XI al Santo Padre Benedetto XVI,
proviamo a tracciare un iniziale bilancio conclusivo, che possa rappresentare
una prima piattaforma di lavoro per la formazione dei Sacerdoti ad accogliere e
vivere pienamente questo dono del Signore.
1.
Emerge innanzitutto la radicale
continuità tra il Magistero che ha preceduto il Concilio Ecumenico Vaticano II
e quello successivo ad esso. Pur con accenti talora sensibilmente
differenti, più liturgico-sacrali o più cristologico-pastorali, l’ininterrotto
Magistero dei menzionati Pontefici è concorde nel fondare il celibato sulla
realtà teologica del Sacerdozio ministeriale, sulla configurazione
ontologico-sacramentale a Cristo Signore, sulla partecipazione al Suo unico
Sacerdozio e sulla imitatio Christi,
che esso implica. Solo una scorretta ermeneutica dei testi del Concilio,
potrebbe condurre a vedere nel celibato un residuo del passato, di cui
liberarsi al più presto. Una tale posizione, oltre che errata storicamente,
dottrinalmente e teologicamente, è anche dannosissima sotto il profilo
spirituale, pastorale, missionario e vocazionale.
2. è da superare, alla luce dell’esaminato
Magistero pontificio, la riduzione, in taluni ambienti così diffusa, del
celibato a mera legge ecclesiastica. Esso
è una legge solo perché è un’esigenza intrinseca del Sacerdozio e della configurazione
a Cristo che il Sacramento determina.
In tale senso la formazione al celibato, oltre
che ogni altro aspetto umano e spirituale, deve includere una solida dimensione
dottrinale, poiché non si può vivere ciò di cui non si comprende la ragione!
3.
Il “dibattito” sul celibato, che periodicamente nei secoli si è riacceso, non
favorisce la serenità delle giovani generazioni nel comprendere un dato così
determinante della vita sacerdotale. Valga per tutti quanto autorevolmente
espresso nella Pastores dabo vobis,
che, al n. 29, riportando integralmente il voto dell’intera Assemblea Sinodale,
afferma: « Il Sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di
mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i
candidati all'Ordinazione sacerdotale nel Rito latino. Il Sinodo sollecita
che il celibato sia presentato e spiegato nella sua piena ricchezza biblica,
teologica e spirituale, come dono prezioso dato da Dio alla sua Chiesa e come
segno del Regno che non è di questo mondo, segno dell’amore di Dio verso questo
mondo nonché dell’amore indiviso del Sacerdote verso Dio e il Popolo di Dio».
4.
Il celibato è questione di radicalismo evangelico! Povertà, castità ed
obbedienza non sono consigli riservati in modo esclusivo ai religiosi, sono
virtù da vivere con intensa passione missionaria. Non possiamo tradire i nostri
giovani! Non possiamo abbassare il livello della formazione e, di fatto, della
proposta di fede! Non possiamo tradire il popolo santo di Dio, che attende
pastori santi, come il Curato d’Ars! Dobbiamo
essere radicali nella sequela Christi!
E non temiamo il calo del numero dei chierici. Il numero decresce quando si
abbassa la temperatura della fede, perché le vocazione sono “affare” divino e
non umano, ew seguono la logica divina che è stoltezza umana! Ci vuole fede!
5.
In un mondo gravemente secolarizzato, è sempre più difficile comprendere le
ragioni del celibato. Tuttavia, dobbiamo avere il coraggio, come Chiesa, di
domandarci se intendiamo rassegnarci ad una tale situazione, accettando come
fatto ineluttabile la progressiva secolarizzazione delle società e delle
culture, o se siamo pronti ad un’opera
di profonda e reale nuova evangelizzazione, al servizio del Vangelo e,
perciò, della verità dell’uomo.
Ritengo, in tal senso, che il motivato sostegno
al celibato e la sua adeguata valorizzazione nella vita della Chiesa e del
mondo, possano rappresentare alcune tra le vie più efficaci per superare la
secolarizzazione. Che cosa intenderebbe, altrimenti, il Santo Padre Benedetto
XVI, quando afferma che il celibato «mostra proprio che Dio è considerato e
vissuto come realtà»?
6. La
radice teologica del celibato è da rintracciare nella nuova identità, che viene
donata a colui che è insignito dell’Ordine sacerdotale. La centralità della
dimensione ontologico-sacramentale e la conseguente strutturale dimensione
eucaristica del Sacerdozio rappresentano gli ambiti di naturale comprensione,
sviluppo ed esistenziale fedeltà al celibato. La questione essenziale, allora, non è da riferire tanto nel dibattito
sul celibato, quanto sulla qualità della fede delle nostre comunità. Una
comunità che non avesse in grande stima il celibato, quale attesa del Regno o
quale tensione eucaristica potrebbe vivere?
7. Il
vostro Colloquio ha come sottotitolo: “Fondamenti, gioie, sfide”. Sono persuaso
che i primi due, la conoscenza dei fondamenti e la gioiosa esperienza di un
celibato pienamente vissuto e, dunque, profondamente umanizzante, permettano
non solo di rispondere a tutte le sfide che il mondo, da sempre, pone al
celibato, ma anche di trasformare il celibato in una sfida per il mondo. Come
accennato nel primo punto di queste conclusioni, non dobbiamo lasciarci
condizionare o intimidire da un mondo senza Dio, che non comprende il celibato
e vorrebbe eliminarlo, ma al contrario dobbiamo
recuperare la motivata consapevolezza che il nostro celibato sfida il mondo,
mettendo in profonda crisi il suo secolarismo ed il suo agnosticismo e gridando,
nei secoli, che Dio c’è ed è Presente!