Colloquio ad Ars

«Il Celibato sacerdotale, fondamenti, gioie, sfide…»

Foyer sacerdotale Giovanni Paolo II

24 – 26 gennaio 2011

 

«Gli insegnamenti del Papa sull’argomento: da Pio XI a Benedetto XVI»

 

Intervento del Cardinal Mauro Piacenza

Prefetto della Congregazione per il Clero

Lunedì 24 gennaio – ore 16.15

 

 

 

Venerati Confratelli nell’Episcopato,

Carissimi Sacerdoti a Amici tutti,

 

Sono molto lieto di intervenire al vostro Colloquio utilizzando le più moderne tecniche della comunicazione. Tale intervento intende esprimere innanzitutto la più profonda stima e l’incoraggiamento mio personale e della Congregazione per il Clero per gli organizzatori del Colloquio, per il tema quanto mai opportuno, che è stato scelto e, soprattutto, perché esso si svolge nel luogo che ha visto l’operare di San Giovanni Maria Vianney, modello compiuto di Sacerdozio ministeriale ed immagine di continuo riferimento anche per i sacerdoti del nostro tempo.

Il tema che mi è stato assegnato è molto specifico e riguarda gli insegnamenti dei Papi sul Celibato sacerdotale, da Pio XI a Benedetto XVI. Svolgerò il presente intervento prendendo in esame alcuni tra i più significativi documenti di tali Pontefici, mostrando l’attualità dei loro insegnamenti e tracciando alcune linee di sintesi che mi auguro siano utili da trasfondere, di fatto, nella formazione ecclesiastica.

 

 

L’insegnamento dei Pontefici da Pio XI a Benedetto XVI

 

Per mantenermi nei tempi assegnatimi, ho fatto la scelta di prendere in esame solo i documenti più significativi dei Pontefici e, segnatamente, alcune Encicliche, che, a tale riguardo, risultano particolarmente rilevanti.

 

1. Pio XI  e l’Enciclica Ad Catholici Sacerdotii

è storicamente acclarata la vera e propria passione del Santo Padre Pio XI per le Vocazioni sacerdotali e la sua indefessa opera per l’edificazione di Seminari, in tutto l’orbe cattolico, nei quali potessero ricevere adeguata formazione i giovani che si preparavano al Ministero sacerdotale.

All’interno di questa cornice deve essere adeguatamente compresa l’Enciclica Ad Catholici Sacerdotii del 20 dicembre 1935, promulgata in occasione del 56° Anniversario di Ordinazione sacerdotale di quel Pontefice. L’Enciclica si compone di quattro parti, le prime due dedicate più specificatamente ai fondamenti, dal titolo 1. “La sublime dignità: Alter Christus” e 2. “Fulgido ornamento”, mentre la terza e la quarta sono di carattere più normativo-disciplinare e concentrano la propria attenzione sulla preparazione dei giovani al Sacerdozio e su alcune caratteristiche della spiritualità.

Di particolare interesse per il nostro argomento è la seconda parte dell’Enciclica, che dedica un intero paragrafo alla castità. Esso tuttavia si colloca, nella seconda parte, dopo il paragrafo che parla del sacerdote come “imitatore di Cristo” e quello dedicato a “la pietà sacerdotale”, mostrando, in tal modo, come la concezione del Sacerdozio di Pio XI fosse - come la Chiesa sempre ritiene - quella di carattere ontologico-sacramentale. Da essa deriva l’esigenza dell’imitazione di Cristo e della eccellenza della vita sacerdotale, soprattutto in ordine alla santità. Afferma infatti l’Enciclica: «Il Sacrificio eucaristico, in cui si immola la Vittima immacolata che toglie i peccati del mondo, in modo particolare esige che il sacerdote, con una vita santa e intemerata, si renda il meno indegno possibile di Dio, a cui ogni giorno offre quella Vittima adorabile, che è lo stesso Verbo di Dio incarnato per nostro amore» e ancora: «Siccome il Sacerdote è “ambasciatore di Cristo” (cf. 2Cor 5,20), egli deve vivere in modo da potere, con verità, far sue le parole dell’Apostolo: “siate miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (cf. 1Cor 4,16;11,1), deve vivere come un altro Cristo, che, col fulgore delle Sue virtù, illuminava e illumina il mondo».

Immediatamente prima di parlare della castità, quasi a sottolinearne l’inseparabile legame, Pio XI pone in evidenza l’importanza della pietà sacerdotale, affermando: «Noi intendiamo la pietà soda, la quale, non soggetta alle incessanti fluttuazioni del sentimento, si fonda sui principi della dottrina più sicura, ed è quindi formata di convinzioni salde, che resistono agli assalti e alle lusinghe della tentazione». Da tali affermazioni emerge con chiarezza, come la comprensione stessa del Sacro Celibato sia in stretta e profonda relazione con una buona formazione dottrinale, fedele alla Sacra Scrittura, alla Tradizione e all’ininterrotto Magistero ecclesiale, e ad un esercizio autentico della pietà, che oggi chiamiamo “intensa vita spirituale”, al riparo sia dalle derive sentimentalistiche, le quali spesso degenerano nel soggettivismo, sia da quelle razionalistiche, altrettanto diffuse, le quali producono un criticismo scettico, ben lontano da un senso critico intelligente e costruttivo.

La castità, nell’Enciclica Ad Catholici Sacerdotii, è definita come «intimamente congiunta con la pietà, da cui deve ricevere consistenza e splendore». Di essa c’è un tentativo di giustificazione razionale, secondo il diritto naturale, nell’affermazione: «Un certo nesso tra questa virtù [la castità] ed il Ministero sacerdotale, si scorge anche solo col lume della ragione: essendo Dio Spirito, appare conveniente che chi si dedica e si consacra al servizio di Lui, in qualche modo “si spogli del corpo”». A questa prima affermazione, che ai nostri occhi risulta oggi piuttosto fragile, e che, in ogni caso lega la castità alla purezza rituale e, conseguentemente, ne escluderebbe la permanenza, legandola ai tempi dei riti del Culto, fa seguito il riconoscimento della superiorità del Sacerdozio cristiano rispetto sia al sacerdozio dell’Antico Testamento, sia all’istituto sacerdotale naturale proprio di ogni tradizione religiosa.

L’Enciclica, a questo punto, pone al centro della riflessione l’esperienza stessa del Signore Gesù, intesa come prototipica per ogni sacerdote. Afferma infatti: «L’alta stima in cui il Divino Maestro mostrò di avere la castità, esaltandola come cosa superiore alla comune capacità, […] doveva quasi necessariamente far sì che i sacerdoti della Nuova Alleanza sentissero il fascino celestiale di questa eletta virtù, cercando di essere nel numero di quelli “ai quali è stato concesso di comprendere questa parola” (cf. Mt 19,11)».

È possibile, in queste affermazioni dell’Enciclica, ravvisare una certa complementarietà tra l’intenzione di fondare la castità sacerdotale su esigenza di purezza cultuale, e la ben più ampia, ed oggi maggiormente compresa, esigenza di presentarla come imitatio Christi, via privilegiata per imitare il Maestro, che visse esemplarmente in maniera povera, casta e obbediente.

Pio XI non tralascia, altresì, di citare i pronunciamenti dogmatici riguardanti l’obbligo della castità, ed in particolare il Concilio di Elvira ed il secondo Concilio di Cartagine, che, sebbene del IV secolo, testimoniano con ovvietà una prassi ben precedente, consolidata e che, pertanto, può essere tradotta in legge.

Con accento straordinariamente moderno, nel senso di immediatamente accessibile alla nostra mentalità, l’Enciclica parla della libertà, con la quale si accoglie il dono della castità, affermando: «Diciamo “liberamente”, poiché, se dopo l’Ordinazione non saranno più liberi di contrarre nozze terrene, all’Ordinazione stessa però accedono non costretti da alcuna legge o persona, ma di propria spontanea volontà». Potremmo dedurre, in risposta a talune obiezioni contemporanee, circa una presunta ostinazione della Chiesa nell’imporre ai giovani il Celibato, che, il Magistero autorevole di Pio XI, lo indicava quale esito della libera accoglienza di un carisma soprannaturale, che nessuno impone, né potrebbe imporre. Piuttosto la norma ecclesiastica va intesa come la scelta della Chiesa di ammettere al Sacerdozio solo coloro che hanno ricevuto il carisma del Celibato e che, liberamente, lo hanno accolto.

Se è legittimo sostenere che, secondo il clima dell’epoca, il fondamento del Celibato ecclesiastico nell’Enciclica Ad Catholici Sacerdotii di Pio XI è posto piuttosto in ragioni, comunque valide, di purità rituale, nondimeno è possibile riconoscere nel medesimo testo un’importante dimensione esemplare sia del Celibato di Cristo, sia della Sua libertà, che è la medesima a cui i sacerdoti sono chiamati.

 

 

2. Pio XII e l’Enciclica Sacra Virginitas

         Un contributo determinante dal punto di vista magisteriale è stato dato dall’Enciclica Sacra Virginitas, del 25 marzo 1954, del Servo di Dio Pio XII. Essa, come tutte le Encicliche di quel Pontefice, rifulge per la chiara e profonda impostazione dottrinale, per la ricchezza di riferimenti biblici, storici, teologici, spirituali, e costituisce ancora oggi un punto di riferimento di notevole rilievo.

         Se, in senso stretto, l’Enciclica ha come oggetto formale, non il celibato ecclesiastico, ma la verginità per il Regno dei Cieli, nondimeno moltissimi sono, in essa, gli spunti di riflessione e gli espliciti riferimenti alla condizione celibataria anche del Sacerdozio.

         Il Documento si compone di quattro parti: la prima delinea la “vera idea della condizione verginale”, la seconda identifica e risponde ad alcuni errori dell’epoca, che non perdono la loro problematicità anche nell’oggi, la terza parte delinea il rapporto tra verginità e sacrificio, mentre l’ultima, a mo’ di conclusione, delinea alcune speranze e alcuni timori legati alla verginità.

         La verginità, nella prima parte, è presentata come un modo eccellente di vivere la sequela di Cristo. «Che cos’è, infatti, seguire se non imitare?» si domanda il Pontefice. E risponde: «Tutti questi discepoli hanno abbracciato lo stato di verginità per la conformità allo Sposo Cristo. […] La loro ardente carità verso Cristo non poteva contentarsi di vincoli di affetto con Lui: essa aveva assoluto bisogno di manifestarsi con l’imitazione delle Sue virtù e, in modo speciale, con la conformità alla Sua vita tutta consacrata al bene e alla salvezza del genere umano. Se i sacerdoti […] osservano la castità perfetta, questo è in definitiva perché il loro Divino Maestro è rimasto Egli stesso vergine fino alla morte».

         In realtà, e non certo a caso, il Pontefice assimila la condizione verginale sacerdotale a quella dei religiosi e delle religiose, mostrando, in tal modo, come il celibato, che differisce dal punto di vista normativo, abbia in realtà il medesimo fondamento teologico e spirituale.

         Un’altra ragione del celibato è individuata dal Pontefice nell’esigenza, connessa al Mistero, di una profonda libertà spirituale. Afferma l’Enciclica: «Proprio perché i sacri Ministri possano godere di questa spirituale libertà di corpo e di anima, e per evitare che si immischino in affari terreni, la Chiesa latina esige da essi che assumano volontariamente l’obbligo della castità perfetta», e aggiunge: «I Ministri sacri, però, non rinunciano al matrimonio unicamente perché si dedicano all’apostolato, ma anche perché servono all’Altare». Emerge, in tal modo, come alla ragione apostolica e missionaria si unisca propriamente, nel Magistero di Pio XII, quella cultuale, in una sintesi che, oltre ogni polarizzazione, rappresenta la reale e completa unità di ragioni a favore del celibato sacerdotale.

         Del resto già nell’Esortazione Apostolica Menti Nostrae, lo stesso Pio XII affermava: «Per la legge del celibato, il Sacerdote, ben lontano dal perdere la paternità, la accresce all’infinito, perché egli genera figliuoli, non per questa vita terrena e caduca, ma per la celeste ed eterna».

         Missionarietà, sacralità del Ministero, realistica imitazione di Cristo, fecondità e paternità spirituale costituiscono, dunque, l’orizzonte imprescindibile di riferimento del celibato sacerdotale, non indipendentemente dalla correzione di alcuni errori sempre latenti, come il misconoscimento dell’eccellenza oggettiva, e non certo per santità soggettiva, dello stato verginale rispetto a quello matrimoniale, l’affermazione dell’impossibilità umana a vivere la condizione verginale o l’estraneità dei consacrati alla vita del mondo e della società. A tal riguardo afferma il Pontefice: «Le anime consacrate alla castità perfetta non impoveriscono per questo la propria personalità umana, poiché ricevono da Dio stesso un soccorso spirituale immensamente più efficace che il “mutuo aiuto” degli sposi. Consacrandosi direttamente a Colui che è il loro Principio e comunica la Sua Vita divina, non si impoveriscono ma si arricchiscono».

         Tali affermazioni potrebbero essere sufficienti a rispondere, con la necessaria chiarezza, a tante obiezioni di carattere psico-antropologico, che ancora oggi vengono mosse al celibato sacerdotale.

         Ultimo grande e fondamentale tema affrontato dall’Enciclica Sacra Virginitas è quello, più propriamente sacerdotale, del rapporto tra verginità e sacrificio. Osserva il Pontefice, citando Sant’Ambrogio: «La castità perfetta non è che un consiglio, un mezzo capace di condurre più sicuramente e più facilmente alla perfezione evangelica […] quelle anime “a cui è stato concesso” (Mt 19,11). Essa non è imposta, ma proposta». In tal senso, è duplice l’invito di Pio XII sulla scia dei grandi Padri: da un lato, egli afferma il dovere di «ben misurare le forze» per comprendere se si è in grado di accogliere il dono di grazia del celibato, consegnando a tutta la Chiesa, in tal senso, specialmente ai giorni nostri, un sicuro criterio di onesto discernimento; dall’altro, pone in evidenza l’intrinseco legame tra castità e martirio, insegnando, con San Gregorio Magno, che la castità sostituisce il martirio e rappresenta, in ogni tempo, la più alta ed efficace forma di testimonianza.

         Appare evidente a tutti come, soprattutto nella nostra società secolarizzata, la perfetta continenza per il Regno dei Cieli, rappresenti una delle testimonianze più efficaci e maggiormente capaci di “provocare” salutarmente l’intelligenza e il cuore dei nostri contemporanei. In un clima sempre più grandemente, e quasi violentemente eroticizzato, la castità, soprattutto di coloro che nella Chiesa sono insigniti del Sacerdozio ministeriale, rappresenta una sfida, ancora più potentemente eloquente, alla cultura dominante e, in definitiva, alla stessa domanda sull’esistenza di Dio e sulla possibilità di conoscerLo e di entrare in rapporto con Lui.

         Mi pare ora doveroso mettere in luce un’ultima riflessione sull’Enciclica di Pio XII, poiché essa, più delle altre, appare decisamente controcorrente rispetto a molti dei costumi oggi diffusi anche tra non pochi membri del Clero e in vari luoghi di “formazione”. Citando San Girolamo, il Pontefice mette in luce come «a custodia della castità serve più la fuga che la lotta aperta […] e tale fuga consiste non solo nell’allontanare premurosamente le occasioni del peccato, ma soprattutto nell’innalzare la mente, durante queste lotte, a Colui al Quale abbiamo consacrato la nostra verginità. “Rimirate la bellezza di Colui che vi ama” raccomanda Sant’Agostino».

         Apparirebbe oggi quasi impossibile all’educatore trasmettere il valore del celibato e della purezza ai giovani seminaristi, in un contesto nel quale risulti, di fatto, impossibile vigilare sulle visioni, sulle letture, sull’utilizzo di internet, e sulle conoscenze. Se è sempre più evidente e necessario il coinvolgimento maturo della libertà dei candidati in una volontaria e consapevole collaborazione all’opera di formazione, non di meno l’Enciclica giudica un errore, e concordiamo pienamente, permettere a chi si prepara al Sacerdozio ogni esperienza, senza il necessario discernimento e il dovuto distacco dal mondo. Permettere ciò equivale a comprendere nulla dell’uomo, della sua psicologia, della società e della cultura che ci circonda. Significa essere chiusi in una sorta di ideologia preconcetta che va contro la realtà. Basta guardarsi attorno. Quanto realismo nei versetti del salmo: “hanno occhi e non vedono…”!

Devo confidare, alla fine di questo breve excursus sull’Enciclica di Pio XII (ma lo stesso potrei dire per quella di Pio XI), che rimango sempre sorpreso della loro modernità e attualità. Pur permanendo la preminente focalizzazione sull’aspetto sacrale del celibato e sul legame tra esercizio del Culto e verginità per il Regno dei Cieli, il Magistero di questi due Pontefici presenta un celibato cristologicamente fondato, sia nella direttrice della configurazione ontologica a Cristo Sacerdote-Vergine, sia in quella della imitatio Christi.

Se appare in parte giustificata la lettura che vede nel Magistero papale sul Celibato, anteriore al Concilio Ecumenico Vaticano II, un’insistenza sulle argomentazioni sacrali-rituali, e, in quello successivo al Concilio, un’apertura a ragioni più cristologico-pastorali, nondimeno è doveroso riconoscere – e questo è fondamentale per la corretta ermeneutica della continuità, ovvero per l’ermeneutica “cattolica” – che sia Pio XI, sia Pio XII sottolineano ampiamente le ragioni di carattere teologico. Il celibato risulta, dai menzionati pronunciamenti, non solo particolarmente opportuno e appropriato alla condizione sacerdotale, ma intimamente connesso con l’essenza stessa del Sacerdozio, compresa come partecipazione alla Vita di Cristo, alla Sua Identità e, perciò, alla Sua Missione. Non è certo un caso che quelle Chiesa di Rito orientale che ordinano anche viri probati, non ammettono assolutamente all’ordinazione episcopale presbiteri uxorati!

 

3. Giovanni XXIII e l’Enciclica Sacerdotii nostri primordia

Il Beato Giovanni XXIII ha dedicato, come voi ben sapete, un’intera Enciclica al Santo Curato d’Ars, nel primo Centenario della sua nascita al Cielo. In essa, i temi fondamentali della verginità e del celibato per il Regno dei Cieli, sviluppati dal Pontefice Pio XI e, soprattutto, da Papa Pio XII, vengono recepiti da Giovanni XXIII e come progressivamente declinati nell’esemplare figura di San Giovanni Maria Vianney, che egli presenta quale quintessenza del Sacerdozio cattolico.

Il Pontefice mette in luce come tutte le virtù necessarie e proprie di un sacerdote siano state accolte e vissute da San Giovanni Maria Vianney, e pone l’accento, nel testo dell’Enciclica, sull’ascesi sacerdotale, sul ruolo della preghiera e del Culto eucaristico, e sul conseguente zelo pastorale.

Citando, anche se indirettamente, Pio XI, l’Enciclica riconosce come, per il compimento delle funzioni sacerdotali, si esiga una santità maggiore di quella richiesta dallo stato religioso, ed afferma come la grandezza del Sacerdote consista nell’imitazione di Gesù Cristo. Afferma Giovanni XXIII: «La castità brillava nel suo sguardo, è stato detto del Curato d’Ars. Realmente, chi si pone alla sua scuola è colpito, non solo dall’eroismo con cui questo sacerdote ridusse in schiavitù il suo corpo (cf. 1Cor 9,27), ma anche dall’accento di convinzione, con cui egli riusciva a trascinare dietro di sé la moltitudine dei suoi penitenti». Emerge con chiarezza come, per il Beato Giovanni XXIII, nel Curato d’Ars sia di luminosa evidenza il legame tra efficacia ministeriale e fedeltà alla perfetta continenza per il Regno dei Cieli, e come quest’ultima non sia determinata dalle esigenze del Ministero, ma, al contrario e contro ogni riduzione funzionalistica del Sacerdozio, sia proprio il Ministero, nella sua più ampia fioritura, ad essere determinato, quasi causato dalla fedeltà al celibato. Continua il Pontefice: «Questa ascesi necessaria alla castità, lungi dal chiudere il Sacerdote in uno sterile egoismo, rende il suo cuore più aperto e più pronto a tutte le necessità dei suoi fratelli: “Quando il cuore è puro – diceva ottimamente il Curato d’Ars – non può far a meno di amare, poiché ha ritrovato la sorgente dell’Amore che è Dio”».

Da tale argomentare perfettamente teologico ben si comprende come Spirito di Dio e spirito del mondo si trovino in diametrale opposizione. Abbiamo dunque i parametri per capire e per costruire.

Nell’Enciclica è posto in evidenza il legame costitutivo tra celibato, identità sacerdotale e celebrazione dei divini Misteri. Particolare accento è posto sul legame tra offerta eucaristica del divino Sacrificio e dono quotidiano di se stessi, anche nel sacro celibato. Già nel 1959, il Magistero pontificio riconosceva, così, come gran parte del disorientamento rispetto alla fedeltà e alla necessità del celibato ecclesiastico dipendesse, e di fatto dipenda, dalla non adeguata comprensione del suo rapporto con la Celebrazione Eucaristica. In essa, infatti, non funzionalisticamente, ma realmente, il Sacerdote partecipa all’offerta unica ed irripetibile di Cristo, la quale tuttavia è sacramentalmente attualizzata e ripresentata nella Chiesa per la Salvezza del mondo. Una tale partecipazione implica l’offerta di se stessi, che deve essere integra, includente pertanto anche la propria carne nella verginità.

Chi non vede allora come fra Eucaristia-culto divino e Sacerdozio ordinato esista un nesso vitale? Le sorti del culto e del Sacerdozio sono legate insieme. Impossibile curare un ambito senza curare l’altro. Occorre rifletterci quando si pone mano alla formazione sacerdotale e occorre pure essere consapevoli del fatto che alle sorti della riforma dei chierici è legata la sorte della nuova evangelizzazione assolutamente indispensabile.

Vale ancora oggi, forse con accenti di maggiore drammaticità, l’indicazione del Beato Pontefice: «Noi chiediamo ai nostri diletti sacerdoti di esaminarsi periodicamente sulla maniera con cui celebrano i Santi Misteri, sulle disposizioni spirituali con cui salgono all’Altare e sui frutti che si sforzano di ricavarne». L’Eucaristia è, così, nel contempo fonte del sacro celibato e “prova d’esame” della fedeltà ad esso, banco concreto di prova della reale offerta di se stessi al Signore.

 

4. Paolo VI e la Sacerdotalis caelibatus

Pubblicata il 24 giugno del 1967, la Sacerdotalis caelibatus è l’ultima Enciclica interamente dedicata da un Pontefice al tema del celibato. Nella temperie dell’immediato post-Concilio, recependo interamente la Dottrina conciliare, Paolo VI sentì il bisogno di ribadire, con un autorevole atto magisteriale, la perenne validità del celibato ecclesiastico, il quale, forse in maniera ancora più veemente che non oggi, veniva contestato attraverso veri e propri tentativi di delegittimazione sia storico-biblica che teologico-pastorale.

Come noto, la Presbyterorum Ordinis, distingue tra celibato in sé e legge del celibato, laddove al n. 16 afferma: «La perfetta e perpetua continenza per il Regno dei Cieli, raccomandata da Cristo Signore nel corso dei secoli e anche ai nostri giorni gioiosamente abbracciata e lodevolmente osservata da non pochi fedeli, è sempre stata considerata dalla Chiesa come particolarmente confacente alla vita sacerdotale… per questi motivi – fondati sul Mistero di Cristo e della Sua Missione – il celibato, che prima veniva raccomandato ai sacerdoti, in seguito è stato imposto per legge, nella Chiesa latina, a tutti coloro che si avviano a ricevere gli Ordini sacri». Tale distinzione è presente sia nel capitolo terzo dell’Enciclica di Pio XI Ad catholici Sacerdotii, sia al n. 21 dell’Enciclica di Paolo VI. Entrambi i documenti riconducono sempre la legge del celibato alla sua vera origine, che è data dagli Apostoli e, attraverso di essi, da Cristo stesso.

Il Servo di Dio Paolo VI, al n. 14 dell’Enciclica, afferma: «Noi dunque riteniamo che la vigente legge del sacro celibato, debba ancora oggi, e fermamente, accompagnarsi al Ministero ecclesiastico; essa deve sorreggere il Ministro nella sua scelta esclusiva, perenne e totale dell’unico e sommo Amore di Cristo e della consacrazione al Culto di Dio e al servizio della Chiesa, e deve qualificare il suo stato di vita, sia nella comunità dei fedeli, che in quella profana». Come è di immediata evidenza, il Pontefice assume le ragioni cultuali proprie del Magistero precedente e le integra con quelle teologico-spirituali e pastorali, maggiormente sottolineate dal Concilio Ecumenico Vaticano II, ponendo in evidenza come il duplice ordine di ragioni non sia mai da considerare in antitesi, ma in reciproca relazione e feconda sintesi.

La medesima impostazione è riscontrabile al n. 19 del Documento, che richiama al compito del Sacerdote, quale Ministro di Cristo e amministratore dei Misteri di Dio, ed ha, in certo modo, il suo culmine al n. 21, che afferma: «Cristo rimase per tutta la Sua vita nello stato di verginità, il che significa la Sua totale dedizione al servizio di Dio e degli uomini. Questa profonda connessione tra la verginità ed il Sacerdozio, in Cristo, si riflette in quelli che hanno la sorte di partecipare alla dignità ed alla missione del Mediatore e Sacerdote eterno, e tale partecipazione sarà tanto più perfetta, quanto più il sacro Ministro sarà libero da vincoli di carne e di sangue». La titubanza, dunque, nella comprensione dell’inestimabile valore del sacro celibato e nella conseguente sua adeguata valorizzazione e, ove fosse necessario, strenua difesa, potrebbe essere intesa come non adeguata comprensione della reale portata del Ministero ordinato nella Chiesa e della sua insuperabile relazione ontologico-sacramentale, e dunque reale, a Cristo sommo Sacerdote.

A tali imprescindibili riferimenti cultuali e cristologici, l’Enciclica fa seguire un chiaro riferimento ecclesiologico, anch’esso essenziale per l’adeguata comprensione del valore del celibato: «Preso da Cristo Gesù fino all’abbandono totale di tutto se stesso a Lui, il Sacerdote si configura più perfettamente a Cristo anche nell’amore col quale l’Eterno Sacerdote ha amato la Chiesa, o Corpo, offrendo tutto Se stesso per Lei, al fine di farsene una Sposa gloriosa, santa e immacolata. La verginità consacrata dei sacri Ministri manifesta, infatti, l’amore verginale di Cristo per la Chiesa e la verginale e soprannaturale fecondità di questo connubio, per cui i figli di Dio né dalla carne, né dal sangue sono generati» (n. 26). Come potrebbe Cristo amare la Sua Chiesa di un amore non verginale? Come potrebbe il Sacerdote, alter Christus, essere sposo della Chiesa in modo non verginale?

Emerge, nel completo argomentare dell’Enciclica, la profonda interconnessione di tutte le valenze del sacro celibato, il quale, da qualunque lato lo si voglia guardare, appare sempre più radicalmente ed intimamente connesso al Sacerdozio.

Continuando ad argomentare delle ragioni ecclesiologiche a sostegno del celibato, l’Enciclica, nei nn. 29, 30 e 31, pone in evidenza il rapporto insuperabile tra celibato e Mistero Eucaristico, affermando che, con il celibato, «il Sacerdote si unisce più intimamente all’offerta, deponendo sull’altare tutta intera la propria vita, che reca i segni dell’olocausto. […] Nella quotidiana morte a tutto se stesso, nella rinunzia all’amore legittimo di una famiglia propria, per amore di Cristo e del Suo Regno, troverà la gloria di una vita in Cristo, pienissima e feconda, perché, come Lui e in Lui, il Sacerdote ama e si dà a tutti i figli di Dio».

L’ultimo grande insieme di ragioni, che vengono presentate a sostegno del sacro celibato, riguarda il suo significato escatologico. Nel riconoscimento che il Regno di Dio non è di questo mondo (cf. Gv 18,30), che alla Risurrezione non si prende né moglie né marito (cf. Mt 22,30), e che «il prezioso dono divino della continenza perfetta per il Regno dei Cieli costituisce […] un segno particolare dei beni celesti (cf. 1Cor 7,29-31)», il celibato è indicato anche come «una testimonianza della necessaria tensione del Popolo di Dio verso l’ultima Meta del pellegrinaggio terrestre e incitamento per tutti a levare lo sguardo alla cose superne» (n. 34).

Chi è posto in autorità per guidare i fratelli al riconoscimento di Cristo, all’accoglimento delle verità rivelate, ad una condotta di vita sempre più irreprensibile e, in una parola, alla santità, trova, così, nel sacro celibato, una convenientissima e straordinariamente forte profezia, capace di conferire singolare autorevolezza al proprio Ministero e fecondità, sia esemplare sia apostolica, al proprio agire.

Con straordinaria attualità, l’Enciclica risponde anche a quelle obiezioni che vedrebbero, nel celibato, una mortificazione dell’umanità, privata in tal modo di uno degli aspetti più belli della vita. Al n. 56, si afferma: «Nel cuore del Sacerdote, non è spento l’amore. Attinta alla più pura sorgente, esercitata a imitazione di Dio e di Cristo, la carità, non meno di ogni autentico amore, è esigente e concreta, allarga all’infinito l’orizzonte del Sacerdote, approfondisce e dilata il suo senso di responsabilità – indice di personalità matura –, educa in lui, come espressione di una più alta e vasta paternità, una pienezza e delicatezza di sentimenti, che lo arricchiscono in sovrabbondante misura». In una parola: «Il celibato, elevando integralmente l’uomo, contribuisce effettivamente alla sua perfezione» (n. 55).

Nel 1967, anno di pubblicazione dell’Enciclica Sacerdotalis caelibatus, il Servo di Dio Paolo VI pone uno degli atti di Magistero più coraggiosi ed esemplarmente chiarificatori dell’intero suo Pontificato. Un’Enciclica che andrebbe attentamente studiata da ogni candidato al Sacerdozio, fin dall’inizio del proprio iter, ma certamente prima di inoltrare la domanda di ammissione all’ordinazione diaconale, periodicamente ripresa nella formazione permanente e fatta oggetto non solo di attento studio biblico, storico, teologico, spirituale e pastorale, ma anche di approfondita, personale meditazione.

 

5. Giovanni Paolo II e la Pastores dabo vobis

Sin dall’inizio del suo Pontificato, il Servo di Dio Giovanni Paolo II ha riservato grande attenzione al tema del celibato, ribadendone la perenne validità e ponendone in evidenza il legame vitale con il Mistero Eucaristico. Il 9 novembre 1978, a poche settimane dalla sua elezione al soglio pontificio, nel primo discorso al Clero di Roma, affermava: «Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato questa splendida verità sul “sacerdozio universale” di tutto il Popolo di Dio, che deriva dalla partecipazione all’unico Sacerdozio di Gesù Cristo. Il nostro Sacerdozio “ministeriale”, radicato nel Sacramento dell’Ordine, si differenzia essenzialmente dal sacerdozio universale dei fedeli. […] Il nostro Sacerdozio deve essere limpido ed espressivo […], strettamente legato al celibato, […] per la limpidezza e l’espressività “evangelica”, alla quale si riferiscono le parole di Nostro Signore sul celibato “per il regno dei cieli” (cf. Mt 19,12)» (n. 3).

Certamente punto di particolare rilievo, in ordine a tutti i temi riguardanti il Sacerdozio e la formazione sacerdotale, è stata l’Esortazione Apostolica Pastores dabo vobis, nella quale il dono del celibato è colto nel legame tra Gesù e il Sacerdote e, per la prima volta, è fatta menzione dell’importanza anche psicologica di tale legame, non in modo separato dall’importanza ontologica. Leggiamo infatti, al n. 72: «In questo legame tra il Signore Gesù e il Sacerdote, legame ontologico e psicologico, sacramentale e morale, sta il fondamento e, nello stesso tempo, la forza per quella “vita secondo lo Spirito” e per quel “radicalismo evangelico” al quale è chiamato ogni sacerdote e che viene favorito dalla formazione permanente, nel suo aspetto spirituale».

Vita secondo lo Spirito e radicalismo evangelico rappresentano, dunque, le due irrinunciabili linee direttrici, lungo le quali corre la documentata e motivata permanente validità del celibato sacerdotale. Il fatto che il Servo di Dio Giovanni Paolo II ne ribadisca immediatamente la validità, ne proponga la lettura ontologico-sacramentale, spingendosi fino all’accoglimento delle giuste implicanze psicologiche, che il carisma del celibato ha nella delineazione di una matura personalità cristiana e sacerdotale, incoraggia e giustifica la lettura di tale insostituibile tesoro ecclesiale all’insegna della più grande ed ininterrotta continuità e, insieme, della più audace profezia.

Potremmo, infatti, affermare che la messa in discussione o la relativizzazione del sacro celibato costituiscano atteggiamenti reazionari rispetto al soffio dello Spirito mentre, al contrario, la sua piena valorizzazione, il suo adeguato accoglimento, la sua luminosa ed insuperabile testimonianza costituiscono apertura e profezia. Vera profezia, anche nell’oggi della Chiesa, perfino sotto il peso dei recenti drammi, che ne hanno orribilmente inzozzato la candida veste, e con ancora maggiore evidenza nei confronti delle società iper-eroticizzate, nelle quali regna sovrana la banalizzazione delle sessualità e della corporeità.

Il celibato grida al mondo che Dio c’è, che è Amore e che è possibile, in ogni epoca, vivere totalmente di Lui e per Lui. Ed è del tutto naturale che la Chiesa scelga i suoi Sacerdoti tra coloro che hanno accolto e maturato, ad un livello così compiuto, e perciò profetico, la pro-esistenza: l’esistenza per un Altro, per Cristo!

Il Magistero di Giovanni Paolo II, così attento alla valorizzazione sia della famiglia, sia del ruolo della donna nella Chiesa e nella società, non ha affatto timore di ribadire la perenne validità del sacro celibato. Non sono pochi gli studi che ormai si conducono anche sul tema interessante, e gravido di enormi conseguenze, della corporeità e della “teologia del corpo” nel Magistero del Servo di Dio.

Proprio il Pontefice che, forse più di tutti, nei tempi recenti, ha elaborato e vissuto una grande teologia del corpo, ci consegna una radicale affezione al celibato ed il superamento di ogni tentativo di riduzione funzionalistica, attraverso le acclarate dimensioni ontologico-sacramentali e teologico-spirituali.

Un ulteriore elemento, che emerge, non tanto come novità quanto come sottolineatura preziosa, nel Magistero di Giovanni Paolo II (e già presente nella Presbyterorum Ordinis), è quello della fraternità sacerdotale. Essa è interpretata non nei suoi riduzionismi psico-emotivi, ma nella sua radice sacramentale, sia in relazione all’Ordine, sia in rapporto al Presbiterio unito al proprio Vescovo. La fraternità sacerdotale è costitutiva del Ministero ordinato, ponendone in evidenza la dimensione “di corpo”. Essa è il luogo naturale di quelle sane relazioni fraterne, di aiuto concreto, sia materiale che spirituale, e di compagnia e sostegno nel comune cammino di santificazione personale, proprio attraverso il Ministero a noi affidato.

Un ultimo cenno desidero farlo al Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato durante il Pontificato di Giovanni Paolo II, nel 1992. Esso è, come da più parti viene sottolineato, l’autentico strumento a nostra disposizione, per la corretta ermeneutica dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II. E deve divenire, con sempre maggiore evidenza, imprescindibile punto di riferimento sia della catechesi, sia dell’intera azione apostolica. Nel Catechismo è ribadita, con autorevolezza, la perenne validità del celibato sacerdotale, quando, al n. 1579, si legge: «Tutti i Ministri ordinati della Chiesa latina, ad eccezione dei diaconi permanenti, sono normalmente scelti fra gli uomini credenti, che vivono da celibi e che intendono conservare il celibato “per il Regno dei Cieli” (Mt 19,12). Chiamati a consacrarsi con cuore indiviso al Signore e alle “Sue cose”, essi si donano interamente a Dio e agli uomini. Il celibato è segno di questa vita nuova, al cui servizio il Ministro della Chiesa viene consacrato; abbracciato con cuore gioioso, esso annuncia, in modo radioso, il Regno di Dio».

Tutti i temi sinora toccati dal Magistero dei Pontefici, che abbiamo preso in esame, sono come mirabilmente condensati nella definizione del Catechismo: dalle ragioni cultuali a quelle dell’imitatio Christi nell’annuncio del Regno di Dio, da quelle derivanti dal servizio apostolico a quelle ecclesiologiche ed escatologiche. Il fatto che la realtà del celibato sia entrata nel Catechismo della Chiesa Cattolica dice come essa sia intimamente correlata al cuore della Fede cristiana e ne documenti quell’annuncio radioso, del quale il medesimo testo parla.

 

6. Benedetto XVI e la Sacramentum Caritatis

L’ultimo Pontefice, che prendiamo in esame, è quello felicemente regnante, Benedetto XVI, il cui iniziale Magistero sul celibato sacerdotale non lascia dubbio alcuno, sia sulla validità perenne della norma disciplinare, sia, soprattutto ed antecedentemente, sulla sua fondazione teologica e particolarmente cristologico-eucaristica.

In particolare, il Santo Padre ha dedicato al tema del celibato un intero numero dell’Esortazione Apostolica Postsinodale, Sacramentum Caritatis. In esso leggiamo: «I Padri sinodali hanno voluto sottolineare che il Sacerdozio ministeriale richiede, attraverso l'Ordinazione, la piena configurazione a Cristo. Pur nel rispetto della differente prassi e tradizione orientale, è necessario ribadire il senso profondo del celibato sacerdotale, ritenuto giustamente una ricchezza inestimabile, e confermato anche dalla prassi orientale di scegliere i Vescovi solo tra coloro che vivono nel celibato e che tiene in grande onore la scelta del celibato operata da numerosi presbiteri. In tale scelta del sacerdote, infatti, trovano peculiare espressione la dedizione che lo conforma a Cristo e l'offerta esclusiva di se stesso per il Regno di Dio. Il fatto che Cristo stesso, Sacerdote in eterno, abbia vissuto la sua missione fino al sacrificio della Croce nello stato di verginità costituisce il punto di riferimento sicuro per cogliere il senso della Tradizione della Chiesa latina a questo proposito. Pertanto, non è sufficiente comprendere il celibato sacerdotale in termini meramente funzionali. In realtà, esso rappresenta una speciale conformazione allo stile di vita di Cristo stesso. Tale scelta è innanzitutto sponsale; è immedesimazione con il cuore di Cristo Sposo che dà la vita per la Sua Sposa. In unità con la grande Tradizione ecclesiale, con il Concilio Vaticano II e con i Sommi Pontefici miei predecessori, ribadisco la bellezza e l'importanza di una vita sacerdotale vissuta nel celibato come segno espressivo della dedizione totale ed esclusiva a Cristo, alla Chiesa e al Regno di Dio, e ne confermo quindi l'obbligatorietà per la Tradizione latina. Il celibato sacerdotale vissuto con maturità, letizia e dedizione è una grandissima benedizione per la Chiesa e per la stessa società» (n. 24).

Come è facile notare, l’Esortazione Apostolica moltiplica gli inviti affinché il Sacerdote viva nell’offerta di se stesso, fino al sacrificio della croce, per una dedizione totale ed esclusiva a Cristo. Particolarmente rilevante è il legame, che l’Esortazione Apostolica ribadisce, tra celibato ed Eucaristia; se tale teologia del Magistero sarà recepita in modo autentico e realmente applicata nella Chiesa, il futuro del celibato sarà luminoso e fecondo, perché sarà un futuro di libertà e di santità sacerdotale. Potremmo così parlare non solo di “natura sponsale” del celibato, ma della sua “natura eucaristica”, derivante dall’offerta che Cristo fa di Se stesso perennemente alla Chiesa, e che si riflette in modo evidente nella vita dei sacerdoti. Essi sono chiamati a riprodurre, nella loro esistenza, il Sacrificio di Cristo, al quale sono stati assimilati in forza dell’Ordinazione sacerdotale.

Dalla natura eucaristica del celibato ne derivano tutti i possibili sviluppi teologici, che pongono il Sacerdote di fronte al proprio ufficio fondamentale: la Celebrazione della Santa Messa, nella quale le parole: “Questo è il Mio Corpo” e “Questo è il Mio Sangue” non determinano soltanto l’effetto sacramentale loro proprio, ma, progressivamente e realmente, devono modellare l’oblazione della stessa vita sacerdotale.

Il Sacerdote celibe è così associato personalmente e pubblicamente a Gesù Cristo; Lo rende realmente Presente, divenendo egli stesso vittima, in quella che Benedetto XVI chiama: «la logica eucaristica dell’esistenza cristiana».

Quanto più si recupererà, nella vita della Chiesa, la centralità dell’Eucaristia, degnamente celebrata e costantemente adorata, tanto più grande sarà la fedeltà al celibato, la comprensione del suo inestimabile valore e, mi si consenta, la fioritura di sante Vocazioni al Ministero ordinato.

Nel Discorso in occasione dell’Udienza alla Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi, il 22 dicembre 2006, Benedetto XVI affermava ancora: «Il vero fondamento del celibato può essere racchiuso solo nella frase: “Dominus pars mea – Tu, Signore, sei la mia terra”. Può essere solo teocentrico. Non può significare rimanere privi di amore, ma deve significare il lasciarsi prendere dalla passione per Dio, ed imparare poi, grazie ad un più intimo stare con Lui, a servire pure gli uomini. Il celibato deve essere una testimonianza di Fede: la Fede in Dio diventa concreta in quella forma di vita, che solo a partire da Dio ha un senso. Poggiare la vita su di Lui, rinunciando al matrimonio e alla famiglia, significa che io accolgo e sperimento Dio come realtà e perciò posso portarLo agli uomini».

Solo l’esperienza della “eredità”, che il Signore è per ciascuna esistenza sacerdotale, rende efficace quella testimonianza di Fede che è il celibato. Come lo stesso Santo Padre ha ribadito nel Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Clero, il 16 marzo 2009, esso è: «Apostolica vivendi forma […], partecipazione ad una “vita nuova” spiritualmente intesa, a quel nuovo “stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli».

L’Anno Sacerdotale recentemente concluso ha visto vari interventi del Santo Padre sul tema del Sacerdozio, in particolare nelle catechesi del mercoledì, dedicate ai tria munera, ed in quelle in occasione dell’inaugurazione e della chiusura dell’Anno Sacerdotale e delle ricorrenze legate a San Giovanni Maria Vianney. Particolarmente rilevante è stato il dialogo del Santo Padre con i sacerdoti, durante la grande Veglia di chiusura dell’Anno Sacerdotale, quando, interrogato sul significato del celibato e sulle fatiche, che si incontrano per viverlo nella cultura contemporanea, egli ha risposto, partendo dalla centralità della Celebrazione Eucaristica quotidiana nella vita del Sacerdote, che, agendo in Persona Christi, parla nell’“Io” di Cristo, divenendo realizzazione della permanenza nel tempo dell’unicità del Suo Sacerdozio, aggiungendo: «Questa unificazione del Suo “Io” con il nostro implica che siamo tirati anche nella Sua realtà di Risorto, andiamo avanti verso la vita piena della Risurrezione […]. In questo senso il celibato è una anticipazione. Trascendiamo questo tempo e andiamo avanti, e così tiriamo noi stessi e il nostro tempo verso il mondo della Risurrezione, verso la novità di Cristo, verso la nuova e vera vita». È così sancita, dal Magistero di Benedetto XVI, la relazione intima tra dimensione eucaristica-fontale e dimensione escatologica anticipata e realizzata del celibato sacerdotale. Superando d’un sol colpo ogni riduzione funzionalistica del Ministero, il Santo Padre lo ricolloca nella sua ampia e alta cornice teologica, lo illumina ponendone in evidenza la costitutiva relazione, dunque, con la Chiesa e ne valorizza potentemente tutta la forza missionaria derivante proprio da quel “di più” verso il Regno che il celibato realizza.

In quella medesima circostanza, con profetica audacia, il Santo Padre ha affermato: «Per il mondo agnostico, il mondo in cui Dio non centra, il celibato è un grande scandalo, perché mostra proprio che Dio è considerato e vissuto come realtà. Con la vita escatologica del celibato, il mondo futuro di Dio entra nelle realtà del nostro tempo».

Come potrebbe la Chiesa vivere senza lo scandalo del celibato? Senza uomini disposti ad affermare nel presente, anche e soprattutto attraverso la propria carne, la realtà di Dio? Tali affermazioni hanno avuto compimento e, in certo modo, coronamento nella straordinaria Omelia pronunciata a chiusura dell’Anno Sacerdotale – che mi permetto di invitarvi a rileggere – nella quale il Papa ha pregato perché, come Chiesa, siamo liberati dagli scandali minori, perché appaia il vero scandalo della storia, che è Cristo Signore.

 

Conclusioni (in 7 punti)

Al termine di questo percorso, che ci ha visti porre in evidenza alcuni passaggi più significativi del Magistero pontificio sul celibato, da Pio XI al Santo Padre Benedetto XVI, proviamo a tracciare un iniziale bilancio conclusivo, che possa rappresentare una prima piattaforma di lavoro per la formazione dei Sacerdoti ad accogliere e vivere pienamente questo dono del Signore.

 

1. Emerge innanzitutto la radicale continuità tra il Magistero che ha preceduto il Concilio Ecumenico Vaticano II e quello successivo ad esso. Pur con accenti talora sensibilmente differenti, più liturgico-sacrali o più cristologico-pastorali, l’ininterrotto Magistero dei menzionati Pontefici è concorde nel fondare il celibato sulla realtà teologica del Sacerdozio ministeriale, sulla configurazione ontologico-sacramentale a Cristo Signore, sulla partecipazione al Suo unico Sacerdozio e sulla imitatio Christi, che esso implica. Solo una scorretta ermeneutica dei testi del Concilio, potrebbe condurre a vedere nel celibato un residuo del passato, di cui liberarsi al più presto. Una tale posizione, oltre che errata storicamente, dottrinalmente e teologicamente, è anche dannosissima sotto il profilo spirituale, pastorale, missionario e vocazionale.

 

2. è da superare, alla luce dell’esaminato Magistero pontificio, la riduzione, in taluni ambienti così diffusa, del celibato a mera legge ecclesiastica. Esso è una legge solo perché è un’esigenza intrinseca del Sacerdozio e della configurazione a Cristo che il Sacramento determina.

In tale senso la formazione al celibato, oltre che ogni altro aspetto umano e spirituale, deve includere una solida dimensione dottrinale, poiché non si può vivere ciò di cui non si comprende la ragione!

 

3. Il “dibattito” sul celibato, che periodicamente nei secoli si è riacceso, non favorisce la serenità delle giovani generazioni nel comprendere un dato così determinante della vita sacerdotale. Valga per tutti quanto autorevolmente espresso nella Pastores dabo vobis, che, al n. 29, riportando integralmente il voto dell’intera Assemblea Sinodale, afferma: « Il Sinodo non vuole lasciare nessun dubbio nella mente di tutti sulla ferma volontà della Chiesa di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all'Ordinazione sacerdotale nel Rito latino. Il Sinodo sollecita che il celibato sia presentato e spiegato nella sua piena ricchezza biblica, teologica e spirituale, come dono prezioso dato da Dio alla sua Chiesa e come segno del Regno che non è di questo mondo, segno dell’amore di Dio verso questo mondo nonché dell’amore indiviso del Sacerdote verso Dio e il Popolo di Dio».

 

4. Il celibato è questione di radicalismo evangelico! Povertà, castità ed obbedienza non sono consigli riservati in modo esclusivo ai religiosi, sono virtù da vivere con intensa passione missionaria. Non possiamo tradire i nostri giovani! Non possiamo abbassare il livello della formazione e, di fatto, della proposta di fede! Non possiamo tradire il popolo santo di Dio, che attende pastori santi, come il Curato d’Ars! Dobbiamo essere radicali nella sequela Christi! E non temiamo il calo del numero dei chierici. Il numero decresce quando si abbassa la temperatura della fede, perché le vocazione sono “affare” divino e non umano, ew seguono la logica divina che è stoltezza umana! Ci vuole fede!

 

5. In un mondo gravemente secolarizzato, è sempre più difficile comprendere le ragioni del celibato. Tuttavia, dobbiamo avere il coraggio, come Chiesa, di domandarci se intendiamo rassegnarci ad una tale situazione, accettando come fatto ineluttabile la progressiva secolarizzazione delle società e delle culture, o se siamo pronti ad un’opera di profonda e reale nuova evangelizzazione, al servizio del Vangelo e, perciò, della verità dell’uomo.

Ritengo, in tal senso, che il motivato sostegno al celibato e la sua adeguata valorizzazione nella vita della Chiesa e del mondo, possano rappresentare alcune tra le vie più efficaci per superare la secolarizzazione. Che cosa intenderebbe, altrimenti, il Santo Padre Benedetto XVI, quando afferma che il celibato «mostra proprio che Dio è considerato e vissuto come realtà»?

 

6. La radice teologica del celibato è da rintracciare nella nuova identità, che viene donata a colui che è insignito dell’Ordine sacerdotale. La centralità della dimensione ontologico-sacramentale e la conseguente strutturale dimensione eucaristica del Sacerdozio rappresentano gli ambiti di naturale comprensione, sviluppo ed esistenziale fedeltà al celibato. La questione essenziale, allora, non è da riferire tanto nel dibattito sul celibato, quanto sulla qualità della fede delle nostre comunità. Una comunità che non avesse in grande stima il celibato, quale attesa del Regno o quale tensione eucaristica potrebbe vivere?

 

7. Il vostro Colloquio ha come sottotitolo: “Fondamenti, gioie, sfide”. Sono persuaso che i primi due, la conoscenza dei fondamenti e la gioiosa esperienza di un celibato pienamente vissuto e, dunque, profondamente umanizzante, permettano non solo di rispondere a tutte le sfide che il mondo, da sempre, pone al celibato, ma anche di trasformare il celibato in una sfida per il mondo. Come accennato nel primo punto di queste conclusioni, non dobbiamo lasciarci condizionare o intimidire da un mondo senza Dio, che non comprende il celibato e vorrebbe eliminarlo, ma al contrario dobbiamo recuperare la motivata consapevolezza che il nostro celibato sfida il mondo, mettendo in profonda crisi il suo secolarismo ed il suo agnosticismo e gridando, nei secoli, che Dio c’è ed è Presente!