Corso di Formazione per i Vescovi

eletti e/o consacrati nell’ultimo anno

 

Pontificio Ateneo Regina Apostolorum

9 Settembre 2011 (ore 9.30)

 

Il Vescovo

Maestro di preghiera, Padre, Fratello, Amico

dei Suoi Sacerdoti

 

Intervento del Card. Mauro Piacenza,

Prefetto della Congregazione per il Clero,

 

 

Eminenza Reverendissima,

Venerati e Cari Confratelli,

 

         Sono molto lieto di essere tra di voi, che nell’ultimo anno siete stati chiamati dalla Divina Provvidenza a partecipare della successione apostolica, rinnovando, in tal modo, per il dono della Grazia, il profondo legame che, sin dal Battesimo, ci àncora esistenzialmente, sacramentalmente ed ontologicamente a Cristo, Unico, Eterno e Sommo Sacerdote.

         Il mio compito di Prefetto della Congregazione per il Clero, mi chiama, ogni giorno, a gettare uno sguardo universale e certamente appassionato, sulla situazione del Clero nel mondo.

Desidero anzitutto condividere con Voi la grande gioia e lo spirituale stupore nel constatare la dedizione, la testimonianza, il ministero pastorale  che nella stragrande maggioranza i Sacerdoti vivono con fedeltà.

         Pur mantenendo chiara la distinzione tra l’ordine presbiterale e quello episcopale, costitutiva del volto stesso della Chiesa, è necessario porsi nell’atteggiamento di chi, permanentemente, vive nella lucida consapevolezza della “indispensabilità” dei Sacerdoti, nei confronti dei quali il Signore ci domanda di avere continuamente uno sguardo di fede e di preghiera, di paternità, di fraternità e di amicizia, come pure di quell’autorevolezza che costituisce un irrinunciabile servizio.

        

Intorno a questi termini vorrei sviluppare la conversazione di questa mattina, avendo, come fonti, da un lato la sana dottrina e il diritto e, dall’altro, l’esperienza viva ed attuale della Congregazione che rappresento.

         Con la consapevolezza personale che il punto acme del governo pastorale sia il rapporto del Vescovo con i sacerdoti, iniziamo questo nostro incontro.

 

 

 

 

1.                 Il Vescovo Maestro di preghiera dei suoi Sacerdoti

 

La dimensione orante del Ministero episcopale affonda le proprie radici nella stessa appartenenza battesimale a Cristo, resa nuova dall’Ordinazione Sacerdotale e perfezionata nella pienezza dell’Ordine, che è l’Episcopato. La preghiera è, dunque, per il Vescovo, sia dimensione essenziale della propria personale esistenza, sia atto di Ministero particolarmente qualificato, al servizio del concreto popolo di Dio a lui affidato e dell’intera Chiesa. In tal senso, è sempre necessario valutare, con grande attenzione, i tempi della preghiera, che non possono non essere considerati reale atto di Ministero, anzi, il più utile atto di Ministero episcopale.

Gli stessi Atti degli Apostoli ci indicano con chiarezza tale irrinunciabile dimensione orante del Ministero apostolico, laddove leggiamo: «I Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest'incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola”. Piacque questa proposta a tutto il gruppo» (At 6, 2-5a). Il testo degli Atti commenta, non a caso, che la proposta «piacque a tutto il gruppo», come a sottolineare l’unanimità del Collegio apostolico nell’indicare le priorità del ministero. Con questo modello della Chiesa delle origini siamo sempre chiamati a confrontarci.

Il Vescovo è maestro di preghiera dei suoi sacerdoti, innanzitutto, stabilendo esemplari e fedeli spazi dedicati esclusivamente al Signore e suggerendo, con ciò stesso, al proprio Presbiterio di fare altrettanto. Come è utile, carissimi Confratelli, che talvolta, quando si ricevono chiamate telefoniche in Episcopio, possano rispondere: «Sua Eccellenza sta pregando, richiami più tardi…». A patto, ovviamente, che si stia davvero pregando, la risposta è straordinariamente efficace, evangelica e pastorale.

I Sacerdoti hanno il diritto di vedere che il proprio Vescovo prega! E che prega “prima” di loro, “più” di loro e, soprattutto, “per” loro.

I Presbiteri si accorgono se il proprio Vescovo è un manager, preoccupato essenzialmente di problemi tecnico-amministrativi e gestionali, se è solo un pragmatico  o se è un uomo di preghiera, capace di mettere il Signore al primo posto e, con esso, le persone, prima e oltre le preoccupazioni istituzionali di ogni genere.

La dimensione orante della propria esistenza non si può fingere o improvvisare. Siamo sempre chiamati a conversione, a tale riguardo, nell’umile consapevolezza che ciascuno deve continuamente approfondire il personale dialogo con Dio, perché, anche nella preghiera ecclesiale, appaia quella familiarità col Signore che, sola, rende il celebrare non estraneo alla vita.

Lo stesso Rito con il quale siamo stati ordinati successori degli Apostoli, prevede la domanda: «Vuoi pregare, senza mai stancarti, Dio onnipotente, per il suo popolo santo, ed esercitare in modo irreprensibile il ministero del sommo sacerdozio?», e noi abbiamo sinceramente risposto: «Sì». Tale risposta ci impegna per l’intera esistenza, ad una preghiera incessante ed esemplare.

 

1.1 Il Vescovo liturgo della sua Chiesa

Un momento particolarmente significativo ed anche particolarmente visibile è quello della Celebrazione pubblica del Vescovo, al cospetto dell’intero Popolo di Dio e dei sacerdoti. In ogni occasione, ma specialmente in questa, il Vescovo è chiamato a particolare responsabilità ed esemplarità nei confronti del proprio Presbiterio. Taluni dettagli, talvolta ritenuti meno significativi, sono, in realtà, importanti per il loro valore pedagogico, esemplare, poiché, specialmente nella Celebrazione Eucaristica, si manifesta l’autentico volto della Chiesa e, in essa, dei suoi Ministri.

Il Vescovo che celebra è Vicario di Cristo e, in certo modo, Lo rappresenta nella funzione di guida e capo della Chiesa. Anche senza un’opera di magistero esplicitamente verbalizzata a tale riguardo, la stessa cura della dignità celebrativa, la fedeltà all’abito completo, degnamente indossato, la coscienza che nella Celebrazione Liturgica si entra nel Mistero assoluto di Dio e si è chiamati a divenire mediatori della Grazia soprannaturale, costituiscono, da sole, già un vero e proprio atto di magistero, con il quale si è “maestri” del proprio Presbiterio. Non è secondario, poi, che il Vescovo arrivi con qualche minuto d’anticipo, e che sia accolto come si conviene, non tanto come atto di omaggio alla sua persona, quanto come atto di fede e di riconoscimento a Cristo Buon Pastore. Inoltre, è cosa esemplare che il Vescovo soprattutto sosti in preghiera davanti al Santissimo Sacramento, come preparazione e poi come ringraziamento per la Celebrazione Eucaristica, e che, mentre indossa i paramenti, possa rimanere in raccoglimento, introducendo se stesso e, con se stesso, la sua Chiesa, nel Mistero che si accinge a celebrare. Anche così si contribuisca a corroborare la devozione e la consapevolezza di tutto il Clero. Si aiuta così ogni Sacerdote a fare un esame di coscienza su come si dovrebbero celebrare i Divini Misteri. Non è questione rubricale ma traduzione cerimoniale di una profonda esigenza di fede. Non si tratta di formalismo ma di forma per aiutare a mantenere la sostanza.

A tale riguardo sono esemplari le celebrazioni del Sommo Pontefice, alle quali sempre tutti noi dobbiamo guardare, come autentico modello e non come caso particolare di “liturgia papale”; in tali celebrazioni non c’è nulla di particolare ma solo osservanza piena delle norme, buon senso, spirito di fede e, soprattutto, attenzione a porre in evidenza il Signore, anziché se stessi, favorendo massimamente quel senso del sacro, che è così urgente risvegliare nella cultura contemporanea.

Anche fuori dalla Cattedrale, nelle varie Visite pastorali o comunque in occasioni di incontro, il Vescovo è chiamato all’esemplarità nello spirito orante. La preminente attenzione agli aspetti spirituali e soprannaturali, riconosciuti ed amati nella realtà, dovrebbe essere la caratteristica, che tutti i fedeli, anche laici, riconoscono nel tratto e nel modo di agire del Vescovo. Accanto a Lui si deve poter respirare il senso del soprannaturale, dell’eterno!

Talvolta sarà necessario, anche se con prudenza e carità, correggere taluni usi invalsi e non conformi alle norme liturgiche. La correzione, fatta da chi vive in un autentico clima di preghiera, è più facilmente accolta, perché più credibile. Lo spirito di orazione si manifesta, infine, anche nell’agire profano del Vescovo. Nel contatto con ogni persona, anche trattando questioni non direttamente legate all’esercizio del Ministero, egli è chiamato ad infondere in tutto lo spirito di orazione, donando al proprio interlocutore quella parola e quello sguardo soprannaturale, che altri non donano e che, in fondo, ciascuno si attende dal Vescovo. Se lo attendono anche e soprattutto i lontani e tale stile costituisce un prezioso esempio per i Sacerdoti.

 

 

1.2 Fedeltà all’Ufficio divino

Particolarmente rilevante, e perfino urgente, risulta essere l’esemplarità del Vescovo nella fedeltà all’Ufficio divino.

La fedeltà all’Ufficio dice, non solo, di un’obbedienza alla legge ecclesiastica, che lo domanda, ma di un dialogo autentico, profondo e continuo con il Signore; dice di una capacità di affidarsi continuamente alla Sua Provvidenza e di vivere il tempo come spazio e luogo della Sua Presenza, occasione per compiere fedelmente la Sua Volontà. Se il Vescovo è fedele all’Ufficio divino e, per esempio, nel parlare con i sacerdoti vi fa abituale riferimento, sarà di grande richiamo per i suoi presbiteri; per coloro che vivono la fedeltà all’Ufficio, rappresenterà un incoraggiamento e rafforzerà l’esplicita comunione sacramentale in Cristo; per coloro che, Dio non voglia, lasciano “impolverare il Breviario”, sarà un salutare stimolo ad una fedeltà smarrita e ad una ricchezza perduta, alla quale, sempre, è possibile tornare ad attingere.

In tal senso, è conveniente, per esempio, che, nelle riunioni con il Clero, si abbia cura di iniziare magari pregando l’Ora corrispondente dell’Ufficio. Nulla impedisce, poi, che qualche volta il Vescovo, “dimenticando” a casa il proprio Breviario, domandi ai sacerdoti di poter pregare con il loro; se la ricerca del volume supererà i 45 secondi, evidentemente, c’è ancora un po’ di cammino da fare; se poi il volume non è quello giusto, il cammino sarà ancora più lungo, come pure se i segnacoli dovessero essere alla settimana precedente.

 

1.3 La preghiera del Vescovo, sacrificio di lode (aspetto oblativo)

Prima di ogni valore esemplare e ministeriale, è sempre necessario ricordare come il Vescovo, Vicario di Cristo e successore degli Apostoli, abbia, tra i primissimi compiti, quello di intercedere per l’intera Chiesa e per la Comunità a lui affidata. Ben conoscendo le gravi difficoltà, alle quali, in hodiernis adiunctis, il Ministero episcopale deve far fronte, dobbiamo riconoscere, con umile semplicità, che essere e fare i Vescovi, senza pregare ogni giorno, incessantemente il Signore, sarebbe semplicemente impossibile. Lo spirito orante, che deve caratterizzare la vita del Vescovo e che rappresenta un’importante funzione magisteriale del suo Ministero, è in realtà, innanzitutto, una profonda esigenza, sia della persona, sia dell’ufficio. Non è pensabile poter affrontare tutte le gravi problematiche, che il governo di una Diocesi e, soprattutto, la relazione con il Presbiterio e con ciascun sacerdote domanda, senza nutrirsi, e talvolta perfino armarsi, di preghiera. Nulla è più distante dalla volontà di Dio di un Vescovo che, “denutrito” di preghiera, giudichi le questioni e le persone a lui affidate con spirito esclusivamente, o prevalentemente, mondano.

L’essere maestro di preghiera per i propri sacerdoti, in tal senso, si documenta efficacemente nel modo in cui ci si relaziona con essi: se è un modo solo orizzontale ed umano, che potrebbero riscontrare in qualunque altra persona, o se è un modo realmente soprannaturale, che riconosce nel fratello il Mistero di Cristo Sacerdote, in tutta la dignità che ciò implica e nell’amoroso e con-penitente sguardo per gli eventuali limiti e peccati.

In definitiva è la preghiera che fa del Vescovo l’autentico Sacerdos della sua Diocesi: il mediatore, l’intercessore in Cristo, con Cristo e per Cristo, colui che costantemente prega il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, per il vero bene dei suoi sacerdoti e dell’intero Popolo di Dio a lui affidato. Nello spirito di preghiera, il Vescovo sacrifica tutto se stesso, dona tutto di sé. In effetti, a ben guardare, è proprio lo spirito orante e l’essere maestro di preghiera per i suoi sacerdoti, che fa del Vescovo un autentico padre, fratello e amico.

 

 

2.                 Il Vescovo “padre” dei suoi Sacerdoti

 

Quando nei mesi scorsi siete stati ordinati Vescovi, prima dell’imposizione delle mani, vi è stata rivolta questa precisa domanda: «Volete prendervi cura, con amore di padre, del popolo santo di Dio e con i presbiteri e i diaconi, vostri collaboratori nel ministero, guidarlo sulla via della salvezza?». Voi avete risposto, con libertà e verità, di fronte a Dio: «Sì, lo voglio».

In quel “sì” è contenuta tutta l’adesione della nostra libertà, lucidamente consapevole dei propri limiti, alla straordinaria vocazione che ci è stata rivolta. Essere “padri” di tutto il popolo significa anche, e soprattutto, essere padri dei nostri Sacerdoti, i quali sono parte del Popolo santo di Dio, e, per di più, parte eletta! La paternità del Vescovo affonda le proprie radici nella stessa paternità di Dio, il quale, in Cristo Gesù, ha rivolto la Sua Parola ultima e definitiva all’uomo, rivelandosi, appunto, come Padre. Di questa paternità auguro, di cuore, a ciascuno di Voi come a me stesso, di fare esperienza.

Sono persuaso, infatti, che solo chi, nella propria esistenza, ha incontrato realmente dei padri, potrà essere “padre”, a propria volta; come in natura “nessuno genera se non è generato”, così la legge dello Spirito domanda che ciascuno di noi, per poter essere padre, si lasci continuamente generare dalla paternità di Dio e dalla maternità della Chiesa e della Beata Vergine Maria, che della Chiesa è Icona.

Il Vescovo, deve aver presente in ogni istante, in ogni rapporto, in ogni dialogo con il proprio Presbiterio, in generale, e con ciascuno dei propri sacerdoti, in particolare, che egli è lo strumento concreto attraverso il quale Dio vuole mostrare il Suo Volto: egli potrà esserne luminosa trasparenza oppure, Dio non voglia, potrà oscurarLo.

         Ad imitazione dell’Amore del Padre, il Vescovo è chiamato, nei confronti del suo Presbiterio, ad un’attenzione costante, ad una sollecita vigilanza, ad un’autentica “tensione”, perché ciascun Sacerdote si senta partecipe, presente, importante e valorizzato, nell’unica famiglia presbiterale della quale il Vescovo è padre. Il bisogno di paternità, tra il Clero di tutto il mondo è oggi, forse più di ieri, fortemente sentito.

         In una società - e non mi riferisco solo a quella occidentale - gravemente frammentata, nella quale prevalgono il relativismo, il materialismo, l’edonismo ed ogni altra possibile riduzione della statura originaria dell’io, si avverte l’ormai totale superamento di quella istanza legata alla cultura della seconda metà del secolo scorso, che suggeriva di “eliminare i padri” per emancipare i figli.  Se si eliminano i padri, in effetti, non si hanno dei figli emancipati, ma, semplicemente, dei figli orfani; questo nostro tempo sta riscoprendo il bisogno di padri autentici e, laddove se ne trovano, i giovani e gli adulti, li riconoscono, li cercano, li seguono e li amano. Siamo chiamati, cari confratelli, ad esercitare questa paternità nei confronti dei nostri Presbiteri, innanzitutto nella ordinaria stabilità delle nostre personalità umane. Come accade nell’educazione familiare, anche nelle Diocesi, nel rapporto tra Presbiterio e Vescovo, i Sacerdoti rimangono molto disorientati dalla possibile instabilità dei loro Pastori: i valori segnalati come importanti per l’ammissione all’Ordine del Presbiterato, lo sono, in maniera esponenzialmente più rilevante, per la vita e il ministero dei Vescovi.

Il Sacerdote ha bisogno di sapere che la parola del suo Vescovo è una parola certa; che egli, come un buon padre, è capace di un giudizio maturo e responsabile, rispettoso della giusta autonomia dei figli, cosciente della promessa di obbedienza pronunciata dai Sacerdoti nelle sue mani e costantemente alla ricerca dell’unico vero bene: la santificazione delle anime.

Siamo chiamati ad essere “padri autorevoli”: i Sacerdoti devono poter cogliere nel Vescovo tutto quello che si chiede ad essi stessi a livello di ascesi, di senso della cattolicità, della missione, di communio effettiva con la Sede Apostolica ed anche nobiltà del tratto umano, dignitosità umile, proprietà nell’abito ecclesiastico e così via. Tutto ciò concorre a conferire quella autorevolezza di cui non può fare a meno il Vescovo per poter incidere costruttivamente sulla formazione seminaristica e sulla formazione permanente dei suoi chierici. Anche sfumature dell’essere e dell’agire del Vescovo sono altrettante pennellate per la formazione o per la “sformazione” dei chierici.

I Sacerdoti devono poter percepire che tutto nel loro Vescovo è un sentire cum Ecclesia, con la Cattolica! Il Vescovo all’ordinazione dei suoi sacerdoti, domanda: “Prometti a me e ai miei successori filiale rispetto ed obbedienza?”, ma all’Ordinazione del Vescovo si chiede: “Vuoi edificare il Corpo di Cristo, che è la Chiesa, perseverando nella sua unità, insieme con tutto l’ordine dei Vescovi, sotto l’autorità del Successore del Beato Apostolo Pietro?”, e ancora: “Vuoi prestare fedele obbedienza al Successore del Beato Apostolo Pietro?” La verità del rito deve rendersi evidente nella vita! L’obbedienza dei Sacerdoti al Vescovo richiede l’obbedienza piena, generosa, senza fraintendimenti del Vescovo a Pietro e all’intera, ininterrotta Traditio Ecclesiae.

I Sacerdoti devono poi vedere il Vescovo forte, capace di essere quel che deve essere, senza cercare mai il plauso dei media, senza cercare popolarità a basso costo, senza seguire il facile quanto avvilente flusso del “tutti fanno così”, preferendo ciò che è più conforme alla sua condizione di Vescovo ed assumendosi sempre le proprie responsabilità.

Troppo spesso noi siamo magari specialisti in economia, in politica o in sociologia, ma occorrono Vescovi piuttosto specialisti in sana dottrina, capaci di “fiutare”, anche a distanza, le conseguenze di talune impostazioni teologiche, capaci di intuire che a determinate premesse non potrebbero che seguire determinate conseguenze, capaci di apprendere le lezioni della storia; occorrono sentinelle che scrutino gli orizzonti lontani; esperti nel confutare gli errori, nel dirigere le anime, nel discernere i carismi, nel far comprendere la linea di demarcazione tra lo Spirito di Dio e quello del mondo, nel saper leggere i segni dei tempi alla luce dello Spirito di Dio e non del mondo! Capaci quindi di soffrire per amore e con amore.

Occorrono molti specialisti in pazienza, capaci di fuggire da ogni riduzione demagogica del ministero e delle relazioni con i Sacerdoti, capaci di preferire le processioni alle marce, le preghiere alle proteste, l’essere nascosti in Cristo piuttosto che apparire; in termini evangelici, capaci di diminuire perché Cristo Signore cresca!

        

Di fronte ad un tale padre, la coscienza e la libertà dello stesso Sacerdote sarà potentemente richiamata all’obbedienza, la quale non verrà allora percepita come l’imposizione di una volontà esterna, ma come la reale, comune partecipazione all’opera di santificazione dell’intero Popolo di Dio.

         Un padre è sempre capace, a volte con drammatico realismo, di riconoscere tutti i limiti dei propri figli perché, in quanto padre, conosce innanzitutto i propri. Ma sarebbe una grave mancanza di realismo soffermarsi unicamente sui limiti, rischiando, in tal modo, di bloccare la crescita spirituale dei figli.

Un padre è capace di valorizzare giustamente le buone qualità dei propri figli, sostenendoli e incoraggiandoli, mostrando loro anche compiacimento per tutto quanto di vero, giusto e buono v’è in essi ed è da essi compiuto. Solo allora, in una reciproca coscienza di bene, che è il fondamento di ogni possibile fiducia umana, si potrà esercitare la necessaria correzione, la quale, in un tale clima, potrà allora essere accolta fruttuosamente.

         Se è vero che il Vescovo non è il padre spirituale di ciascun sacerdote è altrettanto vero che egli, comunque, è chiamato ad essere padre dell’intera Diocesi e del suo Presbiterio, e tale paternità non può essere meramente simbolica. Nessun Sacerdote è Sacerdote da solo: noi siamo presbiterio e solo nel calore di questa comunione con il Vescovo ognuno può compiere armonicamente e serenamente il proprio servizio.

         Un’altra condizione, che definirei preliminare, a qualunque esercizio di paternità, è la conoscenza dei propri Sacerdoti. Un elemento non di rado riscontrabile, e che causa grande sofferenza nei Sacerdoti, è la quasi misconoscenza, da parte di taluni Vescovi, delle loro persone. Molto semplicemente, conoscere i nomi dei propri Sacerdoti, qualcosa della loro storia, sapere di cosa si occupano e quale ministero svolgono, conoscere le loro condizioni di salute, la loro stabilità umana, affettiva e psicologica, costituisce il nucleo minimo, essenziale ed irrinunciabile, perché un padre possa dirsi tale ed un Sacerdote possa sentirsi figlio.

Se la vastità di talune circoscrizioni ecclesiastiche, l’intersecarsi di impegni e relazioni rendesse difficile poter instaurare un rapporto personale, credo ci si debba soffermare a valutare il fatto che il Clero è priorità e che curare prioritariamente il Seminario, la conoscenza degli stessi seminaristi e quindi i rapporti con i singoli Sacerdoti sia l’unico modo veramente realistico per arrivare a tutte le componenti e le realtà della Diocesi. Senza passare per i Sacerdoti, nella pastorale si arriva a niente. Questa convinzione suggerisce le scelte giuste nella organizzazione delle proprie giornate, nella distribuzione del proprio tempo, nella accettazione di impegni ed interventi. Per i figli tutti i padri e le madri consapevoli sanno fare sacrifici e li sanno fare con quella gioiosità che fiorisce soltanto sullo stelo dell’amore.

         È un compito arduo, soprattutto nelle Diocesi più popolose e, in generale, per la grande mole di lavoro; non tutto però è ugualmente essenziale. Tuttavia è necessario che, anche in piccoli ma significativi gesti, appaia evidente la nostra paternità, eco diretta di quella del Signore.

         Anche nell’ambito pastorale la paternità ha un ruolo importante e da essa può dipendere, in parte, l’efficacia stessa delle nostre fatiche apostoliche. Il Vescovo è il responsabile e moderatore supremo di tutta l’attività pastorale della Diocesi, l’efficacia della quale, in modo preponderante, dipende dalla fattiva adesione e collaborazione del Presbiterio. Per conseguenza, l’esperienza della paternità non riguarda soltanto i rapporti personali tra Vescovo e Sacerdote, né solo quelli istituzionali tra Vescovo e Presbiterio.

La paternità incide profondamente sulla stessa azione pastorale, sostenendo il lavoro, spesso davvero stressante, dei Sacerdoti, motivandone ragionevolmente e sopranaturalmente i sacrifici, indicando con l’esempio e con opportuni suggerimenti che la priorità fondamentale della vita sacerdotale è lo “stare” con il Signore e facendoli sentire, non solo a parole ma realmente, parte di una famiglia (il Presbiterio). Quando i sacerdoti sanno che in ogni congiuntura si troveranno accanto sempre il proprio Vescovo, allora sì lo sentiranno padre!

 

3.                 Il Vescovo “fratello e amico” dei suoi Sacerdoti

 

Se la paternità è il “luogo” di esercizio dell’autorità, la fraternità e l’amicizia sono il luogo della condivisione e della prossimità, anche umana. Il Signore Gesù Cristo ci ha svelato il Volto del Padre, mostrandosi “fratello tra fratelli” e noi siamo in Lui «eredi del Padre» (Cf. Rm 8,17). Se il Sacramento del Battesimo ci ha innestati tutti in Cristo, donandoci quella figliolanza adottiva che solo la Grazia può portare, il Sacramento dell’Ordine, che il Vescovo condivide con i Sacerdoti, seppur in grado differente, è altrettanto causa e fondamento di fraternità ed amicizia.

Tale condizione è innanzitutto sacramentale ed ontologica, poi storica e ministeriale; essa domanda, tuttavia, di divenire, continuamente, anche esperienziale: cioè percepibile concretamente. Come diceva San Giovanni Bosco, pensando all’educazione dei suoi giovani: “Non basta che li amiamo, è necessario che essi si accorgano che li amiamo!”.

Partendo dal chiaro annuncio del Signore: «Non vi chiamo più servi ma amici» (Cf. Gv 15,15), noi conosciamo come Dio stesso abbia voluto rinnovare i rapporti con Lui, e quelli tra gli uomini, offrendoci ed introducendoci in una familiarità, che appartiene all’ordine della Grazia. Se l’amicizia è quell’idem velle idem nolle, che l’antichità classica ci ha consegnato, e che il cristianesimo ha, in fondo, fatto proprio, evangelizzandolo, allora è davvero possibile essere “amici” dei propri Sacerdoti, non tanto in forza di presunte o reali, fittizie o forzate, affinità elettive, ma in forza del comune “volere” e “non volere” le medesime cose, cioè in forza di un’identificazione in Cristo e nel ministero, la quale determina, e crea, un “nuovo modo” di stare insieme e di condividere l’esistenza.

Potremmo definirla una “fraternità ed amicizia discendente”, poiché, anche dal punto di vista teologico, siamo stati resi fratelli dalla libera opzione del Padre di inviare il Figlio, «nato da donna, nato sotto la legge» (Gal 4,4), che è divenuto così, per sempre, nostro fratello nell’umanità. Ritengo che il Vescovo possa e debba vivere, nei confronti dei Sacerdoti, questo tipo di “fraternità discendente”.

Nella consapevolezza di tutti i limiti umani dei Vescovi e dei Sacerdoti, credo che il luogo fondamentale per fare esperienza di una tale fraternità ed amicizia, e crescere in essa, sia ancora e sempre la preghiera. I Sacerdoti hanno diritto di avvertire quella fraternità e quell’amicizia che non nascono, né potrebbero nascere, dalla carne o dal sangue - e men che meno da un facile demagogismo - ma che, per la radicalità e la potenza del vincolo sacramentale, nella comune appartenenza a Cristo, risulta essere, paradossalmente, più radicale di quella di sangue.

Al Vescovo è chiesta una grande maturità spirituale ed affettiva, poiché – ben lo sappiamo – alcuni Sacerdoti si sottraggono ad un rapporto autentico e di fraternità con il proprio Vescovo, e ciò può accadere per varie ragioni: per la loro personale immaturità, che ancora vede nell’autorità un ostacolo alla realizzazione dei propri desideri o, purtroppo più frequentemente, per le ferite ricevute nel percorso della vita, magari non sufficientemente rimarginate, che hanno condotto ad una certa sfiducia nei confronti della possibilità stessa di vivere un rapporto fraterno, con l’autorità superiore. È necessario, in questi casi, e in ogni rapporto con i Sacerdoti, che sia sempre e continuamente il Vescovo a fare il primo passo.

L’autorità che abbiamo ricevuto non fa di noi dei “sovrani”, contro i quali è possibile consumare un reato di “lesa maestà”, ma ci obbliga in coscienza ad essere “eccellenti” (come ci chiamano) nella fraternità, nella misericordia, nella capacità di perdono «fino a settanta volte sette» (Mt 18,22), confidando nella forza della Grazia della Misericordia, la quale con il tempo, può sciogliere qualunque cuore, piegare ogni durezza, rimarginare ogni ferita. È meglio soffrire che far soffrire.

Sia, il Vescovo, il primo “fratello ed amico della famiglia presbiterale”, colui che, per primo, domanda agli altri fratelli: “come stai?”; colui che, certamente con l’aiuto anche di un’efficiente segreteria, ricorda gli anniversari di Ordinazione dei propri Sacerdoti, gli onomastici, le date importanti, proprio come si fa in una famiglia dove ci si vuole bene.

Qui, per essere all’altezza del proprio ufficio, talvolta occorre essere eroici. La lotta al funzionalismo, più volte invocata dal Santo Padre Benedetto XVI, passa anche attraverso espressioni, concrete e visibili.

Infondiamo pace, calma nei nostri sacerdoti stressati dagli orari e dal correre magari a più parrocchie e ad altri incarichi. Aiutiamo questi insostituibili collaboratori a ricordare che noi dobbiamo fare sì come se tutto dipendesse da noi ma ben persuasi che tutto dipende dal Signore, che l’anima di ogni apostolato è racchiusa nell’unione con Lui; che uno semina ed un altro raccoglie e che è la santità il segreto della fruttuosità pastorale. Se il Vescovo è fratello, fratello maggiore ma fratello, e sinceramente amico, ai Sacerdoti risulterà chiaro che egli è la prima persona alla quale rivolgersi per qualunque problema, sia personale, sia pastorale.

La frammentazione culturale non ha lasciato illeso il volto stesso della Chiesa e, talvolta, le differenti opinioni, i sempre maggiormente diversificati cammini teologici e metodi pastorali, sembrerebbero rendere quasi non percepibile l’Idem velle, anche all’interno del medesimo presbiterio. Perché una reale amicizia possa sempre nuovamente accadere, all’interno delle nostre realtà ecclesiali, è forse necessario, come presupposto, favorire un recupero di quella, sostanzialmente condivisa, dimensione dottrinale, che era - purtroppo devo dire “era” - bagaglio comune ad ogni sacerdote e che, tra l’altro, faceva percepire, in modo molto più evidente, la fondamentale unità del Corpo ecclesiale, a livello sia di magistero, che di disciplina, anche ai fedeli laici e agli stessi cosiddetti lontani.

L’amicizia, fondata sulla condivisione del bene e sulla positiva e radicale esclusione di ogni altro umano interesse, è l’unica reale e la sola possibile, all’interno di un presbiterio, tra il Vescovo e i suoi Sacerdoti. Proprio la gratuità del rapporto di amicizia, pone in rilievo il fatto che, anche in questa dimensione, il Vescovo è chiamato ad “amare per primo”. Il Vescovo è chiamato ad essere vicino a tutti e, quindi, anche ai preti di cui “nessuno è amico”: di quelli meno dotati e, a volte, più problematici; di quelli con i quali forse è difficile conversare, la cui umanità è più fragile o più spigolosa; di quelli che, forse, mai immaginerebbero che il Vescovo possa interessarsi di loro.

Sappiamo bene come un incontro o una parola, possano anche cambiare la vita e portare ad una grande conversione: sia questo l’atteggiamento profondo di ogni pastore, nella certezza che la forza per “offrire” in tal modo la propria amicizia si attinge unicamente dalla preghiera e da un costante rapporto con Cristo, oltre che, ovviamente, dalla personale esperienza di amicizia e misericordia.

Il Vescovo è chiamato ad esprimere la propria carità, nell’amicizia ai Sacerdoti, anche, e soprattutto, nel momento della tempesta, quando la barca pare affondare ed un grido s’innalza: «Maestro non ti importa che moriamo?» (Cf. Mc 4,38). I Sacerdoti possono cadere, possono sbagliare, purtroppo anche gravemente! In quel momento, più che in ogni altro, essi hanno bisogno del Vescovo. La sofferenza, e perfino lo scandalo, che talora il loro comportamento provoca con grave ferita al Corpo Ecclesiale, domanda perentoriamente di essere corretto nella giustizia e nella verità, con pronta sollecitudine, anche attraverso l’applicazione di tutte le norme previste dal Codice di Diritto Canonico. La disciplina, infatti, lungi dall’essere espressione di durezza è espressione di carità pastorale. Ciò che deve costantemente muovere anche l’agire disciplinare del Vescovo è l’amore, la Caritas Christi che spinge, che urget nos, direbbe San Paolo (cf. 2Cor 5,14), e mai altre preoccupazioni di ordine mediatico o, peggio, scandalosamente economico o il “tintinnio delle manette”. Il Vescovo non può agire per paura ma solo per amore e l’esame di coscienza lo fa innanzi a Dio e non innanzi alle Agenzie di Stampa. La ricerca della verità e della giustizia è eco diretta dell’amore per il Signore e per la Sua Chiesa!

Lo spirito del mondo presenta la figura del Vescovo come un efficiente “manager”, ma il Cuore Sacerdotale di Gesù e la nostra intera Tradizione lungo i millenni presentano la figura del Vescovo come Uomo di Dio e come Padre!

Un fratello, un amico è capace di dire la verità, anche la più cruda, non venendo meno all’amicizia e lasciando, sempre e comunque, una porta aperta, una prospettiva di luce, perché, nelle tenebre più buie, il demonio potrebbe trionfare. Del resto, nel giorno della nostra ordinazione episcopale ci è stato chiesto: «Vuoi, come buon pastore, andare in cerca delle pecore smarrite per riportarle all’ovile di Cristo?». Rispondendo «sì» ci siamo impegnati a riportare all’ovile le pecore e perfino i pastori che si fossero smarriti.

 

Carissimi confratelli, quale grande compito ci attende!

Quali energie soprannaturali siamo chiamati ad attingere continuamente dal Signore, per poter attendere a quanto Egli ci domanda!

Quale maturità psico-affettiva e quale esperienza di rapporti umani è richiesta al Vescovo! Tutto questo non deve intimorirci. Pur sapendo che la nostra autorevole parola dovrà sempre essere quella definitiva sulle varie questioni, in forza anche del munus regendi, che il Signore e la Chiesa ci hanno conferito, il nostro agire sia sempre improntato alla più grande carità pastorale, prudenza e discrezione. Ci sia sempre una profonda capacità di ascolto e di confronto con i nostri più preziosi collaboratori.

Il primo interesse, la prima cura, la prima fatica e, insieme, la più grande gioia e corona del Vescovo sono, e devono essere proprio, i suoi Sacerdoti, senza i quali Egli potrebbe fare pressoché nulla e dei quali è chiamato, costantemente, ad essere Maestro di preghiera, padre, fratello e amico. Tanta cura dovrà iniziare dal Seminario dove il Vescovo incomincerà a conoscere i Sacerdoti di domani e dallo stesso zelo contagioso per la pastorale vocazionale.

 

La Beata Vergine Maria, incommensurabile dono di Cristo Sommo ed Eterno Sacerdote ai Suoi “unti” ci sostenga e ci guidi in questo cammino.

Affidiamo, i nostri Sacerdoti a Colei che, essendo Madre della Chiesa, aiuta ogni sacerdote ad essere un altro Cristo.

Di tale affidamento noi siamo testimoni e, nel servizio di Vescovi, partecipi, soprattutto - desidero ribadirlo con forza - se saremo autentici testimoni e maestri di preghiera! È nella preghiera che fiorisce misteriosamente ogni autentica paternità, ogni fraternità ed amicizia nei confronti del nostro Clero.

Io intanto prometto la mia preghiera per voi e con tutto il cuore! Grazie.