L’Osservatore Romano
– sabato 25 febbraio 2012, p. 6
L’importanza di
riappropriarsi senza intermediazioni di un’eredità culturale
straordinariamente
ricca
Perché i preti devono studiare il latino
Pubblichiamo
stralci di una delle relazioni tenute dall’Arcivescovo segretario della
Congregazione per il Clero nel corso del convegno organizzato dal Pontificium
Institutum Altioris Latinitatis alla Pontificia Università Salesiana e dedicato
al cinquantesimo anniversario della costituzione apostolica “Veterum sapientia”
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di S.E. Celso Morga Iruzubieta
La seconda metà del Novecento ha segnato – e non
solo a livello ecclesiale – uno spartiacque nella storia dell’uso della lingua
latina. Tramontata già da secoli come strumento della comunicazione erudita, ha
resistito nella scuola, come materia di studio nei programmi educativi di
livello secondario superiore, e, nella Chiesa cattolica, in generale, come
mezzo di espressione della liturgia e tramite della trasmissione dei contenuti
della fede e di un ampio patrimonio letterario che spazia dalla speculazione
teo-filosofica al diritto, dalla mistica e dall’agiografia alla trattatistica
sulle arti, alla musica e perfino alle scienze esatte e a quelle naturali.
Con il tempo, tuttavia, almeno sotto il profilo
propagandistico, la lingua latina è finita per divenire, in massima parte,
appannaggio sempre più caratteristico della formazione clericale nella Chiesa
cattolica, al punto di ingenerare una spontanea, quanto forse inappropriata,
identificazione tra la Chiesa romana e l’entità linguistica latina, che in essa
ha trovato, in questa fase critica, un almeno apparente vigore.
«Apparente» perché, se si considerano a posteriori le circostanze odierne,
tutto lascerebbe pensare che la voce del Beato Giovanni XXIII, rivolta il 7
settembre 1959 a un convegno di cultori della lingua latina, non sia soltanto rimasta
inascoltata, ma che la questione dell’uso e perfino dello stesso insegnamento della
lingua latina, anche nel contesto ecclesiale, procedesse, probabilmente, già sui
sentieri di un radicale ridimensionamento:
Pro dolor! sunt sat multi, qui mira progressione
artium abnormiter capti, Latinitatis studia et alias id genus disciplinas
repellere vel coërcere sibi sumant ... [1] [tr.:
Purtroppo vi sono parecchi che, esageratamente sedotti dallo straordinario
progresso delle scienze, hanno la presunzione di rigettare o restringere lo
studio del latino e di altre discipline di tal genere …]
È fuor di dubbio che l’identificazione tra Chiesa
cattolica e lingua latina, in un contesto di secolarismo culturale, e, per un
certo tempo, anche di anticlericalismo, dominante – attecchito anche in larghi
strati del mondo stesso ecclesiale – abbia prodotto ingenti danni alla
sopravvivenza stessa della lingua latina, all’interno dei sistemi educativi,
sospinta non tanto dall’accelerazione fulminante del progresso delle scienze
«esatte» e delle scienze naturali, quanto da un “intellettualismo critico e
sicuro” della propria capacità di sviluppare “impianti culturali autosufficienti”,
capaci di prescindere da ogni rapporto di dipendenza da un passato giudicato
troppo oneroso e, per di più, caratterizzati dal rifiuto di qualsiasi
atteggiamento normativo considerato alla stregua di una forza di coercizione.
Sta di fatto che l’esperienza generale dell’uomo di
Chiesa è che il latino sia finito per essere tenuto in maggior considerazione
da chi, negli stessi Seminari, ma non solo in essi, provenisse da un retroterra
formativo, anche assai distante dalla cultura umanistica, piuttosto che da
quanti si rivolgevano a interessi di matrice storica, letteraria, teologica,
filosofica, spirituale e giuridica (ambito umanistico). […]
Tuttavia, nonostante le difficoltà, si riscontra
oggi tra i sacerdoti la convinzione che scopo dell’avvio al latino sia quello
di accostare una civiltà e misurarne valori, interessi e significati,
vagliandone insegnamenti e fondamenti teoretici nella prospettiva di una
comprensione critica del presente. Si tratta di un segnale decisamente
incoraggiante del mondo e della Chiesa contemporanea, disposta a non osservare
la lezione e lo studio del passato come un superfluo o retrogrado sguardo
inutilmente volto al recupero di qualcosa di tramontato, ma come riappropriazione,
diretta e priva di intermediazioni, di un messaggio di straordinaria ricchezza
dottrinale, culturale e pedagogica, di una eredità intellettuale troppo vasta,
feconda e radicata per lasciare presuppore qualsiasi cesura dalle sue radici.
Allo stato attuale, appare improbabile che si
riesca a far apprezzare al sacerdote, ancor meno nella fase iniziale del
proprio percorso formativo, il valore del latino come lingua dotata di
nobiltà di struttura e di lessico, capace di promuovere uno stile conciso,
ricco, armonioso, pieno di maestà e di dignità, che giova alla chiarezza
ed alla gravità, atta a promuovere ogni forma di cultura, l’humanitatis cultus, tra i popoli.[2]
È in questo
recupero di un’identità culturale propria, in questa ripresa dal fondo delle
motivazioni della presenza stessa della Chiesa nella società che si configura
l’importanza del latino nel curriculum scolastico
degli aspiranti al sacerdozio, riscattandola da ogni semplicistico – nonché
scorretto e riduttivo – quesito sulla sua funzionalità pratica e riabilitandone
il ruolo di materia ampiamente formativa.
È in tale
prospettica che Paolo VI, nel Motu Proprio «Studia latinitatis», con cui istituiva
presso l’allora Ateneo Salesiano il Pontificio Istituto Superiore di
Latinità, ribadiva con decisione nell’esordio stesso del testo lo stretto
legame tra lo studio della lingua latina e la formazione al sacerdozio,
riaffermando il carattere di ineluttabilità di una non exigua scientia del latino:
Studia latinitatis antiquarumque
litterarum quam maxime coniungi cum sacrorum alumnorum institutione atque
disciplina persuasum nullo non tempore Summi Pontifices habuerunt, qui non
minus praeterita quam nostra hac aetate huiusmodi super re gravia in lucem
ediderunt documenta.[3] [tr.: È stata in ogni epoca convinzione dei Sommi
Pontefici che lo studio della lingua latina e della letteratura antica siano
assolutamente congiunte con l’istruzione e la formazione dei seminaristi e, in
passato come ai nostri giorni, essi hanno pubblicato su tale argomento
importanti documenti.]
Un primo aspetto della sua utilità, intrinsecamente
legato alla formazione del sacerdote, è nel suo disporsi come tramite di un
insieme di valori che favorisce il pieno sviluppo della personalità, delle
disposizioni dell’animo e di un’autentica maturità umana che si ripercuote
nella capacità di operare scelte ponderate e di giudicare con retto spirito
critico uomini ed eventi, nell’acquisizione del dominio di sé, nello sviluppo
dello spirito di iniziativa, nella capacità di lavorare in comune con i confratelli
e con i laici, nella cura di valori quali la lealtà, il rispetto, la giustizia,
la fedeltà, la gentilezza del tratto, la discrezione, la carità, il retto uso
della libertà.[4]
Veicolo di una visione antropocentrica del mondo
profondamente intrisa di spiritualità cristiana, la lingua latina consente di
offrire un contributo autorevole e peculiare nel valutare e orientare gli
obiettivi emergenti dalle nuove scienze, riconfigurando ogni nozione di
progresso in un equilibrato bilanciamento tra ricerca di felicità e benessere e
risposta alle esigenze profonde dell'homo
interior.
Questa formazione culturale, radice nonché
patrimonio bimillenario della pedagogia e della cultura ecclesiastica […],[5]
costituisce il tramite collaudato di un discernimento sapiente nel dialogo tra
fede e ragione, nel discernimento dei valori mutuabili nel contatto con diverse
o nuove forme di cultura,[6]
nella costruzione di personalità che si distinguano per essere simul pastoralia et theologica, catechetica
et culturalia, spiritalia et socialia praecellentem in modum.[7]
Ma la conoscenza delle lingue classiche è tanto più
necessaria per il sacerdote nel suo compito di educatore del popolo e formatore
della comunità nella maturità della fede mediante la pratica di una carità
sincera e attiva, l’esempio, la preghiera, l’esercizio di quella libertà con
cui Cristo stesso ha reso l’umanità libera, rendendolo
instrumentum
efficax, quo nondum credentibus via ad Christum eiusque Ecclesiam indicatur vel
sternitur, quo etiam fideles excitantur, aluntur et ad pugnam spiritualem
roborantur.[8]
[tr.: strumento efficace per indicare
o agevolare a chi ancora non crede il cammino che porta a Cristo e alla sua
Chiesa e per stimolare, alimentare e sostenere anche i credenti nella lotta
spirituale.]
Tale ruolo passa inevitabilmente attraverso una
riappropriazione di quel mondo di valori che definisce il cristianesimo in un
legame di continuità che fa del presente il frutto di una millenaria
elaborazione. Recidere il legame e stabilire uno iato con il passato significa,
infatti, per il mondo sacerdotale un impoverimento radicale, nella stessa
misura in cui la mancanza di memoria rappresenta, dal punto di vista medico, uno
stato patologico e non la normalità dell'individuo.
Questa continuità costituisce un legame che
connette la Chiesa, la cultura cristiana e il sacerdote odierni con le proprie
radici in un rapporto diretto di dipendenza in cui si attingono stimoli e
suggestioni che definiscono la propria autentica identità, non come modelli
idealizzati, perduti e inarrivabili, ma come un archetipo di una tradizione in
continua evoluzione, ben lungi dall'essersi esaurita.
Studiare il latino significa accostare direttamente,
senza mediazioni linguistiche e, per ciò stesso, culturali, autori come Agostino,
Cipriano, Leone Magno, Isidoro di Siviglia, Alcuino, Bernardo, Ildegarda di
Bingen, Tommaso, Bartolo da Sassoferrato, ma anche Lucrezio, Virgilio, Seneca, Boezio,
Ulpiano, Graziano, al pari di tanti altri maestri delle arti e del pensiero,
che in qualche misura hanno orientato e continuano a orientare il modo di essere
e di esprimersi odierno.
Solo attraverso il latino il sacerdote apprende
come fondamento della propria formazione quella consuetudine con il Deus caritas e fa del praevenire amando agostiniano,
l’arrivare per primi nell’amare, la
colonna portante di quell’intero sistema pedagogico che è l’apostolato.
[1] Cf. Ioannes
Pp. XXIII, Constitutio Apostolica de latinitatis studio provehendo «Veterum Sapientia», diei 22 februarii
1962 [= Veterum Sapientia], n. 10.
[2] Veterum Sapientia, n. 3.
[3] Paulus Pp.
VI, Litterae Apostolicae Motu Proprio datae «Studia latinitatis»: Romae conditur Pontificium Institutum Altioris
Latinitatis, diei 22 februarii 1964, Prooemium.
[4] Cf. Optatam
totius, n. 13.
[5] Beato Giovanni Paolo II, Inspectis dierum, (1989) n. 42 (= cap. II, 3, a).
[6] Cf. Inspectis dierum, nn. 30-32 (= cap. II, 2, b, 1-3).
[7] Inspectis dierum, n. 47 (= cap. II, 3, e).
[8] Concilium
Oecumenicum Vaticanum II, Decretum de presbyterorum ministerio et vita «Presbyterorum ordinis», diei 7 decembris
1965, n. 6.