Seminario per i Vescovi
Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli
Collegio San Paolo – sabato 8 settembre, ore 9.15
«Paternità del Vescovo nei riguardi dei
presbiteri
e
formazione permanente del Clero»
Intervento del Cardinal Mauro Piacenza
Prefetto della Congregazione per il Clero
Sono molto
lieto di essere tra di voi, che siete stati chiamati, in terra di missione, a
partecipare della successione apostolica e avete visto rinnovato, in tal modo,
per il dono della Grazia, il profondo legame che, sin dal Battesimo, ci àncora
esistenzialmente, sacramentalmente ed ontologicamente a Cristo, Unico, Eterno e
Sommo Sacerdote.
Pur mantenendo chiara la distinzione tra l’ordine
presbiterale e quello episcopale, costitutiva del volto stesso della Chiesa, è
necessario porsi nell’atteggiamento di chi, permanentemente, vive nella lucida
consapevolezza della “indispensabilità” dei Sacerdoti, nei confronti dei quali
il Signore ci domanda di avere continuamente uno sguardo di fede e di
preghiera, di paternità, di fraternità e di amicizia, come pure di
quell’autorevolezza che costituisce un irrinunciabile servizio.
Anche se i territori, in cui siete chiamati ad essere
Vescovi, per la maggior parte dei casi, non dipendono dalla Congregazione per
il Clero, sono lieto di poter condividere con voi questo tempo e ringrazio
dell’invito, segno della perenne comunione ecclesiale, il Prefetto, Sua
Eminenza il Cardinale Filoni.
Il tema assegnatomi, per questo intervento, è
sostanzialmente costituito da due punti, che rappresenteranno anche l’ossatura di
questa conferenza, sapendo che il primo, la paternità dei Vescovi nei confronti
dei loro sacerdoti, è presupposto del secondo, la formazione permanente, poiché
quest’ultima altro non è, se non uno dei concreti modi di esercizio della
paternità.
1. Il Vescovo “padre” dei suoi
sacerdoti
Quando siete stati ordinati Vescovi, prima
dell’imposizione delle mani, vi è stata rivolta questa precisa domanda: «Volete
prendervi cura, con amore di padre, del popolo santo di Dio e con i presbiteri
e i diaconi, vostri collaboratori nel ministero, guidarlo sulla via della
salvezza?». Voi avete risposto, con libertà e in verità, di fronte a Dio: «Sì,
lo voglio».
Tutti sappiamo come, nella Chiesa, la lex orandi, cioè il modo di pregare, sia
intimamente legata alla lex credendi,
cioè alla fede. Lex orandi e lex credendi rappresentano
l’imprescinidibile, costante riferimento sia dell’esercizio del munus docendi, sia di quello del munus sanctificandi. Non è possibile
essere maestri nella fede e padri, prescindendo dalla preghiera ufficiale della
Chiesa, che è essa stessa fonte di insegnamento, e non è possibile esercitare
adeguatamente il munus sanctificandi,
prescindendo dalla piena comunione della e nella fede, che sempre ci deve
caratterizzare.
A quella domanda, prevista dal Rito di Ordinazione
episcopale, abbiamo risposto “sì”. In quel “sì” è contenuta tutta l’adesione
della nostra libertà, lucidamente consapevole dei propri limiti, alla
straordinaria vocazione che ci è stata rivolta. Essere “padri” di tutto il
popolo significa anche, e soprattutto, essere padri dei nostri Sacerdoti, i
quali sono parte del Popolo santo di Dio, e, per di più, parte eletta! La
paternità del Vescovo affonda le proprie radici nella stessa paternità di Dio,
il quale, in Cristo Gesù, ha rivolto la Sua Parola ultima e definitiva
all’uomo, rivelandosi, appunto, come Padre.
Il Vescovo, deve aver presente in ogni istante, in
ogni rapporto, in ogni dialogo con il proprio Presbiterio, in generale, e con
ciascuno dei propri sacerdoti, in particolare, che egli è lo strumento concreto
attraverso il quale Dio vuole mostrare il Suo Volto: egli potrà esserne
luminosa trasparenza oppure, Dio non voglia, potrà oscurarLo.
Ad imitazione dell’Amore del Padre, il Vescovo è
chiamato, nei confronti del suo Presbiterio, ad un’attenzione costante, ad una
sollecita vigilanza, ad un’autentica “tensione”, perché ciascun Sacerdote si
senta partecipe, presente, importante e valorizzato, nell’unica famiglia
presbiterale della quale il Vescovo è padre. Il bisogno di paternità, tra il
Clero di tutto il mondo è oggi, forse più di ieri, fortemente sentito.
Tutti sappiamo come, in tutte le lingue, il termine
“padre”, sia un nome relativo, che, cioè, indica – e necessariamente implica –
una relazione: non c’è un padre se non c’è un figlio e viceversa.
Se nelle varie culture, il compito della paternità
naturale si declina in modi anche profondamente differenti, dobbiamo
riconoscere che, per noi, l’unico modello autentico, al quale guardare e da
imitare, è e rimane il Padre celeste, «dal
quale ogni paternità proviene» (Ef
3,15).
Due errori opposti, ma per certi versi derivanti dalla
medesima assenza di sguardo al Padre celeste, devono essere evitati: quello
della rinuncia alla paternità (forse più tipico delle società occidentali) e
quello di una declinazione paternalistica o autoritaria del compito di padre.
In entrambi i casi – dicevo –, è possibile riscontrare
un “difetto di sguardo” all’unica, soprannaturale paternità di Dio, guardando
la quale, siamo chiamati a vivere intensamente la dimensione relazionale del
nostro ministero, sapendo di imitare, attraverso di essa, la stessa volontà di
relazione di Dio con gli uomini, della quale siamo stati resi strumento.
Siamo chiamati, cari confratelli, ad esercitare questa
paternità nei confronti dei nostri Presbiteri, innanzitutto nella ordinaria
stabilità delle nostre personalità umane. Come accade nell’educazione
familiare, anche nelle Diocesi, nel rapporto tra Presbiterio e Vescovo, i
Sacerdoti rimangono molto disorientati dalla possibile instabilità dei loro
Pastori: i valori segnalati come importanti per l’ammissione all’Ordine del
Presbiterato, lo sono, in maniera esponenzialmente più rilevante, per la vita e
il ministero dei Vescovi.
Il Sacerdote ha bisogno di sapere che la parola del
suo Vescovo è una parola certa; che egli, come un buon padre, è capace di un
giudizio maturo e responsabile, rispettoso della giusta autonomia dei figli,
cosciente della promessa di obbedienza pronunciata dai Sacerdoti nelle sue mani
e costantemente alla ricerca dell’unico vero bene: la santificazione delle
anime.
Se è vero che il ruolo del Vescovo è anche quello del
sorvegliante (epi-skopè, colui che
veglia dall’alto), è altrettanto vero che tale autorità non si fonda su ragioni
umane o di potere, ma ha una radice essenzialmente ed esclusivamente sacra.
Come affermato dal Santo Padre Benedetto XVI: «Generalmente, si dice che il significato della parola
gerarchia sarebbe “sacro dominio”, ma il vero significato non è questo, è
“sacra origine”, cioè: questa autorità non viene dall’uomo stesso, ma ha
origine nel sacro, nel Sacramento; sottomette quindi la persona alla vocazione,
al mistero di Cristo; fa del singolo un servitore di Cristo e solo in quanto
servo di Cristo questi può governare, guidare per Cristo e con Cristo. Perciò
chi entra nel sacro Ordine del Sacramento, la “gerarchia”, non è un autocrate,
ma entra in un legame nuovo di obbedienza a Cristo: è legato a Lui in comunione
con gli altri membri del sacro Ordine, del Sacerdozio» (Udienza generale del 26 maggio
2010).
Solo in questo legame a Cristo, acquista la sua vera
luce la nostra autorità episcopale, ed è sempre necessario che ciò sia tenuto
presente dagli stessi Vescovi e sia riconoscibile dai sacerdoti e dai fedeli
tutti.
Esercitare l’autorità gerarchica significa, perciò,
non appena svolgere un ruolo politico-amministrativo di “coordinamento”
all’interno della Diocesi, ma, anzitutto, accogliere questo nuovo legame di
obbedienza a Cristo, ricevuto nella Consacrazione sacerdotale ed episcopale, per
essere Suoi servi, liberamente sottomessi alla Sua Volontà, e, quindi, introdurre
il Popolo santo di Dio non nel nostro dominio, ma nel Regno di Cristo, che è
Regno di verità e di salvezza.
In questo senso, quindi, siamo chiamati ad essere
“padri autorevoli”: i Sacerdoti devono poter cogliere nel Vescovo tutto quello
che si chiede ad essi stessi a livello di ascesi, di senso della cattolicità,
della missione, di communio effettiva
con la Sede Apostolica ed anche nobiltà del tratto umano, dignitosità umile,
proprietà nell’abito ecclesiastico e così via.
Tutto ciò concorre a conferire quella autorevolezza di
cui non può fare a meno il Vescovo per poter incidere costruttivamente sulla
formazione seminaristica e sulla formazione permanente dei suoi chierici. Anche
solo le sfumature dell’essere e dell’agire del Vescovo costituiscono altrettante
pennellate per la formazione o per la “sformazione” dei chierici.
I Sacerdoti devono poter percepire che tutto nel loro
Vescovo è un sentire cum Ecclesia,
con la Cattolica!
Il Vescovo all’ordinazione dei suoi sacerdoti,
domanda: “Prometti a me e ai miei successori filiale rispetto ed obbedienza?”,
ma all’Ordinazione del Vescovo si chiede: “Vuoi edificare il Corpo di Cristo,
che è la Chiesa, perseverando nella sua unità, insieme con tutto l’ordine dei
Vescovi, sotto l’autorità del Successore del Beato Apostolo Pietro?”, e ancora:
“Vuoi prestare fedele obbedienza al Successore del Beato Apostolo Pietro?” La
verità del rito deve rendersi evidente nella vita!
L’obbedienza dei Sacerdoti al Vescovo richiede
l’obbedienza piena, generosa, senza fraintendimenti del Vescovo a Pietro e
all’intera, ininterrotta Traditio
Ecclesiae.
I Sacerdoti devono poi vedere il Vescovo, pienamente
identificato con il Ministero ricevuto, animato sempre dal timore di Dio e non
invischiato nella ricerca di una popolarità a basso costo. Occorrono Vescovi
esperti e maestri di sana dottrina, esperti nel confutare gli errori, nel
dirigere le anime, nel discernere i carismi, nel far comprendere la linea di
demarcazione tra lo Spirito di Dio e quello del mondo! Capaci quindi di
soffrire per amore e con amore. Chi è retto ha sempre da soffrire, ma gode pure
di una grande pace e fiducia.
Di fronte ad un tale padre, la coscienza e la libertà
dello stesso Sacerdote sarà potentemente richiamata all’obbedienza, la quale
non verrà allora percepita come l’imposizione di una volontà esterna, ma come
la reale, comune partecipazione all’opera di santificazione dell’intero Popolo
di Dio.
Un padre è sempre capace, a volte con drammatico
realismo, di riconoscere tutti i limiti dei propri figli perché, in quanto
padre, conosce innanzitutto i propri. Ma sarebbe una grave mancanza di realismo
soffermarsi unicamente sui limiti, rischiando, in tal modo, di bloccare la
crescita spirituale dei figli.
Un padre è capace di valorizzare giustamente le buone
qualità dei propri figli, sostenendoli e incoraggiandoli, mostrando loro anche
compiacimento per tutto quanto di vero, giusto e buono v’è in essi ed è da essi
compiuto. Solo allora, in una reciproca coscienza di bene, che è il fondamento
di ogni possibile fiducia umana, si potrà esercitare la necessaria correzione,
la quale, in un tale clima, potrà allora essere accolta fruttuosamente.
Se è vero che il Vescovo non è il padre spirituale di
ciascun sacerdote è altrettanto vero che egli, comunque, è chiamato ad essere
padre dell’intera Diocesi e del suo Presbiterio, e tale paternità non può
essere meramente simbolica. Nessun Sacerdote è Sacerdote da solo: noi siamo
presbiterio e solo nel calore di questa comunione con il Vescovo ognuno può
compiere armonicamente e serenamente il proprio servizio.
Un’altra condizione, che definirei preliminare, a
qualunque esercizio di paternità, è la conoscenza diretta dei propri Sacerdoti.
Un elemento non di rado riscontrabile, e che causa grande sofferenza nei
Sacerdoti, è la quasi misconoscenza, da parte di taluni Vescovi, delle loro
persone. Molto semplicemente, conoscere i nomi dei propri Sacerdoti, qualcosa
della loro storia, sapere di cosa si occupano e quale ministero svolgono,
conoscere le loro condizioni di salute, la loro stabilità umana, affettiva e
psicologica, costituisce il nucleo minimo, essenziale ed irrinunciabile, perché
un padre possa dirsi tale ed un Sacerdote possa sentirsi figlio.
Se la vastità di talune circoscrizioni ecclesiastiche,
l’intersecarsi di impegni e relazioni rendesse difficile poter instaurare un
rapporto personale, credo ci si debba soffermare a valutare il fatto che il
Clero è priorità e che curare prioritariamente il Seminario, la conoscenza
degli stessi seminaristi e quindi i rapporti con i singoli Sacerdoti sia
l’unico modo veramente realistico per arrivare a tutte le componenti e le
realtà della Diocesi. Senza passare per i Sacerdoti, si arriva a niente.
Questa convinzione suggerisce le scelte giuste nella
organizzazione delle proprie giornate, nella distribuzione del proprio tempo,
nella accettazione di impegni ed interventi. Per i figli tutti i padri e le
madri consapevoli sanno fare sacrifici e li sanno fare con quella gioiosità che
fiorisce soltanto sullo stelo dell’amore.
È un compito arduo, soprattutto nelle Diocesi più
popolose e, in generale, per la grande mole di lavoro; non tutto però è
ugualmente essenziale. Tuttavia è necessario che, anche in piccoli ma
significativi gesti, appaia evidente la nostra paternità, eco diretta di quella
del Signore.
Anche nell’ambito pastorale la paternità ha un ruolo
importante e da essa può dipendere, in parte, l’efficacia stessa delle nostre
fatiche apostoliche. Il Vescovo è il responsabile e moderatore supremo di tutta
l’attività pastorale della Diocesi, l’efficacia della quale, in modo
preponderante, dipende dalla fattiva adesione e collaborazione del Presbiterio.
Per conseguenza, l’esperienza della paternità non riguarda soltanto i rapporti
personali tra Vescovo e Sacerdote, né solo quelli istituzionali tra Vescovo e
Presbiterio.
La paternità incide profondamente sulla stessa azione
pastorale, sostenendo il lavoro, spesso davvero stressante, dei Sacerdoti, motivandone
ragionevolmente e sopranaturalmente i sacrifici, indicando con l’esempio e con
opportuni suggerimenti che la priorità fondamentale della vita sacerdotale è lo
“stare” con il Signore e facendoli sentire, non solo a parole ma realmente,
parte di una famiglia (il Presbiterio).
Quando i sacerdoti sanno che in ogni congiuntura si
troveranno accanto sempre il proprio Vescovo, allora sì lo sentiranno padre!
2.
La formazione permanente del Clero
Se
la paternità del Vescovo, per sua natura, domanda di essere vissuta nella
relazione personale con ciascun sacerdote e di documentarsi in attenzioni e
gesti concreti, la formazione permanente del Clero è uno dei modi più
significativi di esercizio di tale paternità.
La
Formazione costituisce, infatti, una dimensione imprescindibile e permanente
della vita sacerdotale, sia (soprattutto in Occidente) per la continua e
rapidissima mutevolezza dei contesti nei quali siamo chiamati ad esercitare il
sacro ministero, sia per la sempre urgente chiamata alla santità ed alla
perfezione evangelica che, in taluni periodi della storia, si avverte con
particolare urgenza.
Prendendo
le mosse dalle parole dell’Apostolo al Vescovo Timoteo: «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te» (2Tim 1,6), l’Esortazione apostolica postsinodale
del Beato Giovanni Paolo II, Pastores
dabo vobis, collocava la Formazione permanete in una cornice teologica
soprannaturale, definendo il “ravvivare” come «l'effetto di un dinamismo di grazia intrinseco al dono di Dio: è Dio
stesso, dunque, a ravvivare il suo stesso dono, meglio, a sprigionare tutta la
straordinaria ricchezza di grazia e di responsabilità che in esso è racchiusa»
(PdV n. 70).
Tale
dimensione, poiché sempre ci supera, deve sempre essere sottolineata,
riscoperta e ri-conquistata dalla nostra umana comprensione e libertà.
Chiarita
la premessa sul “protagonista divino” della formazione permanente, chiediamoci:
“chi sono oggi gli altri protagonisti”?
Fatte
salve tutte le possibili configurazioni differenti della realtà ecclesiale, mi
pare di poter individuare almeno due determinanti fattori in gioco nella
formazione permanente: il ruolo del Vescovo e la libertà personale dei
Sacerdoti.
Rispetto
al Vescovo è necessario ricordare, che, in quanto padre e pastore dei sacerdoti,
egli è il responsabile primo della formazione permanente, ne è il primo
animatore ed è per lui un dovere offrire una proposta adeguata e, nel contempo,
un “diritto” esigerne la cordiale accoglienza da parte dei presbiteri. Si noti
che ho parlato di “proposta adeguata”.
Nell’esercizio
di questo suo compito il Vescovo può, e talvolta necessariamente deve,
avvalersi, soprattutto nelle diocesi più grandi, di collaboratori. Egli può
nominare un delegato che si occupi esclusivamente della formazione permanente
del clero oppure può chiedere, a sacerdoti che rivestono altri incarichi di
occuparsene.
La
collocazione della formazione permanente può essere legata alle strutture della
formazione iniziale (seminario, istituti o facoltà teologiche, ecc.) oppure
dipendere dall’Ufficio clero della diocesi.
In
ciascuna circostanza si dovrà valutare quale sia la migliore configurazione,
tenendo sempre ben presente, però, che l’esito non dipende mai solo dalle
strutture, ma è sempre strettamente correlato alle persone.
È
la scelta delle persone giuste a determinare il buon esito di un progetto di
formazione permanente.
“Giuste”
non solo per preparazione culturale, pure necessaria, ma soprattutto per
chiarezza di giudizio, fedeltà umile al Magistero e tratto umano capace di
reale coinvolgimento e comunicazione.
Per
quanto riguarda il secondo fattore, il rapporto cioè tra proposta di formazione
permanente e libertà personale dei sacerdoti, è necessario ribadire con grande
chiarezza che ciascuno è, in definitiva, responsabile della propria formazione,
auto-formazione e del proprio “aggiornamento”.
In
questo contesto, credo sia necessario ribadire che non c’è formazione
permanente che possa supplire un grave deficit di formazione iniziale.
Se
è vero che, dopo il tempo del seminario, sarà poi la vita concreta del
ministero con le sue prove, le sue fatiche, le sue gioie e con tutti i doni che
Dio riversa nell’anima consacrata a Lui, a costituire il giusto compimento
permanente del percorso formativo, è altrettanto vero che l’intenso tempo della
formazione iniziale, interamente dedicato all’approfondimento ed alla
radicazione nel rapporto con Cristo, rimane unico ed insostituibile per tutto
il percorso dell’umana esistenza.
A
fronte di questo, come del resto accade negli anni della formazione iniziale, è
necessario riconoscere come ogni proposta debba necessariamente incontrare la
libertà personale che, in maniera criticamente adulta, ma non scettica,
costruttiva, responsabilmente dialogica, ma non demolitrice, si pone di fronte
alla proposta.
Per
questa ragione ogni proposta formativa deve essere “adeguata”: adeguata alla
struttura dell’uomo, intelligente e libero, adeguata alla cultura dei
destinatari, adeguata a persone che, normalmente, hanno grande esperienza
esistenziale, hanno un rapporto consolidato con il Signore e sono, a loro
volta, responsabili della formazione altrui, responsabili della vita di intere
comunità, responsabili, custodi ed accompagnatori del cammino spirituale di
centinaia e centinaia di persone.
Come
accade in ogni ambito, ritengo che l’esito talvolta non pienamente
soddisfacente di tante proposte di formazione permanente contemporanee, non
dipenda dalla cattiva disposizione o dalla presunta insensibilità del Clero, ma
piuttosto, dalla mediocrità delle proposte che, spesso, non rispondono alle
reali esigenze delle persone e che rischiano di ridursi a “meri consigli
pratici”, senza giungere, almeno tentativamente, a ridire e a ridare le ragioni
profonde della propria scelta vocazionale, del ministero, e della fedeltà agli
impegni assunti, dando così sempre di nuovo ragione della propria condizione.
Ritengo
sia di fondamentale importanza per comprendere lo spirito ed il contenuto della
formazione permanente, avere consapevolezza che in essa non si tratta di “dire
cose nuove”, magari presentando come verità di fede le ultime opinioni
teologiche o, peggio, rincorrendo quell’esperienza che san Paolo definisce «il prurito di sentire qualcosa» (2Tm 4,3), ma di ridire sempre nuovamente
e con arricchita motivazione ciò che costituisce il nucleo originale e fondante
l’esistenza sacerdotale. La novità in tal senso è Cristo!
È
Lui ad essere sempre nuovo e, perciò capace di rinnovare. E, insieme al
Signore, “sempre nuovo”, come ci ha ricordato il Santo Padre nella Lettera
Enciclica Spe Salvi, è il cuore
umano, che ha sempre bisogno di essere ridestato, riabbracciato, richiamato
alle motivazioni, rinnovato e fatto “nuovo” nella sua capacità di adesione a
Cristo e nell’accoglimento effettivo della salvezza.
Questa
certezza deve dissuadere dalla tentazione, sempre più diffusa, di “creare
sovrastrutture”, pensando che siano esse a poter rispondere alle esigenze dei
Sacerdoti. Non è, non è mai stato e non sarà mai un “problema di strutture”;
queste non costituiscono “la” risposta, né “una” risposta, e talora possono
perfino divenire “barriere” tra le persone, intralcio e, perciò, scandalo.
Mai
confidare nelle strutture!
La
cornice generale in cui pensare la formazione per il Clero diocesano deve
essere quella del ridire Cristo, perché ogni incontro, ogni momento formativo,
ogni proposta possano motivare e sostenere un nuovo sì del cuore umano al
progetto divino di salvezza.
Le
proposte della formazione permanente, per essere davvero adeguate, dovranno
“servire” il cammino di maturazione personale dei sacerdoti. Segno della
maturità del sacerdote, poi, è quella sempre maggiore capacità di integrare,
nel tempo, le dimensioni della formazione – umana, spirituale, intellettuale e
pastorale –, raggiungendone «progressivamente
l’unità interiore» (PDV n. 72),
quell’unità interiore che fa del sacerdote «trasparenza,
immagine viva, ministro di Gesù Buon Pastore» (Ibidem).
Tale
unità interiore altro non è che, come accennato, la chiarezza sulla propria
identità sacerdotale, la quale affonda le proprie radici nell’immagine del Buon
Pastore, ripetutamente proposta dall’Esortazione.
«La formazione permanente aiuta il sacerdote
a superare la tentazione di condurre il suo ministero ad un attivismo fine a se
stesso, ad un’impersonale prestazione di cose, sia pure spirituali o sacre, ad
una funzione impiegatizia al servizio dell’organizzazione ecclesiastica. Solo
la formazione permanente aiuta il prete a custodire, con vigile amore, il
mistero che porta in sé, per il bene della Chiesa e dell’umanità» (Ibidem).
Se
la personale, intensa e continua preghiera, la vigilanza su se stessi e la
progressiva immedesimazione con Cristo Signore costituiscono il presupposto
imprescindibile per l’autentico esercizio della paternità e l’evangelica riuscita
di ogni nostra azione ministeriale, è doveroso constatare, carissimi
Confratelli, che nello stesso concreto esercizio della nostra Vocazione
apostolica, soprattutto nell’appassionata cura dei Sacerdoti, ci è data
l’occasione di ravvivare la memoria di ciò che siamo e che, sempre, siamo chiamati
ad essere.
Guardando
alla Beata Vergine Maria, Regina degli Apostoli e Madre dei Sacerdoti, della
Quale oggi celebriamo la Natività, imploriamo dalla Divina Misericordia ogni
grazia e, dall’onnipotenza supplica della Vergine, un’umanità i cui tratti rendano
sempre più facilmente riconoscibile il Signore.