Pontificio Ateneo Regina Apostolorum
Roma, lunedì 29
ottobre 2012 – ore 10.30
Inaugurazione
dell’Anno Accademico 2012-2013
Lectio Magistralis
di Sua Em.za Rev.ma il
Cardinal Mauro Piacenza
Prefetto della
Congregazione per il Clero
«Fede e Teologia: necessità,
fecondità e prospettive di un rapporto»
Magnifico Rettore,
Chiarissimi
Professori,
Gentili Signore ed
Egregi Signori,
Carissimi Studenti,
nell’Allocuzione
(mai pronunciata) all’Università La Sapienza di Roma, il 17 gennaio del 2008,
il Santo Padre Benedetto XVI indicava, in modo particolarmente sintetico ed
efficace, il compito della teologia, affermando che ad essa è «affidata la
ricerca sull’essere uomo nella sua totalità e, con ciò, il compito di tenere
desta la sensibilità per la verità».
In
un’epoca come la nostra, nella quale sia la sensibilità per la verità, sia una
corretta antropologia, capace non solo di conoscere, ma di ri-conoscere l’uomo,
paiono particolarmente fragili, emerge con forza, secondo la definizione
pontificia, il duplice compito della scienza teologica, che potremmo definire,
al tempo stesso, noetico ed antropologico, capace di conoscere la verità e
l’uomo.
Nell’ormai
storico Discorso di Regensburg, in occasione dell’incontro con i rappresentanti
della scienza, Benedetto XVI invitava a «recuperare la sensibilità per la
verità», indicando, in essa, l’espressione della «potenzialità del pensiero
cristiano di fronte alle aporie della post-modernità, o alle nuove specie di
illuminismo».
Proprio in
tale specificità, è possibile cogliere la radice e l’originalità del rapporto
tra fede e ragione: nel Cristianesimo, Dio si è rivelato come Ragione Creatrice
e, al tempo stesso, come Ragione Amore. Per questo, la teologia, fin dal suo
sorgere, è un fenomeno specificamente cristiano, derivato dalla struttura
stessa dell’atto di fede. Solo per analogia – e in realtà per analogia
impropria –, è possibile parlare di teologia, al di fuori della fede biblica
vetero e neo-testamentaria.
Il Vangelo
di Giovanni definisce Cristo come il Logos,
in un evidente ed insuperabile fusione tra fede biblica e razionalità greca, sulla
quale lo stesso Cristianesimo antico si fonda, già nel Nuovo Testamento.
Il
rapporto tra fede e teologia, allora, è adeguatamente indagabile, solo mettendo
in luce, come condizione previa ad ogni ulteriore considerazione, l’aspetto
“razionale” della fede. Una fede solo emotiva, o solo etica – riduzioni sempre
possibili della fede –, non potrà essere fondamento ad una corretta e buona Teologia.
Dobbiamo
riconoscere che, nella fede cristiana, si manifesta Colui che è, per
eccellenza, il Razionale, il Logos,
anzi, la stessa Ragione fondamentale. Per dovere di coerenza, dovremmo trarre,
da tale presupposto, le necessarie conseguenze ontologiche, giungendo ad
affermare che lo stesso essere è ragione e che la ragione non è un prodotto
casuale, ma segno, immagine e somiglianza di Colui che è il Razionale, il Logos.
Ne deriva
una circolarità ermeneutica imprescindibile tra fede e ragione, che diviene il
presupposto dell’altrettanto imprescindibile rapporto tra fede e teologia.
Da un
lato, nella fede cristiana si manifesta la ragione e, proprio in quanto fede,
essa postula l’imprescindibilità del riferimento alla ragione, sia come oggetto
di fede – noi crediamo nel Logos –, sia come metodo della fede – noi crediamo
per delle ragioni e abbiamo delle ragioni per credere –; dall’altro, la ragione
si è manifestata, nei secoli, proprio attraverso la fede cristiana, in quanto
ne presuppone la possibilità come proprio spazio vitale: una ragione, non
aperta al Mistero, sarebbe un’ombra di se stessa, una riduzione
antropologicamente mortificante ed inaccettabile.
1. Necessità del rapporto tra fede e teologia
Non è
pensabile sperare che sia universalmente riconosciuta la necessità del rapporto
tra fede e Teologia, senza assumere, con lucida consapevolezza, la frattura
radicale tra “sapere” e “credere”, sancita fin dai tempi dell’illuminismo.
«L’illuminismo
aveva come bandiera l’ideale della religione nei limiti della pura ragione.
Tuttavia, questa religione della pura ragione si disgregò rapidamente, ma
soprattutto non aveva la forza di sostenere la vita. La religione, che dovrebbe
essere forza trainante per la totalità della vita, indubbiamente ha bisogno di
una certa ragionevolezza. La rovina delle antiche religioni, così come la crisi
del Cristianesimo nell’epoca moderna, mostrano che, quando la religione non è
più in consonanza con le certezze elementari di una visione del mondo, essa si
dissolve. […] Così, dopo la fine dell’illuminismo, sulla base della coscienza
dell’irrinunciabilità al religioso, si è cercato un nuovo spazio per la
religione, in cui essa doveva poter vivere al riparo dall’attacco delle
conoscenze sempre nuove della ragione, su di un astro, per così dire, non più
raggiungibile e non minacciato da questa. Pertanto, alla religione era stato
assegnato il sentimento, come suo proprio ambito di esistenza nella vita umana»
(J. Ratzinger, Fede, verità e tolleranza. Il Cristianesimo
e le religioni del mondo, Cantagalli, Siena 2005, pp. 148-149).
Come
conseguenze universalmente visibili di tali tentativi riduzionistici della teologia,
che tendono a limitarne il rapporto con la fede, possiamo brevemente indicare
la riduzione della teologia a filosofia delle religioni, ad analisi
storico-critica e a scienza della prassi.
Nel primo
caso, quando la teologia è ridotta a filosofia delle religioni, possiamo
parlare di una vera e propria “auto-limitazione”, cioè di una teologia che
rinuncia ad essere propriamente se stessa, snatura il proprio compito e la
propria identità, e si riduce ad una vaga filosofia delle religioni, che relega
il Cristianesimo ad una delle possibili percezioni del reale, riducendolo – è
il caso di dire – a trovarsi sullo stesso piano delle altre religioni,
rinunciatario a qualsiasi pretesa veritativa.
La prima
conseguenza del non-riconoscimento della necessità del rapporto tra fede e teologia
è, perciò, la rinuncia della teologia ad ogni pretesa e referenzialità
veritativa.
Nel secondo
caso – ed esso, purtroppo, è molto diffuso anche in talune Facoltà teologiche
–, assistiamo al tentativo di ricondurre il lavoro teologico ad una minuziosa
analisi di quanto è contenuto nei testi storici, con, al più, una peculiare
attenzione per quelli scritturistici. In tal modo, tuttavia, è ugualmente
tagliato il necessario rapporto tra fede e Teologia, e quest’ultima si consegna
definitivamente alla storia, all’imperante storicismo, che è incapace di
cogliere qualunque asserto definitivo ed universalmente valido, e che, nel caso
della Teologia, può risultare meno arido, perché “spruzzato” qua e là di
qualche riflessione vagamente filosofico-religiosa.
La
conseguenza di una tale riduzione storicistica della teologia è che il vigore
razionale del Cristianesimo e la responsabilità che ne deriva rispetto al
mondo, sono eliminati dal cuore dell’esperienza di fede, facendo retrocedere
ciò che è specificatamente cristiano a puro simbolo o rappresentazione, nella
vaga generalità della storia delle religioni.
L’ultima
riduzione di una teologia, che non viva in modo necessario il rapporto con la
fede, è quella che potremmo definire “pratica”. Intendo, con essa,
l’autolimitazione della teologia a scienza della prassi, a etica, che, priva di
un oggettivo fondamento, diviene capace di offrire indicazioni solo nella
dipendenza (o sudditanza) dalle altre scienze umane, come la psicologia, la
sociologia, etc.
Risulta
evidente come una tale teologia sia rinunciataria rispetto ad ogni esigenza
veritativa e razionale (Logos) della
conoscenza e si preoccupi, unicamente, della “fattibilità”, della “praxis”. In una tale impostazione, alla
domanda: «Di che cosa si tratta?», viene sostituita la domanda: «Che cosa devo
fare?».
Dall’esame
delle summenzionate riduzioni, emerge come non ci sia orizzonte capace di dare
corpo, consistenza, valore e referenzialità alla teologia, se non l’orizzonte
della fede. Ogni altra prospettiva, che può essere utilmente integrata nella
ricerca scientifica, non sarà mai necessaria come la fede, poiché essa è l’orizzonte nel quale la Teologia
nasce, cresce, respira e si sviluppa.
A
condizione, però, che, ascoltando la parola “fede”, non cediamo mai alle sue
riduzioni sentimentalistiche o etiche, ma la comprendiamo sempre come
ragionevole ossequio, carico di quella ragione, che è il più evidente segno
della somiglianza tra l’uomo ed il suo Creatore.
2. Fecondità del rapporto tra fede e teologia
Abbiamo
visto come, nel concetto di scienza moderna, la questione della verità sia
posta come tra parentesi, quasi fosse irrilevante per la capacità referenziale
della scienza. Essa viene sostituita da un’accentuazione, talvolta maniacale,
riservata alla correttezza metodologica. Quasi fosse irrilevante la portata
veritativa di un’affermazione rispetto al procedimento metodologico con il
quale si è giunti ad essa.
A tale
proposito, sarebbe interessante indagare quale perfezione metodologica sarebbe
in grado di garantire una reale referenzialità veritativa, o, al contrario,
come la verità, presente ed incontrata, possa essere anche una chiara
indicazione di metodo.
L’esasperazione
unilaterale della correttezza metodologica è uno dei frutti più amari della
riduzione positivistica della ragione. Un tale modello, ovviamente, non può
essere assunto dalla teologia, a meno che essa non si accontenti di esaminare
criticamente dei testi, o interpretare filosoficamente dei riti, o dei simboli.
La
fecondità del rapporto tra fede e teologia sta tutta nella tensione della teologia
a comprendere, più profondamente, l’unica verità consegnatale dalla fede. In
tal senso la teologia si auto-comprende come scienza ecclesiale, sia nel senso
che riceve il contenuto della fede direttamente dalla Chiesa, sia nel senso che
la teologia è propriamente al servizio della Chiesa.
Solo in
questa imprescindibile reciprocità, nella quale la Chiesa fa dono alla teologia
della fede e la teologia è al servizio della fede della Chiesa, è possibile
parlare di fecondità nel rapporto tra fede e teologia.
Una fede
senza teologia, infatti, non avrebbe le “parole” per esprimere la “Parola”, i loghia per esprimere il Logos, le ragioni per esprimere la
Ragione; nel contempo, una Teologia senza la fede, sarebbe totalmente
apofatica, poiché non avrebbe né il suo oggetto proprio, né il suo metodo.
Per la
scienza teologica, allora, la Chiesa non può rappresentare, in alcun caso,
un’istanza estranea, o, talvolta, addirittura “ostile” e nemica della libertà
di ricerca, ma, al contrario, la Chiesa è il fondamento dell’esistenza della
Teologia, è la condizione della sua possibilità; parafrasando un noto teologo,
potremmo dire che la Chiesa è il trascendentale della teologia.
Risulta
evidente come, ai fini di un fecondo rapporto tra fede e teologia, sia
assolutamente inevitabile il superamento di quella riduzione gnoseologica
rappresentata dal procedimento conoscitivo di tipo sperimentale. Esso,
riducendo la conoscenza a rigida ed esclusiva sottomissione di ogni
proposizione al trinomio di ipotesi, verifica e falsificazione, esclude ogni
possibilità di intervento di ulteriori istanze conoscitive, stigmatizzandole
come cause del venir meno della scientificità. In tal senso, l’istanza
conoscitiva ulteriore per eccellenza, rappresentata dalla Divina Rivelazione,
non troverebbe posto alcuno per una teologia ridotta a scienza storico-positiva.
3. Prospettive del rapporto tra fede e
teologia
Nel
Discorso di Regensburg, Benedetto XVI affermava: «Non agire secondo ragione,
non agire con il Logos, è contrario
alla natura di Dio». Cosa può significare questo per il lavoro teologico?
Come il
recupero della dimensione razionale della fede incrementa la portata veritativa
della teologia?
Penso che,
innanzitutto, si debba riscoprire la dimensione passiva della fede: l’atto di
fede è, anzitutto, un ricevere. «Un Dio soltanto pensato e inventato non è un
Dio. Se egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui […] La novità
dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero, ma in un fatto: Egli si è
mostrato […] Verbum caro factum est. Nel fatto, ora, c’è il Logos, il Logos presente
in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre l’umiltà
della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo, che risponde
all’umiltà di Dio» (Benedetto XVI,
Incontro con il mondo della cultura,
College des Bernardins, Parigi, 12 settembre 2008).
La
teologia è dunque chiamata continuamente a ricevere, ad accogliere la fede,
così come la fede è un ricevere, un accogliere il fatto della Rivelazione.
In tale
orizzonte, è opportuno sottolineare, inoltre, come la teo-logia sia
innanzitutto l’atto con il quale Dio si auto-possiede, donandosi a Se stesso e
agli uomini. Tale donazione contiene in sé la chiamata dell’uomo a rispondere
all’umiltà di Dio, che si dona. E questo atto di risposta non è soltanto
teologale, cioè mosso dalla Parola e dalla Vita divine, ma è anche propriamente
teologico, cioè partecipa alla conoscenza che Dio ha di se stesso.
La
prospettiva della teologia è la fede, precisamente, in questo senso: essa deve
favorire la partecipazione della creatura all’auto-comprensione del Creatore,
come risposta all’auto-donazione gratuita che il Logos fa di Sé.
Solo in
questo senso, è possibile individuare la prospettiva “attiva” della fede:
accogliendo ciò che Dio comunica di Se steso nel Logos, l’uomo è mosso dal dono stesso di Dio a rispondere all’Amore
con amore.
Nel rapporto
tra fede e teologia, infine, la prospettiva è sempre quella analogica: la
teologia non è un sapere, se non in ragione dell’analogia, nello spirito della
«maior dissimilitudo in similitudine»
(Lateranense IV, 125).
Solo
l’analogia, infatti, è in grado di tradurre, nelle intelligenze e nel
linguaggio umani, il Mistero di Dio, sempre più grande, o, traducendo il
Lateranense IV, la differenza sempre più grande della somiglianza.
In quanto
scienza della fede, allora, la teologia vede, nelle affermazioni di fede, il
proprio oggetto, che essa non produce da se stessa, né può, in alcun caso,
eliminare, ma che deve umilmente servire, attraverso una riflessione
metodologicamente corretta, ragionevole, capace di condurre l’uomo,
progressivamente, ad una sempre più approfondita comprensione della fede e ad
una sua acquisizione sempre più esistenzialmente significante.
Allora «il
cammino verso la verità piena impegna anche l’intero essere umano: è un cammino
dell’intelligenza e dell’amore, della ragione e della fede. Non possiamo
avanzare nella conoscenza di qualcosa, se non ci muove l’amore, e neppure
possiamo amare qualcosa, nella quale non vediamo razionalità, dato che non c’è
l’intelligenza e poi l’amore; ci sono l’amore ricco di intelligenza e
l’intelligenza piena di amore» (Benedetto
XVI, Discorso all’Escorial, 19
agosto 2011).
L’augurio
allora è che anche questo Anno Accademico, nell’Anno della Fede, sia un passo
del cammino verso la Verità piena, un passo carico di intelligenza e di amore,
un passo da compiere interiormente con la Benedetta fra le donne, che è Sedes Sapientiae e gratia plena!