XLVII
Convegno Nazionale dei Rettori e Operatori dei Santuari Italiani
Roma,
Santuario del Divino Amore, Lunedì 15 ottobre 2012
«Santuari: Esperienza di Fede»
Prolusione
Cardinal
Mauro Piacenza
Prefetto
della Congregazione per il Clero
Reverendi
e Cari Confratelli Rettori e al servizio dei Santuari italiani,
è
per me una profonda gioia incontrarvi, per la prima volta, nella veste di
Prefetto della Congregazione, che ha la responsabilità ed è al servizio dei
Santuari nel mondo.
Il
Vostro Convegno si colloca, provvidenzialmente, nella cornice di due grandi
eventi ecclesiali, che hanno avuto inizio in questi ultimi giorni: da un lato,
la XIII Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi, inaugurata dal Santo Padre,
lo scorso 7 ottobre, sul tema: “La Nuova Evangelizzazione per la trasmissione
della Fede cristiana”, e, dall’altro, l’Anno della Fede, aperto giovedì scorso
11 ottobre e indetto in occasione di due felici commemorazioni: il
Cinquantesimo Anniversario dell’apertura dei lavori del Concilio Ecumenico
Vaticano II ed il Ventesimo Anniversario di Promulgazione del Catechismo della
Chiesa Cattolica.
Questi
due eventi rappresentano, infatti, come la “direzione” ed il metodo che il
Signore, tramite il Santo Padre Benedetto XVI, indica al cammino di tutta la
Chiesa: la Nuova Evangelizzazione è infatti sempre davanti a noi, come una meta
e, ben sappiamo, come la Chiesa sia per sua natura “evangelizzatrice”, e la
ricchezza racchiusa nei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II e di quella sua
sintesi ed attualizzazione mirabile che è il Catechismo della Chiesa Cattolica,
sono la via da percorrere per raggiungere felicemente, con l’aiuto
imprescindibile dello Spirito Santo, la meta. Ringraziamo ancora e sempre il
Signore, che ci dona, seppur in mezzo a grandi tribolazioni, di vivere momenti
di grazia e di autentico rinnovamento, fonte di certa speranza.
Articolerò
il mio intervento in due momenti, volti ad analizzare il tema, che avete voluto
darvi per questa Assemblea nazionale: «I Santuari: Esperienza di Fede». Nella
prima parte, considereremo in che senso i Santuari possono – e devono –
costituire, per gli uomini del nostro tempo, una “esperienza”, un luogo di
esperienza e di giudizio ragionevole sull’esistenza, sulla realtà, sul mondo e
sulla storia; nella seconda parte, porremo in luce come tale esperienza si specifichi
come “esperienza di Fede”, come incontro capace di rinnovare l’orizzonte delle
menti e scaldare il gelo dei cuori.
1.
Esperienza
Che
cos’è un’esperienza?
Quando
possiamo affermare di aver fatto un’esperienza?
La
maggior parte dei nostri contemporanei, rispondendo, affermerebbe: «Quando
abbiano provato qualcosa!». Il concetto diffuso di “esperienza” è, infatti,
quello di “provare”: “fare esperienze”, coincide con il “provare”, con tutte le
conseguenze errate, sia sotto il profilo gnoseologico, sia sotto il profilo
morale, che da una tale concezione possono derivare.
È
necessario riconoscere che siamo chiamati a vivere e ad operare in un’epoca
particolare, per certi aspetti radicalmente nuova, nella quale l’uomo si trova
come estraniato da quella che potremmo chiamare la “fatica cosmica”, cioè la
partecipazione laboriosa e, insieme, la necessaria dipendenza dalle leggi e dai
ritmi, inscritti da Dio nella realtà delle cose, nel creato, oggi forse diremmo
nella natura.
Eliminate,
apparentemente, le dipendenze creaturali dal cosmo, che si risolvono, poi,
nelle fondamentali dipendenze dal tempo e dallo spazio, cioè dalla luce, dalla durezza
della terra e dalle distanze, l’uomo rischia di divenire dimentico di quella
dipendenza ultima, che tutte le sottintende: l’essenziale dipendenza da Dio.
L’uomo
“indipendente” da Dio, tuttavia, non fa l’esperienza di essere libero, ma si
ritrova improvvisamente e drammaticamente solo. Sempre più concentrato su se
stesso, e come se fosse passato dal delirio positivistico dell’ottocento e
della prima metà del secolo scorso, all’odierna dittatura del
“tecno-scientismo”, passando attraverso il disincanto causato dai tragici avvenimenti
storici del XX secolo, con tutta la sua eredità di morte. Quale grande
delusione, rispetto alla pretesa di essere “la misura” di tutte le cose. Eppure
la dittatura tecno-scientista è più di una semplice idea.
L’uomo
contemporaneo perciò è spesso come anestetizzato quanto alle sue dipendenze fondamentali
e disorientato di fronte allo scorrere della vita ed al senso della propria
esistenza. È come se l’attuale clima culturale avesse ridotto il già
problematico assioma cartesiano: «cogito
ergo sum» in un preoccupante «sentio,
ergo sum», «percepisco emozioni, quindi sono»! Quale riduzione della
dignità umana! Quale grande menzogna ridurre l’uomo alla sola anima sensitiva,
certamente importante, ma non qualificante la sua immagine e somiglianza con
Dio.
Per
tutte queste ragioni, il termine “esperienza”, domanda oggi un’adeguata
risemantizzazione, domanda di essere ri-equipaggiato del suo autentico
contenuto. Al contrario potrebbe rimandare, immediatamente, ad una soggettività,
dominata dall’istinto o dal sentire individuale, indipendente da una qualunque
forma di conoscenza oggettiva e, perciò, universalmente riconoscibile e
condivisibile.
Non
è questo il senso nel quale va inteso correttamente il termine “esperienza” e
non è in questo senso, perciò, che i Santuari possono costituire l’occasione,
il luogo per una vera “esperienza di fede”.
L’esperienza,
in tutte le sue declinazioni storiche, può certamente contemplare un momento –
potremmo dire – “empirico”, o anche “emozionale”, ma non si risolve in esso.
L’esperienza, per essere tale, richiede la maturazione di un “giudizio”.
Occorre, cioè, che l’uomo dia un nome a ciò che ha incontrato. Quando l’io fa
davvero un’esperienza? Non quando “prova” emozionalmente qualcosa, ma quando
“giudica” ciò che ha provato, paragonandolo al proprio bisogno di significato,
pienezza, compimento. E ciò a qualunque età, a qualunque livello culturale,
capacità di tematizzare e verbalizzare, eccettera. Tutti, senza distinzione di
sorta, fanno esperienza, quando giudicano ciò che hanno vissuto.
Quanto
stiamo dicendo è tutto come racchiuso nel primo incontro tra Gesù e Natanaele.
Questi, dopo aver avuto, nel sempre più profondo dialogo con il Signore, un
segno della Sua onniscienza – «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto
quando eri sotto l’albero di fichi» (Gv
1,48) –, arriva ad affermare: «Rabbì, Tu sei il Figlio di Dio, Tu sei il re
d’Israele» (Gv 1,49). Ecco, questa è
una esperienza!
Natanaele
non si è fermato allo stupore che le parole del Maestro avevano suscitato in
Lui, come non si è fermato nemmeno a commentare con i presenti l’eccezionalità dei
gesti del Signore – che pure lo avevano molto colpito –, ma è giunto a dare un
nome a ciò che gli era appena capitato, ha proseguito fino al fondamento di
quelle parole e del suo stupore: «Tu sei il Figlio di Dio»!
L’esperienza,
dunque, coinvolge certamente l’uomo nella sua soggettività e nella sua libertà,
ma secondo criteri che non è l’uomo stesso a scegliere, bensì, che egli riceve
da un Altro.
L’esperienza
è paragonare tutto quanto si vive, con la propria struttura elementare, che è
fondamentalmente “bisogno” di amore, bellezza, verità, giustizia, felicità
eccetera. E, in tal senso, l’uomo non decide di avere tali bisogni, ma – come
dire – se li trova come cuciti addosso, anzi fanno parte del proprio io più
intimo, anche nell’epoca della dittatura del relativismo gnoseologico e della
tecno-scienza empirica.
Allora
è necessario trasformare i Santuari in Cattedre di filosofia? Assolutamente no!
Dio ce ne scampi e liberi!
I
Santuari devono saper condurre i fedeli, tutti i fedeli, dai più semplici ai
più dotti, a fare una esperienza, ad incontrare qualcosa e Qualcuno di “nuovo”,
di “bello”, di “grande”, che normalmente non incontrano altrove.
Antropologicamente,
il fedele che si mette in cammino per visitare un santuario, è già alla ricerca
di qualcosa. Ha già scelto, in maniera consapevole o meno, di lasciare le
proprie occupazioni, il proprio “piccolo mondo”, per mettersi in cammino verso
una meta, che lo attira, lo affascina e della quale intuisce il vero e la
positività.
Come
Rettori e Sacerdoti al servizio dei Santuari, siete chiamati a guardare sempre
con stupore il movimento della libertà dei vostri pellegrini. Per quanto,
talora, essi non tematizzino nulla di tutto ciò, tuttavia, il vostro sguardo di
padri amorevoli non può non commuoversi, o con-muoversi, di fronte a tante
libertà personali, che si muovono, si mettono in cammino verso il Mistero.
Perché
accada l’avvenimento dell’incontro, e da esso ne discenda un’autentica
esperienza, è necessario, prima che indagare sociologicamente su che cosa
davvero cerchino i pellegrini dei santuari, stupirsi del fatto che essi ci
sono, e la loro stessa presenza è una domanda.
Una
domanda è sempre positiva e, come tale, deve essere ascoltata. Affermava Yves
Congar: «Non possiamo condannare i problemi, ma solo le risposte sbagliate ai
problemi»!
Talora
spendiamo le nostre energie a disquisire – e magari a lamentarci – per il fatto
che il bisogno religioso espresso non corrisponde all’offerta che noi
presumiamo di porgere, perché, in modo ideologico, rischiamo di offrire un
prodotto “preconfezionato”, prima di ascoltare l’autentica domanda.
Tutto
questo è contrario alla corretta antropologia ed impedisce, talora gravemente, quelle
autentiche esperienze di ascolto e di incontro, che stanno alla base di ogni
esperienza e, in particolare, dell’esperienza religiosa.
Mi
è capitato, più volte – ve lo confido –, di sostare in preghiera nei santuari,
nei grandi come nei piccoli, e di sorprendermi a contemplare, talvolta fino
alla commozione delle lacrime, la bellezza del popolo, che, nella semplicità
della fede, scorre, pregando, implorando, offrendo e piangendo, davanti al
Mistero.
Chi
ha la grazia di servire un Santuario, non può non guardare, con occhi
soprannaturali, il flusso dei pellegrini, che sono, realmente, il Popolo di Dio
in cammino, che costituisce il Corpo ecclesiale, come autorevolmente ha
ricordato la Lumen gentium (cf. LG 7-9).
Se,
come accennavo, ciò che costituisce un’esperienza è il giudizio di fronte ad
una Presenza, la conseguenza immediata è che l’esperienza, in quanto tale, non
è nelle nostre mani, ma appartiene a ciascun pellegrino, la cui libertà e la
cui intelligenza sono chiamate a dare un giudizio. Nelle nostre mani, invece, è
la possibilità che la Presenza del Mistero traspaia in tutta la Sua Bellezza,
sia realmente Presenza che affascina e colpisce la libertà, riconoscibile come
“altra” rispetto a tutte le presenze, nelle quali i pellegrini si imbattono.
Paradossalmente,
la condizione del pellegrino potrebbe essere una condizione facilitante
rispetto a quella del comune fedele, poiché punto di partenza del suo camminare
è la domanda, forse inconscia, o non pienamente tematizzata, ma reale di fare
un’esperienza “diversa” da quella che viene comunemente offerta, di entrare, cioè,
finalmente in contatto con il Mistero, in luoghi nei quali Esso, nella varietà
delle esperienze, si è reso particolarmente riconoscibile. Nel camminare verso
i “Luoghi del Mistero”, i pellegrini rendono il cuore disponibile e aperto
all’attesa di Colui che è sempre nuovo e che, solo, corrisponde davvero ai
bisogni originari dell’io.
Ci
è dato, quindi, il privilegio di contemplare la bellezza e la verità di tante
libertà in movimento, e di unire, continuamente, il nostro cuore a quella
radicale attesa, pregando che accada l’esperienza dell’“Incontro”, per ogni
pellegrino, e che si rinnovi per ciascuno di noi.
Come
accennato, noi siamo chiamati a far sì che la Presenza del Mistero traspaia in
tutta la Sua irriducibile Bellezza, che tutto nel Santuario parli di Colui che
ne è l’unico, vero Protagonista e che ha voluto quel luogo, quale occasione
privilegiata per l’incontro degli uomini con Lui. Come ci insegna la grande
Tradizione biblica, non sono mai le “mani d’uomo” ad edificare un Santuario per
Dio, ma è il Signore ha prendere dimora dove Egli vuole, ed è esattamente
questa la logica del sorgere, nella storia, dei Santuari, dove Dio vuole.
Nelle
nostre mani sta, allora, il favorire – oltre che il non ostacolare – che
l’esperienza dei pellegrini, sia un’autentica esperienza di fede.
2.
Esperienza “di Fede”
Proprio
questa è la seconda parte del presente contributo. Come indicato dal tema della
vostra Assemblea generale, oggetto dell’esperienza che i pellegrini sono
chiamati a vivere nella visita ai santuari, deve essere “la fede”.
Per
iniziare, possiamo domandarci: che cosa, in un Santuario, custodisce e
testimonia la Presenza del Mistero?
Che
cosa, può far intuire a quanti ne varcano la soglia di trovarsi alla Presenza
di un Altro, che tutti supera e attende?
Ciò
che, primariamente, favorisce negli uomini la “percezione” del Mistero, è il
“senso del sacro”. Per “senso del sacro”, non intendiamo un vago spiritualismo,
che nulla a che fare con le reali vicende umane. Il “senso del sacro” coincide
piuttosto con quell’originale stupore, che coglie l’uomo, mentre riconosce di
trovarsi in un luogo irriducibile alle sole coordinate spazio-temporali, in un
luogo che non appartiene agli uomini, ma che è “sacro”, perché “consacrato” a
Dio, Sua proprietà e Sua Dimora, come testimoniato dalle iscrizioni che spesso
accolgono i fedeli: «Hic Domus mea, inde
Gloria mea» – «Questa è la mia Casa, qui abita la mia Gloria».
Lo
stesso Joseph Ratzinger, nel noto testo “Senza Radici” del 2004, individuava,
proprio nella perdita del senso del sacro, una delle caratteristiche emergenti
della nostra società occidentale, riconoscendovi anche la causa della grande
difficoltà a dialogare con altre culture e tradizioni religiose, nelle quali,
invece, il senso del sacro è molto forte. Il recupero del senso del sacro,
dunque, secondo la mens
ratzingeriana, è “via di dialogo” e terreno imprescindibile di confronto. E ciò
non tanto per un artificioso recupero di forme esterne, apparentemente, non più
recepibili dall’uomo occidentale come segni significanti, ma per la semplice e
doverosa obbedienza alla stessa struttura antropologica dell’uomo, il quale ha
un insopprimibile bisogno religioso, che si declina ed esprime con un
linguaggio sacro.
A
ben guardare, dal punto di vista teologico, non è solo la struttura dell’uomo a
postulare il senso del sacro, ma la stessa Rivelazione indica, con ineludibile
chiarezza, come l’Incarnazione del Figlio di Dio non abolisca il sacro, ma, in
certo modo, lo confermi, ridefinendolo.
Come
affermato dal Santo Padre nell’Omelia del Corpus
Domini dello scorso giugno: «La novità cristiana riguardo al culto è stata
influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta
del secolo scorso. E’ vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto
ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella Sua
Persona, nella Sua Vita, nel Suo Mistero pasquale. E tuttavia da questa novità
fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha
trovato il suo compimento in Gesù Cristo, Amore divino incarnato. […] Egli non
ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto,
che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel
tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine,
nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio (cfr Ap
21,22)», e quindi nessun Santuario!
Compito
principale dei Rettori e dei Sacerdoti, che sono a servizio dei Santuari, quindi,
è l’amorevole custodia e preservazione della sacralità di un Luogo, nel quale
Dio ha deciso di abitare in modo speciale. A ben pensarci, lo stesso Mistero
dell’Incarnazione, lungi dal delegittimare l’idea del Santuario, in realtà la
giustifica e la rafforza, poiché «il Verbo si è reso visibile, toccabile,
udibile» (cf. 1Gv 1-2) e, nel Santuario,
in modo speciale, è possibile un’autentica esperienza di Incontro, che
rispetti, in modo inclusivo, le coordinate, anche metodologiche, postulate
dall’Incarnazione.
Sappiamo,
poi, come il senso del sacro sia indicato e custodito primariamente dal
silenzio, autentica “dimensione altra”, rispetto alla caotica normalità della
vita quotidiana e, con esso, dalla musica sacra, dall’arte sacra, dalla
possibilità di autentici moventi di raccoglimento che aiutino ad intuire quella
“via phulcritudinis”, che non di rado
è l’io stesso, e che tanto efficacemente conduce alla soglia del Mistero e
spesso lo fa realmente incontrare.
Custodire
il senso del sacro di un Santuario significa essere attenti ai particolari, con
l’attenzione tipica dell’amore autentico, che fa di tutto per compiacere
l’amato, che è in primo luogo il Signore stesso, presenta anche nei pellegrini.
Attenzione ai particolari significa attenzione a tutti i dettagli: dal decoro delle
suppellettili e degli arredi sacri, alla cura per la musica e il canto che
accompagnano la preghiera e la liturgia; dalla – permettetemi – pulizia del
luogo, allo splendore delle Celebrazioni liturgiche. Tutto deve concorrere al
“primo incontro” degli uomini con il Mistero, con la Persona di Cristo, Viva e
Operante, con Colui che risponde e, allo stesso tempo, supera quelle che sono
le attese fondamentali dell’uomo, «dando alla vita un nuovo Orizzonte e, con
ciò, la direzione decisiva» (DCE, 1).
Come
indicato nella Lettera ai Rettori dei Santuari, i cui contenuti
teologico-pastorali saranno presentati domani in un’apposita conferenza, «il
Santuario è il luogo in cui risuona con particolare potenza la parola di Dio;
[…] la “casa” in cui la divina Parola è accolta, meditata, annunciata e
celebrata».
Sappiamo
come la fede nasca dall’ascolto, un ascolto tuttavia, che non è semplice
“udire” la proclamazione delle Scritture, ma che domanda di divenire “incontro
con la Parola”, esperienza - appunto -, nella carne e nel sangue, della Parola
che Salva: il Signore Gesù.
E
la risposta umana ad un fecondo annuncio della Parola è la preghiera. I
Santuari devono essere, principalmente, luoghi di preghiera. In un contesto
sociale, e talvolta perfino ecclesiale, dove pare misconosciuto il primato
dell’orazione personale e comunitaria, pregare significa già professare la
propria fede, affermare che Dio c’è, è vivo ed operante nella storia e nelle
nostre esistenze.
Ritengo
che anche la risposta che, come Chiesa, siamo chiamati a dare al Signore che ci
interpella in quest’Anno della fede, debba necessariamente andare in questa
direzione: la direzione della preghiera.
In
tutte le legittime espressioni, che la preghiera ha conosciuto e conosce nella
storia della Chiesa, dalla grande preghiera liturgica, alla pietà popolare,
risuona l’eco feconda della risposta di fede che il popolo rivolge al suo
Signore. Appare ormai con luminosa evidenza come sia stato un clamoroso errore
pastorale, nella seconda metà del secolo scorso, mortificare (e talora perfino
distruggere) la pietà popolare. Essa, non di rado, rappresenta il solo
linguaggio comprensibile ed utilizzabile da non pochi fedeli, permette a tutti
di evitare il rischio di una fede cerebrale ed intellettualistica, astratta e disincarnata.
Questo rischio è forse perfino più grave e dannoso per la fede, che nemmeno la
permanenza, sempre da purificare, degli aspetti talora folkloristici della
pietà.
I
Santuari renderanno possibili autentiche esperienze di fede, nella misura in
cui offriranno ai pellegrini, in un tempo nel quale sembra divenuto
particolarmente difficile trovare un confessore, ampi spazi di riconciliazione.
A tal fine è fondamentale aver cura della formazione teologica, morale e
giuridica dei confessori, i quali, sempre ma soprattutto nei Santuari, in nulla
devo discostarsi dalla genuina dottrina cattolica e dalle disposizioni del
magistero. Il disorientamento che ne deriverebbe sarebbe enorme e la stessa
“esperienza di fede” ne risulterebbe compromessa. I grandi Santi, dal Curato
d’Ars a San Giuseppe Cafasso, ci mostrano la grandezza e la potenza di
persuasione che può derivare dalla Riconciliazione: il cuore del penitente è
ferito dal peccato e quindi aperto, può ricevere ed accogliere la Parola di
salvezza del Signore.
I
Santuari, infine, sono luoghi di “esperienza di fede”, massimamente nella
celebrazione e nell’Adorazione Eucaristica, sempre inscindibilmente legate. Sappiamo,
infatti, che «in
realtà, è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero
in concorrenza l’una con l’altra. E’ proprio il contrario: il culto del
Santissimo Sacramento costituisce come l’ambiente spirituale entro il quale la
comunità può celebrare bene e in verità l’Eucaristia. […] Nel momento
dell’adorazione, noi siamo tutti sullo stesso piano, in ginocchio davanti al
Sacramento dell’Amore. Il sacerdozio comune e quello ministeriale si trovano
accomunati nel culto eucaristico». (Benedetto XVI, Omelia, Corpus Domini 2012).
Quale grazia
potrebbe scaturire se in tutti i Santuari d’Italia e del mondo, ci fosse una
Cappella dedicata all’Adorazione eucaristica perpetua, soprattutto con
l’intenzione di pregare per le vocazioni sacerdotali e per la fedeltà dei
sacerdoti alla propria identità!
Come
affermato nell’Esortazione Apostolica Sacramentum
Caritatis, «la migliore catechesi sull’Eucaristia è la stessa Eucaristia
ben celebrata» (SC n. 64). Da essa scaturirà un soprannaturale e sempre nuovo
dinamismo di evangelizzazione, così necessario in questo nostro tempo.
Potremmo
affermare che intorno a noi «il vuoto […] si è diffuso. Ma è proprio a partire
dall’esperienza di questo deserto, da questo vuoto, che possiamo nuovamente
scoprire la gioia di credere. […] Nel deserto si riscopre il valore di ciò che
è essenziale per vivere; così nel mondo contemporaneo sono innumerevoli i
segni, spesso espressi in forma implicita o negativa, della sete di Dio, del
senso ultimo della vita» (Benedetto XVI, Omelia, Apertura
dell’Anno della fede).
E
mentre non poche chiese si svuotano, i Santuari vedono aumentare, in modo
talora vertiginoso, le proprie presenze. Cogliamo allora i “segni dei tempi”,
di oggi e non di ieri, e lasciamoci interrogare su tanta azione pastorale dei
decenni passati, con il coraggi di chi sa riconoscere errori ed omissioni e, umilmente,
si accinge a porvi rimedio, almeno non perseverando nell’errore.
L’augurio,
allora, è che, anche grazie al nuovo Statuto dell’Associazione Nazionale
Santuari, approvato dalla Congregazione per il Clero, possa continuare questo
fecondo dialogo ed ogni Santuario possa essere, sempre e per tutti, autentico
luogo da cui ripartire, con una forza evangelizzante, perché evangelizzati,
luogo di rinnovamento dell’esperienza di fede.