Penitenzieria
Apostolica – Roma
Giovedì
7 marzo 2013 – ore 15.30
XXIV
Corso sul Foro Interno
«Il Confessionale come luogo privilegiato di
evangelizzazione, trasmissione della fede e della sana
dottrina»
Intervento
di S. Em. R. il Card. Mauro Piacenza
Carissimi
sacerdoti neo-ordinati,
carissimi
diaconi ordinandi presbiteri,
è
particolarmente utile, nell’Anno della Fede, in questo XXIV Corso che, tanto lodevolmente,
la Penitenzieria Apostolica offre, riflettere sul rapporto essenziale tra il
sacramento della Riconciliazione e il progressivo crescere del Regno di Dio
nelle anime.
Se
c’è una pratica, infatti, nella quale gli uomini possono incontrare realmente
il Signore, aprire a Lui il loro cuore e fare autentica esperienza della divina
misericordia, questa è rappresentata precisamente dalla confessione
sacramentale, nella quale, ciascuno, come un mendicante, si pone davanti a Dio,
nella consapevolezza del proprio limite e del proprio peccato, implorando, da
colui che è l’Amore, quell’abbraccio carico di misericordia, che è la sola
medicina capace di guarire davvero il cuore dell’uomo; capace di sanare – e
continuamente risanare – la radicale paura di non essere amati, eredità del
peccato delle origini, che spinge a commettere il peccato, per allontanarsi
ancora di più da Colui, del quale, invece, abbiamo tutti indistintamente
infinito bisogno.
Nella
presente relazione, oltre che un luogo fisico, la cui importanza è sempre e
comunque da riscoprire, anche in ordine alla facilitazione che esso rappresenta
per i fedeli nell’accesso al sacramento della misericordia, il confessionale
rappresenta soprattutto un “luogo teologico”, una reale esperienza di
risurrezione, perché esperienza del Risorto.
Come
il titolo affidatomi suggerisce, cercherò di analizzare tre diversi aspetti di
questo fondamentale sacramento: il suo impatto in ordine all’evangelizzazione,
alla trasmissione della fede e all’istruzione nella sana dottrina.
1.
Il confessionale come luogo di
evangelizzazione
Ci
si potrebbe chiedere se chi giunge a domandare la misericordia sacramentale,
non debba essere già considerato come “evangelizzato”; se, perciò, nella
celebrazione del sacramento della riconciliazione, non si debba dare per
scontata l’evangelizzazione dei fedeli, che vi accedono.
Se
è ovvio che una “prima evangelizzazione”, intesa come incontro con Cristo e,
soprattutto, dal punto di vista dottrinale e canonico, come immersione nel suo Mistero,
attraverso il battesimo sacramentale, è assolutamente previa la celebrazione
della riconciliazione, tuttavia possiamo, con ragione, sostenere – forse, oggi,
anche più che in passato – che il confessionale – lo scoprirete man mano che
aumenterà la vostra esperienza nell’esercizio, umile e fedele, di questo
importantissimo ministero – è e deve essere un luogo di evangelizzazione.
Lo
è, innanzitutto, per la natura stessa del Vangelo. Esso è l’annuncio della
salvezza, la buona novella che Dio si è fatto uomo per salvarci e che, per
amore, ha dato se stesso per noi. Ben sappiamo, carissimi, come l’efficacia sacramentale
universale e, particolarmente, l’efficacia del sacramento della riconciliazione
dipendano da Cristo Crocifisso, dall’offerta infinita del Figlio di Dio fatto
uomo, il quale, sostituendosi a noi, all’umanità peccatrice, ci ha aperto, per
sempre, le porte della salvezza. Quale migliore annuncio, quale più grande
evangelizzazione, quale più efficace esperienza di buona novella di quella
vissuta nel confessionale, nel quale risuona potentemente la parola del profeta
Isaia: «Se anche i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi
come la neve» (Is 1,18)?
Allora,
primariamente, il confessionale, come luogo di evangelizzazione, ci spinge a
pensare all’esercizio del ministero pastorale, attraverso la celebrazione di
questo fondamentale sacramento, quale annuncio permanente della salvezza,
dell’identità stessa di Dio, che è Amore e del volto di questo Amore che, per chi
lo accoglie, è tutto Misericordia!
Una
confessione “fallita”, nella quale non c’è evangelizzazione, come annuncio di
buona novella, è una confessione nella quale il penitente non fa alcuna
esperienza di Dio come misericordia. Tale annuncio – ben lo sappiamo – non può
essere fatto una volta nella vita, ma domanda di essere permanentemente
rinnovato, sia per chi riceve l’annuncio, sia per chi, una volta ricevutolo, è
chiamato a portarlo ai fratelli.
Non
di rado, taluni nostri fratelli, che si accostano al sacramento della
riconciliazione, lo fanno spinti dalle motivazioni più disparate: dalla mera
abitudine alla ricerca di conforto, dal tentativo di superare sensi di colpa
psicologici al bisogno di essere ascoltati da qualcuno, dal timore del castigo
per i peccati al bisogno di continua rassicurazione e di sostegno. Pur in
presenza di tante, belle, profonde ed edificanti anime, non sono la maggioranza
le confessioni animate da autentica contrizione e spalancate al mistero di un
Dio amante e misericordioso, che impedisce al cuore di ripiegarsi su se stesso.
Qualunque sia, tuttavia, la ragione per cui un fedele domanda di accostarsi al
sacramento della riconciliazione, l’accoglienza che noi gli riserveremo, la
carità che gli useremo, l’ascolto profondo e attento di cui saremo capaci e la
divina misericordia che sapremo mostrare, rappresenteranno gli elementi
costitutivi dell’annuncio evangelico, della evangelizzazione, della quale ogni
fedele, anche senza esprimerlo, ha profondo bisogno.
Tra
tante attività, che rendono, non di rado, centrifuga la vita del sacerdote, la
celebrazione del sacramento della riconciliazione rappresenta una reale
occasione per raccogliere, invece che disperdere, per fare un autentico
annuncio evangelico, invece che disperdersi in tante praeparationes, che rischiano di non giungere mai all’essenza
dell’annuncio.
Ogni
altra attività pastorale, legittima e necessaria, deve avere come orizzonte
l’evangelizzazione, l’annuncio chiaro, comprensibile, esistenzialmente
percepito di Gesù di Nazareth, vero Dio e vero uomo, morto per amore e, per
amore, risorto. Ogni attività pastorale, dunque, deve poter guardare e condurre
al confessionale, nel quale, prima e meglio di ogni umana abilità, anche
psicologica, agisce la potenza della grazia, che, liberando dal peccato, crea
la sola condizione necessaria per sperimentare la divina misericordia e
presenza: l’apertura del cuore.
Essa
non è, soltanto, premessa alla celebrazione del sacramento, anzi, la dottrina
ci ricorda come, per una valida confessione, sia sufficiente il dolore di
attrizione, che, con l’aiuto della grazia, non di rado, può divenire dolore
perfetto, contrizione.
Come
il sacramento del battesimo è strettamente relazionato alla fede e di esso
possiamo affermare, con il Catechismo della Chiesa Cattolica, che presuppone la
fede, si celebra nella fede e dona la fede teologale così, per analogia, è
possibile riconoscere come la confessione sacramentale presupponga l’apertura
del cuore, si celebri nell’apertura del cuore e doni quell’apertura del cuore,
che è l’esperienza del perdono.
L’annuncio,
allora, della buona novella, l’esperienza di evangelizzazione, che ogni confessione
sacramentale rappresenta, può consistere esattamente in questo incontro, attraverso
l’indispensabile ministero dei sacerdoti, di un cuore ferito dal peccato, ma,
ancor più, ferito dalla nostalgia di Dio, con quell’amore infinito, che è
misericordia e che, solo, è capace di distruggere il peccato e di condurre
all’esperienza di compimento il cuore umano.
Come,
in ecclesiologia, si è ricordato che solo una Chiesa evangelizzata è anche una
Chiesa evangelizzante, così, possiamo ben dire che solo un sacerdote
evangelizzato è un sacerdote evangelizzante.
Anche
per noi, il confessionale è luogo di evangelizzazione; anche a noi, ogni volta
che ci accostiamo, come umili penitenti, alla divina misericordia, l’annuncio
dell’amore gratuito del Signore è esperienza rigenerante, non solo, la nostra
vita cristiana, ma anche il nostro essere sacerdotale. Se, come ministri di
Dio, siamo chiamati a fuggire con orrore il peccato, sappiamo, tuttavia, di non
essere esclusi dal limite, dalla tentazione e, talora, persino dalla caduta.
Sappiamo che, anche per noi, il Signore è morto e risorto, e, se non vogliamo
continuare a infliggere chiodi dolorosi al suo santissimo Corpo crocifisso, con
i nostri peccati, tuttavia sappiamo di aver sempre estremo bisogno della sua
infinita misericordia.
Un
sacerdote penitente e riconciliato è un sacerdote evangelizzato, che vede
risuonare, nella sua vita, il bell’annuncio della salvezza. Perciò saprà anche
essere un sacerdote che, nella celebrazione del sacramento della
riconciliazione, aiuta i fedeli a fare esperienza di Vangelo, di buona notizia;
di aiuto a sentirsi profondamente amati di un amore che, una volta svelato e in
parte compreso diviene nuovo orizzonte della vita, capace di imprimere quella
“direzione decisiva” (Benedetto XVI,
Deus caritas est, n. 1), che
chiamiamo “conversione”.
2.
Il confessionale come luogo di
trasmissione della fede
Un
sacerdote autenticamente riconciliato sarà inevitabilmente portatore di quella
cristiana riconciliazione, che è il primo annuncio della fede. Il modo in cui
accogliamo i penitenti, l’ascolto autentico che riserviamo loro e lo sguardo
soprannaturale, evangelico – direi, perfino, trasfigurato e mistico –, con il
quale contempliamo Dio che li ama e guardiamo alle loro anime, rappresenta il
primo fondamentale veicolo di autentica trasmissione della fede. Non c’è, a ben
guardare, esperienza maggiormente vicina, più capace di creare umana
prossimità, che quella della celebrazione del sacramento della riconciliazione.
Prossimità,
che non deve mai avere la sua radice in motivazioni umane. Prima e soprattutto,
nella coscienza del sacerdote, deve brillare, di luminosa chiarezza, la
consapevolezza che il fedele si rivolge a lui e a lui apre il proprio cuore,
solo perché è ministro di Dio. Non in forza di umane simpatie, non in forza di
pur importanti competenze, non per un misterioso fascino del sacro, chissà come
esercitato, il fedele apre il proprio cuore al sacro ministro. Solo per fede
ciò può accadere e solo per fede deve accadere.
La
prima “trasmissione della fede” deve dunque essere, almeno nella coscienza
sacerdotale, quella che il ministro riceve dal penitente. Accostarsi al
confessionale, qualunque sia la ragione umana, o soprannaturale, che spinge a
farlo è, in ogni caso, una professione di fede. Per quale altra ragione,
altrimenti, gli uomini dovrebbero rivelare a noi, altri uomini, i loro peccati
più oscuri, le loro fatiche più gravi, le loro ferite più profonde? Ogni
penitente, che si accosta al confessionale, professa la propria fede in Dio, in
Gesù Cristo, nella Chiesa, nel Sacerdozio e nell’efficacia dei sacramenti.
Dobbiamo
essere consapevoli di questa trasmissione della fede, di cui siamo oggetto!
Dobbiamo saper vedere, con occhio soprannaturale, l’accostarsi dei penitenti al
confessionale e questo deve rappresentare il primo motivo, che spinge ciascuno
alla profonda accoglienza e alla reale gratitudine, per l’incontro che ciò
permette tra la divina misericordia e l’anima bisognosa di perdono.
Consapevoli
del contesto imprescindibilmente di fede e oggettivamente di fede, nel quale il
sacramento è celebrato, i sacerdoti sanno che, proprio grazie all’incontro
personale con i penitenti e al grande ascolto, di cui essi sono capaci nel
momento della celebrazione del sacramento, la confessione può diventare luogo
della “tradizione”, della traditio fidei,
nel quale uno sguardo e un giudizio di fede sono pronunciati, in modo
autorevole – e mai autoritario – sulla vita, sulla verità e sul bene.
Quante
occasioni sprecate, in tal senso, quante ingenue, o colpevoli superficialità,
quante inopportune stanchezze, che talvolta trasformano la traditio fidei in banali colloqui! Occasioni mancate, sia di
evangelizzazione, sia di trasmissione della fede.
Se
il penitente si accosta al confessore e, con questo solo atto, testimonia la
propria fede, quanto più il confessore è moralmente tenuto, davanti a Dio e
alla Chiesa, ad essere luminoso testimone della fede per il penitente. Non
capiti mai di venire meno a tale imprescindibile vocazione! Non capiti mai –
Dio ce ne scampi – di scandalizzare la fede dei piccoli e delle anime, proprio
nella celebrazione del sacramento del perdono. Non è un caso se la Chiesa
riserva le pene più severe per gli abusi commessi nella celebrazione di questo
sacramento! Ma non basta e non è ciò che il Signore vuole da noi semplicemente evitare
il male. Dobbiamo compiere il bene. Dobbiamo vivere questo straordinario
ministero, che il Signore ci ha affidato, nella nitida consapevolezza che ogni
volta che un penitente si rivolge a noi, dicendo: «Padre, mi può confessare?»,
egli sta rinnovando la propria professio
fidei e si attende, dal sacerdote, la stessa cosa.
Per
tale ragione, il confessionale, proprio per la prossimità, che esso comporta e
l’apertura di cuore e di mente, che in esso può accadere, è luogo di trasmissione
della fede. Una fede che, sia il sacerdote, sia il penitente hanno ricevuto
dalla Chiesa! Una fede che, sia il sacerdote, sia il penitente testimoniano
alla Chiesa attraverso la celebrazione stessa del sacramento e si testimoniano vicendevolmente,
in quella celebrazione della misericordia, che è il nucleo fondamentale dello
stesso annuncio di fede.
3.
Confessionale come luogo della
trasmissione della sana dottrina
Lo
stesso dialogo, che si crea tra sacerdote e penitente, nella riconciliazione
cristiana, pur salvaguardando la specificità del sacramento e la talora
necessaria brevità dei tempi della celebrazione, può divenire luogo per
trasmettere, efficacemente, “pillole di sana dottrina”, farmaci sicuri, capaci
di guarire anche le malattie più ostinate.
«Il
confrontare le condizioni che si richiedono per il buon uso del ministero di
parroci e confessori con quelle di coloro che attualmente esercitano questo
ufficio è causa di grande dolore, perché qualche volta vi è chi le possiede
tutte, ma solitamente molti mancano della maggior parte di esse ed altri non ne
hanno nessuna». Con tali parole, sorprendentemente attuali, si esprimeva, nel
Trattato sul Sacerdozio (n. 41), San Giovanni D’Avila (1499-1569), proclamato,
da Benedetto XVI, Dottore della Chiesa.
Nell’intero
esercizio del ministero, ma in modo del tutto particolare, nel sacramento della
riconciliazione, emerge, con luminosa chiarezza, come, per farsi ordinare e per
ordinare, non sia sufficiente che non ci siano impedimenti, ma come, al
contrario, sia necessario che vi siano qualità positive, che sostengono
validamente la bontà dell’ordinazione. Tra esse, non può mancare quella
solidità dottrinale, che nasce dalla reale immedesimazione con il proprio
ministero, più volte indicata durante l’Anno Sacerdotale, come l’autentica
chiave di volta per interpretare, anche nel nostro tempo, il sacerdozio. La
solidità e la chiarezza dottrinale, unitamente ad una buona sintesi, oggi
purtroppo difficilmente raggiungibile, per la progressiva frammentazione anche
degli studi teologici, costituiscono il presupposto per poter, anche nel breve
colloquio sacramentale della confessione, trasmettere quei chiari riferimenti
dottrinali, di cui tanto spesso le anime hanno bisogno.
Non
si tratta, ovviamente, di confondere la necessaria catechesi comunitaria o la
formazione permanente, con le brevi ammonizioni, o spiegazioni che si possono
dare nel colloquio sacramentale, né sarebbe logico rispiegare da capo l’intero
Catechismo a ciascun fedele, in confessionale.
Sotto
tale punto di vista, proprio in questo Anno della Fede, ci sarebbe molto da
interrogarsi su come le nostre comunità vivano la formazione catechetica permanente,
la progressiva e costante educazione alla fede, fatta anche di assimilazione di
quei contenuti dottrinali, che vanno a nutrire l’atto di fede stesso. A tale
proposito, afferma il Motu proprio “Porta Fidei” di Benedetto XVI: «Esiste,
infatti, un’unità profonda tra l’atto con cui si crede e i contenuti a cui
diamo il nostro assenso. L’apostolo Paolo, permette di entrare all’interno di
questa realtà: “Con il cuore si crede e con la bocca si fa la professione di
fede” (Rm 10,10). Il cuore indica che
il primo atto con cui si viene alla fede è dono di Dio e azione della grazia
che agisce e trasforma la persona fin nel suo intimo» (Porta fidei, n. 10).
Trasmettere
“sana dottrina” significa, innanzitutto, evitare scrupolosamente di
discostarsi, anche in maniera minima, come confessori, dalla dottrina ufficiale
della Chiesa. Non c’è nulla di più disorientante e pernicioso, per le anime,
che ricevere, proprio nel sacrario della coscienza, proprio da un ministro di
Dio, indicazioni differenti e talvolta perfino diametralmente opposte, a quanto
la Chiesa crede, vive e insegna. Nessun confessore, autonomamente, è autore
della dottrina della Chiesa, né sotto il profilo della fede, né sotto quello
morale.
È
sempre un atto gravissimo discostarsi dalla sana dottrina, nella predicazione e
nella catechesi. Lo è, ancora di più, farlo nel segreto del confessionale. Se,
nei primi casi, infatti, l’atto è pubblico e può essere corretto, nel secondo,
l’atto è privato, vincolato dal sigillo e perciò non sottoponibile a correzione
alcuna. Inoltre, la gravità che assumono affermazioni erronee pronunciate dal
sacerdote in confessione e, dunque, nel sacrario della coscienza dei fedeli, è davvero
enorme.
Nessun
sacerdote ha il diritto di disorientare le coscienze. Il confessionale deve
essere il primo luogo di trasmissione della sana dottrina, nella consapevolezza
certa che unicamente la sana dottrina è in grado di “sanare”! Afferma Gesù nel
Vangelo: «La verità vi farà liberi» (Gv
8,32). Solo la sana dottrina ha un autentico valore taumaturgico, può davvero
salvare, guarire, risollevare, superando quella menzogna, che sta alla radice
del peccato e che, tanto spesso, frena l’esistenza degli uomini.
Anche
qui si tratta della identificazione del ministro sacro con Cristo Signore e con
il proprio ministero. Come affermato nella nuova edizione, appena giunta in
libreria, del Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri: «Occorre
[…] che il sacerdote sappia
identificarsi, in un certo senso, con questo sacramento e, assumendo
l’atteggiamento di Cristo, sappia chinarsi con misericordia, come buon
samaritano, sull’umanità ferita, facendo trasparire la novità cristiana della
dimensione medicinale della penitenza, che è in vista della guarigione e del
perdono» (n. 70).
È
necessario, per esercitare sempre più adeguatamente questo fondamentale
ministero, invocare continuamente lo Spirito perché illumini e sostenga; è
necessario pregare, all’inizio di ogni giornata, per i penitenti che
incontreremo, e alla chiusura della giornata, per quelli che abbiamo
incontrato, affidandoli, sempre e ancora, alla divina misericordia.
È
necessario non trascurare mai la propria formazione permanente, soprattutto
nella conoscenza e nella fedeltà ai documenti del Concilio Ecumenico Vaticano
II, al magistero successivo, che lo ha autenticamente interpretato, e, in
particolare, al Catechismo della Chiesa Cattolica e al Codice di Diritto
Canonico, vere e proprie sintesi di sana dottrina, che rendono capace il
confessore di guidare, con paterna amorevolezza e sopranaturale autorevolezza,
le coscienze che a lui si aprono.
Conclusione
La
responsabilità dell’autoformazione, nel contesto della celebrazione del
sacramento della riconciliazione, è ancora più ampia che in altri contesti.
Anche per questa ragione, la Congregazione per il Clero, oltre alla citata
nuova edizione del Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, ha pubblicato un Sussidio per confessori e
direttori spirituali, per sostenere tale responsabilità, per la formazione
permanente e, nel contempo, favorire una sempre meno frammentaria e disorientante
modalità di celebrazione di questo sacramento, sia in ordine agli aspetti
dottrinali, sia per incrementare il copioso frutto pastorale, che sempre
scaturisce, come imprevedibile dono di grazia, dall’esperienza gioiosa della
misericordia.
Carissimi
sacerdoti e diaconi ordinandi presbiteri, è una grande gioia sapere che il
Vangelo cammina nei cuori anche attraverso di voi e che la Chiesa prosegue il
proprio cammino nella storia e nelle coscienze, grazie alla fedele ed umile
dedizione di tanti sacerdoti, che, primi penitenti, divengono veri e propri
araldi di Cristo e, perciò, dell’evangelizzazione, della trasmissione della
fede e della sana dottrina.
La
Beata Vergine Maria, Madre di Misericordia, vi assista per tutta la vita,
nell’esercizio prudente e preziosissimo della generosa amministrazione della
divina misericordia.