Kraków,
martedì 16 aprile 2013 – ore 14.00
Presentazione
della
nuova edizione del “Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri”
e
del libro “Preti nella modernità”
ai
Responsabili per la formazione permanente del Clero in Polonia
Intervento
del
Card. Mauro Piacenza
Prefetto
della Congregazione per il Clero
Carissimi
Confratelli e amici,
la
sollecitudine per la formazione e la vita del nostro Clero deve essere sempre
al vertice delle nostre preoccupazioni, nella consapevolezza che, attraverso di
essa, noi potremo esercitare una vera e propria cura animarum verso l’intero Popolo santo di Dio.
è, infatti, attraverso un sacerdote ben
formato, robusto nella fede, solido nella spiritualità e nella pietà,
culturalmente strutturato, moralmente fedele e pastoralmente zelante, che è
possibile, come Pastori della Chiesa, curare le comunità e tutte le persone che
il Signore ci affida.
È
principalmente in quest’ottica, che potremmo classicamente definire “formazione dei formatori”, che la
Congregazione per il Clero ha pubblicato la nuova edizione, aggiornata ed
ampliata rispetto a quella del 1994, del Direttorio per il ministero e la vita
dei presbiteri, accogliendo, per quanto possibile, il grande contributo sia del
Magistero del Beato Giovanni Paolo II, sia di quello del Santo Padre emerito
Benedetto XVI, specialmente durante l’Anno Sacerdotale, che molto ha aiutato a
riflettere, rifocalizzandola, sull’identità dei presbiteri.
Strutturerò
il presente intervento in tre punti fondamentali, rispondenti alle tre parti
del Direttorio, accennando rispettivamente all’identità del presbitero, alla
spiritualità sacerdotale e alla formazione permanente. Un cenno finale
riserverò al testo, che, pure, oggi viene presentato: “Preti nella modernità”,
che intende aiutare i Confratelli nell’analisi culturale e sociale del nostro
tempo, per una risposta il più possibile adeguata e, soprattutto, fondata più
sulla fede che su strategie umane.
Perché
un Direttorio? Non potrebbe, il Direttorio, dare l’impressione di essere uno
strumento superato, nell’epoca della consapevolezza e della libertà, così
allergica ad ogni forma di “direzione”?
In
realtà, lo spirito con cui accogliere il Direttorio dovrebbe essere duplice: da
un lato, esso, infatti, intende offrire come un panorama, un ampio orizzonte,
al quale sempre volgere lo sguardo, per scoprire e riscoprire la direzione del
proprio cammino sacerdotale, evitando di perdersi nei mille rivoli, che la
cultura contemporanea propone; dall’altro, fatte salve le debite e doverose
distinzioni, dovrebbe essere accolto quasi come una regola di vita, un sostegno
al complesso e progressivo maturare della libertà e della fedeltà personali, un
po’ come avviene per gli statuti e le regole dei vari istituti religiosi, che
indicano le ragioni di una vita e, con esse, i concreti sentieri, da percorrere
per raggiungere la meta. Potremmo dire, allora, che, dietro un “nome antico”,
si nasconde una realtà sempre nuova, come sempre nuovo è, ad ogni generazione, il
cuore dell’uomo (cfr. Benedetto XVI, Spe
salvi, 24), bisognoso di essere incontrato dal Mistero ed educato da quella
compagnia soprannaturale, che è la Chiesa.
1.
L’identità del Presbitero
Non
mi soffermerò, in questa sede, a ripercorrere l’intero teologia del
presbiterato, che certamente ben conoscete. Vorrei, piuttosto, focalizzare
l’attenzione su due elementi, che, a mio umile parare, soprattutto oggi,
necessitano di grande attenzione: le dimensioni ecclesiologica e quella
comunionale del presbitero.
1.1 Dimensione
ecclesiologica
«Cristo,
origine permanente e sempre nuova della salvezza, è il Mistero fontale da cui
deriva il Mistero della Chiesa, suo Corpo e sua Sposa, chiamata dal suo Sposo
ad essere segno e strumento di redenzione. Per mezzo dell’opera affidata agli
Apostoli e ai loro successori, Cristo continua a dare vita alla sua Chiesa. È
in essa che il ministero dei presbiteri trova il suo locus naturale ed adempie la sua missione» (Direttorio, 13).
Prescindendo
da tale locus naturale, il sacerdote
è semplicemente inconcepibile. Esso nasce nella Chiesa e per la Chiesa; più
esattamente, il sacerdote nasce da Dio, attraverso la Chiesa, per servire gli
uomini, ordinati alla Chiesa e, attraverso di essa, alla comunione con Dio.
La
dimensione ecclesiale, lungi dall’essere riducibile a forme di
autoreferenzialità o orizzontalismo, indica il profondo inserimento del
ministero sacerdotale nel permanere dell’azione salvifica di Cristo nel tempo. Se
la Chiesa rinnova la presenza di Cristo nella storia, fino alla sua
consumazione, i sacerdoti sono lo strumento affinché tale rinnovamento accada, perché
il Regno di Dio continui ad essere annunciato, la misericordia offerta e il
pane di vita spezzato.
Fondamentale,
in tale dimensione ecclesiologica del ministero, è la partecipazione di ciascun
sacerdote alla sponsalità di Cristo, definito dalla Pastores dabo vobis: «Servo e Sposo della Chiesa» (PDV, 3). Come Cristo ama la Chiesa, al
punto di dare se stesso per lei, così ciascun sacerdote è chiamato, proprio
dalla partecipazione al medesimo Sacerdozio di Cristo – e quindi radicando tale
atteggiamento nel rapporto con lui –, ad amare la Chiesa sua sposa, dando,
quotidianamente e generosamente la vita per lei.
Dare
la vita per la Chiesa potrebbe essere, però, un’astrazione se il Corpo della
Chiesa non giungesse ad assumere le sembianze del concreto Popolo di Dio a noi
affidato. Dopo ormai cinquant’anni, dobbiamo ritenere del tutto superate le
polarizzazioni tra Corpo di Cristo e Popolo di Dio, nella definizione della
Chiesa. Le due dimensioni devono essere costantemente integrate, dal momento
che non vi è un Corpo “altro” rispetto al concreto Popolo di Dio, che egli
chiama e convoca a sé, e che proprio la soprannaturale convocazione da parte
dell’Altissimo fa di questo Popolo un Corpo, una etnia sui generis – come
amava definirla il Servo di Dio Paolo VI – , che vive e sussiste esattamente in
forza del rapporto soprannaturale con il Signore, che continuamente la convoca.
Servire
la Chiesa, allora, significa collaborare con Dio all’edificazione del suo
Corpo, alla convocazione del suo Popolo, il quale ha sempre diritto di
ascoltare l’annuncio del Vangelo, di ricevere la divina misericordia e di
nutrirsi del Pane eucaristico. La stessa obbedienza alle leggi e alle norme
della Chiesa non è, in alcun caso, in contrapposizione alla sollecitudine verso
il Popolo, al contrario la incarna, in quell’umile consapevolezza, che ogni
sacerdote deve avere, di non essere mai lui singolarmente l’autore della
missione, ma di essere un semplice strumento, dentro un Corpo più grande, che
accoglie ed esalta la sua creatività, la quale, solo nella fedeltà, diviene
realmente feconda.
Ce
lo ha ricordato, con forza, Papa Francesco, affermando che: «L’unzione che
abbiamo ricevuto è per ungere il Popolo» (Omelia
per la Messa Crismale, 28 marzo 2013). Mi ha personalmente molto colpito
questa immagine, soprattutto laddove il Santo Padre ha posto la verifica di
tale unzione nella gioia con cui la gente esce dalle nostre celebrazioni. Se
esse sono state reale unzione, cioè reale annuncio della buona novella,
germoglia nel cuore e sul volto dei nostri fedeli una reale letizia.
Ben
sappiamo, carissimi Confratelli, come soltanto la coscienza di aver ricevuto
l’unzione può spingere, quotidianamente e costantemente, a donarla. Se talvolta
si possono incontrare alcuni sacerdoti divenuti un po’ “secchi”, incapaci di
ungere, ciò è perché, molto probabilmente, essi hanno perduto la coscienza
stessa di essere stati unti. Il primo compito dei pastori e dei responsabili
della formazione iniziale e permanente del Clero è, allora, proprio questo:
ravvivare costantemente la memoria dell’unzione, nella certezza che da essa
deriva ogni fecondità ed agilità missionaria.
Sappiamo,
inoltre, come la dimensione ecclesiologica del ministero porti, dentro di sé,
quella che possiamo definire “l’universalità del Sacerdozio”. Ciascun
presbitero, infatti, è nella Chiesa, ma anche di fronte alla Chiesa ed egli
«appartiene in modo immediato alla Chiesa universale […] e l’incardinazione non
deve rinchiudere il sacerdote in una mentalità ristretta e particolaristica, ma
aprirlo al servizio dell’unica Chiesa di Gesù Cristo» (Direttorio, 15).
Emerge
chiaramente come la giusta concezione della dimensione ecclesiologica del
ministero apra, necessariamente, alla missionarietà, che è parte costitutiva
dell’esistenza del sacerdote; una missionarietà che, interpretata nelle
dimensioni più diverse, oggi appare quanto mai necessaria, se vogliamo che la
nuova evangelizzazione non rimanga uno slogan demagogicamente ripetuto, ma
divenga realtà concreta di uomini e donne che, salutarmente provocati dal
nostro annuncio e dalla nostra testimonianza, si convertono a Cristo, cambiano
vita e, in tal modo, riplasmano la società e riscrivono la storia.
Ciascun
sacerdote deve avere piena coscienza di questa realtà missionaria del suo
sacerdozio e deve viverla in piena sintonia con la Chiesa, che, come Corpo vive
la sollecitudine per tutti gli uomini, ricordando, come affermato dal Beato
Giovanni Paolo II, che la nuova evangelizzazione dovrà essere: «nuova nel suo
ardore, nei suoi metodi e nelle sue espressioni» (Discorso al CELAM, 9 marzo 1983, in Direttorio, 21).
Non
è un caso se il nostro Beato Papa ha citato prima l’ardore e, solo
successivamente, i metodi e le espressioni dell’evangelizzazione. Sarebbe
infatti del tutto inutile ricercare metodi nuovi e nuove espressioni, senza
ardore, senza quella forza che viene dallo Spirito e dall’unzione, senza quella
carica, che, continuamente e soprannaturalmente si rinnova, affondando le
radici nell’identità sacerdotale.
Come
affermato esplicitamente nell’Evangelii
nuntiandi di Paolo VI e nel Motu
proprio “Porta fidei” di Benedetto XVI: «La fede si rafforza donandola» (Direttorio, 21), e tutti noi, carissimi
Confratelli Sacerdoti, sappiamo come le intime gioie del ministero siano,
fondamentalmente, legate al dono della fede ai fratelli, all’incontro autentico
delle anime con Dio e al loro ritorno a Dio. i sacerdoti, così, sposi della
Chiesa, fanno esperienza di essere anche autentici padri spirituali, non solo
accompagnando i fratelli nel cammino di fede, ma anche – e Dio ci conceda che
sia sempre più così – generando alla fede, attraverso la testimonianza, la
catechesi, la predicazione e i sacramenti.
L’ardore
per l’evangelizzazione e la dimensione ecclesiale del nostro ministero devono
essere le ragioni che, con sempre maggiore attenzione, ci spingono a lavorare
sulla nostra umanità, sui nostri limiti, sui nostri talvolta persistenti
difetti. Non è per una narcisistica mania di perfezione ascetica che dobbiamo
lavorare su noi stessi, ma per amore di Dio e delle anime! Perché nulla in noi,
nel nostro tratto umano, possa ostacolare l’incontro degli uomini con Dio,
frenando la misericordia e l’accogliente tenerezza che il Signore vuole
mostrare ai suoi figli, attraverso la nostra umanità.
E
in questo senso «i presbiteri assimilano nella propria vita quelle parole
vibranti dell’Apostolo: “Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore,
finché Cristo non sia formato in voi!” (Gal
4,19)» (Direttorio, 24).
In
quest’ottica ecclesiologica, deve essere continuamente accolto ed interpretato
l’esercizio del munus regendi da
parte dei sacerdoti. Esso, ad imitazione di Cristo, è un potere che è servizio,
un potere soprannaturale al servizio dell’incontro soprannaturale delle anime
con Dio. è un vero e proprio amoris officium, una dedizione
disinteressata per il bene del gregge, da vivere con umiltà e coerenza,
resistendo costantemente alla duplice, opposta tentazione: spadroneggiare sul
gregge, o vanificare la propria configurazione a Cristo Capo e Pastore; sono
entrambe derive interpretative di tipo soggettivista e non ecclesiale.
In
tate ambito, è sempre necessaria la dovuta chiarezza dottrinale sulla
distinzione essenziale tra sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale, nella consapevolezza,
da un lato, che il secondo è finalizzato all’esercizio del primo e, dall’altro,
che solo attraverso l’offerta dei sacerdoti, come insegna la Presbyterorum ordinis, i fedeli laici
possono eucaristicamente rendere perfetta l’offerta di sé a Dio.
1.2 Dimensione
comunionale
Se
volessimo individuare un aspetto di autentica “novità dottrinale”, approfondito
dal Concilio ecumenico Vaticano II rispetto al Sacerdozio, potremmo realmente
trovarlo nel concetto di “comunione sacerdotale”, che lega il sacerdote a Dio e
al Presbiterio e, in tal modo, lo rende parte di un Corpo, intimamente ed
essenzialmente unito al Vescovo, del quale non è un mero esecutore, ma un
personale cooperatore.
Prescindendo
dalla comunione, intima e reale, con la Santissima Trinità – in particolare,
con Cristo Sacerdote – e dalla comunione con la Chiesa, documentata nella
comunione gerarchica e nella celebrazione eucaristica, non sarebbe soltanto
difficile esercitare il ministero; sarebbe semplicemente impossibile!
Fatte
salve le legittime ed arricchenti differenze personali, caratteriali e
spirituali, è assolutamente imprescindibile, per il rinnovarsi dell’identità
sacerdotale e dell’ardore missionario, la comunione con la Chiesa di sempre,
che si documenta storicamente nella concreta comunione con i legittimi Superiori,
con il Presbiterio al quale si appartiene e con tutti quei fratelli e quelle
sorelle, che il Signore pone sul cammino ministeriale del sacerdote.
Di
tale aspetto comunionale, che è chiaramente legato alla dimensione
ecclesiologica dell’identità sacerdotale, sottolineo unicamente quanto
affermato al n. 40 del Direttorio: «La vita comune è immagine di quella apostolica vivendi forma di Gesù con i
suoi apostoli. Con il dono del sacro celibato per il Regno dei Cieli, il
Signore ci ha fatti diventare in modo speciale membri della sua famiglia». In
tal senso, in una società sempre più secolarizzata, nella quale non sempre il
Popolo santo di Dio, anche quello più prossimo, rappresenta la “famiglia” del
sacerdote, l’apostolica vivendi forma
rappresenta una vera e propria possibilità di gioiosa e vitale testimonianza,
che rafforza la fedeltà agli impegni assunti nell’Ordinazione sacerdotale,
incluso il celibato, e permette una più efficace opera di evangelizzazione.
2.
La spiritualità sacerdotale
Centrale,
nella presentazione che il Direttorio fa della spiritualità sacerdotale, è il
binomio “conversione-evangelizzazione”. In esso si afferma come il presupposto
indispensabile per un’efficace opera di evangelizzazione sia il reale
coinvolgimento del sacerdote nella grande opera di permanente conversione, alla
quale tutti i cristiani sono chiamati. In tal senso, «la chiamata alla nuova
evangelizzazione è innanzitutto una chiamata alla conversione» (Giovanni Paolo
II, Santo Domingo, 12 ottobre 1992).
Da
tale presupposto, emerge il primato della vita spirituale, inteso come lo
“stare con Cristo nella preghiera”, utilizzando sapientemente tutti gli
strumenti, che la migliore tradizione ecclesiale offre alla vita del sacerdote,
ai quali non è mai lecito abituarsi. Lo ha ricordato, con impareggiabile
luminosità, il Papa emerito Benedetto XVI, nell’omelia della Santa Messa del
Crisma del 2008: «Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha
accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso, “servire”
significa vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un
pericolo: quello che il sacro, da noi continuamente incontrato, divenga per noi
abitudine. Si spegne così il timore reverenziale. Condizionati da tutte le
abitudini non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli
stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla
realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore, dobbiamo lottare senza tregua,
riconoscendo sempre, di nuovo, la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel
fatto che egli si consegni così nelle nostre mani».
La
preghiera, allora, per il sacerdote, non è appena un obbligo, cui ottemperare,
ma è vera e propria imitatio Christi:
è un imitare Cristo che prega, un imitare la Chiesa che prega ed un vivere la
preghiera come presupposto imprescindibile della comunione.
Il
primato della dimensione spirituale, nella vita del sacerdote, domanda una
costante vigilanza sul cosiddetto funzionalismo. «Non è raro, infatti,
percepire, anche in alcun sacerdoti, l’influsso di una mentalità che tende
erroneamente a ridurre il sacerdozio ministeriale ai soli aspetti funzionali.
“Fare il prete”, svolgere singoli servizi e garantire alcune prestazioni
sarebbe il tutto dell’esistenza sacerdotale» (Direttorio, 55).
Chi
vive così rischia davvero, come ricordato da Papa Francesco, di vedere il
proprio olio divenire rancido e il proprio cuore amaro. Per tale ragione, solo
l’intima relazione con Cristo è l’ambito, nel quale discernere e vivere ogni
creatività pastorale ed ogni lodevole iniziativa tendente unicamente a
quell’incontro personale e comunitario con il Risorto, che rappresenta il
nucleo essenziale della nuova evangelizzazione.
Da
tale nucleo, deriva – ed è il secondo tema essenziale dell’autentica dimensione
spirituale del ministero – il vivere ogni servizio come reale occasione di
personale santificazione e di irrobustimento della propria identità.
Contrariamente
a quanto, talvolta, si afferma, nel ministero sacerdotale non c’è un’identità
previa, che solo successivamente si declina nei compiti pastorali, o una
santità soggettiva, che possa prescindere da essi. Al contrario, proprio
nell’umile, fedele e quotidiano esercizio del ministero, ciascun sacerdote vede
rinnovarsi e costantemente configurarsi la propria identità e, con essa,
irrobustirsi il cammino di ascesi e santificazione. Ad ogni Messa celebrata, il
prete è più prete! Per ogni pecora ricondotta all’ovile, il pastore è più
pastore! Accresce la propria identità di pastore ed aumenta in lui il profumo
della santità, che non è differente dal buon profumo di Cristo, che profuma
anche le pecore.
Un
ultimo accenno vorrei fare alla precisa scelta metodologica, operata dal
Direttorio, di inserire la riflessione sul celibato sacerdotale (nn. 79-82)
all’interno della spiritualità. Lungi dal ridurre l’obbligo del celibato ad una
dimensione arbitraria o soggettiva, o meramente canonica, la scelta intende
porre in luce come il celibato sia il segno più eloquente dell’unzione dello
Spirito e la via più efficace di santificazione personale e del popolo.
3.
La formazione permanente
Due
sono gli ambiti che giustificano e determinano la necessità della formazione
permanente: quello antropologico e quello storico-culturale.
Il
primo, quello antropologico, ci ricorda costantemente che ciascuno è limitato e
peccatore, che l’uomo, creato da Dio, che vide che era cosa molto buona, è
ferito dal peccato e, dunque, ha costantemente bisogno di grazia e di quegli
aiuti naturali, che favoriscono l’accoglimento della grazia soprannaturale.
Dal
punto di vista storico-culturale, i rapidi cambiamenti che vediamo intorno a
noi, le trasformazioni culturali e ciò che già la Presbyterorum ordinis, cinquant’anni fa, definiva una “situazione radicalmente nuova”, domandano l’umile
consapevolezza che la formazione non è acquisita una volta per tutte ma
richiede un itinerario permanente, il quale si traduce, principalmente, in quel
“mantenere il cuore aperto”, tipico di chi ascolta la voce del Signore.
Anche
nella dimensione della formazione permanente, è fondamentale il primato del
soprannaturale e della grazia. Ce lo ha ricordato, con straordinaria forza,
Papa Francesco, affermando che: «Non è
precisamente nelle autoesperienze o nelle introspezioni reiterate che
incontriamo il Signore: i corsi di autoaiuto nella vita possono essere utili,
però vivere la nostra vita sacerdotale passando da un corso all’altro, di
metodo in metodo, porta a diventare pelagiani, a minimizzare il potere della
grazia, che si attiva e cresce nella misura in cui, con fede, usciamo a dare
noi stessi e a dare il Vangelo agli altri, a dare la poca unzione che abbiamo a
coloro che non hanno niente di niente» (Santa Messa del Crisma, 28 marzo 2013).
La
formazione permanente, allora, è un vero e proprio strumento di santificazione,
che la Chiesa offre ai suoi presbiteri e che essi sono tenuti ad accogliere
come necessario e costante completamento della propria formazione organica e
completa. Anche la formazione permanente, come quella iniziale, è chiamata a
declinarsi secondo le quattro, ormai classiche, dimensioni: quella umana, quella
spirituale, quella intellettuale e quella pastorale, con particolare
attenzione, in questo nostro tempo, al primato della formazione spirituale,
resistendo ad ogni, sempre possibile, riduzione intellettualistica della
formazione e vagliando l’efficacia della proposta formativa alla prova concreta
dell’azione pastorale e dell’impatto sul popolo. Questa prova non determina,
però, la riduzione della formazione permanente a “tecniche” o “strategie
pastorali”, ma, al contrario, ne postula la sempre maggiore qualificazione,
affinché proprio la chiarezza sull’identità e sulla missione del sacerdote
possa portare abbondanti frutti nel popolo.
Il
primato della dimensione spirituale, inoltre, carissimi confratelli,
soprattutto responsabili della formazione permanente, è ciò che sta
particolarmente a cuore a Papa Francesco, che sa bene come un reale
rinnovamento della Chiesa e dell’efficacia missionaria dell’annuncio non possa
che partire dal rinnovamento della dimensione spirituale e dal primato ad essa
concretamente riconosciuto.
**********************
È
questo il grande orizzonte, che mi ha spinto a raccogliere alcuni dei miei più
significativi interventi degli ultimi due anni nel libro “Preti nella
modernità”, che intende, offrire uno strumento di analisi, sintesi e, appunto,
formazione permanente, ai sacerdoti.
Di
particolare utilità, nella raccolta pubblicata, mi pare di poter indicare la Lectio magistralis, pronunciata a
Venezia lo scorso mese di novembre, sul rapporto tra Chiesa e modernità, e
l’ampia riflessione storica sul celibato sacerdotale nell’insegnamento
magisteriale dei Pontefici degli ultimi due secoli pronunciata ad Ars.
Nella
prima, è proposto uno dei temi cruciali della stessa indizione e celebrazione
del Concilio Ecumenico Vaticano II.
Se
siamo consapevoli che un Concilio è sempre un evento soprannaturale, guidato
dall’azione dello Spirito, non è possibile non tenere nella giusta
considerazione che una delle istanze, che ne ha determinato l’indizione, fu
rappresentata dal desiderio di meglio comprendere la “modernità” e provare a
superare lo iato che, con essa, si era sviluppato nello scorrere dei secoli. Lo
ha ricordato chiaramente il Papa emerito Benedetto XVI nella sua ultima
conversazione con il Clero romano, nella quale ha affermato: «Sapevamo che la relazione tra la Chiesa e il periodo moderno, fin
dall’inizio, era un po’ contrastante, cominciando con l’errore della Chiesa nel
caso di Galileo Galilei; si pensava di correggere questo inizio sbagliato e di
trovare di nuovo l’unione tra la Chiesa e le forze migliori del mondo, per
aprire il futuro dell’umanità, per aprire il vero progresso»
(Incontro con i Parroci e il Clero della
Diocesi di Roma, 14 febbraio 2013).
Certamente
non si propongono, nel testo, soluzioni definitivene e compiute, ma, dopo una
chiara analisi storica, filosofica e gnoseologico-esperienziale su che cosa sia
“modernità”, si tenta di delineare quale possa essere il rapporto corretto
della Chiesa e del sacerdote con essa, partendo dal principio ermeneutico
performativo dell’Incarnazione del Verbo, alla luce del quale il cristiano è
chiamato a guardare sempre ogni realtà.
In
estrema sintesi – lo troverete nel testo –, viene individuata la strada nobile
dell’incontro interpersonale, come reale via di superamento degli scontri
ideologici; in definitiva, è il recupero del concreto realismo cristiano,
contro ogni sempre possibile riduzionismo ideologico, anche all’interno della
vita ecclesiale e sacerdotale.
L’altro
contributo, al quale appena accenno e che amichevolmente vi invito a leggere, è
una riflessione storica, ma anche – credo – profondamente accorata sulla
bellezza, sull’efficacia pastorale e sulla irrinunciabilità del celibato
ecclesiastico nella vita del sacerdote. Esso è accolto ed interpretato,
innanzitutto, come imitatio Christi e
reale concretizzazione di quella che ho prima definito, con la grande
Tradizione ecclesiale, apostolica vivendi
forma. Non si tratta di una fredda norma, ma di una esigenza di un Amore
più grande per cui “chi può capire capisca”.
È
sempre più necessario, carissimi fratelli, recuperare e far recuperare a tutti
i sacerdoti che ci sono affidati, la dimensione della povertà verginale, che è
verginità nell’accogliere la volontà di Dio, piuttosto che la propria,
verginità nel servire i fratelli come Dio e come la Chiesa vuole, piuttosto che
secondo il proprio, soggettivo criterio, verginità nell’accogliere la Verità
rivelata e nel fare teologia secondo l’imprescindibile dimensione ecclesiale di
tale servizio e, da ultimo, ma principalmente, verginità come radicale e
totalizzante appartenenza a Dio, al servizio del quale siamo stati chiamati,
per la santificazione nostra e dei fratelli.
La
Vergine del “sì”, piena di grazia, accompagni il cammino del Direttorio che con
tanto amore, la Congregazione per il Clero ha voluto aggiornare e, più
modestamente, accompagni anche il camino del testo “Preti nella modernità”.