Arcidiocesi di Spoleto-Norcia

Giovedì, 9 maggio 2013

Incontro con il Clero

 

«Sacerdoti nell’Anno della Fede»

 

Conferenza del Cardinal Mauro Piacenza

Prefetto della Congregazione per il Clero

 

 

Eccellenza,

Carissimi Confratelli sacerdoti e amici,

sono particolarmente lieto di condividere con voi questa giornata di riflessione e di preghiera, nel XXV Anniversario della beatificazione del vostro confratello Don Pietro Bonilli. È sempre un particolare dono un confratello santo. È un dono, che Dio fa, oltre che all’intera Chiesa, in modo specifico a questa particolare Diocesi e, ovviamente, al suo peculiare Presbiterio.

Questo Anniversario cade felicemente all’interno dell’Anno della Fede, che, insieme, stiamo vivendo e che ha visto accadere gli storici avvenimenti, che tutti abbiamo vissuto con intensa partecipazione, nella solida certezza che Dio non abbandona mai il suo Popolo e che, sempre, lo Spirito Santo guida la Chiesa.

Avendo presente le due menzionate circostanze, desidero sviluppare la presente conversazione intorno al nucleo del carisma del beato Pietro Bonilli: “Essere famiglia, dare famiglia, costruire famiglia”.

 

 

1. Essere Chiesa (“essere famiglia”)

Nell’Anno della Fede, che desidera mettere al centro la propria adesione motivata a Cristo Salvatore del mondo, assume una particolare rilevanza il nostro essere Chiesa e il nostro essere sacerdoti al servizio della Chiesa.

In tal senso, salvaguardando l’ineludibile primato del rapporto personale con Cristo, è sempre necessario ricordare come il dono del ministero ed il suo esercizio non possano, in alcun caso, prescindere dalla loro costitutiva dimensione ecclesiale.

Siamo stati resi sacerdoti da Cristo, nella Chiesa, e siamo chiamati ad esercitare il nostro ministero, fino all’ultimo giorno della nostra terrena esistenza, nella Chiesa, per la Chiesa e con la Chiesa. Nella Chiesa di sempre, continuazione storica della comunità del Cenacolo, nella quale i Dodici sono continuamente, sia stretti intorno a Gesù, che inviati per la Missione; per la Chiesa universale, poiché ogni atto di ministero, pur localmente circoscritto, è a servizio della salvezza del mondo; e con la Chiesa, perché solo un’intensa comunione, affettiva ed effettiva, con l’intero Corpo ecclesiale, sia sacramentalmente, sia dottrinalmente e sotto il profilo della disciplina, può garantire la reale fecondità del ministero.

Solo un’autentica esperienza di figliolanza è in grado di costituire il solido fondamento, su cui costruire la famiglia ecclesiale.

Ciascuno di noi, nella sua storia sacerdotale, breve o lunga che sia, ha fatto – ed ancora, fa sempre –, rispetto a Dio Padre, l’esperienza di una figliolanza gratuitamente donata e ancora, sempre perpetuamente offerta, nonostante tutte le esperienze di “figliol prodigo”, che possiamo fare.

Esperienza di figliolanza, che sempre dobbiamo rinnovare, anche attraverso il riconoscimento della storica paternità del Vescovo, chiamato a rappresentare quel fratello, quel padre e quell’amico, al quale ogni presbitero può sempre fare riferimento e nel quale riconoscere il volto misericordioso di Dio.

In quest’Anno della Fede, nel quale ricorre anche il Cinquantesimo Anniversario dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, potremmo utilmente riprendere i contenuti del Decreto conciliare Presbyterorum Ordinis e, come è accaduto a me, nella preparazione di un recente mio commento a quel testo, pubblicato, all’interno di una nuova Collana sull’ermeneutica del Concilio, riscoprirne, non senza motivato stupore, tutta l’originalità e la freschezza dottrinale, unitamente alla sapienza ecclesiale e missionaria, suggerita dallo Spirito ai Padri.

Come sacerdoti, siamo chiamati, innanzitutto, a edificare la grande famiglia della Chiesa, per poter realmente, attraverso tale opera, edificare la nuova umanità.

Lo affermava, con straordinario spirito profetico, il Beato Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica Novo millennio ineunte, invitando a «ricostruire il tessuto ecclesiale per ricostruire il tessuto umano».

L’Anno della Fede sia allora un’occasione per sentirci profondamente immedesimati con il dono ricevuto del Sacerdozio ministeriale! Dono radicalmente soprannaturale, che – è necessario riconoscerlo con realistica umiltà – ha costituito e costituisce, ed ha costruito e costruisce il nostro stesso tessuto umano.

Al di là e prima di ogni discussione, troppo spesso demagogica ed ideologica, sulla precedenza tra evangelizzazione e promozione umana, dobbiamo noi per primi, come sacerdoti, riconoscere come la grazia soprannaturale dell’Ordinazione abbia rappresentato, per ciascuno di noi, la più grande “promozione umana” che mai ci sia accaduta. E non certo in termini di privilegi, ma di reale sviluppo del nostro “io” umano, di quelle qualità delle quali il Creatore ci ha forniti e che, proprio attraverso l’incontro con la grazia del Ministero, hanno potuto vedere una fioritura ed uno sviluppo, prima impensati ed impensabili.

Costruire la famiglia della Chiesa significa, innanzitutto, riconoscere che il Popolo di Dio, convocato dal Signore come suo vero Corpo, è il luogo principale, nel quale si sviluppa la personalità dell’uomo. Ritengo importante, anche nel decennio, che la Conferenza Episcopale Italiana ha dedicato all’emergenza educativa e all’imprescindibile compito di formare nella fede le nuove generazioni, guardare alla Chiesa, non solo nel suo aspetto istituzionale, non solo nel suo aspetto mistico e carismatico, ma anche nella sua imprescindibile dimensione pedagogica, propria del Signore stesso, il quale – ben lo sappiamo – ha voluto la Chiesa, perché l’esperienza di comunione, con lui e tra coloro che per sempre lo avrebbero seguito, permanesse visibilmente nella storia.

La Chiesa è dunque il luogo, nel quale noi per primi siamo educati alla relazione e alla comunione: alla relazione e alla comunione con Dio, e, perciò, alla relazione e alla comunione con i fratelli, sempre nell’orizzonte teologico dell’Ecclesia de Trinitate, della Chiesa, cioè, che affonda nel Mistero Trinitario le proprie radici e, da esso, continuamente, trae vigore ed alimento per camminare nella storia.

Come il Mistero trinitario si è mostrato a noi uomini nella Missione ad extra  del Figlio e dello Spirito Santo, così ciascuno di noi, che fa esperienza di Chiesa, è chiamato a vivere quella dinamicità missionaria, senza della quale non potrebbe essere considerato autentico l’incontro con Cristo, né reale l’esperienza della filiazione divina. La missione, infatti, non è principalmente un fare delle cose, ma un mostrare Dio ai fratelli, ed il primo veicolo per tale possibilità è costituito dall’unità, che noi viviamo come Chiesa, come Presbiterio, unito al Vescovo e costantemente orientato a Dio, nella propria vita e nel proprio servizio.

 

2. La famiglia sacerdotale (“dare famiglia”)

Mi sono, così, introdotto nel secondo punto della nostra riflessione. Nell’Anno della Fede, siamo chiamati a riscoprire la nostra appartenenza a Cristo, anche come Presbiterio, cioè come famiglia di “chiamati”, che vivono una intimità particolare con il Signore.

Se si intendesse ricercare uno dei contributi originali del Concilio Ecumenico Vaticano II nella riflessione sul Sacerdozio ministeriale, esso potrebbe, utilmente e facilmente, essere individuato nella teologia del Presbiterio proposta dalla Presbyterorum ordinis. Se, infatti, l’essenziale della teologia sacramentaria è integralmente recepito e adeguatamente riproposto dal Decreto conciliare, la Teologia del Presbiterio, discendente direttamente dall’ecclesiologica di comunione rettamente intesa, può rappresentare, a ragion veduta, il reale contributo di originalità, offerto dall’Assise conciliare.

Il Presbiterio non può essere ridotto ad un’associazione di uomini “single”, che si occupano o fanno cose simili. Sarebbe illegittimo teologicamente e pernicioso spiritualmente.

Il Presbiterio, al contrario, è un vero e proprio luogo teologico, vivendo e respirando nel quale, è possibile vivere e respirare la comunione soprannaturale, che deriva dalla grazia. Tale comunione non dipende, principalmente, dalle convergenze caratteriali, o dal comune umano sentire, ma dallo sguardo di fede, soprannaturale, che ciascuno è chiamato ad avere nei confronti dei propri confratelli e di se stesso.

Sono ben consapevole, anche per l’esperienza diretta del lavoro in Congregazione, di come talvolta sia complesso – e perfino arduo – riconoscere e vivere la comunione presbiterale. Per questa ragione, mi permetto di soffermarmi particolarmente su di essa, poiché rappresenta la reale misura della nostra fede, la possibilità, cioè, di ribadire sempre l’accoglienza della scelta divina di passare attraverso il limite umano, di farsi uomo per salvare gli uomini.

Proprio perché credenti in Cristo e fermi assertori del Mistero dell’Incarnazione, siamo costantemente chiamati a riconoscere e ad affermare che tale infinita prossimità divina perdura, sia nel Mistero della Chiesa, sia nel nostro specifico Presbiterio, che in essa vive e di essa continuamente si nutre.

Come, in una famiglia, ci sono un padre, una madre e dei fratelli, così, nel Presbiterio, la Madre Chiesa ci affida alla paternità del Vescovo e, come sacerdoti, ci domanda di riconoscere e di vivere una soprannaturale fraternità, che non nasce soltanto dal comune Battesimo ricevuto – che pure sarebbe più che sufficiente, per richiamarci a viverla –, ma affonda le proprie radici sacramentali nell’Ordine ricevuto e, pertanto, nella comune, ontologica configurazione a Cristo Capo e Pastore, che ci fa, in modo del tutto speciale, Suoi amici intimi.

Non può, dunque, in alcun caso, esserci inimicizia tra gli intimi amici del Signore. «Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira» ci educa a pregare la Lettura di Compieta del Mercoledì, invitandoci ad un abbandono alla comunione, che supera ogni giudizio umano, solo umano, troppo umano!

Vivere il Presbiterio come la propria famiglia di appartenenza, famiglia teologica e famiglia umana, significa anche sconfiggere definitivamente la solitudine. Molte, troppe esperienze di solitudine sacerdotale sono legate, oltre che a peculiari condizioni dell’esercizio del Ministero, anche ad una non adeguata percezione – e conseguente traduzione esistenziale – della fraternità sacerdotale.

Troppo spesso, essa non è sufficientemente ricercata come imprescindibile risorsa per il Ministero, né è sufficientemente offerta ai Fratelli una reale dimensione comunionale e di carità, pienamente coerente e discendente dalla comune configurazione a Cristo.

Carissimi sacerdoti, la fraternità deve essere innanzitutto offerta ai fratelli, deve essere domandata come dono e non può, in alcun caso, essere relegata tra le lamentazioni delle cose che non ci sono e che ci dovrebbero essere. Il vostro confratello, Beato Pietro Bonilli, vi è di esempio in questo, avendo vissuto, in tutta la sua esistenza, un’intensa esperienza di fraternità, dalla quale molti hanno potuto attingere forza e vigore spirituali.

Costruire la famiglia presbiterale, rinnovando la fede nella propria e nell’altrui consacrazione sacerdotale, è condizione imprescindibile per la riconoscibilità della nostra testimonianza a Cristo.

 

3. La famiglia laica (“costruire famiglia”)

Più volte il Santo Padre Francesco, nel suo iniziale, vivace magistero, ha fatto riferimento a tre parole, dietro le quali è possibile riconoscere l’universo cattolico di riferimento: la parola “creazione/creato”, la parola “fraternità” e la parola “tenerezza/misericordia”. Ma dove, gli uomini del nostro tempo hanno la possibilità di “imparare” queste parole? Dov’è la scuola della creazione, della fraternità, della tenerezza e della misericordia?

Dobbiamo riconoscere, con il Beato Pietro Bonilli, che la scuola di queste grandi realtà è una ed unica, ed è anch’essa voluta da Dio: è la famiglia naturale. Non è un caso se l’istituto naturale della famiglia, come insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, è stato da Cristo Signore elevato alla dignità di Sacramento, alla dignità, cioè, di segno efficace della salvezza operata da Dio per gli uomini.

Se dovessimo individuare, come Chiesa, una priorità dell’evangelizzazione, essa non potrebbe non includere il sostegno, la formazione e l’accompagnamento della famiglia.

Parafrasando quanto affermato dal Beato Giovanni Paolo II, nella Novo millennio ineunte, potremmo dire: “Ricostruire la famiglia per ricostituire il tessuto sociale”. Come sacerdoti, nati in una famiglia naturale, da essa, molto probabilmente, evangelizzati ed accompagnati nei primi passi della fede, da essa e in essa sostenuti nel nostro itinerario vocazionale, spesso anche nell’esercizio del Ministero, non possiamo non riconoscere come, proprio in questo Anno della Fede, la famiglia sia – e sempre più debba essere – al centro delle nostre preoccupazioni pastorali.

Incontrando la famiglia, noi possiamo incontrare tutti: uomini e donne, giovani e anziani, sani e malati, lavoratori e pensionati, semplici e dotti, credenti e non credenti. La famiglia, o quel che ne è rimasto, nelle nostre società profondamente secolarizzate e ferite, rappresenta, come diceva Chesterton, la cellula di resistenza all’oppressione del potere, il luogo dove, realmente, è possibile sviluppare le proprie umane potenzialità e fare, con l’aiuto della grazia, reale esperienza del Creatore, della fraternità e della tenerezza.

L’esperienza del sacro Celibato ci ha chiamato a vivere una dimensione familiare più ampia di quella semplicemente naturale e non è un caso se molti uomini e donne ci chiamano, con naturalezza, “padre”. È così! È giusto! “Padre”!

Dovremmo tremare di fronte a questo termine, poiché esso presume che si sappia cosa sia davvero generare figli nella fede; presume che siamo uomini forti, generosi, fecondi nella grazia, capaci di spenderci, fino al sangue, per il Popolo santo di Dio a noi affidato.

La Paternità di Dio non è, infatti, questione sentimentale, ma è così esigente da non risparmiare il sacrificio della Croce del Suo Figlio, per noi e per la nostra salvezza. La paternità, quella vera, è questione di lacrime, sudore e sangue, è un taglio vivo, è il costato squarciato di Cristo, dal quale, avendo dato tutto, sgorga sangue e acqua.

Dovremmo salutarmente arrossire ogni volta che veniamo chiamati “padre” e siamo distanti, interiormente e, perfino, esistenzialmente da tale paternità! Dovremmo, però, altresì esultare in un moto di profonda gratitudine, perché siamo eredi di una bimillenaria Tradizione e i nostri santi confratelli ci  hanno guadagnato questo credito presso i fedeli, che non possiamo in alcun caso disperdere con comportamenti impropri, o inadeguati.

Le famiglie del Popolo a noi affidato attendono il nostro sostegno, la nostra vicinanza, la nostra robusta guida, la nostra luminosa testimonianza, la nostra affettuosa prossimità. Quante famiglie sono state salvate da sacerdoti zelanti, quanti matrimoni non sono rovinosamente falliti, quanti figli riportati nella casa del padre!

Siamo uomini, che fanno esperienza di una straordinaria figliolanza, nella Vocazione sacerdotale, di una straordinaria fraternità nella comunione presbiterale e, dunque, siamo chiamati, con tutte le energie che il Signore ci dona, a servire l’unità della famiglia umana, attraverso la costruzione e il servizio della famiglia naturale, che oggi, come non mai, è in gravissimo e inaudito pericolo.

Domandiamo, carissimi fratelli, alla Regina degli Apostoli, che è anche Regina della Famiglia, di ravvivare, in questo Anno della Fede, la nostra esperienza ministeriale, perché il nostro “sì” incondizionato a Dio nella Chiesa sia sempre, anche un “sì” incondizionato a ciò, che Egli ci domanderà, nell’umile ascolto delle parole della dolce Madre del Cielo: «Fate ciò che Lui vi dirà».