Mercoledì
4 settembre 2013
Madrid
Incontro
con i Formatori dei Seminari Maggiori della Spagna
nel
XX Ann. di pubblicazione dell’Es. Ap. post-sinodale “Pastores
dabo vobis”
Intervento
del Card. Mauro Piacenza
Prefetto
della Congregazione per il Clero
Signor
Nunzio,
Venerati
Confratelli e Amici tutti,
È per me una profonda gioia poter
condividere con voi queste ore di riflessione e di confronto, al servizio delle
Vocazioni al Sacerdozio ministeriale, nel XX Anniversario della Pubblicazione
dell’Esortazione Apostolica post-sinodale “Pastores dabo
vobis”.
Intendo umilmente offrire, in questo mio
intervento, alcuni spunti di riflessione, che nascono sia dalla ricchezza che,
ancora, quel Documento rappresenta per la Chiesa intera, sia dalla concreta esperienza
che, dal continuo rapporto con il Clero, emerge.
Sarei lieto, al termine del mio intervento
di poter accogliere e ascoltare le vostre suggestioni, riflessioni, o domande,
per poter, insieme, approfondire quanto diremo, per poter, in modo sempre più
efficace, essere al servizio della Chiesa e, in essa, di quel cruciale quanto
affascinante compito, che è la formazione sacerdotale.
1.
Pastores dabo vobis:
cambiamento delle circostanze e attualità del Documento
La Pastores
dabo vobis - come tutti sappiamo - è il frutto maturo del
Sinodo, voluto dal Beato Giovanni Paolo II, sul tema fondamentale per la Chiesa
e per il mondo delle Vocazioni sacerdotali. Se venti anni, nella storia della
Chiesa, possono, giustamente, sembrare ben poca cosa, è tuttavia necessario
riconoscere come, nelle società contemporanee, così pesantemente caratterizzate
da una velocità di comunicazione e da una rapidità di cambiamenti, mai
sperimentati prima dall’uomo, due decenni possono anche essere paragonati a
“due secoli”: basti pensare all’uso che i candidati al Sacerdozio di oggi fanno
dei mezzi di comunicazione e alla disinvoltura con la quale, attraverso di
essi, è possibile entrare in contatto con persone e realtà, inimmaginabile
venti anni or sono.
Sarebbe un errore imperdonabile, da parte
della Chiesa - e quindi anche da parte dei responsabili della Formazione - non
prendere in seria considerazione questi mutamenti, poiché coinciderebbe con una
“estraneità alla realtà”, che l’essenza stessa del Cristianesimo ci impone di evitare
sempre.
Al tempo stesso, sarebbe un errore
rincorrere goffamente tutte e singole le novità sociali, culturali e perfino
informatiche, pensando di poter, per questo, intercettare i giovani, dando loro
quel nuovo orizzonte, dentro il quale può essere ascoltata la Chiamata del
Signore.
In questo Anno della Fede, che ormai volge
al suo termine, non possiamo non considerare come la Pastores
dabo vobis abbia avuto il grande merito di indicare, con
chiarezza, gli ambiti imprescindibili della formazione sacerdotale, legandoli
alla vita concreta delle Comunità: sia della Comunità del Seminario, sia delle
concrete Comunità cristiane di provenienza e di servizio dei Seminaristi.
Non è questo il momento, nè certo la
circostanza, per ricordare a voi, che ben li conoscete, i contenuti
dell’Esortazione Apostolica. Un aspetto, tuttavia, ritengo assolutamente
imprescindibile e desidero considerarlo insieme a voi: il rapporto tra fede e
Vocazione. Esso è un rapporto genetico, poiché un’autentica Vocazione al
Ministero ordinato non può che nascere in una vita di fede; è un rapporto
generativo, poiché la Vocazione “produce” un nuovo modo di credere e di
relazionarsi col Mistero; ed è, infine, un rapporto reciprocamente
performativo, poiché la fede acquista sempre una nuova forma nell’approfondirsi
e nel dipanarsi della Vocazione e, nel contempo, la Vocazione è continuamente
plasmata, definita e nutrita dalla fede.
Prescindendo da questo orizzonte genetico,
generativo e performativo, ogni discorso sulla Vocazione, sulla pastorale
vocazionale e sui necessari interventi per rispondere, per quanto umanamente
possibile, alla “emergenza vocazionale” dell’Occidente, sarebbe privo, non
solo, di fondamento, ma anche di orizzonte.
Dobbiamo, come pastori e come responsabili
della formazione, in piena coerenza con quanto indicato, vent’anni or sono,
dalla Pastores dabo vobis,
riconoscere che il problema non è la “presunta mancanza di vocazioni”, ma il
problema è e rimane la fede! La fede delle famiglie, la fede delle comunità
cristiane, la fede dei pastori, l’ardore missionario che deve conseguire a tale
fede!
In questo senso va interpretato
l’insegnamento della Pastores dabo vobis
e il salutare richiamo che, costantemente, il Santo Padre Francesco rivolge a
tutta la Chiesa, sottolineando sia l’imprescindibile rapporto tra “il pastore e
le sue pecore”, cioè tra il sacerdote e la comunità credente, dalla quale egli
proviene ed alla quale è mandato, sia il necessario primato della vita
spirituale, che lega il sacerdote a Dio e, perciò, lo pone al servizio del
Popolo.
Questo duplice ancoraggio a Dio e alla
comunità concreta, alle pecore a noi affidate e al Pastore Supremo delle
pecore, che è Cristo Signore - perché alla fine il pastore è Lui e va ricordato
- permette al sacerdote, “pastore vicario” di evitare accuratamente quelle
derive funzionalistiche, che finiscono per legare la bontà del ministero - e
perfino la sua verità - agli esiti pastorali, determinando non pochi
disorientamenti nei sacerdoti e, conseguente, possibile disaffezione nei
giovani.
La “Pastores dabo
vobis”, in un’epoca non priva di turbolenze e di
tensioni ermeneutiche, afferma con chiarezza sia la natura sacramentale della
Chiesa, sia la necessità e l’insurrogabilità del sacerdozio ministeriale, che
differisce, essenzialmente e non solo per grado, da quello comune. Se questi
dati sono per noi acquisiti e appartengono all’ordinario bagaglio teologico,
dottrinale e spirituale di ciascun sacerdote, non è privo di rilievo il fatto
che l’Esortazione - e con essa i Padri sinodali - abbia avvertito l’esigenza di
ribadirlo e - ben lo sappiamo - lo stesso fanno il Catechismo della Chiesa
Cattolica ed il suo Compendio.
La natura sacramentale della Chiesa ci
spinge a riconoscerne quotidianamente, nel nostro stesso essere ed agire, la
natura misterica e teandrica: la Chiesa è la Presenza del Risorto nel tempo e
nella storia e, di tale presenza, ciascun battezzato è testimone, innanzitutto,
con l’annuncio della verità di cui è reso partecipe e, insieme, con l’aiuto
della grazia, attraverso la continua testimonianza della propria esistenza.
Prescindendo da tale natura sacramentale-soprannaturale della Chiesa, diventa
incomprensibile il rapporto del sacerdote con il suo ministero. Esso non è,
innanzitutto, un compito al quale assolvere, o delle funzioni da svolgere; al
contrario, è una vita nella quale egli è stato preso, nella quale è immerso e
della quale, concretamente, vive.
In questo senso, il ministero sacerdotale e
la pastorale vocazionale, alla quale vogliamo e dobbiamo guardare, sono mistero
a noi stessi. Mistero della nostra libertà che ha aderito alla grazia che ci
chiamava e che, ogni giorno rinnova la sua chiamata, e mistero della libertà di
ciascun giovane, che, toccato dalla grazia, apre il suo cuore alla Vocazione.
2.
La pastorale vocazionale nell’orizzonte della preghiera
Dalla natura
sacramentale della Chiesa e dall’insurrogabilità del sacerdozio ministeriale,
come Vocazione soprannaturale rivolta da Dio all’uomo, deriva il primato
assoluto della preghiera nella pastorale vocazionale. Che cosa intendo per
preghiera? Molto semplicemente, la preghiera personale per le Vocazioni: un
Vescovo, che non ha vocazioni, deve chiedersi quante ore al giorno prega per
averle! Un Rettore, che non ha vocazioni deve fare lo stesso. Accanto alla
preghiera personale è necessario animare la preghiera comunitaria per le
Vocazioni e non solo - come spesso si sente dire - per sensibilizzare il Popolo
di Dio e i giovani (perché questo sembrerebbe uno spot pubblicitario e i Santo
Padre Francesco ha avuto parole inequivocabili nello stigmatizzare questa
tentazione) - ma per la fede granitica che dobbiamo avere nella forza della
preghiera e nella forza dirompente della preghiera comunitaria: «Dove sono due
o tre riuniti nel mio Nome, lì io sono in mezzo a loro» (Mt
18,20).
Quando è stata l’ultima volta, che abbiamo
celebrato una Santa Messa per le Vocazioni agli Ordini sacri, o che l’abbiamo
fatta celebrare?
In ogni parrocchia, ci vorrebbe, per
esempio, un’ora di adorazione eucaristica settimanale, solo per le Vocazioni.
In ogni Diocesi, un centro di adorazione eucaristica perpetua, nel quale far
convergere le migliori energie della pastorale giovanile, perché stando davanti
al Maestro, i giovani possano sentire dalla Sua dolcissima Voce pronunciare il
proprio nome; le Vocazioni sacerdotali devono essere implorate dall’intero
Popolo di Dio nelle Sante Messe festive, anche con specifiche intenzioni nella
preghiera dei fedeli imperate dal Vescovo; è necessario curare i germogli
vocazionali dei ministranti, dei giovani nelle scuole, attraverso docenti di
religione, che non diano scandalo, magari chiacchierando del più e del meno, ma
siano di esempio; infine, per non allontanare coloro che Dio chiama, è
necessaria la tenuta del Seminario! È necessario che il Seminario sia una reale
Comunità cristiana, un luogo nel quale Cristo è il Protagonista, il Vangelo è
annunciato e vissuto, la Tradizione ricevuta, elaborata e autenticamente
proposta, il tutto in una Liturgia realmente capace di far fare ai giovani
esperienza del Mistero, introducendoli progressivamente e motivatamente in quei
gesti, dei quali, a suo tempo, saranno resi strumenti.
In tal senso, è necessario non aver timore
di una selezione radicale, soprattutto laddove i margini della formazione umana
non sono delineabili, o, altrettanto gravemente, quelli della formazione
spirituale non progrediscono in modo adeguato.
In tal senso, è necessario riconoscere come
i giovani del nostro tempo, anche senza propria colpa, siano particolarmente
fragili dal punto di vista psico-affettivo. La provenienza da famiglie
“irregolari”, l’insicurezza di non essere stati amati nei primi anni
dell’infanzia, il moltiplicarsi di esperienze affettive improvvisate e perfino
disordinate, genera una quasi incapacità di utilizzare adeguatamente il
linguaggio del corpo e, paradossalmente, la quasi separazione tra quanto
vissuto con il corpo e quanto compreso con l’intelligenza, scelto con la
libertà, ma non attuato con la volontà.
È necessario vigilare perché la formazione
affettiva sia presa in serissima considerazione, nell’umile consapevolezza che
nessun uomo, in questa fase terrena dell’esistenza è pienamente integrato a
livello affettivo e nell’altrettanto realistica e lucida assunzione di
responsabilità riguardo alla distanza, che ormai potremmo definire “siderale”,
tra l’antropologia cristiana e il comune vivere sociale. Siamo ancora, forse,
in una “fascia grigia”, nella quale i cristiani non sono ancora sparuta
minoranza, ma sono già estranei alla cultura. Ciò non riguarda soltanto la
Vocazione sacerdotale, o alla vita consacrata, che include la vertiginosa
testimonianza della verginità per il Regno dei Cieli, ma anche l’ordinario modo
umano di vivere la sessualità ed i rapporti interpersonali tra uomo e donna, all’interno
di legami stabili, univoci e aperti alla vita.
In questo senso, è necessario che, alla
clamorosa fragilità affettiva, di fronte alla quale ci troviamo, si risponda
con una proposta formativa radicale, teologicamente fondata in una compiuta
cristologia e in una conseguente chiara e luminosa ecclesiologia. Il celibato
non è, in alcun caso, il “prezzo da pagare” per diventare funzionari di
un’organizzazione non governativa, condannata ad estinguersi! Esso, al
contrario, è “imitatio Christi”;
è la prosecuzione, nel tempo e nella storia, di quella apostolica
vivendi forma, il modo di vita degli apostoli, che ha
caratterizzato la Chiesa primitiva: stretti intorno a Gesù, totalmente relativi
a Lui e, perciò, autenticamente testimoni e missionari.
La vocazione al celibato si accoglie nella
preghiera, si matura nella preghiera, sia sceglie nella preghiera, si implora
continuamente nella preghiera e, perfino, si ripara nella preghiera. Gli
apostoli stavano di fronte al Maestro e, guardando a Lui, vedevano la ragione
del proprio modo di vivere: la preghiera è stare di fronte al Maestro, la
preghiera è guardare a Lui, la preghiera è ricevere le ragioni del proprio modo
di vivere.
Da tale contesto emerge immediatamente il
profondo legame tra formazione umana e formazione spirituale, la reciprocità
circolare tra guarigione dell’affettività ferita e apertura orante dell’animo
del chiamato. Potremmo dire, paradossalmente, che esiste una reciprocità nel
primato tra formazione umana e formazione spirituale: le due non sono
separabili e, pur nella doverosa distinzione, camminano insieme, sicché il
rapporto con Cristo diviene il reale baricentro anche della vita affettiva ed
orienta le energie affettive al rapporto con Cristo, al servizio alla Chiesa e
ai fratelli.
Dal primato della preghiera e dalla
radicalità della formazione, derivano quella schietta obbedienza e
quell’autentica povertà, alla quale, secondo il proprio stato, anche il
sacerdote è chiamato. Egli è - potremmo dire - come il “rubinetto della
redenzione”, attraverso di lui il “no” di Adamo diviene il “sì” di Cristo,
rinnovato nella concreta volontà di conversione personale e di ciascun fedele.
Se la fonte inestinguibile della Redenzione
è Cristo, il sacerdote non può e non deve porre ostacoli al flusso della
grazia, in se stesso e per i fratelli. Per tale ragione, egli è continuamente
in contatto con la comunità nella quale vive, perché essa è il luogo nella
quale la grazia sia attua, e rifugge ogni forma di isolamento ed ogni
spiritualità auto-referenziale, che porti a ripiegarsi su se stessi, perdendo
di vista l’orizzonte ampio della Chiesa e del mondo.
Anche la povertà, in questo senso, è da
riscoprire non come demagogico pauperismo, ma come autentico distacco da se
stessi, dagli altri - che sono da servire e non da usare - e dalle cose; la
povertà è segno dell’autentica libertà interiore del sacerdote e coincide con
il porre tutti i beni al servizio del ministero, anche - perché no? - al
servizio delle Vocazioni.
3.
Pastorale vocazionale e anno propedeutico
In un contesto ecclesiale, che ponga al
proprio centro la preghiera per le vocazioni e in quella che oggi, più che mai,
viene definita “pastorale integrata”, appare sempre maggiormente evidente come
quella che chiamiamo pastorale vocazionale debba essere posta in profonda
relazione, non solo, con la pastorale giovanile, ma anche con quella familiare,
scolastica e universitaria.
Se, come detto all’inizio di questo
intervento, l’orizzonte delle vocazioni è la fede, non possiamo non riconoscere
come la cura attenta della pastorale giovanile ed il sostegno alle famiglie
cristiane, capaci di educare i propri figli alla Vocazione, siano presupposti
indispensabili per porre i nostri giovani fratelli nella condizione di poter
ascoltare la Chiamata del Signore.
È sotto gli occhi di tutti come, al di là
del concreto giudizio di merito che ciascuno possa dare delle varie realtà
ecclesiali, movimenti e nuove comunità, laddove ci siano famiglie credenti e
numerose, perché aperte alla vita, sia più facile vedere germogliare qualche
Vocazione. Nel contempo, laddove Cristo è vissuto come il centro dell’esistenza
ed è proposto come esperienza di reale compimento umano e dilatazione della
ragione e del cuore diviene quasi naturale ciò che, in realtà, è totalmente
soprannaturale: pronunciare il proprio “sì”.
Non devono esserci solchi, né crateri, né “kenion”
tra pastorale vocazionale ed anno propedeutico, né tra anno propedeutico e
Seminario. Tutto dovrebbe essere vissuto nella più armoniosa continuità,
discernendo tra ciò che è uomo vecchio, e dal quale è necessario radicalmente
separarsi, e ciò che appartiene invece alla storia salvifica di ciascuno e che
deve essere, necessariamente, integrato in un orizzonte più grande di vita e di
ministero.
Ciascun formatore deve sapere di non essere
e di non poter essere l’orizzonte ultimo di riferimento di un giovane.
L’orizzonte è e rimane Cristo. L’orizzonte è e rimane Cristo Vivo nella Chiesa
e tutti noi siamo al servizio di questo riconoscimento e siamo chiamati,
continuamente, con il nostro ministero e dilatare - e mai a restringere -
l’orizzonte, che Cristo dona.
In tal senso, l’anno propedeutico può essere
un ottimo cantiere, per poi poter affrontare gli anni di filosofia e di
teologia, con una mens positivamente
recettiva ed insieme sanamente critica: dovrebbe essere l’anno nel quale, ad
esempio, si trasmettono gli elementi dottrinali di base, che, fino a trenta,
quarant’anni fa potevano essere scontati in ogni giovane, e che oggi,
purtroppo, possono anche essergli del tutto estranei; può essere il tempo dei
tagli con il mondo, con l’uomo vecchio e con tutto ciò che lega e perfino
incatena all’uomo vecchio: abitudini di vita, ambienti frequentati, persone
frequentate, amicizie ambigue, abitudini che nulla hanno a che fare con uno
stile umano, cristiano e, poi, sacerdotale. L’anno propedeutico raggiungerebbe
già un grande risultato se riuscisse ad accompagnare un giovane “del” mondo a
divenire di Cristo “nel” mondo. Siamo consapevoli che un anno non può bastare
per recuperare decenni di eventuale lontananza dalla mens
cristiana; tuttavia, la chiarezza della proposta, la
coerenza della vita comunitaria e la qualità della formazione spirituale,
adeguatamente corroborate dalla grazia e dalla naturale, ampia generosità che i
primi germi vocazionali determinano nel cuore di chi si dichiude al sì a Cristo
potranno fare il resto.
Ben sappiamo, fratelli carissimi, come i
primi giorni, le prime settimane i primi mesi di una Vocazione, possano essere
cruciali per orientarne l’intero cammino. E se la grazia di Dio è sempre più
grande dei limiti e degli errori umani, anche dei formatori, è necessario saper
cogliere la preziosità di ciò che Cristo pone tra le nostre mani, perché non ci
accada, un giorno, di essere accusati dal Signore di aver sprecato la Sua
grazia, o di aver soffocato anche solo una delle Vocazioni che Lui ha
suscitato.
*
* * * * * *
Perché ci sia un’adeguata ripresa
vocazionale è necessario, sottolineare con forza e determinazione il primato
della preghiera personale e comunitaria; è necessario formare preti umili,
perché coscienti del Mistero che è in loro e consapevoli che il loro Sacerdozio
è al servizio del Popolo di Dio, come ci ha ricordato Papa Francesco, “sono
unti per ungere il Popolo”, e che, per essere totalmente al servizio del Popolo
di Dio a loro affidato, devono essere interamente di Dio, relativi a Lui,
immersi in Lui, appartenenti a Lui. Soltanto una grande, autentica e profonda
spiritualità sacerdotale si può tradurre in affascinante missionarietà; affascinante,
non di “appeal” umano, ma di quell’irresistibile forza attrattiva, che il
Signore ha profetizzato dicendo: «Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti
a me» (Gv 12,32).
Affidiamo alla Beata Vergine Maria, Regina
degli Apostoli e Madre di ogni Vocazione, il nostro servizio al Clero e alle
Vocazioni. Maria, che ha portato nel Suo grembo il Figlio di Dio incarnato,
Unico ed Eterno Sacerdote, è anche simbolicamente il primo Seminario della
storia. È questo il mio augurio per ciascuno dei vostri Seminari: siano grembi
mariani, che donano alla Chiesa santi sacerdoti!