«Il clericalismo fa male ai preti e ai laici»

Intervista con il Prefetto della Congregazione del clero, il neo-cardinale Beniamino Stella: «Non dimentichiamoci che l'essere chierici è una vocazione che ci avvicina alla gente»

ANDREA TORNIELLI
Città del Vaticano

La nomina a cardinale, la lettera del Papa ai nuovi porporati, il lavoro della Congregazione, l'identikit del prete e il rischio del clericalismo: il Prefetto Beniamino Stella, a pochi giorni dal concistoro nel quale riceverà la berretta rossa, parla con «Vatican Insider» di questi primi mesi di lavoro alla guida del dicastero che si occupa dei sacerdoti.

Come ha appreso della sua nomina a cardinale?

«La vigilia dell’annuncio, sabato 11 gennaio, ho avuto un’udienza ordinaria, “di tabella”, con il Papa, ed abbiamo parlato a lungo riguardo agli impegni del dicastero. Alla fine, prima di congedarmi, il Santo Padre mi ha detto che il mio nome sarebbe stato nella lista dei nuovi cardinali, che avrebbe reso pubblica il giorno seguente. Mi ha comunicato la notizia con semplicità, con serenità. Ricordo in special modo un dettaglio: mi ha informato della nomina guardandomi in profondità, dritto negli occhi, come per dirmi “coraggio, il buon Dio l’aiuterà”. È stato per me un momento di grande intensità interiore, pensando a questo nuovo impegno di vita, che mi pone in diretta collaborazione con il Papa, nel dicastero e in altre mansioni».

Che cosa pensa della lettera che Papa Francesco ha inviato a tutti nuovi porporati?

«È stata per me graditissima. Non mi ha sorpreso, perché è nello stile del Papa, il quale ci invita ad essere autentici, sobri e gioiosi. È una lettera che mi ha fatto molto bene. Mi ha ricordato quel messaggio fondamentale del Vangelo, per il quale Gesù viene nel mondo povero ed umile. Il Santo Padre, infatti, parlando della “via dell’abbassamento”, ci invita ad avere nel cuore i sentimenti di Gesù, che si è fatto innanzitutto umile servo. Papa Francesco ci raccomanda anche di ricevere questa nomina “con gaudio e gioia”, due termini che possono sembrare sinonimi. Preferirei leggere la parola “gaudio” pensando alla letizia del cuore, mentre la “gioia” sta forse ad indicare un volto sereno e capace di sorridere. In ogni caso, è importante la gioia di chi sa dire grazie, innanzitutto a Dio, e allo stesso Sommo Pontefice: la gioia della gratitudine.

Può spiegare brevemente quali compiti svolge la Congregazione per il Clero?

«Dalla Costituzione “Pastor Bonus” fino ad oggi, i compiti del dicastero hanno subito diverse modifiche. Tra le competenze attuali ci sono tematiche tradizionali, come i cosiddetti ricorsi gerarchici, che riguardano in particolar modo le relazioni tra preti e vescovi. Al riguardo, raccomanderei loro di tentare sempre di arrivare ad un accordo pacificamente, cercando soluzioni quanto più possibile consensuali, dove l’umanità, la carità e la giustizia vadano insieme. C’è inoltre l’ampio ambito delle dispense dagli obblighi derivanti dall’ordinazione, concesse a coloro che hanno abbandonato in modo irreversibile la condizione di chierici (diaconi e preti). Accennerei inoltre all’ambito patrimoniale delle diocesi, riguardo al quale esiste una regolamentazione specifica e assai dettagliata, che invito a conoscere bene. Ma vorrei sottolineare un punto per me fondamentale, al quale desidero dare speciale rilevanza: la promozione della vita e della missione dei ministri del Vangelo».

 E come si attua?

 «Tento di farlo in ogni modo, soprattutto negli incontri che ho spesso con i vescovi, raccomandando vivamente che siano vicini al loro clero, come padri, amici e fratelli. Sono parole molto impegnative, che devono avverarsi, in maniera che i preti e i diaconi avvertano che stanno percorrendo un cammino bello, degno di essere vissuto, com’è quello del seguire il Signore Gesù, annunciando il Suo nome e testimoniando gioiosamente il Suo Amore».

 Quanto è importante la formazione permanente del clero?

 «Moltissimo. Per svolgere questo compito desidererei che fossero i preti e i diaconi stessi, così come i vescovi, ad avvertirne la grande necessità ed urgenza, considerandola come una vera priorità nella loro vita. Il mondo ha bisogno di evangelizzatori che si distinguano per santità di vita, ma anche per la loro cultura e la retta dottrina, capaci di rendere testimonianza, con il cuore e con la mente, della speranza che li inabita di fronte alle sfide dei nostri tempi. Per dare concretezza a questa sensibilità esistono certamente vari strumenti, che la Chiesa da sempre raccomanda ai suoi pastori. Innanzitutto i ritiri e gli esercizi spirituali, ma anche quella disponibilità quotidiana allo studio e al lasciarsi interrogare dalle situazioni in cui l’esercizio del ministero induce a cercare nuove risposte alla luce del Vangelo. Vorrei ripetere infine che ho sempre un particolare pensiero anche per i diaconi che, in quanto chierici, rientrano nella competenza di questo dicastero. Essi hanno un ruolo molto importante, e vorrei che sperimentassero la gioia e la responsabilità di servire la Chiesa, soprattutto i poveri, con lo sguardo e il cuore fissi sempre nel Signore Gesù.

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Si è parlato più volte di una «crisi d’identità» del prete nella società contemporanea. Può tracciare una sorta di identikit del sacerdote?

 «In fondo, il sacerdote esiste per fare ciò che faceva Gesù. Egli, di fronte allo sguardo dei malati e di tutti coloro che lo cercavano, mostrava sempre il volto misericordioso di Dio Padre, sanando le anime, perdonando i peccati, annunciando il Regno dei Cieli, senza cacciare nessuno, ma sempre intercettando in profondità i loro bisogni ed aiutandoli a crescere. Direi, dunque, che il sacerdote è colui che desidera ogni giorno, anche con sacrificio, conformarsi a Gesù, che ha fatto della volontà del Padre il suo cibo quotidiano. Noi sacerdoti non dobbiamo dimenticare mai di essere “uno con Gesù” per continuare la sua missione in mezzo agli uomini. Questo ci porta a dare una priorità all’“essere preti”, rispetto al “fare i preti”, altrimenti si cade in un attivismo dispersivo e nocivo».

Che cos'è necessario per poter essere preti in questo modo?

«Occorre avere un’anima sacerdotale, da veri pastori, per esercitare bene il ministero, con quella carità pastorale, che deve essere l’aspetto che brilla di più nella vita di un prete. Per questo, innanzitutto, bisogna vivere vicino al Signore, nella preghiera, quella liturgica e quella personale, portando avanti una vita austera, disponibile ai bisognosi, con mansuetudine di spirito, con intenso amore alla Chiesa, nostra madre, agendo sempre con rettitudine e trasparenza. È necessario che tutti possano vedere in noi dei servitori, persone che hanno posto al centro della loro vita non interessi personali, ma Gesù e il suo Vangelo. Altrimenti rischiamo di diventare funzionari del culto e amministratori di strutture, più che pastori secondo il Cuore di Cristo».

 La sua Congregazione ha da poco ricevuto la competenza sui Seminari e dunque sulla formazione dei nuovi preti. Nel dialogo con i Superiori degli ordini religiosi, Papa Francesco ha detto: «Dobbiamo formare il cuore. Altrimenti formiamo dei piccoli mostri…». Che cosa significa «formare il cuore»?

 «Riguardo i Seminari, vorrei dire che si tratta di un campo molto impegnativo e fondamentale, al tempo stesso. Il dicastero ha cominciato a lavorare in questo settore solo di recente. Sono consapevole però che non comincio da zero. Mi sento erede di un lungo cammino, di tanti sforzi e belle iniziative. E qui direi che ho a cuore, soprattutto, il tema della selezione dei candidati al sacerdozio, l’importanza della qualità più che della quantità, l’importanza di non affrettarsi nella loro formazione, facendo in modo che sia la più accurata possibile. I seminaristi sono un seme di speranza. Se abbiamo buoni seminaristi oggi, con ogni probabilità, avremo buoni preti domani. Sottolineerei, dunque, l’importanza di aiutarli a conformare il loro cuore ai sentimenti di Cristo; che Cristo diventi per ogni seminarista lo specchio dove guardare, il modello da seguire, la voce da ascoltare, la luce che illumina, il balsamo che guarisce, la via da percorrere sempre e dovunque. Se guardiamo il Cuore di Gesù vediamo che è pieno di carità, di compassione e perdono, un Cuore abituato a condividere le gioie e le sofferenze della gente, un Cuore pieno di rispetto verso gli altri. Mi pare che questa breve riflessione  possa in qualche modo interpretare l’affermazione del Santo Padre».

Il Papa ha più volte messo in guardia dal rischio del clericalismo. Che cos’è e come lo vede il Prefetto della Congregazione per il Clero?

«“Clericalismo” è una parola divenuta molto presente sulla bocca del Papa, in questi mesi. Credo di poter interpretare bene la mente del Santo Padre se affermo che “clericale” è il prete che vuole comandare, che dà ordini, che sa sempre tutto, chiudendosi in se stesso e non permettendo che altri collaborino nella missione della Chiesa. Clericale è il prete chiuso in se stesso, nei propri orizzonti, che non consulta, che non dà spazio agli altri, soprattutto ai laici, non riconoscendo il suo ruolo fondamentale nella missione della Chiesa. Talvolta, un simile prete ritiene di poter dominare, soprattutto i poveri e gli ignoranti, e di appartenere in qualche misura ad una casta, attribuendosi privilegi e poteri. Il “clericalismo” fa male ai preti, perché genera una distorsione della loro missione, e fa male ai laici, perché impedisce la loro crescita come cristiani adulti. Questa parola, “clericalismo”, invita noi preti, ogni giorno, a fare un forte esame di coscienza, perché non ci capiti di dimenticare che l’essere chierici è per noi la condizione per una più efficace testimonianza e dedizione alla nostra vocazione, e mai uno status che ci separa dalla gente, ci rende distanti e magari ci fa sentire un gradino più in alto. Sono, questi, veri rischi per il ministero pastorale,  da cui dobbiamo guardarci e, per esserne curati, guardare il Crocifisso, guardare la Madonna, umile, silenziosa, capace di ascoltare, di soffrire e di donarsi. Spero che tutti – anch’io – possiamo, ogni giorno con l’aiuto di Dio, percorrere questo cammino».