Giornata di preghiera per la santificazione del clero

Incontro diocesi di Benevento

19 giugno 2014

 

Anzitutto vi ringrazio il vostro invito a partecipare con voi da questa Giornata di preghiera per la santificazione del clero.

 

Vorrei porre l’accento su alcuni elementi che riguardano la nostra identità come sacerdoti. Chi è il sacerdote oggi? Chi sono io come persona umana e allo stesso tempo come prete? Oggi vale la pena o no essere prete?  Come “fare” (essere) prete oggi? A queste domande e altre tante simili che a volte nascono nei nostri cuori, nella Chiesa e nel mondo odierno, cercheremo di rispondere in questo momento, offrendo alcuni elementi concreti para la nostra vita e ministeri come prete, secondo Papa Francesco.

 

1.    Chi è il prete?

 

Il prete è una persona piccola, povera, inutile servo; ma assistito dalla Grazia di Dio. Il prete è un uomo di cuore grande e piccolo; forte e debole; santo e peccatore; è una persona che cerca Dio, ma allo stesso tempo a se stesso. Per trovare l’identità sacerdotale bisogna uscire da se stessi e appartenere a Dio e al gregge affidato.

 

“Il sacerdote è una persona molto piccola: l’incommensurabile grandezza del dono che ci è dato per il ministero ci relega tra i più piccoli degli uomini. Il sacerdote è il più povero degli uomini se Gesù non lo arricchisce con la sua povertà, è il più inutile servo se Gesù non lo chiama amico, il più stolto degli uomini se Gesù non lo istruisce pazientemente come Pietro, il più indifeso dei cristiani se il Buon Pastore non lo fortifica in mezzo al gregge. Nessuno è più piccolo di un sacerdote lasciato alle sue sole forze”[1].

 

“Molti, parlando della crisi di identità sacerdotale, non tengono conto che l’identità presuppone appartenenza. Non c’è identità – e pertanto gioia di vivere – senza appartenenza attiva e impegnata al popolo fedele di Dio”[2].

 

“Il sacerdote che pretende di trovare l’identità sacerdotale indagando introspettivamente nella propria interiorità forse non trova altro che segnali che dicono "uscita": esci da te stesso, esci in cerca di Dio nell’adorazione, esci e dai al tuo popolo ciò che ti è stato affidato, e il tuo popolo avrà cura di farti sentire e gustare chi sei, come ti chiami, qual è la tua identità e ti farà gioire con il cento per uno che il Signore ha promesso ai suoi servi. Se non esci da te stesso, l’olio diventa rancido e l’unzione non può essere feconda” [3].

2. La gioia di essere prete[4]

 

La gioia di essere preti è un dono da ricevere e da  condividere. È un dono per lui e per gli altri.

 

Il Signore ci ha unto in Cristo con olio di gioia e questa unzione ci invita a ricevere e a farci carico di questo grande dono: la gioia, la letizia sacerdotale. La gioia del sacerdote è un bene prezioso non solo per lui ma anche per tutto il popolo fedele di Dio: quel popolo fedele in mezzo al quale è chiamato il sacerdote per essere unto e al quale è inviato per ungere.

 

Tre caratteristiche significative nella nostra gioia sacerdotale: è una gioia che ci unge (non che ci rende untuosi, sontuosi e presuntuosi), è una gioia incorruttibile ed è una gioia missionaria che si irradia a tutti e attira tutti, cominciando alla rovescia: dai più lontani.

 

2.1 Una gioia che ci unge

 

La grazia con cui il sacerdote è unto il giorno dell’ordinazione, è piena e abbondante, e tocca tutta la sua persona. Il sacerdote, come tutti i battezzati, è un “Alter Cristus”.

 

Vale a dire: è penetrata nell’intimo del nostro cuore, lo ha configurato e fortificato sacramentalmente. I segni della liturgia dell’ordinazione ci parlano del desiderio materno che ha la Chiesa di trasmettere e comunicare tutto ciò che il Signore ci ha dato: l’imposizione delle mani, l’unzione con il santo Crisma, il rivestire con i paramenti sacri, la partecipazione immediata alla prima Consacrazione… La grazia ci colma e si effonde integra, abbondante e piena in ciascun sacerdote. Unti fino alle ossa… e la nostra gioia, che sgorga da dentro, è l’eco di questa unzione.

 

2.2 Una gioia incorruttibile

 

La gioia del sacerdozio è un dono che mai finisce; e che bisogna rinnovare ogni giorno.

 

L’integrità del Dono, alla quale nessuno può togliere né aggiungere nulla, è fonte incessante di gioia: una gioia incorruttibile, che il Signore ha promesso che nessuno potrà togliercela (cfr Gv 16,22). Può essere addormentata o soffocata dal peccato o dalle preoccupazioni della vita ma, nel profondo, rimane intatta come la brace di un ceppo bruciato sotto le ceneri, e sempre può essere rinnovata. La raccomandazione di Paolo a Timoteo rimane sempre attuale: Ti ricordo di ravvivare il fuoco del dono di Dio che è in te per l’imposizione delle mie mani (cfr 2 Tm 1,6).

 

2.3 Una gioia missionaria

 

La gioia del sacerdozio non è un dono per se stessi ma per gli altri. Quando si condivide il dono del sacerdozio, ha senso essere prete.  Cosi come a una comunità senza prete le manca qualcosa, neppure si capisce un prete senza comunità. Il prete assiste la comunità; e a sua volta questa sostiene al prete; si aiutano a vicenda nella loro santificazione.

 

Questa terza caratteristica la voglio condividere e sottolineare in modo speciale: la gioia del sacerdote è posta in intima relazione con il santo popolo fedele di Dio perché si tratta di una gioia eminentemente missionaria. L’unzione è in ordine a ungere il santo popolo fedele di Dio: per battezzare e confermare, per curare e consacrare, per benedire, per consolare ed evangelizzare.

 

“La sua unzione è per i poveri, per i prigionieri, per i malati e per quelli che sono tristi e soli. L’unzione, cari fratelli, non è per profumare noi stessi e tanto meno perché la conserviamo in un’ampolla, perché l’olio diventerebbe rancido … e il cuore amaro”[5].

 

“Il sacerdote che esce poco da sé, che unge poco - non dico “niente” perché, grazie a Dio, la gente ci ruba l’unzione - si perde il meglio del nostro popolo, quello che è capace di attivare la parte più profonda del suo cuore presbiterale. Chi non esce da sé, invece di essere mediatore, diventa a poco a poco un intermediario, un gestore. Tutti conosciamo la differenza: l’intermediario e il gestore “hanno già la loro paga” e siccome non mettono in gioco la propria pelle e il proprio cuore, non ricevono un ringraziamento affettuoso, che nasce dal cuore. Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” - questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore” [6].

 

“Il pastore che fa crescere il suo popolo e che va sempre con il suo popolo. Alcune volte, il pastore deve andare avanti, per indicare la strada; altre volte, in mezzo, per conoscere cosa succede; tante volte, dietro, per aiutare a quegli ultimi e anche per seguire il fiuto delle pecore che sanno dove c’è l’erba buona”[7].

 

E poiché è una gioia che fluisce solo quando il pastore sta in mezzo al suo gregge (anche nel silenzio della preghiera, il pastore che adora il Padre è in mezzo alle sue pecorelle) e per questo è una "gioia custodita" da questo stesso gregge. Anche nei momenti di tristezza, in cui tutto sembra oscurarsi e la vertigine dell’isolamento ci seduce, quei momenti apatici e noiosi che a volte ci colgono nella vita sacerdotale (e attraverso i quali anch’io sono passato), persino in questi momenti il popolo di Dio è capace di custodire la gioia, è capace di proteggerti, di abbracciarti, di aiutarti ad aprire il cuore e ritrovare una gioia rinnovata.

 

3. Tre sorelle della gioia sacerdotale

 

Povertà, fedeltà e obbedienza sono dei mezzi per vivere la sequela di Cristo e giungere alla santificazione nel ministero sacerdotale.

 

3.1 Povertà

 

Da Cristo il sacerdote impara e riesce a essere povero. La sua ricchezza è vivere la povertà di Cristo. Un sacerdote autosufficiente è un miserabile. Soltanto un sacerdote povero riesce ad arricchirsi e ad arricchire agli altri. Soldi e vanità: due peccati che il gregge non perdona facilmente al prete.

 

La povertà di Cristo che ci arricchisce è il suo farsi carne, il suo prendere su di sé le nostre debolezze, i nostri peccati, comunicandoci la misericordia infinita di Dio. La povertà di Cristo è la più grande ricchezza: Gesù è ricco della sua sconfinata fiducia in Dio Padre, dell’affidarsi a Lui in ogni momento, cercando sempre e solo la sua volontà e la sua gloria. È ricco come lo è un bambino che si sente amato e ama i suoi genitori e non dubita un istante del loro amore e della loro tenerezza. La ricchezza di Gesù è il suo essere il Figlio, la sua relazione unica con il Padre è la prerogativa sovrana di questo Messia povero[8].

 

Dio continua a salvare gli uomini e il mondo  mediante la povertà di Cristo, il quale si fa povero nei Sacramenti, nella Parola e nella sua Chiesa, che è un popolo di poveri. La ricchezza di Dio non può passare attraverso la nostra ricchezza, ma sempre e soltanto attraverso la nostra povertà, personale e comunitaria, animata dallo Spirito di Cristo[9].

 

Il sacerdote è povero di gioia meramente umana: ha rinunciato a tanto! E poiché è povero, lui, che dà tante cose agli altri, la sua gioia deve chiederla al Signore e al popolo fedele di Dio. Non deve procurarsela da sé. Sappiamo che il nostro popolo è generosissimo nel ringraziare i sacerdoti per i minimi gesti di benedizione e in modo speciale per i Sacramenti. Uscire da sé stessi richiede spogliarsi di sé, comporta povertà[10].

 

“Ci farà bene domandarci di quali cose possiamo privarci al fine di aiutare e arricchire altri con la nostra povertà. Non dimentichiamo che la vera povertà duole: non sarebbe valida una spogliazione senza questa dimensione penitenziale. Diffido dell’elemosina che non costa e che non duole”[11].

 

“Sant’Agostino, riprendendo Ezechiele, dice che dev’essere al servizio delle pecore e sottolinea due pericoli: il pastore che sfrutta le pecore per mangiare, per fare soldi, per interesse economico, materiale, e il pastore che sfrutta le pecore per vestirsi bene. La carne e la lana. Dice sant’Agostino. Leggete quel bel sermone De pastoribus. Bisogna leggerlo e rileggerlo. Sì, sono i due peccati dei pastori: i soldi, che diventano ricchi e fanno le cose per soldi – pastori affaristi –; e la vanità, sono i pastori che si credono in uno stato superiore al loro popolo, distaccati… pensiamo, i pastori-principi. Il pastore-affarista e il pastore-principe. Queste sono le due tentazioni che sant’Agostino, riprendendo quel brano di Ezechiele, dice nel suo sermone. E’ vero, un pastore che cerca se stesso, sia per la strada dei soldi sia per la strada della vanità, non è un servitore, non ha una vera leadership. L’umiltà dev’essere l’arma del pastore: umile, sempre al servizio. Deve cercare il servizio. E non è facile essere umile, no, non è facile! Dicono i monaci del deserto che la vanità è come la cipolla: tu, quando prendi una cipolla, cominci a sfogliarla, e tu ti senti vanitoso e incominci a sfogliare la vanità. E vai, e vai, e un’altra foglia, e un’altra, e un’altra, e un’altra… alla fine, tu arrivi a… niente. "Ah, grazie a Dio, ho sfogliato la cipolla, ho sfogliato la vanità". Fai così, e hai l’odore della cipolla!” [12].

 

3.2 Fedeltà.

 

Il sacerdote è chiamato a essere fedele alla sua Sposa, la Chiesa; a offrire la sua vita per gli altri; a vivere quello che ripete ogni volta nella messa: “Questo è il mio corpo offerto per voi; questo è il mio sangue versato per voi”. Cosi come marito e moglie si consegnano a vicenda per tutta la vita, fino alla morte; cosi anche deve esserlo il prete con la sua vita. Cosi ha fatto Cristo Sacerdote: ha consegnato la sua vita fino alla fine, consegnando tutto: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”.

 

“Non tanto nel senso che saremmo tutti "immacolati" (magari con la grazia di Dio lo fossimo!) perché siamo peccatori, ma piuttosto nel senso di una sempre nuova fedeltà all’unica Sposa, la Chiesa. Qui è la chiave della fecondità. I figli spirituali che il Signore dà ad ogni sacerdote, quelli che ha battezzato, le famiglie che ha benedetto e aiutato a camminare, i malati che sostiene, i giovani con cui condivide la catechesi e la formazione, i poveri che soccorre… sono questa "Sposa" che egli è felice di trattare come prediletta e unica amata e di esserle sempre nuovamente fedele. E’ la Chiesa viva, con nome e cognome, di cui il sacerdote si prende cura nella sua parrocchia o nella missione affidatagli, è essa che gli dà gioia quando le è fedele, quando fa tutto ciò che deve fare e lascia tutto ciò che deve lasciare pur di rimanere in mezzo alle pecore che il Signore gli ha affidato: «Pasci le mie pecore» ( Gv 21,16.17)” [13].

 

3.3 Obbedienza[14]

 

L’obbedienza deve essere dall’interno del cuore, non mera compiacenza. Il sacerdote deve essere convinto e capace di vivere quei valori per cui si è fatto prete. L’Obbedienza fa riferimento non solo al vescovo, ma anche a Dio, al gregge, alla Chiesa, al magistero, alla parrocchia, ai programmi pastorali, ai poveri e bisognosi.

 

Obbedienza alla Chiesa nella Gerarchia che ci dà, per così dire, non solo l’ambito più esterno dell’obbedienza: la parrocchia alla quale sono inviato, le facoltà del ministero, quell’incarico particolare… bensì anche l’unione con Dio Padre, dal quale deriva ogni paternità. Ma anche l’obbedienza alla Chiesa nel servizio: disponibilità e prontezza per servire tutti, sempre e nel modo migliore, a immagine di "Nostra Signora della prontezza" (cfr Lc 1,39: meta spoudes ), che accorre a servire sua cugina e sta attenta alla cucina di Cana, dove manca il vino. La disponibilità del sacerdote fa della Chiesa la Casa dalle porte aperte, rifugio per i peccatori, focolare per quanti vivono per strada, casa di cura per i malati, campeggio per i giovani, aula di catechesi per i piccoli della prima Comunione… Dove il popolo di Dio ha un desiderio o una necessità, là c’è il sacerdote che sa ascoltare ( ob-audire ) e sente un mandato amoroso di Cristo che lo manda a soccorrere con misericordia quella necessità o a sostenere quei buoni desideri con carità creativa.

 

4. Mai un prete da solo

 

Nell’ambito delle relazioni interpersonali il prete ha la possibilità di diventare più persona umana; più cristiano e discepolo di Cristo; e finalmente, più pastore e servo di Dio e del gregge, secondo il cuore di Gesù Buon Pastore. Il prete ha bisogno di amicizie sacerdotali. L’amicizia sacerdotale è un tesoro.

 

“Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la “mistica” di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una vera esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio” [15].

 

La vita del seminario, cioè la vita comunitaria, è molto importante. E’ molto importante perché c’è la condivisione tra i fratelli, che camminano verso il sacerdozio; ma ci sono anche i problemi, ci sono le lotte: lotte di potere, lotte di idee, anche lotte nascoste; e vengono i vizi capitali: l’invidia, la gelosia… E vengono anche le cose buone: le amicizie, lo scambio di idee, e questo è l’importante della vita comunitaria”[16].

 

“L’amicizia sacerdotale: questa è un tesoro che si deve coltivare fra voi. Non tutti possono essere amici intimi. Ma che bella è un’amicizia sacerdotale! Quando i preti, come due fratelli, tre fratelli, quattro fratelli si conoscono, parlano dei loro problemi, delle loro gioie, delle loro aspettative, tante cose… Amicizia sacerdotale. Cercate questo, è importante. Essere amici. Credo che questo aiuti molto a vivere la vita sacerdotale, a vivere la vita spirituale, la vita apostolica, la vita comunitaria e anche la vita intellettuale: l’amicizia sacerdotale. Se io trovassi un prete che mi dice: "Io mai ho avuto un amico", penserei che questo prete non ha avuto una delle gioie più belle della vita sacerdotale, l’amicizia sacerdotale. E’ quello che io auguro a voi. Vi auguro di essere amici con quelli che il Signore ti mette avanti per l’amicizia. Auguro questo nella vita. L’amicizia sacerdotale è una forza di perseveranza, di gioia apostolica, di coraggio, anche di senso dell’umorismo”[17].

 

5. Un prete dalla mano di Maria

 

Gesù nella croce ha consegnato Maria come madre della chiesa, dei preti. Un prete senza riferimento a Maria è un sacerdote orfano.

 

“Maria è la missionaria che si avvicina a noi per accompagnarci nella vita, aprendo i cuori alla fede con il suo affetto materno. Come una vera madre, cammina con noi, combatte con noi, ed effonde incessantemente la vicinanza dell’amore di Dio”[18].

 

“Ricordatevi che la prima antifona latina è proprio questa: nei tempi di turbolenza, cercare rifugio sotto il manto della Santa Madre di Dio. E’ l’antifona "Sub tuum presidium confugimus, Sancta Dei Genitrix": è la prima antifona latina della Madonna. E’ curioso, no? Vigilare. C’è turbolenza? Prima di tutto, andare là, e là aspettare che ci sia un po’ di calma: con la preghiera, con l’affidamento alla Madonna… Qualcuno di voi mi dirà: "Ma, Padre, in questo tempo di tanta modernità buona, della psichiatria, della psicologia, in questi momento di turbolenza credo che sarebbe meglio andare dallo psichiatra che mi aiuti…". Non scarto questo, ma prima di tutto andare alla Madre: perché un prete che si dimentica della Madre, e soprattutto nei momenti di turbolenza, qualcosa gli manca. E’ un prete orfano: si è dimenticato di sua mamma! E nei momenti difficili, è quando il bambino va dalla mamma, sempre. E noi siamo bambini, nella vita spirituale, questo non dimenticarlo mai! Vigilare su come sta il mio cuore. Tempo di turbolenza, andare a cercare rifugio sotto il manto della Santa Madre di Dio. Così dicono i monaci russi, e in verità è così”[19].

 

“Un bel rapporto con la Madonna; il rapporto con la Madonna ci aiuta ad avere un bel rapporto con la Chiesa: tutte e due sono Madri… Voi conoscete il bel brano di Sant’Isacco, l’abate della Stella: quello che si può dire di Maria si può dire della Chiesa e anche della nostra anima. Tutte e tre sono femminili, tutte e tre sono Madri, tutte e tre danno vita. Il rapporto con la Madonna è un rapporto di figlio… Vigilate su questo: se non si ha un bel rapporto con la Madonna, c’è qualcosa di orfano nel mio cuore. Io ricordo, una volta, 30 anni fa, ero nel Nord Europa: dovevo andare lì per l’educazione dell’Università di Cordova, nella quale io ero in quel momento vice-cancelliere. E mi ha invitato una famiglia di cattolici praticanti; un Paese un po’ troppo secolarizzato era quello. E a cena, avevano tanti bambini, erano cattolici praticanti, tutti e due professori universitari, tutti e due anche catechisti. A un certo punto, parlando di Gesù Cristo – entusiasti di Gesù Cristo!, parlo di 30 anni fa – hanno detto: "Sì, grazie a Dio abbiamo superato la tappa della Madonna…". E com’è questo?, ho detto. "Sì, perché abbiamo scoperto Gesù Cristo, e non ne abbiamo più bisogno". Io sono rimasto un po’ addolorato, non ho capito bene. E abbiamo parlato un po’, su questo. E questa non è maturità! Non è maturità. Dimenticare la madre è una cosa brutta…”[20].

 

Conclusione

 

Bisogna pregare per i preti e con loro. La comunità ha bisogno del prete e lui della comunità. La preghiera del prete per la comunità è una cosa buona e giusta; e a sua volta quella della comunità per il suo prete fa bene.

 

Oggi, in questa Giornata de preghiera per la santificazione del clero si cerca di chiedere al Signore di mandare alla sua Chiesa preti liberi «dall’idolatria della vanità, dall’idolatria della superbia, dall’idolatria del potere, dall’idolatria del denaro». Pregare con la consapevolezza che le vocazioni ci sono, ma che occorrono giovani coraggiosi, capaci di rispondere alla chiamata seguendo Gesù «da vicino» e avendo il cuore solo per Lui[21]. «Dobbiamo pregare perché il cuore di questi giovani possa svuotarsi: svuotarsi di altri interessi, di altri amori. Perché il loro cuore divenga libero». Ecco la vera, grande «preghiera: Signore, mandaci preti; difendili dall’idolatria della vanità, dall’idolatria della superbia, dall’idolatria del potere, dall’idolatria del denaro». Dunque «la nostra preghiera è per preparare questi cuori per poter seguire da vicino Gesù»[22]. “Aiuta, Signore, questi giovani perché siano liberi e non siano schiavi», in modo «che abbiano il cuore soltanto per te». In questo modo «la chiamata del Signore può venire, può dare frutto»”[23].

 



[1] PAPA FRANCESCO, Evangelii Gaudium, 24 novembre 2013, n. 268

[2] PAPA FRANCESCO, Omelia Messa Crismale, 17 aprile 2014

[3] PAPA FRANCESCO, Omelia Messa Crismale, 17 aprile 2014

[4] PAPA FRANCESCO, Omelia Messa Crismale, 17 aprile 2014

[5] PAPA FRANCESCO, Omelia Messa Crismale, 28 marzo 2013

[6] PAPA FRANCESCO, Omelia Messa Crismale, 28 marzo 2013

[7] PAPA FRANCESCO, Incontro con sacerdoti e seminaristi che studiano a Roma, 12 maggio 2014

[8] FRANCISCO, Mensaje para la Cuaresma, 26 de diciembre de 2013

[9] FRANCISCO, Mensaje para la Cuaresma, 26 de diciembre de 2013

[10] PAPA FRANCESCO, Omelia Messa Crismale, 17 aprile 2014

[11] FRANCISCO, Mensaje para la Cuaresma, 26 de diciembre de 2013

[12] PAPA FRANCESCO, Incontro con sacerdoti e seminaristi che studiano a Roma, 12 maggio 2014

[13] PAPA FRANCESCO, Omelia Messa Crismale, 17 aprile 2014

[14] PAPA FRANCESCO, Omelia Messa Crismale, 17 aprile 2014

[15] PAPA FRANCESCO, Evangelii Gaudium, 24 novembre 2013, n. 87

[16] PAPA FRANCESCO, Incontro con sacerdoti e seminaristi che studiano a Roma, 12 maggio 2014

[17] PAPA FRANCESCO, Incontro con sacerdoti e seminaristi che studiano a Roma, 12 maggio 2014

[18] PAPA FRANCESCO, Evangelii Gaudium, 24 novembre 2013, n. 268

[19] PAPA FRANCESCO, Incontro con sacerdoti e seminaristi che studiano a Roma, 12 maggio 2014

[20] PAPA FRANCESCO, Incontro con sacerdoti e seminaristi che studiano a Roma, 12 maggio 2014

[21] PAPA FRANCESCO, Meditazione Mattutina Nella Cappella Della Domus Sanctae Marthae, 3 marzo 2014

[22] Cfr. PAPA FRANCESCO, Meditazione Mattutina Nella Cappella Della Domus Sanctae Marthae, 3 marzo 2014

[23] PAPA FRANCESCO, Meditazione Mattutina Nella Cappella Della Domus Sanctae Marthae, 3 marzo 2014