Dio non si lascia intrappolare

di S. E. Morga Iruzubieta

 

 

In occasione della Giornata mondiale di preghiera per la santificazione del clero, ogni anno celebrata nella Solennità del Sacro Cuore di Gesù, quest’articolo vuole essere un aiuto per la meditazione dei sacerdoti, affinché possano riconoscersi come dono per il Popolo di Dio.

 

La disposizione d’animo con cui i presbiteri sono sempre pronti a cercare non il compimento della propria volontà, ma quella di Colui che li ha inviati (cf Gv 4,34;5,30; 6,38), è la prima tra le virtù che il Decreto conciliare Presbyterorum Ordinis (n.15) indica tra quelle di speciale importanza spirituale nella vita e ministero dei presbiteri.

 

Si tratta di un punto chiave nella vita sacerdotale, dal quale dipende niente meno che la felicità umana e soprannaturale del ministro e la riuscita piena del servizio specifico che il sacerdote presta alla comunità ecclesiale, fonte di perenne esame di coscienza per il proprio sacerdozio. 

 

Questa intima disposizione d’animo, per cercare di compiere non la propria volontà ma la volontà di Colui che lo ha inviato, si traduce concretamente nell’esperienza del ministero sacerdotale vissuto come ministero della Chiesa stessa che, quindi, non può essere realizzato se non nella comunione gerarchica di tutto il Corpo, spendendo se stessi in qualsiasi servizio che venga loro affidato dal proprio Vescovo.

 

Tutta l’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium di Papa Francesco si nutre di questa linfa dello spirito di servizio per portare a compimento  l’annuncio del Vangelo nel mondo attuale. Fissiamo lo sguardo particolarmente al n.104, proprio quando il Santo Padre pone sul tappeto le rivendicazioni dei diritti delle donne che pongono alla Chiesa domande profonde che la sfidano e che non si possono superficialmente eludere: «Il sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo Sposo che si consegna nell’Eucaristia, è una questione che non si pone in discussione, ma può diventare motivo di particolare conflitto se si identifica troppo la potestà sacramentale con il potere». La potestà sacerdotale si trova nell’ambito della funzione, non della dignità e della santità.

 

Gesù arricchisce il suo Popolo con un modo nuovo e sostanzialmente diverso di partecipazione al suo unico e supremo sacerdozio, ma la dignità viene dal battesimo, che è accessibile a tutti. Quindi sarebbe uno sbaglio fondamentale pensare o vivere il sacerdozio ministeriale come un’esaltazione o una questione di prestigio umano. In base alla Rivelazione, già il Concilio Vaticano II si è espresso apertamente circa la comune dignità di tutti i battezzati nella Chiesa (cf. LG 9; 32) e la Congregazione per la Dottrina della Fede dichiarò, sulla questione dell’ammissione della donna al sacerdozio ministeriale, che nella Chiesa le funzioni «non danno luogo alla superiorità degli uni sugli altri» (Dich. Inter insigniores, 15 ottobre 1976).

 

Tanto questa uguaglianza radicale, come anche la diversità funzionale, hanno come fondamento la natura stessa della Chiesa voluta da Cristo. Quindi la chiave ed il fulcro della funzione sacerdotale ministeriale non è il potere inteso come dominio, «ma la potestà di amministrare il sacramento dell’Eucaristia; da qui deriva la sua autorità, che è sempre servizio al popolo» (EG, 104). Questo servizio all’Eucaristia, memoriale della morte e risurrezione di Cristo, implica da parte del sacerdote l’evitare, nel modo più assoluto, ogni protagonismo umano.                  

 

Sono e saranno sempre di grande attualità le parole che il Vescovo dirige al presbitero nel giorno dell’ordinazione: «Non smettere mai di indirizzare lo sguardo a Cristo, pastore buono, che è venuto non per essere servito ma per servire e cercare di salvare quelli che si erano persi».

 

Questa disposizione amorosa per il servizio sacerdotale, o carità pastorale, intimamente legata all’Eucaristia, è il principio interiore e dinamico che permea tutto l’essere del pastore ed è capace d’unificare tutta la sua vita e di riempirla di una pienezza umana e soprannaturale prodigiosa, fonte di gioia e fecondità spirituale, per portare gli uomini alla vita della grazia. É inoltre la loro specifica via alla santità: «Egli (Cristo) rimane sempre il principio e la fonte dell’unità di vita dei presbiteri. Per raggiungerla, essi dovranno perciò unirsi a Lui nella scoperta della volontà del Padre e nel dono di sé per il gregge loro affidato. Così rappresentando il Buon Pastore, nell’esercizio stesso della carità pastorale troveranno il vincolo della perfezione sacerdotale che realizzerà l’unità nella loro vita e attività» (PO, 14). Si tratta non solo di servire, ma di essere veramente servi per amore del gregge (cf. Pastores gregis, 42).

 

Tutta l’attività ministeriale – anche quella l’attività più o meno burocratica legata alla missione pastorale – deve essere identificata fino in fondo con lo stesso amore di Cristo, che il presbitero saprà far trasparire in tutta la sua condotta, fino alla donazione totale di se al gregge affidato, particolarmente con riguardo a quelli che soffrono, i piccoli, i bambini, i giovani, le persone in difficoltà, gli emarginati e i poveri; a tutti porterà l’amore e la misericordia del Buon Pastore. 

 

Questa carità pastorale per il sacerdote è un’esigenza gioiosa della sua vocazione e per i fedeli un diritto al fine di poter trovare in lui l’uomo di Dio, il consigliere, il mediatore di pace, l’amico fedele e prudente, nonché la guida sicura in cui confidare nei momenti più difficili della vita, per attingere consolazione e forza.

 

Una tentazione abituale per il pastore potrebbe essere l’intento di sottrarsi a questa esigenza, a questo peso leggero che il Signore ha messo su di lui con l’ordinazione sacerdotale. 

 

Giona cerca ad ogni costo la sua tranquillità e sicurezza, quando sente la voce di Dio per andare a Ninive in una missione difficile. Per Giona, la libertà, in quei momenti, consiste nel liberarsi della propria missione, farsi sordo, cancellare i segni della propria identità. Ma il profeta non può sequestrare Dio, poiché Lui non si lascia mai intrappolare, neppure da coloro che hanno la missione di annunziarlo e possono pensare di conoscere tutti i suoi segreti.   

 

Questo servizio pastorale è gerarchico, organico, condiviso con i fratelli sacerdoti membri dello stesso presbiterio, sotto la guida del Vescovo e con il resto del presbiterio universale in comunione con il Papa ed il Collegio Episcopale. Questa carità pastorale, essenzialmente comunitaria, non è quindi qualcosa di puramente organizzativo ma, in virtù del sacramento dell’ordine, «ogni sacerdote  è unito agli altri membri del presbiterio per particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità» (PDV,17; cf. PO, 8).

 

Ricordiamo il particolare significato del rito dell’ordinazione in cui tutti i presbiteri presenti impongono le mani dopo il Vescovo celebrante, proprio a significare, da una parte, la partecipazione nello stesso grado del ministero, e, dall’altra, indicare che il presbitero non può agire da solo, ma sempre all’interno di un presbiterio, come fratello di tutti quanti lo costituiscono.

 

Essere cosciente di tutto ciò allontana dal pastore la visione di un ministero “individuale”, per non dire “individualistico”, “solitario” e offre il motivo teologico profondo per affrontare non solo una pastorale d’insieme, ma uno dei problemi più importanti della vita sacerdotale attuale, cioè, la solitudine.

 

Il presbitero, pastore di tutto il Popolo di Dio, deve considerare gli altri presbiteri, membri dello stesso presbiterio, come il suo gregge più immediato e amato, essendo solidale con loro come “co-presbitero” in tutta l’attività pastorale. Questa realtà, basata sul sacramento dell’Ordine, ha conseguenze pratiche, non soltanto nel ministero, ma anche nella vita spirituale del pastore. 

 

Se il pastore sa lottare contro la tentazione di un ministero individualista saprà lottare, a maggior ragione,  contro il rischio di vedersi vuoto nel ministero  a motivo del cosiddetto funzionalismo.

 

Il funzionalismo è una malattia del ministero pastorale che consiste in una mentalità e in una prassi che tende a ridurre il sacerdozio ministeriale ai suoi aspetti funzionali. Il pastore della Chiesa non esercita soltanto una funzione o un lavoro “professionale”, dopo di che è libero per la sua vita privata, per dedicarsi a se stesso. Il rischio di questa concezione riduzionista dell’identità sacerdotale è la causa di un vuoto e di un senso di solitudine esistenziale, che con frequenza si riempie di compensazioni non conformi al proprio essere immagine vivente del Buon Pastore.

 

L’ultima caratteristica che vorrei sottolineare dell’essere pastori della Chiesa oggi è la misericordia. Sappiamo con quanta insistenza il Santo Padre non soltanto lo dice, ma offre un esempio con il suo modo di avvicinarsi ai fedeli e con i suoi gesti.

 

La Chiesa  “in uscita” – ha scritto Papa Francesco – è una Chiesa con le porte aperte :«Uno dei segni concreti di questa apertura è avere dappertutto chiese con le porte aperte. Così che, se qualcuno vuole seguire una mozione dello Spirito e si avvicina cercando Dio, non si incontrerà con la freddezza di una porta chiusa. Ma ci sono altre porte che neppure si devono chiudere. Tutti possono partecipare in qualche modo alla vita ecclesiale, tutti possono far parte della comunità, e nemmeno le porte dei sacramenti si dovrebbero chiudere per una ragione qualsiasi. Questo vale soprattutto quando si tratta de quel sacramento che è “la porta”, il Battesimo (….) Di frequente ci comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non è una dogana; è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa» (EG, n. 47). E dopo il Papa aggiunge: «La Chiesa dev’essere il luogo della misericordia gratuita, dove tutti possono sentirsi accolti, amati, perdonati e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo» (EG, n. 114).

 

Sono esortazioni che tutti i pastori della Chiesa devono accogliere e vivere con cuore aperto poiché «queste convinzioni hanno anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia» (EG, 47), «cercando sempre di comunicare meglio la verità del Vangelo in un contesto determinato, senza rinunziare alla verità, al bene e alla luce che può apportare quando la perfezione non è possibile» (EG, 45). La salvezza è nella benevolenza del Signore. A partire della misericordia e dalla grazia del Signore si aprono le strade di una vera umanità e di uno slancio permanente verso la perfezione cristiana.