Nella memoria liturgica del Beato Antonio Rosmini

La via rosminiana per la vocazione alla santità

Stresa, 1 luglio 2014

 

“Io ho fermamente deciso di farmi prete e di porre tutto quello che ho per procurarmi un tesoro, cui né ruggine, né tignola possano consumare o guastare, né i ladri dissotterrare e portar via. Tutto quel poco di dottrina che (se Dio benedetto m’aiuta) avrò, io intendo usarlo nell’ammaestrare altri (e che più bella cosa del giovare!), nel non lasciare impigrire il corpo ma faticare, e nell’impiegare i miei averi per rinvigorire le scienze e nel dar sollievo ai poveri”.[1]

Cari amici, sono passati esattamente duecento anni da quando un giovane Antonio Rosmini vergava queste righe, con le quali esprimeva la decisa volontà di consacrare la propria vita al Signore, facendosi sacerdote: credo che, in filigrana, non stentiamo a riconoscervi un riflesso dei sentimenti che hanno accompagnato anche la nostra vocazione, a partire dalla scelta di aderire al Signore con cuore indiviso, animati dalla convinzione che la vita buona del Vangelo contiene il segreto di un’esistenza umanamente realizzata.

E Rosmini – anticipando l’orizzonte a noi dischiuso dalla Lumen Gentium – aveva intuito come tale chiamata sia rivolta a ogni battezzato: “I discepoli di Gesù Cristo, in qualunque stato e condizione si trovino, sono chiamati alla perfezione – scrive nelle sue Massime – perché sono chiamati al Vangelo, che è legge di perfezione. A tutti ugualmente il divino Maestro disse: Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5,48)».[2]

Questa perfezione non è frutto di volontarismo né è espressione di presunzione umana: piuttosto, è conseguenza dell’incontro vivo con Cristo, incontro alimentato e custodito dalla partecipazione alla vita sacramentale. Proprio a commento del passo evangelico appena ascoltato – dove il Signore ci invita a rimanere uniti a lui, come i tralci nella vite – Rosmini afferma: “Senza Cristo l’uomo non può far nulla; tenendosi in Cristo l’uomo può portare molto frutto”[3].

E gli effetti di questa “vita nuova che riceve l’uomo incorporato a Cristo”, il Nostro li riconduce essenzialmente al “sentimento della potenza morale, col quale egli disprezza la vita precedente”; al sentimento di una partecipazione alla signoria di Cristo “su tutte le cose della natura”, che il cristiano vive così nella luce della grazia; al sentimento di “disprezzo della ricchezza e di tutte le cose del mondo”: “L’uomo incorporato a Cristo e santo non cura di possedere a titolo umano e con brighe e sollecitudini temporali poche cose ed incerte, quando sa di possederle tutte in Cristo, e d’averle pronte, senza darsene briga o fastidio, ogni qual volta gli bisognano al proprio fine soprannaturale che solo apprezza come vero bene”[4].

Infine, è conseguenza di questo rimanere nel Signore anche “la quiete nella condizione e nell'esercizio de’ doveri del proprio stato, quando Iddio non muova e chiami all’opere straordinarie; e per l’opposto, l’intraprendenza e il coraggio perseverante nell’affrontare e condurre a termine le opere straordinarie a cui Iddio dà la mossa, e che mostra di volere”.[5]

In questa luce acquistano il loro valore anche tutti gli altri aspetti della vita cristiana, quali  passi sulla via della santità: ad esempio, quella semplicità che gli fa dire al rettore del Seminario di Trento – affascinato dallo stile del Roveretano e desideroso di condividerlo a propria volta – che “per Iddio non conta il far molto esteriormente, ma l’avere un cuore umile, ubbidiente e retto con lui”[6]; oppure, il senso della misura di sé, che se da una parte porta a darsi fino in fondo, dall’altra permette di non cadere nell’affanno: “Tutto il vostro vero bene sta nella vostra santificazione, e tutto il vostro male sta nel perdere qualche grado della vostra santificazione; nel non aver bene capito che tutte le cose esteriori non dipendenti dalla vostra volontà (siano per sé buone o cattive), nelle mani della divina Provvidenza possono essere, e sono, altrettanti mezzi per accrescere la vostra santificazione”[7]. Non da ultimo, rimane essenziale una vita di preghiera, condizione per scegliere “le cose di Dio”, rimanervi fedeli e poter portare frutto.[8]

Animato da questo sguardo, Rosmini sarà sempre un uomo di profonda pace interiore: come sappiamo, la seppe custodire anche quando sulla sua casa – la sua persona, il suo pensiero, la sua opera – “cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti”[9]. La sua fiducia, del resto, era riposta in ciò che non passa: il nostro celebrarne solennemente la memoria non può che diventare disponibilità a ricalcarne le orme.

Come dicevo poco fa, il Nostro aveva chiaro che la vocazione alla santità non riguarda qualche «categoria protetta» del popolo di Dio, ma ogni battezzato, a prescindere dal suo stato di vita. Riconosciuta e condivisa questa verità di fondo, lasciate però che in questa circostanza mi soffermi un momento soprattutto sull’esigenza di santità che interpella quanti hanno scelto di consacrare tutta la loro vita al servizio della Chiesa e del Regno.

Lo faccio perché sono profondamente convinto che quell’autentica riforma della vita cristiana ed ecclesiale che tutti auspichiamo, oggi chiama in causa in primo luogo proprio noi sacerdoti, religiosi, religiose e vescovi.

A tal riguardo nell’Epistolario ascetico vi è una lettera destinata a quel don Pietro Bertetti che Rosmini indicò come erede delle sue sostanze e che in seguito diverrà anche la guida dell’Istituto: si tratta di una pagina mirabile, di cui mi limito ad offrire al vostro ascolto alcuni spunti essenziali per freschezza e profondità non solo di analisi, ma anche di proposta.

“Il clero oggi giorno, parlando in generale, è debole purtroppo, prostrato e avvilito, di fronte ad un secolo che tanto esige da lui (…) – osserva Rosmini – . Il fondamento sicuro e inamovibile dell’educazione ecclesiastica è la santità. Ah, quanto poco s’intende questo principio vitale e sostanziale! quanto facilmente ci si accontenta, nei chierici, di una bontà mediocre, di una vocazione ingombra e macchiata di fini umani (…). Dopo la santità, radice e fonte d’ogni vero pregio ecclesiastico, viene la dottrina, la quale nei seminari oggi si trasmette troppo mutilata, anzi come squarci di un cadavere. E mentre il sacerdote di questo tempo dovrebbe saper di tutto, non lo si forma neppure solidamente nella sacra teologia, dalla quale si troncano le questioni più vitali, credendole inutili alla pratica, quando anzi esse sono la vita e la forza della pratica stessa; talora si dispensano i chierici dallo studio della dogmatica, senza per di più dar loro altra morale che quella dei soliti trattatisti, tutti tesi a decidere ciò che è o che non è peccato, per l’uso dei confessori, ma poveri di ciò che riguarda l’alta idea della virtù, della vita virtuosa e della perfezione evangelica”.[10]

Sono parole che non necessitano di tanti commenti, ma che possiamo riassumere con un breve passaggio di un’altra lettera: “Guai a quel sacerdote che vuol scendere a compromessi col mondo, coll’amor proprio e con gli irrequieti e indefinibili capricci della propria volontà! Il Signore è mia parte di eredità (Sal 15,5)… Guai a coloro che (queste parole) le pronunziano colle labbra, e col cuore intanto trattengono un’altra eredità! Mentono non agli uomini ma a Dio (cfr At 5,29)”. Il nostro Beato metteva così in guardia “contro quella mortale indifferenza, freddezza e spensieratezza, di cui si vedono affetti molti di coloro che ricevono l'imposizione delle mani e, dopo ricevuta, vivono nei propri comodi”. Con forza poteva, quindi, chiedere al conte Giulari che gli manifestava la sua intenzione di farsi sacerdote: “In tutta libertà la scongiuro di non fare a Dio il sacrificio di se stesso dimezzato, ma intero, intero”.[11]

Così Rosmini – pur lungi da ogni forma di inutile rigorismo – non esitava a chiedere a chi intendeva entrare nel suo Istituto “un’intenzione purissima e altissima”, ovvero “la più la più grande carità e desiderio di fare del bene, un’ubbidienza perfetta e un'indifferenza ad ogni ufficio che i superiori gli vogliano assegnare per la maggior gloria di Dio”[12]: in realtà, non fatichiamo a riconoscere che questo metro non vale semplicemente per il religioso rosminiano o comunque per quello di ieri: piuttosto, è orizzonte che ci è necessario, l’unico all’interno del quale muoverci a nostra volta.

Del resto, come non concordare con il Nostro quando, facendo eco al Vangelo proclamato in questa nostra celebrazione, si rivolgeva alle «sue» novizie affermando: “Sappiate apprezzare la vostra sublime vocazione, con la quale siete chiamate a giovare al mondo, rammentando quanto Gesù stesso, divino maestro, disse ai suoi discepoli: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12)”[13].

Può capire questa proposta di vita soltanto chi è stato afferrato da Cristo, solo chi intuisce come dietro il precetto ribadito con insistenza nel brano della prima lettura – “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”[14] – ci sia la sostanza di tutta la vita cristiana: “A questo precetto supremo – commenta Rosmini – ogni cosa si deve sacrificare: esso non può affatto accordarsi od allearsi con cosa che sia diversa dall’Amore: esso tutto distrugge, tutto assorbe, tutto vivifica. L’Amore consacra a Dio gli uomini, amando essi Dio perché Dio, il primo, ha amato gli uomini”[15], come ci ricordava San Giovanni nella seconda lettura.

Concludo con un ultimo pensiero, che intendo semplicemente introdurre e lasciare quindi alla vostra meditazione. Vi confido che, in prima battuta, era la pista attorno alla quale pensavo di costruire tutta l’omelia; ora ve la affido come compito per le vacanze estive. Consiste nell’invito a rileggere quanto siamo andati argomentando in compagnia del Beato Rosmini ponendolo quasi in controluce con il discorso che Papa Francesco lo scorso maggio ha rivolto a noi Vescovi, aprendo per la prima volta un’Assemblea generale della CEI. Si è trattato di un discorso costellato di interrogativi decisivi: “Chi è per me Gesù Cristo? Come ha segnato la verità della mia storia? Che dice di Lui la mia vita?”; e, ancora: “Che immagine ho della Chiesa, della mia comunità ecclesiale? So ringraziare Dio, o ne colgo soprattutto i ritardi, i difetti e le mancanze? Quanto sono disposto a soffrire per essa?”; infine: “Ho lo sguardo di Dio sulle persone e sugli eventi? “Ho avuto fame…, ho avuto sete…, ero straniero…, nudo…, malato…, ero in carcere” (Mt 25,31-46): temo il giudizio di Dio? Di conseguenza, mi spendo per spargere con ampiezza di cuore il seme del buon grano nel campo del mondo?”

Sono certo che non stenterete a riconoscere nel magistero del Santo Padre una profonda sintonia con la “Via rosminiana per la vocazione alla santità”: è quella sintonia che lega gli uomini di Dio di tutti i tempi e ce li rende contemporanei, testimoni che non hanno bisogno del nostro applauso, ma della nostra sequela.

     X Nunzio Galantino

Vescovo di Cassano all’Jonio

Segretario Generale della CEI

 



[1] A. ROSMINI, Al Signor Bartolomeo Menotti, 22 settembre 1814; in: Epistolario ascetico, vol. I, lettera 1, p. 23.

[2] A. ROSMINI, Massime di perfezione cristiana adattate ad ogni condizione di persone, in: Dio è amore, Ed. Paoline, Milano 1993, p. 61

[3] A. ROSMINI, Introduzione al Vangelo secondo Giovanni commentata, Lezione LVI.

[4] Ibid., Lezione LVIII.

[5] Ivi.

[6] A. ROSMINI, A don Pietro Rigler rettore del Seminario di Trento, 12 febbraio 1831; in: Epistolario ascetico, vol. I, lettera 215, p. 418.

[7] A. ROSMINI, A don Antonio Rey a Prior Park in Inghilterra, 7 agosto 1836; in: Epistolario ascetico, vol. II, lettera 469, p. 165.

[8] Cfr. A. ROSMINI, Al conte D. Giambattista Giuliari a Roma, 13 gennaio 1831; in: Epistolario ascetico, vol. I, lettera 210, p. 403-405.

[9] Mt 7,25.

[10] A. ROSMINI, Al teologo don Pietro Bertetti a Tortona, 26 luglio 1845; in: Epistolario ascetico, vol. III, lettera 911, p. 229-231.

[11] A. ROSMINI, Al conte D. Giambattista Giuliari a Roma, 13 gennaio 1831; in: Epistolario ascetico, vol. I, lettera 210, p. 403-405.

[12] A. ROSMINI, Al Chierico N. N: a Bra, 1 ottobre 1839; in: Epistolario ascetico, vol.II, lettera 610, p. 364-365.

[13] A. ROSMINI, Alle novizie delle Suore della Provvidenza a Domodossola, 25 dicembre 1841; in: Epistolario ascetico, vol. II, lettera 717, p. 500-502.

[14] Dt 6,5.

[15] A. ROSMINI, Storia dell’Amore, XXV: La Carità di Cristo avviva e perfeziona l’antica e ne fa la nuova legge.