Festa dei SS. Ermagora e
Fortunato, 12 luglio 2014
Basilica Patriarcale di
Aquileia
“La comunità ecclesiale nel Magistero di Papa
Francesco”
La festività odierna è una
preziosa occasione per tutti gli abitanti di questa Diocesi e di quelle vicine,
che si uniscono nella preghiera e nella comune celebrazione. La festa dei SS.
Ermagora e Fortunato invita a ritornare alle origini del primo annuncio del
Vangelo in queste terre, avvenuto, secondo la leggenda, addirittura per opera
di S. Marco, che avrebbe convertito il futuro Vescovo Ermagora, consacrato da
S. Pietro, secondo quanto compare negli affreschi della Cripta sottostante.
Non importa l’esattezza
storica del dato, perché esso ci induce a guardare alle radici della fede in
queste terre. Qui intorno tutto ricorda un gioioso e creativo germogliare della
fede, all’interno della morente religiosità pagana, che si è pian piano
svuotata dei suoi contenuti per lasciare in eredità le sue forme al
Cristianesimo e permettere ai cristiani di esprimere con esse il messaggio di
Gesù; mi piace soprattutto pensare al Cristo Buon Pastore, che ha trasformato
un soggetto pagano di genere, nella più bella delle immagini della cura amorevole
di Gesù per gli uomini, che è anche quella che meglio descrive la presenza della
Chiesa, in tutte le sue componenti, in mezzo alla società.
Nel mondo, ma non del mondo; passato e presente della Chiesa.
E proprio in questo essere
“nel mondo”, ma non “del mondo” consiste un grande apporto che la Chiesa può
fornire alla società di ogni tempo. Ma prima di intraprendere più
approfonditamente questo discorso, occorre una richiamare alla mente una
verità, mai adeguatamente ribadita, servendoci delle parole di Papa Francesco:
«Quando nei media si parla della Chiesa,
credono che la Chiesa siano i preti, le suore, i Vescovi, i Cardinali e il
Papa. Ma la Chiesa siamo tutti noi, come ho detto» (Sala della Spoliazione
del Vescovado, Assisi, 4 ottobre 2013). Il medesimo concetto il Santo Padre lo
ha espresso nell’omelia del 17 aprile 2013 (a Casa “Santa Marta”): per la
missione, per essere inviati dal Signore ad evangelizzare, può bastare il solo
battesimo. Quando si parla di “Chiesa”, quindi, ci riferiamo a tutti coloro che
attraverso il battesimo sono diventati fedeli, il popolo di Dio.
È una storia antica questa
del rapporto tra i cristiani e la società in cui abitano, portando ad essa
qualcosa di proprio, come ben ricordano le parole dell’anonimo autore della
Lettera a Diogneto (I sec. d.C.) «V. 1. I
cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli
altri uomini. 2. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si
differenzia, né conducono un genere di vita speciale. 3. La loro dottrina non è
nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono ad una
corrente filosofica umana, come fanno gli altri. 4. Vivendo in città greche e
barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel
vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile
e indubbiamente paradossale… Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne.
9. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono
alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi».
Non stupisca l’iniziale
riandare con la mente a immagini e parole che appartengono ad un passato
cronologicamente lontano, perché esso è in realtà di stretta attualità, come
parte della specifica missione della Chiesa e come oggetto di costanti e
pressanti richiami da parte del Santo Padre. Il passato – e questi luoghi
suggestivi ne sono carichi – non deve diventare occasione per malinconiche
nostalgie o rassicuranti ripiegamenti, bensì lo stimolo ad agire e a operare,
rendendo oggi concreta la Parola del Vangelo con la nostra vita e quella delle
nostre comunità.
Dunque, la domanda che
possiamo porci, nella riflessione e nella preghiera, è quella circa il modo di
rendere sempre più positiva la presenza della Chiesa nella società di oggi,
nella fedeltà al Vangelo e alla Tradizione, seguendo l’esempio e l’invito di
Papa Francesco.
In mezzo alla gente
In primo luogo, la comunità cristiana
non è fatta per essere isolata, per costituire una sorta di “spazio protetto”,
in cui rifugiarsi e difendersi di fronte ad un mondo pieno solo di problemi. È
la reazione istintiva di Pietro – una tentazione – di fronte alla luce della
Trasfigurazione: «Pietro disse a Gesù:
“Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per
Mosè e una per Elia”. Egli non sapeva quello che diceva» (Lc 9, 33). Possiamo
sentire rivolte a noi le ultime parole dell’Evangelista – “non sapeva quel che
diceva” – tutte le volte che pensiamo alla Chiesa come ad un luogo in cui
separarci dal mondo, attraverso forme, abitudini, programmi chiusi.
Occorre invece una Chiesa che sia vicina
alla gente, alle persone di ogni tipo, anche a quelle meno simpatiche, o meno
attraenti. In fondo, se guardiamo al ministero terreno di Gesù, lo vediamo
farsi prossimo alle persone, ai malati, ai posseduti, ai lebbrosi e,
soprattutto, ai peccatori di ogni genere. Egli non manteneva distanze, né
fisiche, né culturali, si lasciava toccare dalla gente, quasi travolgere a
volte. Ma soprattutto Gesù stava in mezzo a loro, condivideva la vita dei suoi
contemporanei e con lui i suoi discepoli facevano altrettanto. In questo senso,
Gesù non ha buttato all’aria tutto quel che c’era, come un chiassoso
rivoluzionario idealista. Piuttosto, come un messia, desideroso di donare il
suo amore agli uomini, ha amato le circostanze e le persone, in cui si è imbattuto
e con l’amore ha trasformato la vita di chi lo ha seguito, lottando in questo
modo per la conversione di tutto ciò che nuoceva al bene dell’uomo.
Ogni cristiano ha sperimentato
l’esperienza di vicinanza a Gesù e oggi Egli attende che noi la facciamo
sperimentare agli uomini e alle donne di questo tempo. La Chiesa deve essere
vicina a coloro che ne hanno bisogno, come una buona madre, non può star
lontana dai suoi figli. Perciò il Papa ci ricorda: «Uscire da se stessi per unirsi agli altri fa bene. Chiudersi in sé
stessi significa assaggiare l’amaro veleno dell’immanenza» (EG, n. 87);
infatti, «il Vangelo ci invita sempre a
correre il rischio dell’incontro con il volto dell’altro, con la sua presenza
fisica che interpella, col suo dolore e le sue richieste, con la sua gioia
contagiosa in un costante corpo a corpo» (EG, n. 88).
È l’immagine della “Chiesa in uscita”,
tanto cara al Santo Padre e tanto necessaria in questo tempo. In uscita verso
dove? Ogni singolo fedele e ogni comunità sono chiamati ad uscire da sé stessi,
per andare incontro all’altro, a Dio e al nostro prossimo. Come singoli, uscire
da noi stessi significa non farci assorbire dal conformismo del “così fan
tutti”, o dall’egoismo dei nostri “comodi”, privilegiando invece davvero la
preghiera, la carità operosa, o, a volte, semplicemente, la cortesia e la
gentilezza nei confronti di qualcuno.
Come comunità, siamo esortati in questo
tempo a far fruttare gli strumenti che abbiamo, a rinsaldare il nostro legame
di appartenenza con una parrocchia o una realtà ecclesiale. Non possiamo essere
semplici spettatori dell’azione della Chiesa, come se Gesù avesse chiamato
alcuni solo per stare a guardare; dobbiamo tutti sentirci parte attiva della comunità ecclesiale, ciascuno
secondo il proprio stato e le proprie capacità. I nostri consigli pastorali, i
nostri vari “comitati”, sono strumenti preziosi per uscire da noi stessi, prima
nel confronto, poi nella missione. Questi organismi devono sempre più diventare
strumenti preziosi di una genuina corresponsabilità ecclesiale, dove attuare il
discernimento comunitario e la correzione fraterna, in vista di un rinnovato
slancio verso il mondo. Potremmo dire allora che nella Chiesa c’è posto per
tutti, se tutti stanno al loro posto.
Un pensiero speciale voglio in questo
senso rivolgere ai sacerdoti, che con il loro ministero aiutano la gente a
sentire che Gesù è vicino. Lo fanno anche quando introducono qualcuno nella vita
di preghiera, quando lo aiutano a leggere la propria vita alla luce del
Vangelo, quando si adoperano perché
Cristo sia incontrato come persona viva e non come un ideale morale. Noi
sacerdoti per primi siamo chiamati ad essere vicini alla gente. Cristo non si
comunica con campagne pubblicitarie, ma facendolo incontrare. In primo luogo, è
importante pensare al dono prezioso che, presente in mezzo a noi, Cristo continua
a farci di Se Stesso attraverso l’Eucarestia e gli altri sacramenti, dei quali
noi siamo chiamati ad essere generosi dispensatori, a servizio dell’intero
popolo di Dio.
Inoltre, noi sacerdoti siamo in special
modo chiamati a conformare la nostra vita a quella di Cristo, attraverso la
preghiera, la sobrietà, la generosa dedizione al ministero, la carità, in ogni
modo vissuta. Così, senza voler sminuire le necessarie opere di “pianificazione
pastorale” e quella sana organizzazione, che è di supporto alla vita delle
nostre comunità, è importante tuttavia che teniamo viva l’attenzione sul
primato dell’ “essere”, rispetto a quello del “fare”. Dal nostro “essere”
sacerdoti discenderà quindi una vita vissuta, che genera opere e “fatti” di
Vangelo, a testimonianza per il popolo di Dio, ma anche per chi non ha
conosciuto Gesù, o non crede in Lui. Stiamo attenti, insomma, ad essere più
attenti a Dio che alle “cose di Dio”; “siamo” preti, non ci limitiamo a “fare”
i preti.
In
uscita, da porte che restano aperte
Per essere davvero parte integrante e
positiva della società attuale, noi cristiani non possiamo semplicemente stare
ad aspettare in modo passivo che gli altri vengano da noi, mostrandoci
disponibili, ma inerti. Gesù ci invia; Papa Francesco, con la parola e con
l’esempio, ci ricorda che dobbiamo uscire e mescolarci con la gente. Gesù uscì
dai confini del suo Paese, della sua cultura, delle abitudini della sua epoca.
Se vogliamo una Chiesa vicina agli
uomini ed alle donne del nostro tempo, desiderosa di far loro incontrare la
persona di Cristo, essa non può restare ripiegata, in certo modo rivolgendo
solo a se stessa l’annuncio di salvezza. La Chiesa deve uscire da sé e
dirigersi verso le periferie di ogni tipo, come Papa Francesco fa e invita a
fare: «La Chiesa è chiamata ad essere
sempre la casa aperta del Padre» (EG, n. 47), spronandoci ad essere una
Chiesa missionaria, nella quale «la
pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che
ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di “uscita” e favorisca
così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia»
(EG, n. 27). Pertanto, «la Chiesa “in
uscita” è una Chiesa con le porte aperte. Uscire verso gli altri per giungere
alle periferie umane non vuol dire correre verso il mondo senza una direzione e
senza senso. Molte volte è meglio rallentare il passo, mettere da parte
l’ansietà per guardare negli occhi e ascoltare, o rinunciare alle urgenze per
accompagnare chi è rimasto al bordo della strada» (EG, n. 46).
Non
“contro”, ma “per”: la peculiarità della vita cristiana
Quando rispondiamo all’invito di Papa
Francesco ad uscire – e tanti singoli e tante comunità già lo fanno – non
sempre l’accoglienza è scontata ed emergono resistenze, tanto più in un
contesto di secolarizzazione e di crescente individualismo. La tentazione che
emerge allora è quella della contrapposizione, dello scontro, tra la visione
cristiana del mondo e quella secolare. Per questa via esiste il fondato rischio
di far venir meno il dialogo e la comprensione e, soprattutto, di ridurre il
cristianesimo ad una religione delle regole e dei divieti, come se, all’interno
di un serio cammino di fede, questi dovessero sopravanzare la parte più gioiosa
e vitale dell’esistenza.
Si tratta di un errore, che può mettere
a repentaglio l’efficacia dell’annuncio e della presenza cristiana in mezzo
alla società odierna. La visione cristiana della vita è sempre “in positivo”; Gesù
non ha annunciato nuove regole, ma ha incarnato e proposto un nuovo modo di
stare al mondo. La forza della comunità cristiana non sta nel rigore dei
divieti che annuncia, ma nella credibilità dell’amore che vive ed emana. La
vita cristiana è una vita in proiezione positiva, è una vita gioiosa, animata
dalla fede e dalla speranza, ed espressa nella carità.
È ovvio che ogni “sì” che diciamo
comporta naturalmente dei “no”, che ogni via intrapresa comporta il metterne da
parte altre. Di conseguenza, è chiaro che alcune visioni cristiane circa
persone, rapporti, priorità possono non venire condivise da chi parte da
differenti premesse, religiose o culturali. Pertanto, senza in alcun modo voler
appiattire tali differenze, l’azione della comunità cristiana deve sempre
partire da ciò che può unire, da ciò che può consentire di mantenere aperto un
dialogo, con la fiducia che il Signore possa far fruttificare questi sforzi. Partiamo
sempre dal positivo, come il Vangelo ci insegna, nessuno si converte perché gli
si pone un divieto, ma piuttosto perché si sente amato, nonostante tutto, e per
questo invogliato a migliorare. «La
Chiesa non cresce per proselitismo, cresce per attrazione, per testimonianza»,
ha efficacemente ricordato Papa Francesco (Omelia, a Casa “Santa Marta”, 1°
ottobre 2013), richiamando una felice immagine di Papa Benedetto XVI.
Un
comunità che cura la vita
È la vita che sta a cuore a noi
cristiani, in tutte le sue forme. Essa è il dono più prezioso che Dio ci ha
fatto, quello che rende possibile tutto il resto, quello che richiede in modo
particolare la nostra attenzione e responsabilità. Non sembri un passaggio distante,
rispetto a quanto detto finora, perché l’amore per sua natura genera vita; se è
volutamente sterile, smette di essere amore e maschera egoismo, come ha
recentemente ricordato il Santo Padre (Omelia, a Casa “Santa Marta”, 2 giugno
2014).
Ai cristiani è chiaro che la vita è un
dono di Dio, del quale prendersi responsabilmente cura, senza considerarlo un
nostro possesso. La “mia” vita è quella che Dio mi ha dato, perché io impari a
dare e ricevere amore, perché realizzi pienamente il mio essere a Sua immagine
e somiglianza. Proprio in questa attenzione alla vita risiede un ben
significativo apporto, che noi cristiani possiamo dare alla società all’interno
della quale viviamo e di cui vogliamo essere parte attiva e positiva.
Attenzione
alla vita, in tanti suoi aspetti
Da buoni cristiani, amiamo essere
concreti; attenzione alla vita, in che senso? In primo luogo, ogni cristiano
parte dalla cura della sua vita, in tutti i suoi aspetti, quello fisico, quello
materiale, quello culturale e soprattutto quello spirituale. Ogni uomo è come
un giardino che se adeguatamente coltivato produce fiori bellissimi. Il primo
contributo che noi cristiani, come singoli, possiamo dare alla società è
l’essere veramente cristiani, il dare forma al Vangelo con la nostra vita, non
rassegnandoci alle nostre cadute o alle difficoltà esterne. Con la preghiera, i
sacramenti e la carità operosa noi possiamo trasformare la nostra vita alla
scuola del Vangelo e rendere migliore il pezzetto di mondo che abitiamo – a
casa, a scuola, al lavoro, per strada. Curiamoci seriamente del nostro essere
buoni cristiani e avremo reso un servizio grande, ai nostri fratelli e anche a
chi cristiano non è.
Posta questa fondamentale premessa –
perché ognuno può dare solo ciò che ha e se non ci alimentiamo al Vangelo non
potremo dare opere di Vangelo – l’attenzione della comunità cristiana va
soprattutto ai poveri, a coloro che sono nella sofferenza. Abbiamo bisogno di
una Chiesa povera per i poveri, che sia maestra di amore e di sobrietà
nell’utilizzo dei beni: «Per la Chiesa
l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale,
sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro «la sua prima
misericordia… Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri» (EG, n.
198). Senza questa attenzione per i poveri, a livello materiale, ma anche
morale e spirituale, non potremmo dirci veramente cristiani, ma al massimo
“buone persone”. «Siamo chiamati a
scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma
anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la
misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (EG, n.
198).
I
poveri
Poveri ed emarginati sono naturalmente
l’oggetto primario dell’attenzione e dello slancio missionario delle nostre
comunità. Ad essi è necessario che si rivolga anche la formazione cristiana –
ai ragazzi e agli adulti – che realizziamo nelle parrocchie. Si impara a
conoscere Gesù e la vita cristiana, per vivere da cristiani, anche quando non
siamo in parrocchia o riuniti tra noi. Purtroppo, i poveri non sono difficili
da trovare, vivono accanto a noi, in mezzo a noi, maggior impegno richiede
accorgersi davvero di loro.
Non ci è chiesto di essere “eroi”, ma di
aver cura delle membra sofferenti del popolo di Dio, dei nostri fratelli, di
coloro, insomma, con i quali trascorreremo tutta l’eternità. Se pensiamo a
questo, è ovvio che convenga iniziare a conoscerci e a volerci bene sin da ora.
Servire il povero, aiutarlo a riscattarsi e a migliorare la sua vita non è
qualcosa di opzionale o da lasciare agli “specialisti” del settore. Si tratta
di una lezione spirituale, per guarire dall’egoismo e dalla superbia, ma anche
di un dovere civico, perché nessuno merita di essere abbandonato
Gli
anziani e i bambini
Gli inviti di Papa Francesco in questo
campo sono forti e numerosi, ci spingono a lasciarci trascinare dall’ondata di
gioia evangelizzatrice che lui ha saputo suscitare. E allora ci facciamo
prossimi anche a coloro che si trovano in fasi della vita scarsamente degnate
di cura ed attenzione, per la loro scarsa “produttività”, per il loro essere
quasi “fastidiose”. Penso in primo luogo agli anziani, tante volte lasciati
soli e condannati alla tristezza, soprattutto se ammalati. Nella cultura
dell’apparire e dell’efficienza, se un anziano non appare giovane e forte, deve
quasi sentirsi in colpa. Non sia così tra noi. Quanto bene si può fare a volte
con una breve visita, un piccolo servizio prestato. Regaliamo a questa società
anziani felici, che si godano il tempo della vecchiaia – quanti eufemismi per
non usare questa parola! – accompagnati dalla cura e dal rispetto dei più
giovani.
Pensiamo poi hai bambini, ai piccoli,
che sono il nostro futuro. Esiste una cultura edonista, che vuol fare di essi
un “oggetto”, da rivendicare come diritto, o un peso per la libertà personale,
come se avere figli costituisse un limite alla felicità individuale. Quando
sono nati poi, c’è chi li vuol fare crescere in un attimo, scaraventandoli
anzitempo nella vita adulta, magari per fare anche di loro utili consumatori.
Ci troviamo cioè in una società in cui
sembra che la vita umana degna di essere vissuta sia solo quella che sta tra i
venti e i quarant’anni, a condizione di godere di salute fisica ed economica.
Il resto, in vari modi viene spinto dentro questo angusto contenitore o
respinto. Ma la vita come Dio ce l’ha donata è un lungo cammino, diversificato,
composto da fasi diverse, nessuna delle quali è migliore o esclusiva. Se
concretamente vissuta nelle nostre comunità o attraverso le nostre azioni
pastorali, anche questa consapevolezza può diventare un dono, che la visione
cristiana della vita può portare a una società, in cui spesso il tempo che
passa è di per sé fonte di infelicità e la vita una perenne rincorsa ad una
giovinezza che sfugge.
I
migranti
Le vicende di questi ultimi anni hanno
portato prepotentemente una nuova categoria di poveri, in precedenza rimasta
come in sordina, i migranti. Queste terre, che per loro natura sono un crocevia
tra l’Italia e il Centro dell’Europa, non sono esenti da questo fenomeno. Non è
questa la sede per proporre analisi sociologiche o soluzioni politiche, che
competono ad altri e che auspichiamo di veder ponderate con mente e cuore
ispirati a carità e giustizia.
Qui si può solo pensare a persone, in
carne e ossa, che da un giorno all’altro ci troviamo di fronte, tanto che, come
ha ricordato Papa Francesco «ci sono storie
che ci fanno piangere e vergognare: esseri umani, nostri fratelli e sorelle,
figli di Dio che, spinti anch’essi dalla volontà di vivere e lavorare in pace,
affrontano viaggi massacranti e subiscono ricatti, torture, soprusi di ogni
genere, per finire a volte a morire nel deserto o in fondo al mare»
(Discorso, Sala Clementina, 15 maggio 2014).
Insomma, se vogliamo che questa terra e
queste comunità vivano davvero una nuova stagione al servizio del bene comune e
rinverdiscano la ricca tradizione di vita cristiana, bisogna che si presti
attenzione ai più deboli, le “categorie” già ricordate e anche le altre,
oggetto di tanta attenzione da parte del Papa: i senza tetto, i
tossicodipendenti, i rifugiati, gli anziani soli e abbandonati, ma anche alle
persone divenute “merce” per qualche gruppo di sfruttatori o alle donne che
patiscono esclusione e maltrattamenti; e, infine, i bambini non ancora nati,
che sono i più indifesi ed innocenti tra tutti i poveri.
I
sacerdoti: uomini di Dio, pastori per il popolo
Non posso non rivolgere un ultimo pensiero
ai sacerdoti di questa terra, ai quali è affidata la missione di alimentare e
rafforzare il cammino di fede di tutto il popolo. Desidero ricordare loro – e a
me stesso – che oggi c’è bisogno di pastori in grado di essere profondi, per
nulla superficiali. La semplicità e la chiarezza non diminuiscono la profondità
del messaggio evangelico. Gesù diceva molto, con poche parole. Chi lo ascoltava
si meravigliava di ciò, le sue parole convincevano, toccavano il cuore, perché
Egli non si limitava a fare “bei” discorsi, forbiti, ma trasmetteva soprattutto
la sua ricchezza interiore, ciò che egli stesso viveva era oggetto dei suoi
discorsi.
In modo particolare, tenendo conto del
quadro tracciato in precedenza, possiamo pensare che oggi, qui, ci sia bisogno
di sacerdoti generosi, che siano uomini di Dio e pastori per il popolo, che non
facciano tutto, ma animino la comunità cristiana, individuando e promuovendo
all’interno di essa quelle vocazioni e quei servizi che rendono il popolo di
Dio prezioso per tutta la società. Penso quindi a pastori che non si limitino
ad indicare un cammino – come un segnale stradale, utile, ma inerte – ma che si
offrano di accompagnare coloro a cui hanno indicato la strada. La comunità
ecclesiale non nasce dalle “cabine di regia” – diocesane, parrocchiali, etc –
ma sulle strade del mondo, stando accanto alle persone nella vita quotidiana,
nei momenti fondamentali di essa, pronti a sostenerle nelle difficoltà, a
condividere le gioie, a far incontrare Gesù.
In questi mesi, posto vicino, nella mia
responsabilità presente, alle preoccupazioni di Papa Francesco per la Chiesa e
per il mondo, tante volte mi interrogo come io, come ciascuno di noi, potrebbe
dare risonanza ed eco a questa onda straordinaria, che il Papa ha suscitato.
Tanti si chiedono, dai grandi ai piccoli e semplici del mondo, quale sia il
segreto del Papa e come raccogliere, a loro volta, la fiamma da lui accesa.
Darei, con tutta umiltà e profonda
convinzione, questa risposta: parlare, innanzitutto, con la verità del Vangelo;
il popolo di Dio lo ascolta e lo intende; è un linguaggio semplice e vivo, che
arriva al cuore ed entra nelle sue profondità. Anche chi non ha fede si
interroga e riflette pensoso; anche i grandi della terra lo trovano coerente ed
interessante per costruire una società e una convivenza più pacifica e giusta.
Parlare con la verità del Vangelo…
Parlare, poi, al cuore dell’uomo con una grande umanità e profondo rispetto.
Sentiamo il Papa che commenta e parla della vita vissuta dalla gente, gente che
soffre e combatte, soprattutto ai margini – il Papa le chiama periferie – della
vita e della società: i bambini sfruttati, i vecchi lasciati soli e
abbandonati, i poveri senza speranza di riscatto, i giovani senza ideali e senza
progetto di futuro.
La Parola del Vangelo… una grande
umanità sul volto, nel dire e nel cuore…
Aggiungerei, infine: un darsi e
sacrificarsi senza risparmio! È un Papa che lavora e si spende con infinità
generosità ed operosità. Tutti ci chiediamo come fa e come riesce a sostenersi.
C’è una grazia di stato che lo accompagna e certamente lo guida.
Mi chiedo – e mi avvio senz’altro alla
conclusione – chi di noi non ha le stesse risorse umane e cristiane, per dare
il proprio contributo e la propria testimonianza, negli spazi e nelle
responsabilità provate e pubbliche, che gli corrispondono?
Nessuno si senta escluso ed emarginato;
raccogliamo la torcia della Parola di Dio, come i battezzati che siamo, e
profittiamo della grazia dei Sacramenti, tesori di purificazione e di riscatto
dalla umana debolezza che tutti portiamo dentro; tiriamo fuori dalla mente e
dal cuore quell’umanità ricca di doni e di grazia che il Buon Dio ci ha dato,
per trasmetterla nella famiglia e nella società in cui viviamo.
E Infine… non stanchiamoci di operare il
bene; non scoraggiamoci per le sconfitte e gli errori in cui incorriamo; il
Signore conosce le profondità del nostro cuore ed è capace di moltiplicare i
pochi pani e pesci che gli possiamo offrire, piccoli e poveri come siamo!
Mettiamoci nella scia… nell’onda… nella
famiglia dei figli spirituali di Papa Francesco, aiutiamolo con la preghiera, e
soprattutto mettiamoci alla sua scuola, di Vangelo vissuto e di testimonianza
cristiana.
S. Em. Card. Beniamino Stella