S. Em. il Card. Beniamino Stella

 Ritiro per i sacerdoti, omelia.

Riese, 29 settembre 2014

 

Sono davvero lieto di essere tra voi, per condividere questa giornata di ritiro, di preghiera e di riflessione, che vede riuniti i sacerdoti delle diocesi di Treviso. Sono vivamente grato a S.E. Mons. Gardin di avermi invitato, per vivere con voi questo momento d’incontro fraterno, nel ricordo del Papa San Pio X.

 

Quest’anno ricorre il centesimo anniversario della morte del Santo Pontefice, nato qui a Riese, quindi vorrei riprendere due temi cari al suo Magistero, la fraternità sacerdotale e la Santa Eucaristia; si tratta di un ideale percorso a ritroso, a partire dalla nostra missione di evangelizzazione, passando per ciò che la rende possibile e maggiormente credibile, cioè la comunione fraterna, sino ad arrivare alla sua unica fonte, l’Eucaristia.

 

È noto che Pio X diede al suo ministero una direzione chiara, esplicitata nel suo motto episcopale, instaurare omnia in Christo, vissuto in chiave missionaria, secondo le parole dell’apostolo Paolo, «mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9, 22), facendo sì che “Cristo sia tutto e in tutti”.

 

In effetti, il ministero dei presbiteri è ordinato all’attuazione dell’invio in missione da parte di Gesù. Si tratta di un movimento, di un dinamismo, di uno slancio della Chiesa intera, che S. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno chiamato nuova evangelizzazione e che, con la sua spiccata sensibilità per i poveri e gli ultimi, Papa Francesco ha ripreso, parlando di uscita della Chiesa verso le periferie.

 

Scorrendo le pagine del Vangelo, colpisce come Gesù stesso abbia associato la missione alla comunione fraterna tra coloro che la attuano. In Marco, ad esempio, l’istituzione dei Dodici ha lo scopo di radunarli in un collegio, per stare con lui e per essere inviati a predicare (Mc 3,14). Più avanti, lo stesso Marco racconta che Gesù inviò i Dodici in missione “due a due” (Mc 6,7), così come secondo Luca avvenne anche per i 72 discepoli (Lc 10, 1).

 

Di conseguenza, anche la prima comunità cristiana si è caratterizzata e segnalata per la comunione tra i suoi membri. Negli Atti degli Apostoli si dice che i cristiani «erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (At 2,42), precisando poi che la moltitudine dei credenti aveva «un cuore solo e un’anima sola» e che «fra loro tutto era comune» (At 4,32). Tale comunione si esprimeva anche nell’evangelizzazione, essendo la missione spesso affidata a piccoli gruppi di persone, come mostrano i viaggi dell’apostolo Paolo.

 

Perché Gesù ha desiderato che comunione e missione fossero ordinariamente congiunte? Lo ha spiegato lui stesso nel corso dell’Ultima Cena; la comunione è fonte della missione e condizione per la sua efficacia, in quanto testimonianza della potenza della carità fraterna, che nasce dall’amore che unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ci è nota questa esortazione di Gesù ai discepoli, divenuta preghiera: «Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore… Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi…» (Gv 15, 9.17). Tale “comandamento nuovo” ha un risvolto missionario esplicito, in quanto Gesù pregò per l’unità dei discepoli, «perché il mondo creda» (Gv 17, 21).

 

La comunione quindi è essenziale per la vita ordinaria, della Chiesa e di ogni presbitero, e in modo particolare, quella tra i sacerdoti, che si fonda su una realtà sacramentale, in quanto, con l’ordinazione sacerdotale, siamo tutti configurati a Cristo, unico Sacerdote e Capo della Chiesa. Con i Vescovi di cui sono collaboratori, i presbiteri sono una cosa sola in Cristo.

 

Come si può far sì che questa esigenza del nostro essere sacerdoti sia concreta e visibile? Certo, essa si manifesta innanzitutto nella collaborazione pastorale, agendo come membri di un unico presbiterio, aiutandoci a vicenda, cercando insieme i modi per annunciare il Vangelo oggi, sin nelle più remote periferie. Un tale orizzonte e intento di fondo non dovrebbe mai mancare nelle nostre programmazioni pastorali.

 

Tuttavia, occorre essere attenti a non considerare la comunione solo come una forma strutturata di collaborazione; essa si fonda sul sacramento dell’Ordine e genera una vera “fraternità sacramentale” (Presbyterorum Ordinis, n. 8). Occorre pertanto che l’unità si manifesti nella quotidianità e che la fraternità sacerdotale penetri ogni dimensione del nostro “essere”, non limitandosi a costituire una modalità del nostro “fare”. Occorre unire le nostre forze per coltivare insieme, e meglio, il campo del Signore, ma è necessario unire anche le nostre vite, per sentirci una vera “famiglia sacerdotale”, dove i giovani collaborano con gli anziani e i sani aiutano i malati.

 

L’essere celibi è una vocazione speciale da parte del Signore, ma non ci deve portare a diventare “solitari” o, peggio, “individualisti”. La possiamo coltivare dentro quegli spazi di solitudine e di perseverante capacità di stare alla presenza del Signore nel raccoglimento. Intorno a noi, infatti, c’è tanto movimento e chiasso, tanto  parlare, di persone, di giornali, di radio e televisione, di Internet.. Ma noi, con misura e disciplina sacerdotale dobbiamo dire: “…io devo prendermi un po' di silenzio per la mia anima; mi stacco da voi per unirmi al mio Dio», come disse il caro Papa Luciani, del quale oggi ricorre l’anniversario della morte, nel suo discorso al Clero romano (7 settembre 1978).

 

La vocazione al celibato non può non permetterci, nell’equilibrio e nella disciplina degli affetti, di vivere e di sviluppare nel quotidiano ministero una serie di relazioni: con il Signore, con i confratelli e con i fedeli, e tra questi con gli amici e con la nostra famiglia; esse sono come le tre gambe di un tavolino, che si bilanciano a vicenda, se adeguatamente coltivate, e giovano al nostro equilibrio personale e spirituale, nonché alla nostra efficacia ministeriale.

 

Consolidati così nella nostra vocazione personale, esistono varie modalità per tradurre in pratica con i confratelli la fraternità sacramentale. La prima consiste nell’incontrarsi spontaneamente, soprattutto per condividere la Parola di Dio e pregare insieme, ma anche per condividere soddisfazioni e fatiche, magari a tavola, durante i pasti, che rendono più facile e immediata la condivisione, giovani e anziani insieme.

 

Come in ogni famiglia, infatti, anche tra noi sacerdoti ci sono quegli anziani, per cui il Santo Padre ha varie volte espresso la sua sollecitudine; la fraternità che ci unisce non è legata all’età, pertanto è bene che essa si traduca anche nell’accogliere i confratelli anziani, che hanno dato tanto alla loro Chiesa e che possono costituire un “tesoro” di esperienza pastorale e spirituale.

 

Anche la direzione spirituale tra preti è un’altra forma squisita della fraternità sacerdotale. Ogni sacerdote mette a servizio del fratello la propria grazia sacerdotale per sostenerlo, aiutarlo a crescere nella sua dedizione a Cristo e alla Chiesa. Si tratta di un ministero fondamentale, sia tra noi sacerdoti, che da offrire ai fedeli. È auspicabile che in tale fraternità trovi posto anche un frequente ricorso al ministero della riconciliazione, per donarsi a vicenda la misericordia di Dio. La misericordia, ovviamente, non deve mai mancare anche nei rapporti quotidiani tra sacerdoti, attraverso un perdono reciproco e profondo, senza strascichi di risentimento, che permetta di andare oltre gli screzi e le incomprensioni, inevitabili anche nelle migliori famiglie.

 

Le varie forme di fraternità sacerdotale, vissute con differente intensità, trovano il loro pieno compimento nella vita comune, della quale Pio X affermava che produce «copiosi frutti» (nell’esortazione al clero Haerent animo, in occasione del suo 50° anniversario di sacerdozio, 4 agosto 1908, n. 36). Essa è esigente, perché la serenità e la fecondità di ogni vita comune dipendono dalla carità. E sappiamo quanto impegno richiede la carità autentica, la quale però è un sostegno immenso, che favorisce lo sviluppo armonioso della personalità, arricchisce la vita spirituale e diviene fonte di testimonianza per i fedeli, secondo il pensiero del Santo Pontefice di Riese.

 

In questa “famiglia sacerdotale”, in cui la fraternità tra i presbiteri, comunque si realizzi, è accompagnata e favorita dalla paternità del Vescovo, la spiritualità diocesana è il comune denominatore, che modella e unisce tutti i sacerdoti posti al servizio di una determinata Chiesa particolare. La definizione dell’essenza e delle coordinate di tale spiritualità è il risultato di un sapiente equilibrio tra la vita pastorale (caratterizzata dalle attività, dal prodigarsi con generosità e spirito di sacrificio per il bene dei fratelli) e la vita spirituale (che esige raccoglimento, intimità con Cristo, disciplina e fedeltà nella preghiera, come condizioni irrinunciabili per salvaguardare la propria identità sacerdotale).

 

Ciò non toglie che tale imprescindibile carisma diocesano possa convivere con altri, suscitati dall’azione dello Spirito, in merito ai quali l’autorità della Chiesa si è espressa favorevolmente. In tale contesto vorrei fare un accenno alle associazioni sacerdotali, sorte intorno a diversi carismi, che rafforzano e sostengono il ministero dei preti che operano in una diocesi. Nella summenzionata esortazione al clero, esse sono annoverate da Pio X tra i “sussidi della Grazia” (XV), a disposizione dei sacerdoti.

 

La fraternità sacerdotale però non è semplicemente il frutto del nostro umano impegnarci, né una generica “fratellanza”; essa nasce da un sacramento, quello dell’Ordine, e si alimenta e si consolida tramite un altro sacramento, la Santissima Eucaristia, al quale grande attenzione ha prestato il Santo Pontefice di Riese. Pio X ha voluto manifestare la fede nella potenza e nella fecondità dell’azione della Grazia, incoraggiando la comunione frequente e quotidiana (decreto Sacra Tridentina Synodus, del 20 dicembre 1905) e permettendo ai fanciulli di ricevere il Corpo di Cristo già a sette anni (decreto Quam singulari, del 10 agosto 1910), attuando anche in questo modo il proposito espresso dal suo già ricordato motto episcopale.

 

Ogni volta che un sacerdote celebra l’Eucarestia con il Popolo di Dio affidatogli egli rende presente Cristo, Verbo di Dio, permette alla luce della Rivelazione di penetrare il cuore dei fedeli, di far loro contemplare il mistero di Dio e la vocazione dell’uomo. Ogni volta che un sacerdote celebra l’Eucarestia, la Misericordia infinita di Dio scaturisce dalla Croce di Cristo e si diffonde nel mondo, bussa alla porta di ogni cuore – anche e soprattutto di quelli più chiusi e ostili – penetra e trasforma quelli che si lasciano toccare dalla grazia di Dio, fa sorgere i santi e i profeti, di cui il mondo ha bisogno per l’attuazione del disegno d’amore di Dio. La Chiesa, che è un mistero di comunione e di missione, trova il suo centro vitale nella comunione per eccellenza, che è l’Eucarestia. La missione stessa della Chiesa, quindi quella di tutti noi sacerdoti, scaturisce dall’Eucarestia e ad essa ritorna.

 

Quindi, carissimi sacerdoti, non celebrate mai l’Eucarestia come se fosse una funzione a voi esterna, un mero rito. La profondità della vostra preghiera, insieme al vostro zelo di pastori, che radunano la comunità e la guidano verso il Signore, vi porteranno ad essere una sola cosa con Gesù, affinché l’Eucarestia sia davvero la fonte e il culmine della vostra fede personale, della vostra vita sacerdotale, della vostra fecondità pastorale. La vostra devozione eucaristica sarà un esempio e uno stimolo per l’amore dei fedeli per il Santissimo. Fu Pio X ad aver beatificato il santo Curato d’Ars, il quale – come è noto – fondò la sua azione pastorale e missionaria su una preghiera quotidiana e prolungata davanti al tabernacolo. Per l’intercessione e i meriti di S.Pio X, chiediamo al Signore di essere riscaldati dall’amore di Cristo nell’Eucarestia, perché con esso possiamo “contagiare” i fedeli che ci sono affidati.