S.Em. il Card. Beniamino Stella

La fraternità sacerdotale: comunione per la missione

Fiume, 27 ottobre 2014

 

Desidero che questa riflessione prenda le mosse dal suo titolo e trovi immediatamente il contesto desiderato, quello di cui sono stato chiamato ad interessarmi dal Santo Padre alla Congregazione per il Clero, cioè la vita e il ministero dei presbiteri. Dal momento che si tratta di un tema vastissimo, oggi intendo soffermarmi su un aspetto non secondario di esso, che riguarda la natura della vita dei presbiteri, non solo le sue modalità attuative, la fraternità sacerdotale appunto. Essa consiste in una comunione, perché «tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un'intima fraternità sacramentale… da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità» (Presbyterorum Ordinis, n. 8); inoltre, tale comunione non resta fine a se stessa, ma è finalizzata alla missione dei presbiteri, perché ognuno possa dire con l’Apostolo Paolo, «mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9, 22)

 

Esiste allora un’intima unione tra tutti i presbiteri, in quanto, dopo aver ricevuto l’ordinazione sacramentale, tramite la fraternità vissuta i sacerdoti manifestano quella unità con cui Cristo volle che i suoi fossero una sola cosa, affinché il mondo sappia che il Figlio è stato inviato dal Padre. Pertanto, questo vincolo appare come un elemento essenziale della vita e della missione dei presbiteri e, «in virtù della comune ordinazione e missione» (Lumen gentium, n. 28), risulta essere un’esigenza che scaturisce dal sacramento stesso dell’Ordine. In collaborazione con i Vescovi, essi portano insieme la sollecitudine, non solo per le singole Chiese particolari, ma anche per la Chiesa universale, in un unico presbiterio, inseparabilmente universale e locale.

 

Alcuni pensieri sul sacerdote

Se questo è il contesto all’interno del quale intendo ambientare la riflessione odierna, ritengo opportuno premettere alcune considerazioni sul sacerdote e su ciò che lo anima nella sua dedizione al ministero, in vista del successivo discorso sulle sue relazioni con i confratelli. Infatti, il ogni sacerdote è chiamato a formarsi «per comunicare alla carità di Cristo, Buon Pastore» (Pastores dabo vobis, n. 57), quella carità pastorale che lo contraddistingue e permea tutto il suo essere.

 

Così, mi piace pensare che tale carità pastorale, in ogni sacerdote sia a sua volta alimentata e fatta crescere da “quattro amori”, che caratterizzano in modo permanente la sua vita e la sua spiritualità, la sua intera persona, in vista del suo rapportarsi agli altri sacerdoti e a tutto il popolo di Dio.

L’amore per Cristo

È solo apparentemente scontato ritenere che il sacerdote riesca sempre a mantenere vivo un genuino amore per Gesù. Oltre che dal peccato, la trascuratezza o la dimenticanza di esso, possono dipendere dal fatto di essere talmente assorbito dalle “cose di Gesù”, sino al punto che Gesù stesso non risulti più al centro delle sue preoccupazioni. Sarebbe come se una brava donna che attende un ospite importante si desse da fare indefessamente per riordinare la casa, farla trovare lucida e splendente, ma non si accorgesse che, nel frattempo, la persona attesa è arrivata, e finisse per ignorarla in nome del desiderio di accoglierla.

 

È Gesù che dà significato, unità e orientamento alla vita e al ministero del sacerdote; è a Lui che il sacerdote si conforma nel cammino discepolare, prima in Seminario, poi durante il ministero, è Lui che gli affida una porzione del suo popolo. Perciò è essenziale la costante unione personale con Gesù nella preghiera, nella meditazione della Parola di Dio, nella celebrazione delle Santa Messa, in tutte le devozioni ed esercizi di pietà che mantengono viva la Sua presenza nella giornata.

 

L’amore per la Santa Eucarestia

Agendo in persona Christi, tramite i sacramenti, il sacerdote dispensa la grazia e la misericordia di Dio, in modo specialissimo con la celebrazione della Santa Messa. Infatti, ogni volta che un sacerdote celebra l’Eucarestia con il popolo di Dio affidatogli egli rende presente Cristo, Verbo di Dio, permette alla luce della Rivelazione di penetrare il cuore dei fedeli, di far loro contemplare il mistero di Dio e la vocazione dell’uomo. Ogni volta che un sacerdote celebra l’Eucarestia, la Misericordia infinita di Dio scaturisce dalla Croce di Cristo e si diffonde nel mondo, bussa alla porta di ogni cuore – anche e soprattutto di quelli più chiusi e ostili – penetra e trasforma quelli che si lasciano toccare dalla grazia di Dio, fa sorgere i santi e i profeti, di cui il mondo ha bisogno per l’attuazione del disegno d’amore di Dio.

 

È necessario che un sacerdote non celebri mai l’Eucarestia come se fosse una funzione a lui esterna, un mero rito. La profondità della sua preghiera, insieme al suo zelo di pastore, che raduna la comunità e la guida verso il Signore, lo porterà ad essere una sola cosa con Gesù, affinché l’Eucarestia sia la fonte e il culmine della sua fede personale, della sua vita sacerdotale, nonché della sua fecondità pastorale.

 

L’amore per la Chiesa

Anche tramite alcune categorie di credenti, è sempre di moda lo slogan, “Cristo sì, Chiesa no”, non di rado accolto anche da alcuni sacerdoti, almeno implicitamente, con i loro comportamenti critici e disobbedienti, come se fossero “liberi professionisti del ministero”. Ma la Chiesa – lo sappiamo bene – è il Corpo Mistico di Cristo e il presbitero ha un ruolo centrale nel dare concretezza al mistero della Chiesa; egli, infatti, in nome di Cristo, viene chiamato dalla Chiesa, formato dalla Chiesa, ordinato dalla e nella Chiesa, ed è la Chiesa che gli affida una missione.

 

Perciò, il sacerdote è chiamato ad amare la Chiesa così come, con tutti i suoi elementi divini ed umani, con il suo essere “l’ospedale da campo” che spesso Papa Francesco ricorda, in cui operare per portare sollievo, perdono e misericordia. Allora, l’amore per il Santo Padre e per il proprio Vescovo, la fedele cooperazione con loro e la cura pastorale del popolo, sono i modi ordinari per dimostrare e alimentare questo amore alla Chiesa.

 

L’amore per la Vergine Maria

Il sacerdote, che ama Cristo e dispensa i Suoi misteri, assegna a Maria un posto speciale nel proprio cuore, in quanto madre del suo Signore; infatti, «la spiritualità sacerdotale non può dirsi completa se non prende seriamente in considerazione il testamento di Cristo crocifisso, che volle consegnare la Madre al discepolo prediletto e, tramite lui, a tutti i sacerdoti chiamati a continuare la sua opera di redenzione» (Direttorio, n. 84). Da Maria, il sacerdote impara a vivere per Cristo, ad essere pienamente capace di donare se stesso per amore, a vivere totalmente orientato all’Eucarestia e alla donazione di sé. La devozione mariana quindi non è per il presbitero una questione sentimentale, perché essa è fondata sulla roccia solida della rivelazione divina; è uno degli amori che scaldano il cuore del sacerdote e gli permettono di non inaridirsi.

 

Osservazioni generali sulla fraternità

Dopo aver considerato alcuni tratti della  spiritualità e della vita del presbitero considerato in se stesso, tratteggiando la sua figura come quella di un “discepolo che ama”, desidero ora passare dal “sacerdote” ai “sacerdoti”, considerati come l’insieme dei discepoli che il Signore invia congiuntamente a proseguire la sua missione in spirito di fraternità. Perciò, prima di presentare e commentare alcune modalità concrete di realizzazione di tale fraternità, mi sembra utile proporre qualche osservazione generale, per meglio introdurre il tema.

 

Fraternità nel mondo di oggi

Innanzitutto, occorre ricordare che le conseguenze della globalizzazione si ripercuotono concretamente anche nella vita del clero. Oggi le distanze geografiche sono diventate un ostacolo minore, perché le strade più praticabili e i mezzi di comunicazione più rapidi e più comodi facilitano gli spostamenti; capita allora che i sacerdoti si incontrino frequentemente per condividere vari momenti della vita personale e del ministero pastorale. Numerosi sono quelli che si servono dei mezzi di comunicazione sociale, di internet e dei vari “social network”, per rimanere in contatto con gli altri; tali mezzi, infatti, usati con sapienza, costituiscono un prezioso strumento a disposizione della Chiesa, sia per la formazione – intellettuale, spirituale e pastorale – che per favorire i contatti, laddove le distanze rappresentano una reale difficoltà. Così, anche nelle grandi diocesi, i confratelli possono mantenersi vicini in diversi modi. Inoltre, anche grazie all’uso di questi mezzi, i sacerdoti possono offrire una bella testimonianza di comunione e di collaborazione, in una società sovente caratterizzata da una cultura individualistica in cui la qualità delle relazioni può essere indebolita sia a livello familiare che professionale.

 

La fraternità “pastorale”

Tra i compiti principali della loro missione, i sacerdoti sono chiamati ad animare le comunità presso le quali sono inviati. Infatti, come è descritto negli Atti degli Apostoli (2, 42), la comunione si attua prima con i fedeli, non solo perché tutti sono uniti nel medesimo battesimo, ma anche perché i ministri ordinati esercitano, nei loro confronti, una vera paternità, mettendosi a servizio della crescita del sacerdozio battesimale. Nella vita quotidiana, non mancano esempi di bella e profonda amicizia, che uniscono il sacerdote e i fedeli, come per esempio il legame con alcune famiglie. Come Gesù, che amava fermarsi a Betania, nella casa di Lazzaro, di Marta e Maria, i sacerdoti trovano gioia, equilibrio e riposo in queste relazioni semplici e fraterne.

 

Una fraternità che sia sacerdotale

Tuttavia le relazioni con i laici, per quanto siano belle e feconde, non possono sostituire un legame che si colloca a un altro livello: la stragrande maggioranza dei sacerdoti percepisce che l’ordinazione presbiterale crea tra loro, specialmente all’interno della diocesi in cui esercitano il proprio ministero, quel legame specifico che la Presbyterorum Ordinis chiama “fraternità sacramentale” (n. 8).

 

Per questo, infatti, il sacerdote diocesano è chiamato a vedere la sua incardinazione in una Diocesi non tanto come una questione organizzativa, canonica o disciplinare, ma piuttosto come la chiamata a condividere con il Vescovo diocesano la preoccupazione e l’impegno per la cura di una specifica porzione del popolo di Dio.

 

Il loro profondo desiderio di attualizzare nel quotidiano il legame ontologico nato dall’ordinazione si esplicita in un ampio ventaglio di realizzazioni concrete, accomunate dall’effettivo incontro tra i confratelli appartenenti al medesimo presbiterio. Esiste una ricerca spontanea di relazioni che il solo rapporto di collaborazione pastorale non può soddisfare completamente. Ritrovarsi con semplicità, fraternamente e gratuitamente, è un bisogno ampiamente espresso, tanto che spesso più le distanze da percorrere separano i sacerdoti gli uni dagli altri, più il desiderio di fraternità può essere maggiormente avvertito.

 

Fratelli intorno a un Padre

Ovviamente, non si può parlare del presbiterio senza menzionare il Vescovo, del quale i presbiteri condividono la responsabilità pastorale e la sollecitudine, con l’essere per lui non solo “collaboratori prudenti”, ma anche “figli e amici” (Christus Dominus, nn. 15 e 16). Secondo la testimonianza dei Vescovi e dei sacerdoti, il desiderio di fraternità sacramentale comporta anche il bisogno di una relazione semplice e fiduciosa tra il Pastore della diocesi e i suoi collaboratori, tra i fratelli e il loro Padre; un tale rapporto, con naturalezza, conferisce maggiore fecondità all’esercizio del ministero pastorale.

 

Fraternità e missione del sacerdote

Sin dalle parole del Vangelo emerge con chiarezza che si tratta di due dimensioni inscindibilmente unite nella comunità dei discepoli di Gesù; o, ancora meglio, si tratta di due lati della stessa medaglia.

 

In effetti, il ministero dei presbiteri è ordinato all’attuazione dell’invio in missione da parte di Gesù. Si tratta di un movimento, di un dinamismo, di uno slancio della Chiesa intera, che S. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno chiamato nuova evangelizzazione e che, con la sua spiccata sensibilità per i poveri e gli ultimi, Papa Francesco ha ripreso, parlando di uscita della Chiesa verso le periferie.

 

Alcune parole della Scrittura

Scorrendo le pagine del Vangelo, colpisce come Gesù stesso abbia associato la missione alla comunione fraterna tra coloro che la attuano. In Marco, ad esempio, l’istituzione dei Dodici ha lo scopo di radunarli in un collegio, per stare con lui e per essere inviati a predicare (Mc 3,14). Più avanti, lo stesso Marco racconta che Gesù inviò i Dodici in missione “due a due” (Mc 6,7), così come secondo Luca avvenne anche per i 72 discepoli (Lc 10, 1).

 

Di conseguenza, anche la prima comunità cristiana si è caratterizzata e segnalata per la comunione tra i suoi membri. Negli Atti degli Apostoli si dice che i cristiani «erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (At 2,42), precisando poi che la moltitudine dei credenti aveva «un cuore solo e un’anima sola» e che «fra loro tutto era comune» (At 4,32). Tale comunione si esprimeva anche nell’evangelizzazione, essendo la missione spesso affidata a piccoli gruppi di persone, come mostrano i viaggi dell’apostolo Paolo.

 

Perché Gesù ha desiderato che comunione e missione fossero ordinariamente congiunte? Lo ha spiegato lui stesso nel corso dell’Ultima Cena; la comunione è fonte della missione e condizione per la sua efficacia, in quanto testimonianza della potenza della carità fraterna, che nasce dall’amore che unisce il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Ci è nota questa esortazione di Gesù ai discepoli, divenuta preghiera: «Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore… Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi…» (Gv 15, 9.17). Tale “comandamento nuovo” ha un risvolto missionario esplicito, in quanto Gesù pregò per l’unità dei discepoli, «perché il mondo creda» (Gv 17, 21).

 

Quale comunione fraterna?

Forse, siamo abituati a pensare alle esigenze della comunione, e alla necessità di ricostruirla e mantenerla, soprattutto in ambito ecumenico, ma essa è essenziale per la vita ordinaria, della Chiesa e di ogni presbitero. La comunione tra i sacerdoti si fonda su una realtà sacramentale, in quanto, con l’ordinazione sacerdotale, siamo tutti configurati a Cristo, l’unico Sacerdote e Capo della Chiesa. Con i Vescovi di cui sono collaboratori, i presbiteri sono una cosa sola in Cristo.

 

Manifestare la comunione fraterna

Come si può far sì che questa esigenza del nostro essere sacerdoti sia concreta e visibile? Certo, essa si manifesta innanzitutto nella collaborazione pastorale, agendo come membri di un unico presbiterio, aiutandoci a vicenda, cercando insieme i modi per annunciare il Vangelo oggi, sin nelle più remote periferie. Un tale orizzonte e intento di fondo non dovrebbe mai mancare nelle nostre programmazioni pastorali.

 

Tuttavia, occorre essere attenti a non considerare la comunione solo come una forma strutturata di collaborazione; essa si fonda sul sacramento dell’Ordine e genera una “fraternità sacramentale” (Presbyterorum Ordinis, n. 8). È necessario pertanto che l’unità si manifesti nella quotidianità e che la fraternità sacerdotale penetri ogni dimensione del nostro “essere”, non limitandosi a costituire una modalità del nostro “fare”.

 

Occorre unire le nostre forze per coltivare insieme, e meglio, il campo del Signore, ma è necessario unire anche le nostre vite e le nostra storia personale, per sentirci una vera “famiglia sacerdotale”, dove i giovani collaborano con gli anziani e i sani aiutano i malati. Siamo chiamati a convertirci alla disponibilità del cuore, perché ciò che predichiamo in tema di fraternità e amore vicendevoli, trovi riscontro nella nostra vita.

 

La fraternità e la vocazione al celibato

L’essere celibi è una vocazione speciale da parte del Signore, ma non ci deve portare a diventare “solitari” o, peggio, “individualisti”. La possiamo coltivare dentro quegli spazi di solitudine e di perseverante capacità di stare alla presenza del Signore nel raccoglimento. Intorno a noi, infatti, c’è tanto movimento e chiasso, tanto  parlare, di persone, di giornali, di radio e televisione, di Internet..

 

Con misura e disciplina sacerdotale dobbiamo dire: “…io devo prendermi un po' di silenzio per la mia anima; mi stacco da voi per unirmi al mio Dio», come disse Papa Luciani, a me particolarmente caro, nel suo discorso al Clero romano del 7 settembre 1978.

 

Ma la vocazione al celibato non può non permetterci, nell’equilibrio e nella disciplina degli affetti, di vivere e di sviluppare nel quotidiano ministero una serie di relazioni: con il Signore, con i confratelli e con i fedeli, e tra questi con gli amici e con la nostra famiglia; esse sono come le tre gambe di un tavolino che si bilanciano a vicenda, se adeguatamente coltivate, e giovano al nostro equilibrio personale e spirituale, nonché alla nostra efficacia ministeriale.

 

Non dobbiamo pertanto sottovalutare l’apporto positivo della fraternità tra sacerdoti per vivere il celibato in pienezza e con gioia, come una via per la felicità personale, seppure con impegno e, a volte, anche con fatica, e non invece come mera rinuncia e privazione. Abbiamo bisogno gli uni degli altri per far crescere al massimo le nostre potenzialità, per condividere le gioie e sostenerci nei momenti di fatica e di scoraggiamento.

La fraternità nella “famiglia sacerdotale”

Con i confratelli esistono varie modalità per tradurre in pratica la fraternità sacramentale. La prima consiste nell’incontrarsi spontaneamente, soprattutto per condividere la Parola di Dio e pregare insieme, ma anche per condividere soddisfazioni e fatiche, magari a tavola, durante i pasti, che rendono più facile e immediata la condivisione, giovani e anziani insieme.

 

Come in ogni famiglia, infatti, anche tra noi sacerdoti ci sono quegli anziani, per cui il Santo Padre ha varie volte espresso la sua sollecitudine; la fraternità che ci unisce non è legata all’età, pertanto è bene che essa si traduca anche nell’accogliere i confratelli anziani, che hanno dato tanto alla loro Chiesa e che possono costituire un “tesoro” di esperienza pastorale e spirituale.

 

Anche la direzione spirituale tra preti è un’altra forma squisita della fraternità sacerdotale. Ogni sacerdote mette a servizio del fratello la propria grazia sacerdotale per sostenerlo, aiutarlo a crescere nella sua dedizione a Cristo e alla Chiesa. Si tratta di un ministero fondamentale, sia tra noi sacerdoti, che da offrire ai fedeli. È auspicabile che in tale fraternità trovi posto anche un frequente ricorso al ministero della riconciliazione, per donarsi a vicenda la misericordia di Dio. La misericordia, ovviamente, non deve mai mancare anche nei rapporti quotidiani tra sacerdoti, attraverso un perdono reciproco e profondo, senza strascichi di risentimento, che permetta di andare oltre gli screzi e le incomprensioni, inevitabili anche nelle migliori famiglie.

 

Spiritualità diocesana e vita comune

In questa “famiglia sacerdotale”, in cui la fraternità tra i presbiteri è accompagnata e favorita dalla paternità del Vescovo, la spiritualità diocesana è il comune denominatore, che modella e unisce tutti i sacerdoti posti al servizio di una determinata Chiesa particolare. La definizione dell’essenza e delle coordinate di tale spiritualità è il risultato di un sapiente equilibrio tra la vita pastorale (caratterizzata dalle attività, dal prodigarsi con generosità e spirito di sacrificio per il bene dei fratelli) e la vita spirituale (che esige raccoglimento, intimità con Cristo, disciplina e fedeltà nella preghiera, come condizioni irrinunciabili per salvaguardare la propria identità sacerdotale).

 

Ciò non toglie che tale imprescindibile carisma diocesano possa convivere con altri, suscitati dall’azione dello Spirito, in merito ai quali l’autorità della Chiesa si è espressa favorevolmente. In tale contesto vorrei fare un accenno alle associazioni sacerdotali, che rafforzano e sostengono il ministero dei preti che operano in una diocesi. Esse sono numerose nel mondo e rispondono a criteri diversi, in modo che ognuno possa aderire a quella più vicina ai carismi che il Signore gli ha donato e alla propria sensibilità spirituale.

 

In ogni caso, per rafforzare l’adesione a tale spiritualità diocesana e concretizzare l’appartenenza al presbiterio attraverso alcune relazioni specifiche, è di grande utilità la vita comune tra i presbiteri, come contesto in cui sperimentare una fraternità piena e come rimedio contro l’isolamento. Essa è esigente, perché la serenità e la fecondità di ogni vita comune dipendono dalla carità; persino un Santo, il gesuita Giovanni Berchmans, usava affermare «la mia massima penitenza è la vita comune». Infatti, sappiamo quanto impegno richiede la carità autentica, la quale però è pure un sostegno immenso, che favorisce lo sviluppo armonioso della personalità, arricchisce la vita spirituale e diviene fonte di testimonianza per i fedeli. Ovviamente, la vita comune non può essere considerata un obbligo per il clero diocesano, tuttavia, attraverso la secolare esperienza della Chiesa, il Codice di Diritto Canonico ha recepito la bontà e le grandi opportunità offerte ai sacerdoti da questo strumento di fraternità, incoraggiando il ricorso ad esso nel can. 280, dove si raccomanda «di praticare una consuetudine di vita comune». È un caldo invito, a far sì che la “famiglia” del presbiterio, nata in virtù dell’ordinazione e dell’incardinazione, possa manifestarsi anche in piccole “famiglie sacerdotali”, fondate appunto sulla fraternità.

 

Una conclusione

Da quanto detto sin qui, si evince che la fraternità sacerdotale ha due conseguenze benefiche: essa evangelizza di per sé, in quanto testimonianza della comunione tra i sacerdoti, e si rivela un sostegno efficace, per la loro crescita personale, anche sul piano affettivo e spirituale, nonché un valido sostegno reciproco per la loro fedeltà sacerdotale.

 

La fraternità tra i presbiteri si può attuare in varie modalità, ma in ogni caso non costituisce semplicemente un momento previo alla missione, una sorta di “fase propedeutica”, in vista di una futura evangelizzazione. Sulla base dei bravi evangelici richiamati all’inizio e delle riflessioni esposte si qui, è chiaro ora che la fraternità è già missione; le varie forme di vita fraterna sono azioni evangelizzatrici. Occorre ricordarlo, perché cooperiamo alla missione che Cristo ci ha affidato, come cristiani e come sacerdoti, con tutta la nostra vita, con ogni aspetto di essa; è una missione, appunto, non semplicemente un lavoro “a ore”, per quanto nobile e socialmente utile.

 

In sintesi

Il Santo Padre ci ha ricordato, in più di un’occasione, che non si può essere discepoli gioiosi del Signore, se ci si chiude nell’individualismo pastorale, e ha sottolineato invece «la bellezza della fraternità: dell’essere preti insieme, del seguire il Signore non da soli» (Papa Francesco, Discorso al clero di Cassano allo Ionio, 21 giugno 2014). Perciò, il tema della fraternità sacramentale è l’espressione più concreta, palpabile e vissuta di quella comune appartenenza a Cristo sacerdote, effetto della Sacra Ordinazione.

 

Tale fraternità non porta a configurare relazioni ispirate a una casta, oppure a un club, ma a una famiglia, che nel Nuovo Testamento supera il criterio dell’ereditarietà familiare per divenire, invece, una realtà radicata nella sequela di Cristo (Lc 8, 21), interiore e fatta di relazioni. Tali relazioni hanno le caratteristiche dell’essere e del vivere come una famiglia, dove c’è senso di appartenenza, incontro, collaborazione nel lavoro, cioè nel ministero, ma soprattutto nel cuore e negli affetti. Questa collaborazione si esprime nella vicinanza, soprattutto nelle ore difficili, che sono quelle della fatica nel lavoro, e quelle segnate dall’esperienza della solitudine e del dolore, fisico o del cuore.

 

Viviamo in un società fortemente marcata dall’egoismo e dall’individualismo, dove le relazioni si costruiscono e si esplicano intorno a interessi, ad affinità provvisorie, a emozioni passeggere o a un vago sentimento dello “stare bene”, magari allo scopo di raggiungere determinati risultati. La relazione sacerdotale scaturisce, invece, da una condivisione di radici sacramentali e spirituali che nascono il giorno dell’imposizione delle mani; esse tendono a configurare uno stato d’animo e un ambiente, in cui insieme si sta bene ovviamente, ma, soprattutto, si opera bene; così si lavora insieme nella Vigna del Signore, ci si riposa insieme dopo il lavoro, si programma insieme il servizio nel campo del Signore, sotto la presidenza del Vescovo e con la sua guida e ispirazione.

 

Nella famiglia, infatti, egli è il padre e la guida, il consigliere; solamente non è il rimuneratore, anche se con la parola, l’esempio e l’incoraggiamento il Vescovo è sempre spiritualmente presente nella comunità o famiglia sacerdotale.

 

La fraternità sacerdotale, dunque, non nasce dalle necessità o dalle congiunture dell’ora presente (carenza di sacerdoti), ma dall’essere realmente fratelli, inviati allo stesso campo, dopo essere stati quasi sempre formati nello stesso “grembo”, che è il seminario, e destinati a portare la gioia e la forza del Signore alle comunità cristiane della stessa Diocesi.


La fraternità sacerdotale: comunione per la missione

 

Alcuni pensieri sul sacerdote.. 1

L’amore per Cristo. 2

L’amore per la Santa Eucarestia. 2

L’amore per la Chiesa. 3

L’amore per la Vergine Maria. 3

Osservazioni generali sulla fraternità. 3

Fraternità nel mondo di oggi 4

La fraternità “pastorale”. 4

Una fraternità che sia sacerdotale. 4

Fratelli intorno a un Padre. 5

Fraternità e missione del sacerdote.. 5

Alcune parole della Scrittura. 5

Quale comunione fraterna?. 6

Manifestare la comunione fraterna. 6

La fraternità e la vocazione al celibato. 7

La fraternità nella “famiglia sacerdotale”. 8

Spiritualità diocesana e vita comune. 8

Una conclusione. 9

In sintesi. 10