S.Em.
il Card. Beniamino Stella
La
fraternità sacerdotale: comunione per la missione
Fiume, 27 ottobre 2014
Desidero che questa
riflessione prenda le mosse dal suo titolo e trovi immediatamente il contesto
desiderato, quello di cui sono stato chiamato ad interessarmi dal Santo Padre
alla Congregazione per il Clero, cioè la vita e il ministero dei presbiteri.
Dal momento che si tratta di un tema vastissimo, oggi intendo soffermarmi su un
aspetto non secondario di esso, che riguarda la natura della vita dei
presbiteri, non solo le sue modalità attuative, la fraternità sacerdotale
appunto. Essa consiste in una comunione, perché «tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante
l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un'intima fraternità sacramentale… da particolari vincoli di
carità apostolica, di ministero e di fraternità» (Presbyterorum Ordinis, n. 8); inoltre, tale comunione non resta
fine a se stessa, ma è finalizzata alla missione dei presbiteri, perché ognuno
possa dire con l’Apostolo Paolo, «mi sono
fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9, 22)
Esiste allora un’intima
unione tra tutti i presbiteri, in quanto, dopo aver ricevuto l’ordinazione
sacramentale, tramite la fraternità vissuta i sacerdoti manifestano quella
unità con cui Cristo volle che i suoi fossero una sola cosa, affinché il mondo
sappia che il Figlio è stato inviato dal Padre. Pertanto, questo vincolo appare
come un elemento essenziale della vita e della missione dei presbiteri e, «in virtù della comune ordinazione e missione»
(Lumen gentium, n. 28), risulta
essere un’esigenza che scaturisce dal sacramento stesso dell’Ordine. In
collaborazione con i Vescovi, essi portano insieme la sollecitudine, non solo
per le singole Chiese particolari, ma anche per la Chiesa universale, in un
unico presbiterio, inseparabilmente universale e locale.
Se questo è il contesto
all’interno del quale intendo ambientare la riflessione odierna, ritengo
opportuno premettere alcune considerazioni sul sacerdote e su ciò che lo anima
nella sua dedizione al ministero, in vista del successivo discorso sulle sue
relazioni con i confratelli. Infatti, il ogni sacerdote è chiamato a formarsi «per comunicare alla carità di Cristo, Buon
Pastore» (Pastores dabo vobis, n.
57), quella carità pastorale che lo contraddistingue e permea tutto il suo
essere.
Così, mi piace pensare che
tale carità pastorale, in ogni sacerdote sia a sua volta alimentata e fatta
crescere da “quattro amori”, che caratterizzano in modo permanente la sua vita
e la sua spiritualità, la sua intera persona, in vista del suo rapportarsi agli
altri sacerdoti e a tutto il popolo di Dio.
È solo apparentemente scontato
ritenere che il sacerdote riesca sempre a mantenere vivo un genuino amore per
Gesù. Oltre che dal peccato, la trascuratezza o la dimenticanza di esso,
possono dipendere dal fatto di essere talmente assorbito dalle “cose di Gesù”,
sino al punto che Gesù stesso non risulti più al centro delle sue preoccupazioni.
Sarebbe come se una brava donna che attende un ospite importante si desse da
fare indefessamente per riordinare la casa, farla trovare lucida e splendente,
ma non si accorgesse che, nel frattempo, la persona attesa è arrivata, e
finisse per ignorarla in nome del desiderio di accoglierla.
È Gesù che dà significato,
unità e orientamento alla vita e al ministero del sacerdote; è a Lui che il
sacerdote si conforma nel cammino discepolare, prima in Seminario, poi durante
il ministero, è Lui che gli affida una porzione del suo popolo. Perciò è
essenziale la costante unione personale con Gesù nella preghiera, nella
meditazione della Parola di Dio, nella celebrazione delle Santa Messa, in tutte
le devozioni ed esercizi di pietà che mantengono viva la Sua presenza nella
giornata.
Agendo in persona Christi, tramite i sacramenti, il sacerdote dispensa la grazia e la misericordia di Dio, in modo
specialissimo con la celebrazione della Santa Messa. Infatti, ogni volta che un
sacerdote celebra l’Eucarestia con il popolo di Dio affidatogli egli rende
presente Cristo, Verbo di Dio, permette alla luce della Rivelazione di
penetrare il cuore dei fedeli, di far loro contemplare il mistero di Dio e la
vocazione dell’uomo. Ogni volta che un sacerdote celebra l’Eucarestia, la
Misericordia infinita di Dio scaturisce dalla Croce di Cristo e si diffonde nel
mondo, bussa alla porta di ogni cuore – anche e soprattutto di quelli più
chiusi e ostili – penetra e trasforma quelli che si lasciano toccare dalla
grazia di Dio, fa sorgere i santi e i profeti, di cui il mondo ha bisogno per
l’attuazione del disegno d’amore di Dio.
È necessario che un
sacerdote non celebri mai l’Eucarestia come se fosse una funzione a lui
esterna, un mero rito. La profondità della sua preghiera, insieme al suo zelo
di pastore, che raduna la comunità e la guida verso il Signore, lo porterà ad
essere una sola cosa con Gesù, affinché l’Eucarestia sia la fonte e il culmine
della sua fede personale, della sua vita sacerdotale, nonché della sua
fecondità pastorale.
Anche tramite alcune
categorie di credenti, è sempre di moda lo slogan, “Cristo sì, Chiesa no”, non
di rado accolto anche da alcuni sacerdoti, almeno implicitamente, con i loro
comportamenti critici e disobbedienti, come se fossero “liberi professionisti
del ministero”. Ma la Chiesa – lo sappiamo bene – è il Corpo Mistico di Cristo
e il presbitero ha un ruolo centrale nel dare concretezza al mistero della
Chiesa; egli, infatti, in nome di Cristo, viene chiamato dalla Chiesa, formato
dalla Chiesa, ordinato dalla e nella Chiesa, ed è la Chiesa che gli affida una
missione.
Perciò, il sacerdote è
chiamato ad amare la Chiesa così come, con tutti i suoi elementi divini ed
umani, con il suo essere “l’ospedale da campo” che spesso Papa Francesco
ricorda, in cui operare per portare sollievo, perdono e misericordia. Allora,
l’amore per il Santo Padre e per il proprio Vescovo, la fedele cooperazione con
loro e la cura pastorale del popolo, sono i modi ordinari per dimostrare e
alimentare questo amore alla Chiesa.
Il sacerdote, che ama Cristo
e dispensa i Suoi misteri, assegna a Maria un posto speciale nel proprio cuore,
in quanto madre del suo Signore; infatti, «la
spiritualità sacerdotale non può dirsi completa se non prende seriamente in
considerazione il testamento di Cristo crocifisso, che volle consegnare la
Madre al discepolo prediletto e, tramite lui, a tutti i sacerdoti chiamati a
continuare la sua opera di redenzione» (Direttorio,
n. 84). Da Maria, il sacerdote impara a vivere per Cristo, ad essere pienamente
capace di donare se stesso per amore, a vivere totalmente orientato
all’Eucarestia e alla donazione di sé. La devozione mariana quindi non è per il
presbitero una questione sentimentale, perché essa è fondata sulla roccia
solida della rivelazione divina; è uno degli amori che scaldano il cuore del
sacerdote e gli permettono di non inaridirsi.
Dopo aver considerato alcuni
tratti della spiritualità e della vita
del presbitero considerato in se stesso, tratteggiando la sua figura come
quella di un “discepolo che ama”, desidero ora passare dal “sacerdote” ai
“sacerdoti”, considerati come l’insieme dei discepoli che il Signore invia congiuntamente
a proseguire la sua missione in spirito di fraternità. Perciò, prima di
presentare e commentare alcune modalità concrete di realizzazione di tale
fraternità, mi sembra utile proporre qualche osservazione generale, per meglio
introdurre il tema.
Innanzitutto, occorre
ricordare che le conseguenze della globalizzazione si ripercuotono
concretamente anche nella vita del clero. Oggi le distanze geografiche sono
diventate un ostacolo minore, perché le strade più praticabili e i mezzi di
comunicazione più rapidi e più comodi facilitano gli spostamenti; capita allora
che i sacerdoti si incontrino frequentemente per condividere vari momenti della
vita personale e del ministero pastorale. Numerosi sono quelli che si servono dei
mezzi di comunicazione sociale, di internet e dei vari “social network”, per
rimanere in contatto con gli altri; tali mezzi, infatti, usati con sapienza,
costituiscono un prezioso strumento a disposizione della Chiesa, sia per la
formazione – intellettuale, spirituale e pastorale – che per favorire i
contatti, laddove le distanze rappresentano una reale difficoltà. Così, anche
nelle grandi diocesi, i confratelli possono mantenersi vicini in diversi modi.
Inoltre, anche grazie all’uso di questi mezzi, i sacerdoti possono offrire una
bella testimonianza di comunione e di collaborazione, in una società sovente
caratterizzata da una cultura individualistica in cui la qualità delle
relazioni può essere indebolita sia a livello familiare che professionale.
Tra i compiti principali
della loro missione, i sacerdoti sono chiamati ad animare le comunità presso le
quali sono inviati. Infatti, come è descritto negli Atti degli Apostoli (2, 42), la comunione si attua prima con i
fedeli, non solo perché tutti sono uniti nel medesimo battesimo, ma anche
perché i ministri ordinati esercitano, nei loro confronti, una vera paternità,
mettendosi a servizio della crescita del sacerdozio battesimale. Nella vita
quotidiana, non mancano esempi di bella e profonda amicizia, che uniscono il
sacerdote e i fedeli, come per esempio il legame con alcune famiglie. Come
Gesù, che amava fermarsi a Betania, nella casa di Lazzaro, di Marta e Maria, i
sacerdoti trovano gioia, equilibrio e riposo in queste relazioni semplici e
fraterne.
Tuttavia le relazioni con i
laici, per quanto siano belle e feconde, non possono sostituire un legame che
si colloca a un altro livello: la stragrande maggioranza dei sacerdoti
percepisce che l’ordinazione presbiterale crea tra loro, specialmente
all’interno della diocesi in cui esercitano il proprio ministero, quel legame
specifico che la Presbyterorum Ordinis
chiama “fraternità sacramentale” (n. 8).
Per questo, infatti, il
sacerdote diocesano è chiamato a vedere la sua incardinazione in una Diocesi
non tanto come una questione organizzativa, canonica o disciplinare, ma
piuttosto come la chiamata a condividere con il Vescovo diocesano la
preoccupazione e l’impegno per la cura di una specifica porzione del popolo di
Dio.
Il loro profondo desiderio
di attualizzare nel quotidiano il legame ontologico nato dall’ordinazione si
esplicita in un ampio ventaglio di realizzazioni concrete, accomunate
dall’effettivo incontro tra i confratelli appartenenti al medesimo presbiterio.
Esiste una ricerca spontanea di relazioni che il solo rapporto di
collaborazione pastorale non può soddisfare completamente. Ritrovarsi con
semplicità, fraternamente e gratuitamente, è un bisogno ampiamente espresso,
tanto che spesso più le distanze da percorrere separano i sacerdoti gli uni
dagli altri, più il desiderio di fraternità può essere maggiormente avvertito.
Ovviamente, non si può
parlare del presbiterio senza menzionare il Vescovo, del quale i presbiteri
condividono la responsabilità pastorale e la sollecitudine, con l’essere per
lui non solo “collaboratori prudenti”, ma anche “figli e amici” (Christus Dominus, nn. 15 e 16). Secondo
la testimonianza dei Vescovi e dei sacerdoti, il desiderio di fraternità
sacramentale comporta anche il bisogno di una relazione semplice e fiduciosa
tra il Pastore della diocesi e i suoi collaboratori, tra i fratelli e il loro
Padre; un tale rapporto, con naturalezza, conferisce maggiore fecondità
all’esercizio del ministero pastorale.
Sin dalle parole del Vangelo
emerge con chiarezza che si tratta di due dimensioni inscindibilmente unite
nella comunità dei discepoli di Gesù; o, ancora meglio, si tratta di due lati
della stessa medaglia.
In effetti, il ministero dei
presbiteri è ordinato all’attuazione dell’invio in missione da parte di Gesù.
Si tratta di un movimento, di un dinamismo, di uno slancio della Chiesa intera,
che S. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno chiamato nuova evangelizzazione e che, con la sua spiccata sensibilità per i
poveri e gli ultimi, Papa Francesco ha ripreso, parlando di uscita della Chiesa verso le periferie.
Scorrendo le pagine del
Vangelo, colpisce come Gesù stesso abbia associato la missione alla comunione
fraterna tra coloro che la attuano. In Marco, ad esempio, l’istituzione dei
Dodici ha lo scopo di radunarli in un collegio, per stare con lui e per essere
inviati a predicare (Mc 3,14). Più avanti, lo stesso Marco racconta che Gesù
inviò i Dodici in missione “due a due” (Mc 6,7), così come secondo Luca avvenne
anche per i 72 discepoli (Lc 10, 1).
Di conseguenza, anche la
prima comunità cristiana si è caratterizzata e segnalata per la comunione tra i
suoi membri. Negli Atti degli Apostoli
si dice che i cristiani «erano
perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare
il pane e nelle preghiere» (At 2,42), precisando poi che la moltitudine dei
credenti aveva «un cuore solo e un’anima
sola» e che «fra loro tutto era
comune» (At 4,32). Tale comunione si esprimeva anche nell’evangelizzazione,
essendo la missione spesso affidata a piccoli gruppi di persone, come mostrano
i viaggi dell’apostolo Paolo.
Perché Gesù ha desiderato
che comunione e missione fossero ordinariamente congiunte? Lo ha spiegato lui
stesso nel corso dell’Ultima Cena; la comunione è fonte della missione e
condizione per la sua efficacia, in quanto testimonianza della potenza della
carità fraterna, che nasce dall’amore che unisce il Padre, il Figlio e lo
Spirito Santo. Ci è nota questa esortazione di Gesù ai discepoli, divenuta
preghiera: «Come il Padre ha amato me,
anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore… Questo è il mio comandamento: che
vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi…» (Gv 15, 9.17). Tale
“comandamento nuovo” ha un risvolto missionario esplicito, in quanto Gesù pregò
per l’unità dei discepoli, «perché il
mondo creda» (Gv 17, 21).
Forse, siamo abituati a
pensare alle esigenze della comunione, e alla necessità di ricostruirla e
mantenerla, soprattutto in ambito ecumenico, ma essa è essenziale per la vita
ordinaria, della Chiesa e di ogni presbitero. La comunione tra i sacerdoti si
fonda su una realtà sacramentale, in quanto, con l’ordinazione sacerdotale,
siamo tutti configurati a Cristo, l’unico Sacerdote e Capo della Chiesa. Con i
Vescovi di cui sono collaboratori, i presbiteri sono una cosa sola in Cristo.
Come si può far sì che
questa esigenza del nostro essere sacerdoti sia concreta e visibile? Certo,
essa si manifesta innanzitutto nella collaborazione pastorale, agendo come
membri di un unico presbiterio, aiutandoci a vicenda, cercando insieme i modi
per annunciare il Vangelo oggi, sin nelle più remote periferie. Un tale
orizzonte e intento di fondo non dovrebbe mai mancare nelle nostre
programmazioni pastorali.
Tuttavia, occorre essere
attenti a non considerare la comunione solo come una forma strutturata di
collaborazione; essa si fonda sul sacramento dell’Ordine e genera una
“fraternità sacramentale” (Presbyterorum
Ordinis, n. 8). È necessario pertanto che l’unità si manifesti nella
quotidianità e che la fraternità sacerdotale penetri ogni dimensione del nostro
“essere”, non limitandosi a costituire una modalità del nostro “fare”.
Occorre unire le nostre
forze per coltivare insieme, e meglio, il campo del Signore, ma è necessario
unire anche le nostre vite e le nostra storia personale, per sentirci una vera
“famiglia sacerdotale”, dove i giovani collaborano con gli anziani e i sani
aiutano i malati. Siamo chiamati a convertirci alla disponibilità del cuore,
perché ciò che predichiamo in tema di fraternità e amore vicendevoli, trovi
riscontro nella nostra vita.
L’essere celibi è una vocazione speciale da parte del Signore,
ma non ci deve portare a diventare “solitari” o, peggio, “individualisti”. La
possiamo coltivare dentro quegli spazi di solitudine e di perseverante capacità
di stare alla presenza del Signore nel raccoglimento. Intorno a noi, infatti, c’è tanto movimento e chiasso, tanto parlare, di persone, di giornali, di radio e
televisione, di Internet..
Con misura e disciplina sacerdotale
dobbiamo dire: “…io devo prendermi un po'
di silenzio per la mia anima; mi stacco da voi per unirmi al mio Dio», come disse Papa Luciani, a me particolarmente caro,
nel suo discorso al Clero romano del 7 settembre 1978.
Ma la vocazione al celibato non può non permetterci,
nell’equilibrio e nella disciplina degli affetti, di vivere e di sviluppare nel
quotidiano ministero una serie di relazioni: con il Signore, con i confratelli
e con i fedeli, e tra questi con gli amici e con la nostra famiglia; esse sono
come le tre gambe di un tavolino che si bilanciano a vicenda, se adeguatamente
coltivate, e giovano al nostro equilibrio personale e spirituale, nonché alla
nostra efficacia ministeriale.
Non dobbiamo pertanto sottovalutare l’apporto positivo
della fraternità tra sacerdoti per vivere il celibato in pienezza e con gioia,
come una via per la felicità personale, seppure con impegno e, a volte, anche
con fatica, e non invece come mera rinuncia e privazione. Abbiamo bisogno gli
uni degli altri per far crescere al massimo le nostre potenzialità, per
condividere le gioie e sostenerci nei momenti di fatica e di scoraggiamento.
Con i confratelli esistono
varie modalità per tradurre in pratica la fraternità sacramentale. La prima
consiste nell’incontrarsi spontaneamente, soprattutto per condividere la Parola
di Dio e pregare insieme, ma anche per condividere soddisfazioni e fatiche,
magari a tavola, durante i pasti, che rendono più facile e immediata la
condivisione, giovani e anziani insieme.
Come in ogni famiglia,
infatti, anche tra noi sacerdoti ci sono quegli anziani, per cui il Santo Padre
ha varie volte espresso la sua sollecitudine; la fraternità che ci unisce non è
legata all’età, pertanto è bene che essa si traduca anche nell’accogliere i
confratelli anziani, che hanno dato tanto alla loro Chiesa e che possono
costituire un “tesoro” di esperienza pastorale e spirituale.
Anche la direzione
spirituale tra preti è un’altra forma squisita della fraternità sacerdotale.
Ogni sacerdote mette a servizio del fratello la propria grazia sacerdotale per
sostenerlo, aiutarlo a crescere nella sua dedizione a Cristo e alla Chiesa. Si
tratta di un ministero fondamentale, sia tra noi sacerdoti, che da offrire ai
fedeli. È auspicabile che in tale fraternità trovi posto anche un frequente ricorso
al ministero della riconciliazione, per donarsi a vicenda la misericordia di
Dio. La misericordia, ovviamente, non deve mai mancare anche nei rapporti
quotidiani tra sacerdoti, attraverso un perdono reciproco e profondo, senza
strascichi di risentimento, che permetta di andare oltre gli screzi e le
incomprensioni, inevitabili anche nelle migliori famiglie.
In questa “famiglia sacerdotale”, in cui la fraternità
tra i presbiteri è accompagnata e favorita dalla paternità del Vescovo, la
spiritualità diocesana è il comune denominatore, che modella e unisce tutti i
sacerdoti posti al servizio di una determinata Chiesa particolare. La
definizione dell’essenza e delle coordinate di tale spiritualità è il risultato
di un sapiente equilibrio tra la vita pastorale (caratterizzata dalle attività,
dal prodigarsi con generosità e spirito di sacrificio per il bene dei fratelli)
e la vita spirituale (che esige raccoglimento, intimità con Cristo, disciplina
e fedeltà nella preghiera, come condizioni irrinunciabili per salvaguardare la
propria identità sacerdotale).
Ciò non toglie che tale imprescindibile carisma
diocesano possa convivere con altri, suscitati dall’azione dello Spirito, in
merito ai quali l’autorità della Chiesa si è espressa favorevolmente. In tale
contesto vorrei
fare un accenno alle associazioni sacerdotali, che rafforzano e sostengono il
ministero dei preti che operano in una diocesi. Esse sono numerose nel mondo e
rispondono a criteri diversi, in modo che ognuno possa aderire a quella più
vicina ai carismi che il Signore gli ha donato e alla propria sensibilità
spirituale.
In ogni caso, per rafforzare
l’adesione a tale spiritualità diocesana e concretizzare l’appartenenza al
presbiterio attraverso alcune relazioni specifiche, è di grande utilità la vita
comune tra i presbiteri, come contesto in cui sperimentare una fraternità piena
e come rimedio contro l’isolamento. Essa è esigente, perché la serenità e la
fecondità di ogni vita comune dipendono dalla carità; persino un Santo, il
gesuita Giovanni Berchmans, usava affermare «la mia massima penitenza è la vita comune». Infatti, sappiamo
quanto impegno richiede la carità autentica, la quale però è pure un sostegno
immenso, che favorisce lo sviluppo armonioso della personalità, arricchisce la
vita spirituale e diviene fonte di testimonianza per i fedeli. Ovviamente, la
vita comune non può essere considerata un obbligo per il clero diocesano,
tuttavia, attraverso la secolare esperienza della Chiesa, il Codice di Diritto
Canonico ha recepito la bontà e le grandi opportunità offerte ai sacerdoti da
questo strumento di fraternità, incoraggiando il ricorso ad esso nel can. 280,
dove si raccomanda «di praticare una
consuetudine di vita comune». È un caldo invito, a far sì che la “famiglia”
del presbiterio, nata in virtù dell’ordinazione e dell’incardinazione, possa
manifestarsi anche in piccole “famiglie sacerdotali”, fondate appunto sulla
fraternità.
Da quanto detto sin qui, si
evince che la fraternità sacerdotale ha due conseguenze benefiche: essa
evangelizza di per sé, in quanto testimonianza della comunione tra i sacerdoti,
e si rivela un sostegno efficace, per la loro crescita personale, anche sul
piano affettivo e spirituale, nonché un valido sostegno reciproco per la loro
fedeltà sacerdotale.
La fraternità tra i
presbiteri si può attuare in varie modalità, ma in ogni caso non costituisce
semplicemente un momento previo alla missione, una sorta di “fase
propedeutica”, in vista di una futura evangelizzazione. Sulla base dei bravi
evangelici richiamati all’inizio e delle riflessioni esposte si qui, è chiaro
ora che la fraternità è già missione; le varie forme di vita fraterna sono
azioni evangelizzatrici. Occorre ricordarlo, perché cooperiamo alla missione
che Cristo ci ha affidato, come cristiani e come sacerdoti, con tutta la nostra
vita, con ogni aspetto di essa; è una missione, appunto, non semplicemente un
lavoro “a ore”, per quanto nobile e socialmente utile.
Il Santo Padre ci ha ricordato,
in più di un’occasione, che non si può essere discepoli gioiosi del Signore, se
ci si chiude nell’individualismo pastorale, e ha sottolineato invece «la bellezza della fraternità: dell’essere
preti insieme, del seguire il Signore non da soli» (Papa Francesco,
Discorso al clero di Cassano allo Ionio, 21 giugno 2014). Perciò, il tema della
fraternità sacramentale è l’espressione più concreta, palpabile e vissuta di
quella comune appartenenza a Cristo sacerdote, effetto della Sacra Ordinazione.
Tale fraternità non porta a
configurare relazioni ispirate a una casta, oppure a un club, ma a una famiglia, che nel Nuovo Testamento supera il
criterio dell’ereditarietà familiare per divenire, invece, una realtà radicata
nella sequela di Cristo (Lc 8, 21), interiore e fatta di relazioni. Tali
relazioni hanno le caratteristiche dell’essere e del vivere come una famiglia,
dove c’è senso di appartenenza, incontro, collaborazione nel lavoro, cioè nel
ministero, ma soprattutto nel cuore e negli affetti. Questa collaborazione si
esprime nella vicinanza, soprattutto nelle ore difficili, che sono quelle della
fatica nel lavoro, e quelle segnate dall’esperienza della solitudine e del
dolore, fisico o del cuore.
Viviamo in un società
fortemente marcata dall’egoismo e dall’individualismo, dove le relazioni si
costruiscono e si esplicano intorno a interessi, ad affinità provvisorie, a
emozioni passeggere o a un vago sentimento dello “stare bene”, magari allo
scopo di raggiungere determinati risultati. La relazione sacerdotale scaturisce,
invece, da una condivisione di radici sacramentali e spirituali che nascono il
giorno dell’imposizione delle mani; esse tendono a configurare uno stato
d’animo e un ambiente, in cui insieme si sta bene ovviamente, ma, soprattutto,
si opera bene; così si lavora insieme nella Vigna del Signore, ci si riposa
insieme dopo il lavoro, si programma insieme il servizio nel campo del Signore,
sotto la presidenza del Vescovo e con la sua guida e ispirazione.
Nella famiglia, infatti,
egli è il padre e la guida, il consigliere; solamente non è il rimuneratore,
anche se con la parola, l’esempio e l’incoraggiamento il Vescovo è sempre
spiritualmente presente nella comunità o famiglia sacerdotale.
La fraternità sacerdotale,
dunque, non nasce dalle necessità o dalle congiunture dell’ora presente
(carenza di sacerdoti), ma dall’essere realmente fratelli, inviati allo stesso
campo, dopo essere stati quasi sempre formati nello stesso “grembo”, che è il
seminario, e destinati a portare la gioia e la forza del Signore alle comunità
cristiane della stessa Diocesi.
La
fraternità sacerdotale: comunione per la missione
L’amore
per la Santa Eucarestia
Osservazioni generali sulla fraternità
Una
fraternità che sia sacerdotale.
Fraternità e missione del sacerdote
Manifestare
la comunione fraterna
La
fraternità e la vocazione al celibato
La fraternità nella “famiglia sacerdotale”
Spiritualità
diocesana e vita comune