Convegno per i formatori dei Seminari Regionali 2015

Paternità spirituale e figure educative

Alcuni aspetti della direzione spirituale in Seminario

Chieti, 7-10 aprile 2015

 

 

Relazione di S.E. Mons. Jorge Carlos Patrón Wong:

“La direzione spirituale nel contesto della paternità spirituale e pastorale”

(10 aprile 2015)

 

         Cari amici, con il cuore pieno di gioia, vi ringrazio per l’invito a questo Convegno, che offre un grande aiuto per la vostra, la nostra formazione permanente. Di fatto, imparerò molto da voi, nella condivisione che seguirà alla Relazione. Il Cardinale Prefetto, Sua Eminenza Beniamino Stella, vi saluta cordialmente e vi porge i suoi auguri fraterni in quest’ottavario pasquale.

 

         Se volete, cominciamo con il rendere i nostri cuori disponibili all’azione dello Spirito Santo, il primo Formatore, pregando insieme:

                            Padre nostro, Ave Maria, Gloria al Padre…

 

         Ho scelto tre punti: 1. la paternità spirituale, esercitata da tutti i formatori nel Seminario; 2. la figura specifica dei direttori spirituali in Seminario; 3. la formazione dei seminaristi alla paternità pastorale.

 

         1. La paternità spirituale di tutti i formatori nel Seminario

 

         In un Seminario, l’équipe formativa è composta di sacerdoti: il Rettore, il vice Rettore, i Direttori spirituali, l’Economo, il Coordinatore degli studi… Tutti questi educatori hanno una paternità da esercitare, data da Dio nel sacramento dell’Ordine. Essa non è riservata solo al Padre spirituale. Questo punto è molto importante. Se vogliamo formare una personalità integralmente sacerdotale, cioè un discepolo-missionario che diviene piano piano un buon pastore a immagine di Gesù, e che sarà anche un padre rispecchiando la paternità di Dio, occorre formarla in una maniera integrale, non separando gli ambiti della formazione. Di più, soltanto un progetto educativo che aiuti i seminaristi a “integrare in Cristo” in tutte le componenti della propria personalità — anche quelle che apparentemente si presentano contrapposte e discordanti — potrà dirsi davvero un itinerario di formazione integrale. Allora siamo dei padri quando, ogni giorno, consegnamo le parole del Signore che danno vita ed edificano ciascuno e tutti, e quando celebriamo, per la comunità del Seminario, l’Eucaristia quotidiana che ricapitola tutto, senza dimenticare gli altri sacramenti.

 

     Una caratteristica della paternità è accompagnare i seminaristi in modo personalizzato e generoso. Si tratta di un lavoro svolto da coloro che sono preposti all’opera educativa, ciascuno secondo il ruolo e le competenze che gli sono proprie. Un padre conosce personalmente ogni figlio, un pastore ogni pecora, e le vuole bene, con un amore insieme unico ed esigente. Come padri e formatori, noi ricerchiamo che la motivazione della nostra presenza e dei nostri interventi non sia quella del capriccio o delle sue tendenze, ma quella del bisogno dell’altro. In vista di una formazione veramente attenta alle esigenze del singolo, si rendono necessari colloqui regolari e frequenti di carattere personale, previsti o non previsti. La porta dei formatori, per esempio, potrebbe rimanere aperta a tutti quelli che vogliono cercare un aiuto o semplicemente condividere la propria situazione personale. Soltanto così, nella docilità all’azione dello Spirito, il seminarista, sapientemente guidato dal formatore, potrà progressivamente cercare di “appropriarsi” dei medesimi sentimenti, atteggiamenti e pensieri che furono del Signore Gesù, a imitazione di San Paolo, che poté affermare: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Accompagnamo nella fede l’opera del Padre celeste che, nella potenza dello Spirito Santo, genera un figlio, un sacerdote.

 

 In quest’opera d’accompagnamento non si può agire con superficialità o con leggerezza, magari preoccupandosi soltanto di correggere alcuni atteggiamenti esteriori; bisogna invece, con pazienza e rigore, cercare di discernere quali sono le motivazioni profonde che inducono a compiere un determinato atto e, una volta riconosciutele, iniziare un serio cammino di conversione.

 

         Essere padri significa aiutare il seminarista in un duplice senso: da una parte, risvegliando in lui l’attrattiva di ciò a cui il Signore lo ha chiamato, stimolandolo quindi a uscire da se stesso, a tendere altrove e a non accontentarsi di ciò che già è, né, tantomeno, a credersi già arrivato; dall’altra, il seminarista va accompagnato e aiutato nei momenti di oscurità o fallimento, va incoraggiato a non desistere quando si presentano momenti di crisi, va guidato verso una certa serenità, a partire dalla quale si potrà riprendere il discernimento. In sostanza, si tratta di chiarire sempre meglio, nell’interiorità del chiamato, la pacifica integrazione fra l’alta méta della futura vita presbiterale e, insieme, la serena accettazione della propria realtà, nei suoi doni e anche nei suoi limiti.

 

         Essere padre non vuole dire né viziare i figli e né fare il maestro. Si tenga sempre presente, che il seminarista è lui stesso il protagonista della sua formazione[1] e non può aspettarsi che un altro agisca al posto suo. I formatori, pertanto, devono concepire un progetto che superi una visione del seminarista come un contenitore o come un’oca da riempire. Secondo una simile visione, infatti, un “maestro” offrirebbe tutte le indicazioni necessarie per favorire nel seminarista la presa di coscienza della propria formazione, a scapito però della sua responsabilità personale sulla vocazione. Non dimentichiamo mai che il vero padre nello Spirito sa farsi da parte, nella speranza della crescita del figlio, credendo assolutamente che sia Dio a fare la felicità del figlio e non se stesso. Vi offro, a questo punto, la grandissima figura paterna ed educativa di San Giuseppe, che, secondo le parole di Benedetto XVI, “manifesta in maniera sorprendente”, che “è stato dato all’uomo, creato ad immagine di Dio, di partecipare all’unica paternità di Dio (cfr Ef 3,15)”. San Giuseppe “non è il padre biologico di Gesù, del quale Dio solo è il Padre, e tuttavia egli esercita una paternità piena e intera. Essere padre è innanzitutto essere servitore della vita e della crescita”[2]. 

 

         La parola “padre” implica che c’è una “madre”. Chi è la madre? La Chiesa, Maria Santissima, ma anche la comunità del Seminario, dell’équipe, in quanto testimone e formatrice, è madre! La coscienza dell’identità sacerdotale si acquisisce nella consapevolezza che la fedeltà e la crescita nella propria vocazione, oltre ad essere il frutto di un percorso personale, hanno anche necessariamente una dimensione comunitaria: qualora quest’ultima mancasse, verrebbe meno la stessa comunità dei discepoli[3]. Tale dimensione comunitaria, vissuta durante gli anni del Seminario con i compagni e i formatori, con l’ordinazione sacerdotale si apre alla relazione con il Vescovo e con i confratelli del presbiterio. L’esperienza della vita comunitaria è un elemento prezioso e ineludibile nella formazione di coloro che saranno poi chiamati, in futuro, ad esercitare una vera paternità spirituale[4] nelle comunità cristiane che saranno loro affidate[5]. È necessario che il Seminario sia casa e scuola di comunione[6], come una vera famiglia, in cui sia possibile anche superare quelle difficoltà che talvolta i candidati al ministero ordinato possono aver vissuto nelle loro stesse famiglie di provenienza. Una casa di comunione nella preghiera, nell’aiuto e nel sostegno fraterno, nella missione vissuta e condivisa. E tutto ciò comincia con noi, i padri. Possiamo allora domandarci: nelle nostre équipe c’è una testimonianza di comunione, anche di confronto reale nell’unità e nella fraternità? Una testimonianza  di preghiera? I seminaristi ci vedono pregare, insieme o da soli? Oppure vedono soltanto il Direttore spirituale nella cappella? Sentono i seminaristi la nostra passione per Gesù e il desiderio ardente di far conoscere il suo Amore e di “far entrare” nel suo Regno? I seminaristi vedono che siamo in atteggiamento di apertura e docilità alla formazione permanente? Voi avete compreso bene che il nostro esempio personale e comunitario come équipe, è indispensabile, anzi prioritario nel processo formativo. Gli atti mossi dall’amore, più che le parole, colpiscono il cuore e trascinano verso la configurazione a Gesù, Servo e Pastore che da la vita.

 

         Concludo questa prima parte con alcuni consigli che il Cardinale Prefetto della Congregazione per il Clero ha dato a un incontro dei Rettori, sul tema della paternità sacerdotale: non angustiarsi, ma restare interiormente sereni, chiedendo l’aiuto del Signore ogni giorno; pregare ogni giorno per la propria comunità, mettendo tutto nelle mani del Signore; chiedere scusa alla propria comunità dá un grande autorità, una paterna autorità; essere prudenti, discreti, equilibrati; e poi pensare alla memoria dei nostri antichi formatori: a ciò che abbiamo ricevuto o meno da loro, a ciò che ci saremmo aspettati da essi. Questo offre un grande aiuto nell’atteggiamento paterno per governare.

 

 

         2. La figura specifica dei direttori spirituali in Seminario

        

         Volontariamente parlo al plurale dei direttori, cioè di tutti i sacerdoti che sono stati nominati dal Vescovo per questa missione, e non solo del Direttore spirituale che vive nel Seminario. Quando un laico sceglie un padre spirituale, costui non è nominato dal Vescovo. Ciò significa che la missione di un padre spirituale del Seminario è specifica e ha un valore istituzionale formativo, all’inizio piuttosto nell’ambito del discernimento, poi, sempre di più, in quello della crescita dell’atteggiamento spirituale corrispondente all’identità sacerdotale. Sottolineiamo  alcuni punti, partendo da ciò che la Chiesa ci insegna attraverso il diritto e il Magistero.

 

         Non c’è un’opposizione tra il cann. 239,2[7] che afferma la libertà per un seminarista “di rivolgersi ad altri sacerdoti ai quali il Vescovo abbia affidato tale incarico” e il cann. 246,4[8] che raccomanda che “ognuno abbia la guida della sua vita spirituale, scelta liberamente, a cui aprire con fiducia la propria coscienza”. I due canoni insieme dicono che, liberamente, il seminarista sceglie il suo direttore spirituale fra quelli designati dal Vescovo. La libertà della scelta è importante per la fiducia nell’apertura della coscienza; come pure la designazione del Vescovo è imprescindibile per la competenza dei direttori, ma anche per la loro disponibilità e la loro presenza accanto al candidato, nonché all’équipe, almeno negli incontri di collaborazione, se non vivono nel Seminario.

 

         Nell’ambito dei Seminari, la Chiesa non parla di “accompagnatori” o di “consiglieri” spirituali, ma di “direttori” spirituali. Al riguardo, la PDV 50 dice: “Il seminarista deve avere un adeguato grado di maturità psichica e sessuale, nonché una vita assidua ed autentica di preghiera, e deve porsi sotto la direzione di un padre spirituale”. Che cosa significa “direzione”, “dirigere”? È un punto molto delicato, veramente un’arte sotto l’azione dello Spirito Santo. Non è condurre semplicemente il seminarista verso l’Ordinazione; non è, come un maestro, che mette nella testa del candidato al sacerdozio tutti i suoi buoni pensieri sul ministero, sulla Chiesa, sul Mistero di Dio. Il colloquio spirituale non è un “corso”. Dirigere spiritualmente vuol dire: avere, senza tregua, presente nel nostro cuore, nella nostra preghiera, nel nostro ascolto, nelle nostre parole, lo scopo principale che è il discernimento da fare dalla persona stessa e la crescita, la formazione di Gesù, servo e pastore, in essa. Come diceva San Giovanni Battista ai futuri discepoli del Signore: “Chi possiede la sposa è lo Sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello Sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io invece diminuire” (Giov. 3,29-30). Dirigere è conservare incessantemente nel nostro pensiero il senso della formazione, secondo il cann. 244[9], applicato al direttore spirituale: verificare e aiutare a lasciarsi condurre allo spirito del Vangelo, a un rapporto profondo e personale con Cristo e, a una adeguata maturità umana. Sapete forse che, quando il Santo Padre ha ricevuto in Udienza la nostra ultima Plenaria, ci ha detto con grande forza: “Per favore, occorre studiare bene il percorso di una vocazione! Esaminare bene se quello è dal Signore, se quell’uomo è sano, se quell’uomo è equilibrato, se quell’uomo è capace di dare vita, di evangelizzare, se quell’uomo è capace di formare una famiglia e rinunciare a questo per seguire Gesù”. Sappiamo tutti, dalla PDV 66, che all’équipe “spetta in primo luogo il compito di promuovere e verificare l'idoneità dei candidati quanto alle doti spirituali, umane e intellettuali, soprattutto in riferimento allo spirito di preghiera, all'assimilazione profonda della dottrina della fede, alla capacità di autentica fraternità e al carisma del celibato”. Ciò vale anche per un direttore spirituale, che “rappresenta la Chiesa nel foro interno, come afferma l’Istruzione della Congregazione per l'Educazione Cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali (2005). “Rappresentare la Chiesa nel foro interno” significa fare proprie tutte le sue intenzioni quando Essa forma un sacerdote; e anche essere capaci di dissuadere un candidato quando ne diviene chiara l’inidoneità, o  dire chiaramente “non sono d’accordo” quando il candidato ci consulta, prima di domandare di ricevere l’ammissione, o uno dei ministeri, o l’Ordinazione. Se mai il candidato non dovesse tenere conto del mio parere, è sempre possibile informare costui e l’équipe che, d’ora in poi, non sono più il suo direttore spirituale. Si fa così in alcuni Paesi per notificare un’inattitudine grave, conservando il silenzio a motivo del foro interno.

         Il compito della direzione spirituale è preziosissimo. Vorrei citare un estratto del famoso discorso di Papa San Giovanni XXIII ai direttori spirituali (9 settembre 1962): “Le diocesi contano su di voi. Le future sorti della Chiesa sono, si può dire, in gran parte nelle vostre mani. È vero che la formazione dei seminaristi deve realizzarsi mediante l'armonica collaborazione di tutti i superiori del Seminario, sotto la direzione saggia e amabile del Rettore. Ma a voi spetta la parte più importante, perché la vostra azione si svolge nell'intimo della coscienza, dove si imprimono le convinzioni profonde, e dove si compie la vera trasformazione del giovanetto chiamato al sacerdozio. Ad avviarla e a coronarla c'è il soffio dello Spirito del Signore. Ma in via ordinaria difficilmente il giovane saprà seguirne gli impulsi senza l'esperto controllo del Direttore Spirituale. Possiamo immaginare il vostro quotidiano sacrificio, le vostre trepidazioni, le vostre silenziose sofferenze. E Dio sa con quante preghiere, con quali sforzi e talora con quali angoscie voi pagate giornalmente le grazie di luce e di perseveranza che implorate per i vostri figli spirituali”. Questo lavoro di esperti richiede, per quanto è possibile, una formazione preparatoria, e, soprattutto, una formazione permanente. Insisto: è assolutamente necessario! La PDV 66 menziona le qualità degli educatori dei futuri preti: “la maturità umana e spirituale, l'esperienza pastorale, la competenza professionale, la stabilità nella propria vocazione, la capacità alla collaborazione, la preparazione dottrinale nelle scienze umane (specialmente la psicologia) corrispondente all'ufficio, la conoscenza dei modi per lavorare in gruppo”. Che cosa è la competenza professionale al riguardo i direttori spirituali? Al primo posto: l’ascolto. Come ascoltare la voce di Dio nel seminarista, se non la ascoltiamo attraverso la meditazione quotidiana della Sacra Scrittura e la frequentazione dei diversi Dottori della Chiesa, esperti nella vita spirituale, i quali ci insegnano le vie di Dio nel “castello interiore” dell’anima, nonché, secondo l’uso classico, le vie purgativa, illuminativa e unitiva dell’itinerario verso la santità? Ascoltare è un’arte, e richiede un continuo apprendimento. La formazione permanente, che include l’avere noi per primi un padre spirituale, si prende cura anche della nostra maniera di ascoltare. Alcuni formatori ricevono l’aiuto di uno psicologo competente, con cui rileggono il loro ascolto. Vorrei incoraggiare anche gli incontri di direttori spirituali, con una formazione adeguata e la condivisione di situazioni difficili, facendo salva la dovuta discrezione. Aggiungo che parecchi  Seminari invitano un buon psicologo, benevolo verso la dimensione religiosa della persona, a qualche incontro dell’équipe, per essere aiutati nel discernimento delle capacità o anche delle eventuali patologie psichiche dei seminaristi. Al secondo posto: la formazione continua avrà cura di far conoscere i criteri di discernimento nelle diverse tappe dell’iter formativo, e, più specialmente, curerà una conoscenza sufficiente delle scienze psicologiche che aiutano a conoscere l’humus umano, nel quale agisce la grazia e, che permettono, congiunte alla luce divina, di individuare i doni, ma anche le debolezze umane. Terzo: è il compito istituzionale del Direttore spirituale del Seminario di riunire regolarmente i diversi preti incaricati in questo ambito e di favorire la loro formazione permanente.

         Adesso, fatto salvo il rispetto imprescindibile del foro interno, cioè il silenzio assoluto del padre spirituale, vorrei affrontare il tema, molto importante, della collaborazione e dei legami istituzionali fra i direttori spirituali e l’équipe formativa. Una formazione, detta integrale, si deve integrare tutte le sue dimensioni. Mi riferisco al cann. 261,1: “il Rettore del Seminario, come pure, sotto la sua autorità, i superiori e gli insegnanti, ciascuno per la parte che gli compete, curino che gli alunni osservino fedelmente le norme fissate dalla Ratio di formazione sacerdotale e dal regolamento del seminario”. Nelle norme, ci sono gli incontri regolari del seminarista con il proprio direttore. Non spetta solo al Direttore spirituale del Seminario ricordare spesso questa necessità, ma anche al Rettore e agli altri formatori. È opportuno che il Rettore, in quanto ha la carica dell’istituzione, ricordi regolarmente il senso e il “funzionamento” della direzione spirituale: la sua frequenza; la trasparenza e la fiducia richiesta per essere nella verità; il silenzio del Padre spirituale; l’atto di fede richiesto dalle due parti nella presenza dello Spirito Santo attraverso la condivisione, e l’ascolto dell’intenzione; il fondamento e la centralità della Parola di Dio nel colloquio spirituale e il suo contenuto, cioè cercare la sola cosa di cui c’è bisogno (Luca 10,42): discernere la volontà di Dio e cercare da corrispondervi sempre più liberamente, attraverso le chiamate quotidiane alla carità e alla conversione; la vita di preghiera; l’integrazione dell’affettività e della sessualità attraverso il dono casto di sé; le relazioni; l’apprendimento delle virtù e l’esercizio della mortificazione, ispirati dalla carità; la rilettura delle esperienze pastorali; lo studio ecc. …

         Il Rettore potrebbe anche ricordare il buon uso, nel Seminario, di confessarsi con il Padre spirituale e, anche, che la direzione spirituale è una grazia preziosissima e necessaria per la formazione e la crescita integrale del seminarista, non meno che per quella permanente del prete, dopo l’Ordinazione.

         La PDV 66 dice: “La comunità educativa del seminario si articola attorno a diversi formatori: il rettore, il direttore o padre spirituale, i superiori e i professori. Questi […] devono essere tra loro in convinta e cordiale comunione e collaborazione”. E le direttive dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica sulla preparazione degli educatori nei Seminari (1993) aggiungono: “Lo spirito di collaborazione e di intesa è di fondamentale importanza in modo particolare nell'adozione dei criteri del discernimento vocazionale per l'ammissione dei candidati in seminario e agli ordini sacri. A tale riguardo, salvi ruoli diversi e differenti responsabilità, tutti i membri del gruppo dirigente devono sentirsi corresponsabili, dimostrando la capacità di valutazioni sicure e conformi alle norme della Chiesa”. Alla fine, il Vescovo, per chiamare all’ordinazione, si appoggia sugli scrutini successivi del Rettore e dei formatori, ma anche sul fatto che il candidato ha consultato il suo direttore spirituale. Allora pongo queste domande: i direttori spirituali conoscono questi criteri del discernimento in tutte le tappe dell’iter formativo? Partecipano ai vostri incontri di discernimento, senza dire nulla, quando si parla dei loro figli spirituali? O possiedono soltanto il punto di vista dei figli? I direttori spirituali vivono nel Seminario? O almeno, vengono spesso, o mai? Nell’ambito dell’articolazione istituzionale, il Rettore invita il seminarista a parlare di cose precise con il suo padre spirituale?

 

         3. La formazione dei seminaristi alla paternità pastorale

 

         La sfida della formazione è educare alla paternità pastorale, passando progressivamente da un amore forte, ardente, “discepolare” per il Signore a un amore che si estende, sempre nel e per il Signore, verso tutti, cominciando dalla propria comunità seminaristica. Ho cominciato questa Relazione partendo dalla nostra paternità sacerdotale, che si esercita amando e prendendosi cura di ogni seminarista, perché, se non ci fosse, non esisterebbero modelli per i seminaristi. Sappiamo tutti quanto il processo di identificazione, vissuto con equilibrio e giusta vicinanza, è prezioso e fecondo per un giovane. Siamo noi padri gioiosi delle nostre comunità o zitelloni? Sentiamo le parole forti del nostro amato Papa, pronunciate durante l’incontro con i seminaristi, i novizi e le novizie (6 luglio 2013): “Voi, seminaristi, suore, consacrate il vostro amore a Gesù, un amore grande; il cuore è per Gesù, e questo ci porta a fare il voto di castità, il voto di celibato. Ma il voto di castità e il voto di celibato non finisce nel momento del voto, va avanti… Una strada che matura, matura, matura verso la paternità pastorale, verso la maternità pastorale, e quando un prete non è padre della sua comunità, quando una suora non è madre di tutti quelli con i quali lavora, diventa triste. Questo è il problema. Per questo io dico a voi: la radice della tristezza nella vita pastorale sta proprio nella mancanza di paternità e maternità che viene dal vivere male questa consacrazione, che invece ci deve portare alla fecondità. Non si può pensare un prete o una suora che non siano fecondi: questo non è cattolico! Questo non è cattolico! Questa è la bellezza della consacrazione: è la gioia, la gioia…” La gioia provenne dalla fecondità a dare la vita, in Gesù e con Gesù.

 

         Per formare alla paternità, occorre primo formare a essere degli adulti e dei cristiani. Attualmente siamo di fronte a una cultura del giovanilismo. Fino agli anni ’80, in Occidente, c’era il desiderio di diventare al più presto adulti: autonomia di pensiero, di denaro, di libertà di movimento, di relazioni, di affetto, di autorevolezza e di maturità, pur con le responsabilità e i limiti connessi all’essere adulto. Oggi, al centro dell’immaginario collettivo, c’è il desiderio di restare sempre giovani: nel modo di vestire, nella traccia del corpo, nel modo di considerare l’esistenza come possibilità sempre aperta, nell’avere molto tempo di fronte a se, con l'intenzione di sfruttarlo, ossia di conservare per il futuro cose da fare … La cultura odierna sta liquidando la grazia propria dell’essere adulto. Siamo al cospetto di una disgregazione di ciò che significava la maturità. Quella dell'adulto non è ormai che un'età, senza un particolare rilievo o privilegio sociale. Restare giovani diviene l'ideale esistenziale. Una vita lunga è una vita che può essere vissuta di nuovo, su tutti i piani[10]. E, per dirlo con una battuta di uno degli intervenienti alla Plenaria 2013 del Pontificio Consiglio per la Cultura, “viviamo un tempo in cui gli adulti amano più la giovinezza che i giovani”[11]. Ora, il dono proprio dell’adulto è dare educazione e generazione. Senza gli adulti, non c’è più trasmissione della vita[12]. Lascio al vostro approfondimento lo studio di questi diversi interventi molto ricchi della Plenaria sulle Culture giovanili emergenti, che troverete sul sito internet di quel Pontificio Consiglio.

 

         Una seconda caratteristica della cultura del giovanilismo è il “presentismo”. A volte, invece di ricollegare la propria esistenza associando passato, presente e futuro, alcuni giovani vivono in una sorta di immediatezza senza fine; passano così da un istante all’altro, da un avvenimento a un altro, da situazioni e scelte fatte all’ultimo minuto… Si pone allora la questione della coerenza e della sintesi di tutto ciò che vivono. Non sono abbastanza capaci di prevedere e valutare né dei progetti né le conseguenze degli eventi e delle loro azioni, dato che vivono unicamente nel presente. Essi fanno fatica a sviluppare una coscienza storica. Hanno difficoltà a inserire la loro esistenza in un progetto a lungo termine, o hanno paura di farlo. C’è anche la paura dell’impegno definitivo in uno stato di vita. Vivono più facilmente nella contingenza e nell’intensità di una situazione particolare, che nella costanza e la continuità di una vita che si elabora nel tempo. Il quotidiano appare come un’attesa di momenti eccezionali, invece d’essere lo spazio in cui si tesse l’impegno della propria esistenza[13].

 

         Che cosa è un adulto? Colui che può dire: “Io morirò”, dunque che ama la vita, nonostante la morte; che sa della propria particolarità nel grande concerto dell'universo e perciò sopporta benevolmente le leggi della vita e quelle di cui ogni società si dota per il benessere collettivo; che è un vero testimone capace di incarnare una singolarità e di impegnarsi per essa; che porta a maturazione i propri talenti; che tiene all’altro come a se stesso; uno che fa crescere; che fa andare avanti, che aiuta il proprio figlio ad assumersi dei rischi; uno che autorizza gli altri a diventare autori e attori della loro vita; uno che ha una storia, una biografia da raccontare, una passione da trasmettere; uno che ama in verità[14].

 

         Allora, come educare a divenire adulto? Precisamente, possiamo definire la prima tappa del Seminario — quella “discepolare” — come una vera e propria tappa educativa. La radice etimologica della parola, e-ducere, rimanda a un lavoro formativo intenso, che consiste nel far emergere le potenzialità insite nella persona, portando alla luce la bellezza, la singolarità e il valore della persona. Con uno sguardo positivo su ogni seminarista, cioè uno sguardo pieno di amore, di fiducia e di speranza, costui potrà crescere verso lo stato di adulto. Sotto gli occhi benevoli di Dio e dei formatori, il seminarista sarà aiutato anche a crescere nelle virtù cardinali, che, più che mai, sono importantissime oggi, come risposta alla “cultura del provvisorio”[15] e del “presentismo”. Come San Giovanni Paolo II ha detto nella PDV 43: “i futuri presbiteri devono coltivare una serie di qualità umane necessarie alla costruzione di personalità equilibrate, forti e libere, capaci di portare il peso delle responsabilità pastorali”. Si, la Chiesa ha bisogno di sacerdoti che siano dei maschi, degli uomini maturi e equilibrati, cioè: 1. degli uomini prudenti che sappiano deliberare, giudicare e agire, secondo le decisioni presi; 2. degli uomini giusti, dotati di quella “virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto” (CCC 1807); ciò che significa anche l’arte di essere al posto giusto; 3. avere questa forza di anima che, “nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene” (CCC 1808). La virtù di forza si verifica e si impara nel perseverare in un lavoro intellettuale, per esempio, o nella fedeltà alle responsabilità comunitari o pastorali; 4. infine, la temperanza,  che “modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati” (CCC 1809), è la virtù del dominio di se stesso, della castità, che considera e rispetta l’altro nella sua alterità, segno e forza della libertà interiore. Attenzione: con tutte queste virtù non costruiamo l’uomo aristotelico perfetto, dipinto sugli affreschi del Rinascimento! Bisogna che questo apprendimento vada insieme con le virtù teologali, in un legame sempre più costante con Dio.

 

         Formare dei padri è formare dei veri cristiani. L’abbiamo già visto in una Relazione precedente, nell’ambito del presente Convegno. Affronto questo punto sotto l’angolo visuale essenziale del servizio. L’anno scorso, Papa Francesco ha risposto alla domanda sulla formazione alla leadership con queste parole: “Per la leadership c’è una sola strada: il servizio. Non ce n’è un’altra. Se tu hai tante qualità — comunicare, ecc. — ma non sei un servitore, la tua leadership cadrà, non serve, non è capace di convocare. Soltanto il servizio: essere al servizio… […]. Il servizio è fare, tante volte, la volontà degli altri. […] Quando non c’è il servizio, tu non puoi guidare un popolo. Il servizio del pastore. Il pastore deve essere sempre a disposizione del suo popolo. Il pastore deve aiutare il popolo a crescere, a camminare”[16]. E ancora: “E’ vero, un pastore che cerca se stesso, sia per la strada dei soldi che per la strada della vanità, non è un servitore, non ha una vera leadership. L’umiltà dev’essere l’arma del pastore: umile, sempre al servizio […] La leadership deve andare nel servizio, ma con un amore personale alla gente. Di un parroco, una volta ho sentito questo: ‘Quell’uomo conosceva il nome di tutta la gente del suo quartiere, anche i nomi dei cani!’ E’ bello! Era vicino, conosceva ognuno, sapeva la storia di tutte le famiglie, sapeva tutto. E aiutava. Era tanto vicino… Vicinanza, servizio, umiltà, povertà e sacrificio. Ricordo i vecchi parroci di Buenos Aires, quando non c’era il telefonino, la segreteria telefonica; dormivano con il telefono accanto a loro. Non moriva nessuno senza i Sacramenti. Li chiamavano a qualsiasi ora: si alzavano e andavano. Servizio, servizio. E da vescovo, soffrivo quando chiamavo in una parrocchia e mi rispondeva la segreteria telefonica… Così non c’è leadership! Come puoi condurre un popolo se non lo senti, se non sei al servizio?”[17]. Per noi, la domanda è: siamo veri servitori dei seminaristi? Come educhiamo costantemente al servizio?

 

         Il presbitero è quindi chiamato a formarsi perché il suo cuore e la sua vita siano conformi al Signore Gesù, così da divenire segno e “sacramento” dell’amore del Padre per ogni uomo. Soltanto così, intimamente unito a Cristo, il sacerdote potrà essere capace di essere padre, cioè di ascoltare, di accogliere, di guidare e di correggere; di aver cura della vita spirituale dei fedeli a lui affidati; di annunciare il Vangelo e di dispensare la misericordia di Dio, senza peraltro dimenticare di vivere questo ministero, aprendosi alle circostanze e alle domande profonde del nostro tempo. Sull’esempio di Cristo e con la sua grazia, il seminarista imparerà a offrire la sua vita a Dio per la gente, specialmente quella delle periferie. Qui vorrei dire quanto è prezioso, nella formazione, il tempo con i poveri e quello dedicato all’evangelizzazione, sia nelle attività apostoliche individuali, che comunitarie.

 

         Concludiamo. Poiché la finalità del Seminario è quella di preparare i giovani a essere pastori a immagine di Cristo Buon Pastore, tutta quanta la formazione sacerdotale deve essere permeata dallo spirito pastorale, così da creare nel presbitero quelle virtù e quei sentimenti propri del Cuore di Cristo, Servo e Agnello, rendendolo capace di provare quella stessa compassione, generosità, amore per i poveri e passione per la causa del Regno, che caratterizzarono il ministero pubblico del Figlio di Dio e che Egli, ora risorto, ci comunica nelle potenza del suo Spirito, alla gloria del Padre. Vi ringrazio di cuore.

 

 

X Jorge Carlos Patrón Wong

Arcivescovo-Vescovo emerito di Papantla

Segretario per i Seminari

 

 



[1] Cfr. S. Giovanni Paolo ii, Esort. apost. post-sinodale Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992, n. 69.

[2] Benedetto xvi, Omelia durante i vespri a Yaoundé, 18 marzo 2009.

[3] Cfr. Benedetto xvi, Lettera ai seminaristi, 18 ottobre 2010.

[4] Papa Francesco, Discorso ai seminaristi, ai novizi e alle novizie provenienti da varie parti del mondo in occasione dell’Anno della Fede, 6 luglio 2013.

[5] Cfr. S. Giovanni Paolo ii, Esort. apost. post-sinodale Pastores dabo vobis, 25 marzo 1992, nn. 22-23. 59.

[6] Cfr. S. Giovanni Paolo ii, Lett. apost. Novo Millennio Ineunte (6 gennaio 2001), n. 43.

[7]In ogni seminario vi sia almeno un direttore spirituale, lasciando agli alunni la libertà di rivolgersi ad altri sacerdoti ai quali il Vescovo abbia affidato tale incarico”.

[8]Gli alunni si abituino ad accostarsi con frequenza al sacramento della penitenza; si raccomanda inoltre che ognuno abbia la guida della sua vita spirituale, scelta liberamente, a cui aprire con fiducia la propria coscienza”.

[9]La formazione spirituale e l'insegnamento dottrinale degli alunni del seminario vengano coordinati armonicamente e siano finalizzati a far loro acquisire lo spirito del Vangelo e un rapporto profondo con Cristo, unito ad una adeguata maturità umana, secondo l'indole di ciascuno”

[10] Cf. GAUCHET, M., Il figlio del desiderio. Una rivoluzione antropologica, Vita e Pensiero, Milano 2010, 42-43.

[11] MATTEO, A., “Generare nella fede: una battagli culturale”, intervento alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la Cultura, 6-9 febbraio 2013, p. 2:

http://www.cultura.va/content/cultura/it/plenarie/2013-giovani/input/matteo.html

[12] Cf. ibid, p. 7.

[13] Cf. ANATRELLA, T., “Il mondo dei giovani: chi sono? Che cosa cercano?”, al convegno “Giornata Mondiale della Gioventù: da Toronto a Colonia – Roma 10-13 aprile 2003

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/laity/Colonia2005/rc_pc_laity_doc_20030805_p-anatrella-gmg_it.html

[14] Cf. MATTEO, A., “Generare nella fede: una battagli culturale”, intervento alla Plenaria del Pontificio Consiglio per la Cultura, 6-9 febbraio 2013, p. 7...12.

[15] Cf. Papa Francesco, Discorso ai seminaristi, ai novizi e alle novizie provenienti da varie parti del mondo in occasione dell’Anno della Fede, 6 luglio 2013.

[16] Papa Francesco, Discorso ai Rettori e agli alunni dei Pontifici Collegi e Convitti di Roma, 12 maggio 2014.

[17] Ibid.