Catechesi 2005-2013 19101
19101
Piazza San Pietro
Ps 136
Cari fratelli e sorelle,
oggi vorrei meditare con voi un Salmo che riassume tutta la storia della salvezza di cui l’Antico Testamento ci dà testimonianza. Si tratta di un grande inno di lode che celebra il Signore nelle molteplici, ripetute manifestazioni della sua bontà lungo la storia degli uomini; è il Salmo 136 – o 135 secondo la tradizione greco-latina.
Solenne preghiera di rendimento di grazie, conosciuto come il “Grande Hallel”, questo Salmo è tradizionalmente cantato alla fine della cena pasquale ebraica ed è stato probabilmente pregato anche da Gesù nell’ultima Pasqua celebrata con i discepoli; ad esso sembra infatti alludere l’annotazione degli Evangelisti: «Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (cfr Mt 26,30 Mc 14,26). L’orizzonte della lode illumina così la difficile strada del Golgota. Tutto il Salmo 136 si snoda in forma litanica, scandito dalla ripetizione antifonale «perché il suo amore è per sempre». Lungo il componimento, vengono enumerati i molti prodigi di Dio nella storia degli uomini e i suoi continui interventi in favore del suo popolo; e ad ogni proclamazione dell’azione salvifica del Signore risponde l’antifona con la motivazione fondamentale della lode: l’amore eterno di Dio, un amore che, secondo il termine ebraico utilizzato, implica fedeltà, misericordia, bontà, grazia, tenerezza. È questo il motivo unificante di tutto il Salmo, ripetuto in forma sempre uguale, mentre cambiano le sue manifestazioni puntuali e paradigmatiche: la creazione, la liberazione dell’esodo, il dono della terra, l’aiuto provvidente e costante del Signore nei confronti del suo popolo e di ogni creatura.
Dopo un triplice invito al rendimento di grazie al Dio sovrano (vv. 1-3), si celebra il Signore come Colui che compie «grandi meraviglie» (v. 4), la prima delle quali è la creazione: il cielo, la terra, gli astri (vv. 5-9). Il mondo creato non è un semplice scenario su cui si inserisce l’agire salvifico di Dio, ma è l’inizio stesso di quell’agire meraviglioso. Con la creazione, il Signore si manifesta in tutta la sua bontà e bellezza, si compromette con la vita, rivelando una volontà di bene da cui scaturisce ogni altro agire di salvezza. E nel nostro Salmo, riecheggiando il primo capitolo della Genesi, il mondo creato è sintetizzato nei suoi elementi principali, insistendo in particolare sugli astri, il sole, la luna, le stelle, creature magnifiche che governano il giorno e la notte. Non si parla qui della creazione dell’essere umano, ma egli è sempre presente; il sole e la luna sono per lui - per l'uomo - per scandire il tempo dell’uomo, mettendolo in relazione con il Creatore soprattutto attraverso l’indicazione dei tempi liturgici.
Ed è proprio la festa di Pasqua che viene evocata subito dopo, quando, passando al manifestarsi di Dio nella storia, si inizia con il grande evento della liberazione dalla schiavitù egiziana, dell’esodo, tracciato nei suoi elementi più significativi: la liberazione dall'Egitto con la piaga dei primogeniti egiziani, l’uscita dall’Egitto, il passaggio del Mar Rosso, il cammino nel deserto fino all’entrata nella terra promessa (vv. 10-20). Siamo nel momento originario della storia di Israele. Dio è intervenuto potentemente per portare il suo popolo alla libertà; attraverso Mosè, suo inviato, si è imposto al faraone rivelandosi in tutta la sua grandezza ed, infine, ha piegato la resistenza degli Egiziani con il terribile flagello della morte dei primogeniti. Così Israele può lasciare il Paese della schiavitù, con l’oro dei suoi oppressori (cfr Ex 12,35-36), «a mano alzata» (Ex 14,8), nel segno esultante della vittoria. Anche al Mar Rosso il Signore agisce con misericordiosa potenza. Davanti ad un Israele spaventato alla vista degli Egiziani che lo inseguono, tanto da rimpiangere di aver lasciato l’Egitto (cfr Ex 14,10-12), Dio, come dice il nostro Salmo, «divise il Mar Rosso in due parti […] in mezzo fece passare Israele […] vi travolse il faraone e il suo esercito» (vv. 13-15). L’immagine del Mar Rosso “diviso” in due, sembra evocare l’idea del mare come un grande mostro che viene tagliato in due pezzi e così reso inoffensivo. La potenza del Signore vince la pericolosità delle forze della natura e di quelle militari messe in campo dagli uomini: il mare, che sembrava sbarrare la strada al popolo di Dio, lascia passare Israele all’asciutto e poi si richiude sugli Egiziani travolgendoli. «La mano potente e il braccio teso» del Signore (cfr Dt 5,15 Dt 7,19 Dt 26,8) si mostrano così in tutta la loro forza salvifica: l’ingiusto oppressore è stato vinto, inghiottito dalle acque, mentre il popolo di Dio “passa in mezzo” per continuare il suo cammino verso la libertà.
A questo cammino fa ora riferimento il nostro Salmo ricordando con una frase brevissima il lungo peregrinare di Israele verso la terra promessa: «Guidò il suo popolo nel deserto, perché il suo amore è per sempre» (v. 16). Queste poche parole racchiudono un’esperienza di quarant’anni, un tempo decisivo per Israele che lasciandosi guidare dal Signore impara a vivere di fede, nell’obbedienza e nella docilità alla legge di Dio. Sono anni difficili, segnati dalla durezza della vita nel deserto, ma anche anni felici, di confidenza nel Signore, di fiducia filiale; è il tempo della “giovinezza”, come lo definisce il profeta Geremia parlando a Israele, a nome del Signore, con espressioni piene di tenerezza e di nostalgia: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in terra non seminata» (Jr 2,2). Il Signore, come il pastore del Salmo 23 che abbiamo contemplato in una catechesi, per quarant’anni ha guidato il suo popolo, lo ha educato e amato, conducendolo fino alla terra promessa, vincendo anche le resistenze e l’ostilità di popoli nemici che volevano ostacolarne il cammino di salvezza (cfr vv. 17-20).
Nello snodarsi delle «grandi meraviglie» che il nostro Salmo enumera, si giunge così al momento del dono conclusivo, nel compiersi della promessa divina fatta ai Padri: «Diede in eredità la loro terra, perché il suo amore è per sempre; in eredità a Israele suo servo, perché il suo amore è per sempre» (vv. 21-22). Nella celebrazione dell’amore eterno del Signore, si fa ora memoria del dono della terra, un dono che il popolo deve ricevere senza mai impossessarsene, vivendo continuamente in un atteggiamento di accoglienza riconoscente e grata. Israele riceve il territorio in cui abitare come “eredità”, un termine che designa in modo generico il possesso di un bene ricevuto da un altro, un diritto di proprietà che, in modo specifico, fa riferimento al patrimonio paterno. Una delle prerogative di Dio è di “donare”; e ora, alla fine del cammino dell’esodo, Israele, destinatario del dono, come un figlio, entra nel Paese della promessa realizzata. È finito il tempo del vagabondaggio, sotto le tende, in una vita segnata dalla precarietà. Ora è iniziato il tempo felice della stabilità, della gioia di costruire le case, di piantare le vigne, di vivere nella sicurezza (cfr Dt 8,7-13). Ma è anche il tempo della tentazione idolatrica, della contaminazione con i pagani, dell’autosufficienza che fa dimenticare l’Origine del dono. Perciò il Salmista menziona l’umiliazione e i nemici, una realtà di morte in cui il Signore, ancora una volta, si rivela come Salvatore: «Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi, perché il suo amore è per sempre; ci ha liberati dai nostri avversari, perché il suo amore è per sempre» (vv. 23-24).
A questo punto nasce la domanda: come possiamo fare di questo Salmo una preghiera nostra, come possiamo appropriarci, per la nostra preghiera, di questo Salmo? Importante è la cornice del Salmo, all’inizio e alla fine: è la creazione. Ritorneremo su questo punto: la creazione come il grande dono di Dio del quale viviamo, nel quale Lui si rivela nella sua bontà e grandezza. Quindi, tener presente la creazione come dono di Dio è un punto comune per noi tutti. Poi segue la storia della salvezza. Naturalmente noi possiamo dire: questa liberazione dall'Egitto, il tempo del deserto, l’entrata nella Terra Santa e poi gli altri problemi, sono molto lontani da noi, non sono la nostra storia. Ma dobbiamo stare attenti alla struttura fondamentale di questa preghiera. La struttura fondamentale è che Israele si ricorda della bontà del Signore. In questa storia ci sono tante valli oscure, ci sono tanti passaggi di difficoltà e di morte, ma Israele si ricorda che Dio era buono e può sopravvivere in questa valle oscura, in questa valle della morte, perché si ricorda. Ha la memoria della bontà del Signore, della sua potenza; la sua misericordia vale in eterno. E questo è importante anche per noi: avere una memoria della bontà del Signore. La memoria diventa forza della speranza. La memoria ci dice: Dio c'è, Dio è buono, eterna è la sua misericordia. E così la memoria apre, anche nell'oscurità di un giorno, di un tempo, la strada verso il futuro: è luce e stella che ci guida. Anche noi abbiamo una memoria del bene, dell'amore misericordioso, eterno di Dio. La storia di Israele è già una memoria anche per noi, come Dio si è mostrato, si è creato un suo popolo. Poi Dio si è fatto uomo, uno di noi: è vissuto con noi, ha sofferto con noi, è morto per noi. Rimane con noi nel Sacramento e nella Parola. E' una storia, una memoria della bontà di Dio che ci assicura la sua bontà: il suo amore è eterno. E poi anche in questi duemila anni della storia della Chiesa c'è sempre, di nuovo, la bontà del Signore. Dopo il periodo oscuro della persecuzione nazista e comunista, Dio ci ha liberati, ha mostrato che è buono, che ha forza, che la sua misericordia vale per sempre. E, come nella storia comune, collettiva, è presente questa memoria della bontà di Dio, ci aiuta, ci diventa stella della speranza, così anche ognuno ha la sua storia personale di salvezza, e dobbiamo realmente far tesoro di questa storia, avere sempre presente la memoria delle grandi cose che ha fatto anche nella mia vita, per avere fiducia: la sua misericordia è eterna. E se oggi sono nella notte oscura, domani Egli mi libera perché la sua misericordia è eterna.
Ritorniamo al Salmo, perché, alla fine, ritorna alla creazione. Il Signore – così dice - «dà il cibo a ogni vivente, perché il suo amore è per sempre» (v. 25). La preghiera del Salmo si conclude con un invito alla lode: «Rendete grazie al Dio del cielo, perché il suo amore è per sempre». Il Signore è Padre buono e provvidente, che dà l’eredità ai propri figli ed elargisce a tutti il cibo per vivere. Il Dio che ha creato i cieli e la terra e le grandi luci celesti, che entra nella storia degli uomini per portare alla salvezza tutti i suoi figli è il Dio che colma l’universo con la sua presenza di bene prendendosi cura della vita e donando pane. L’invisibile potenza del Creatore e Signore cantata nel Salmo si rivela nella piccola visibilità del pane che ci dà, con il quale ci fa vivere. E così questo pane quotidiano simboleggia e sintetizza l’amore di Dio come Padre, e ci apre al compimento neotestamentario, a quel “pane di vita”, l’Eucaristia, che ci accompagna nella nostra esistenza di credenti, anticipando la gioia definitiva del banchetto messianico nel Cielo.
Fratelli e sorelle, la lode benedicente del Salmo 136 ci ha fatto ripercorrere le tappe più importanti della storia della salvezza, fino a giungere al mistero pasquale, in cui l’azione salvifica di Dio arriva al suo culmine. Con gioia riconoscente celebriamo dunque il Creatore, Salvatore e Padre fedele, che «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Jn 3,16). Nella pienezza dei tempi, il Figlio di Dio si fa uomo per dare la vita, per la salvezza di ciascuno di noi, e si dona come pane nel mistero eucaristico per farci entrare nella sua alleanza che ci rende figli. A tanto giunge la bontà misericordiosa di Dio e la sublimità del suo “amore per sempre”.
Voglio perciò concludere questa catechesi facendo mie le parole che San Giovanni scrive nella sua Prima Lettera e che dovremmo sempre tenere presenti nella nostra preghiera: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente» (1Jn 3,1). Grazie.
Saluti:
Saluto in lingua polacca:
Dò il mio cordiale benvenuto ai pellegrini polacchi. In modo particolare, saluto i partecipanti al pellegrinaggio pastorale del servizio di assistenza sanitaria nazionale, che vengono a Roma a ringraziare per la beatificazione di Giovanni Paolo II e di Padre Giorgio Popieluszko e anche per chiedere le grazie per i malati e per coloro che li assistono. Attraverso l’intercessione di san Luca, patrono dei medici, affido a Dio le vostre intenzioni, l’assistenza sanitaria polacca e voi tutti pellegrini qui presenti. Vi benedico di cuore insieme ai vostri cari. Sia lodato Gesù Cristo.
Saluto in lingua croata:
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegriniCroati, in modo particolare ai fedeli di Spalato. Il compito del cristiano è vivere santamente. Mentre visitate le tombe degli Apostoli, che hanno dato la loro vita per la fedeltà a Cristo, imitate il loro esempio. Siano lodati Gesù e Maria!
Saluto in lingua slovacca:
Saluto di cuore i pellegrini provenienti dalla Slovacchia, particolarmente quelli da Bratislava-Lamac, Novot, Kúty, Grinava e Limbach.
Fratelli e sorelle, domenica prossima celebreremo la Giornata Missionaria Mondiale. Essa costituisce un invito a rinnovare la nostra attiva cooperazione alle opere missionarie della Chiesa. Siate anche voi missionari della Buona Novella di Cristo, specialmente con le vostre preghiere. A tutti la mia benedizione.
Sia lodato Gesù Cristo!
Saluto in lingua ungherese:
Con affetto saluto i pellegrini ungheresi, specialmente Mons. Balázs Bábel, Arcivescovo di Kalocsa-Kecskemét e i fedeli del suo gruppo, inoltre coloro che sono arrivati da Torony.
La vostra visita a Roma, dove gli Apostoli Pietro e Paolo hanno testimoniato con il loro martirio la fedeltà a Dio, aiuti ad apprezzare il dono della fede e amare la Chiesa di Cristo.
Chiedendo la loro intercessione imparto volentieri a voi la mia benedizione. Sia lodato Gesù Cristo!
Saluto in lingua ceca:
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini cechi, in particolare ai fedeli della diocesi di Ceské Budejovice, accompagnati dal Vescovo Mons. Jiri Padour, alla delegazione della Regione della Boemia Meridionale, come pure ai gruppi provenienti da Nikolcice e Šitborice. Cari amici, assicuro un ricordo nella preghiera per voi e per le vostre famiglie e tutti vi benedico. Sia lodato Gesù Cristo!
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Cari fratelli e sorelle, rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Rivolgo in particolare un saluto ai fedeli di Firenze, accompagnati dal loro Pastore Mons. Giuseppe Betori e qui convenuti in occasione del 25° anniversario di beatificazione di Suor Teresa Maria della Croce; auspico che, sull’esempio di così fedele discepola di Cristo, ciascuno possa testimoniare con rinnovato fervore il Vangelo della carità. Saluto i fedeli di Rogliano e li incoraggio a proseguire sempre più generosamente nel cammino di fedeltà alla Chiesa.
Saluto infine gli ammalati, gli sposi novelli e i giovani, in particolare i cresimati della Diocesi di Faenza-Modigliana, guidati dal Vescovo Mons. Claudio Stagni. Ieri abbiamo celebrato la festa di san Luca evangelista. Il suo amore per Cristo sostenga voi, ammalati, ad accettare la sofferenza in unione al divino Maestro; incoraggi voi, cari sposi novelli, a vivere in pienezza il Sacramento del matrimonio; e favorisca in voi, giovani e ragazzi, un’adesione sempre più convinta alla Parola di salvezza per testimoniarla con gioia ai vostri coetanei. Grazie.
26101
Aula Paolo VI
Pellegrini della Verità, Pellegrini della Pace
Cari fratelli e sorelle!
Sono lieto di accogliervi nella Basilica di San Pietro e di rivolgere il mio cordiale benvenuto a tutti voi che purtroppo non avete trovato posto nell’Aula Paolo VI. Vi incoraggio a rafforzare la vostra adesione al Vangelo per essere sempre disponibili e pronti a compiere la volontà del Signore. Con questi voti, di cuore imparto a tutti voi la mia Benedizione, che volentieri estendo alle vostre famiglie e alle persone care.
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Cari fratelli e sorelle,
oggi il consueto appuntamento dell’Udienza generale assume un carattere particolare, poiché siamo alla vigilia della Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo, che si terrà domani ad Assisi, a venticinque anni dal primo storico incontro convocato dal Beato Giovanni Paolo II. Ho voluto dare a questa giornata il titolo “Pellegrini della verità, pellegrini della pace”, per significare l’impegno che vogliamo solennemente rinnovare, insieme con i membri di diverse religioni, e anche con uomini non credenti ma sinceramente in ricerca della verità, nella promozione del vero bene dell’umanità e nella costruzione della pace. Come ho già avuto modo di ricordare, “Chi è in cammino verso Dio non può non trasmettere pace, chi costruisce pace non può non avvicinarsi a Dio”.
Come cristiani, siamo convinti che il contributo più prezioso che possiamo dare alla causa della pace è quello della preghiera. Per questo motivo ci ritroviamo oggi, come Chiesa di Roma, insieme ai pellegrini presenti nell’Urbe, nell’ascolto della Parola di Dio, per invocare con fede il dono della pace. Il Signore può illuminare la nostra mente e i nostri cuori e guidarci ad essere costruttori di giustizia e di riconciliazione nelle nostre realtà quotidiane e nel mondo.
Nel brano del profeta Zaccaria che abbiamo appena ascoltato è risuonato un annuncio pieno di speranza e di luce (cfr Za 9,10). Dio promette la salvezza, invita ad “esultare grandemente” perché questa salvezza si sta per concretizzare. Si parla di un re: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso” (v. 9), ma quello che viene annunciato non è un re che si presenta con la potenza umana, la forza delle armi; non è un re che domina con il potere politico e militare; è un re mansueto, che regna con l’umiltà e la mitezza di fronte a Dio e agli uomini, un re diverso rispetto ai grandi sovrani del mondo: “cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”, dice il profeta (ibidem). Egli si manifesta cavalcando l’animale della gente comune, del povero, in contrasto con i carri da guerra degli eserciti dei potenti della terra. Anzi, è un re che farà sparire questi carri, spezzerà gli archi di battaglia, annuncerà la pace alle nazioni (cfr v. 10).
Ma chi è questo re di cui parla il profeta Zaccaria? Andiamo per un momento a Betlemme e riascoltiamo ciò che l’Angelo dice ai pastori che vegliavano di notte facendo guardia al proprio gregge. L’Angelo annuncia una gioia che sarà di tutto il popolo, legata ad un segno povero: un bambino avvolto in fasce, posto in una mangiatoia (cfr Lc 2,8-12). E la moltitudine celeste canta “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama” (v. 14), agli uomini di buona volontà. La nascita di quel bambino, che è Gesù, porta un annuncio di pace per tutto il mondo. Ma andiamo anche ai momenti finali della vita di Cristo, quando Egli entra in Gerusalemme accolto da una folla festante. L’annuncio del profeta Zaccaria dell’avvento di un re umile e mansueto tornò alla mente dei discepoli di Gesù in modo particolare dopo gli eventi della passione, morte e risurrezione, del Mistero pasquale, quando riandarono con gli occhi della fede a quel gioioso ingresso del Maestro nella Città Santa. Egli cavalca un asina, presa in prestito (cfr Mt 21,2-7): non è su di una ricca carrozza, non è a cavallo come i grandi. Non entra in Gerusalemme accompagnato da un potente esercito di carri e di cavalieri. Egli è un re povero, il re di coloro che sono i poveri di Dio. Nel testo greco appare il termine praeîs, che significa i mansueti, i miti; Gesù è il re degli anawim, di coloro che hanno il cuore libero dalla brama di potere e di ricchezza materiale, dalla volontà e dalla ricerca di dominio sull’altro. Gesù è il re di quanti hanno quella libertà interiore che rende capaci di superare l’avidità, l’egoismo che c’è nel mondo, e sanno che Dio solo è la loro ricchezza. Gesù è re povero tra i poveri, mite tra quelli che vogliono essere miti. In questo modo Egli è re di pace, grazie alla potenza di Dio, che è la potenza del bene, la potenza dell’amore. E’ un re che farà sparire i carri e i cavalli da battaglia, che spezzerà gli archi da guerra; un re che realizza la pace sulla Croce, congiungendo la terra e il cielo e gettando un ponte fraterno tra tutti gli uomini. La Croce è il nuovo arco di pace, segno e strumento di riconciliazione, di perdono, di comprensione, segno che l’amore è più forte di ogni violenza e di ogni oppressione, più forte della morte: il male si vince con il bene, con l’amore.
E’ questo il nuovo regno di pace in cui Cristo è il re; ed è un regno che si estende su tutta la terra. Il profeta Zaccaria annuncia che questo re mansueto, pacifico, dominerà “da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra” (Za 9,10). Il regno che Cristo inaugura ha dimensioni universali. L’orizzonte di questo re povero, mite non è quello di un territorio, di uno Stato, ma sono i confini del mondo; al di là di ogni barriera di razza, di lingua, di cultura, Egli crea comunione, crea unità. E dove vediamo realizzarsi nell’oggi questo annuncio? Nella grande rete delle comunità eucaristiche che si estende su tutta la terra riemerge luminosa la profezia di Zaccaria. E’ un grande mosaico di comunità nelle quali si rende presente il sacrificio di amore di questo re mansueto e pacifico; è il grande mosaico che costituisce il “Regno di pace” di Gesù da mare a mare fino ai confini del mondo; è una moltitudine di “isole della pace”, che irradiano pace. Dappertutto, in ogni realtà, in ogni cultura, dalle grandi città con i loro palazzi, fino ai piccoli villaggi con le umili dimore, dalle possenti cattedrali alle piccole cappelle, Egli viene, si rende presente; e nell’entrare in comunione con Lui anche gli uomini sono uniti tra di loro in un unico corpo, superando divisione, rivalità, rancori. Il Signore viene nell’Eucaristia per toglierci dal nostro individualismo, dai nostri particolarismi che escludono gli altri, per formare di noi un solo corpo, un solo regno di pace in un mondo diviso.
Ma come possiamo costruire questo regno di pace di cui Cristo è il re? Il comando che Egli lascia ai suoi Apostoli e, attraverso di loro, a tutti noi è: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli… Ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,19). Come Gesù, i messaggeri di pace del suo regno devono mettersi in cammino, devono rispondere al suo invito. Devono andare, ma non con la potenza della guerra o con la forza del potere. Nel brano del Vangelo che abbiamo ascoltato Gesù invia settantadue discepoli alla grande messe che è il mondo, invitandoli a pregare il Signore della messe perché non manchino mai operai nella sua messe (cfr Lc 10,1-3); ma non li invia con mezzi potenti, bensì “come agnelli in mezzo ai lupi” (v. 3), senza borsa, bisaccia, né sandali (cfr v. 4). San Giovanni Crisostomo, in una delle sue Omelie, commenta: “Finché saremo agnelli, vinceremo e, anche se saremo circondati da numerosi lupi, riusciremo a superarli. Ma se diventeremo lupi, saremo sconfitti, perché saremo privi dell’aiuto del pastore” (Omelia 33, 1: PG 57,389). I cristiani non devono mai cedere alla tentazione di diventare lupi tra i lupi; non è con il potere, con la forza, con la violenza che il regno di pace di Cristo si estende, ma con il dono di sé, con l’amore portato all’estremo, anche verso i nemici. Gesù non vince il mondo con la forza delle armi, ma con la forza della Croce, che è la vera garanzia della vittoria. E questo ha come conseguenza per chi vuole essere discepolo del Signore, suo inviato, l’essere pronto anche alla passione e al martirio, a perdere la propria vita per Lui, perché nel mondo trionfino il bene, l’amore, la pace. E’ questa la condizione per poter dire, entrando in ogni realtà: “Pace a questa casa” (Lc 10,5).
Davanti alla Basilica di San Pietro, si trovano due grandi statue dei santi Pietro e Paolo, facilmente identificabili: san Pietro tiene in mano le chiavi, san Paolo invece tiene nelle mani una spada. Per chi non conosce la storia di quest’ultimo potrebbe pensare che si tratti di un grande condottiero che ha guidato possenti eserciti e con la spada ha sottomesso popoli e nazioni, procurandosi fama e ricchezza con il sangue altrui. Invece è esattamente il contrario: la spada che tiene tra le mani è lo strumento con cui Paolo venne messo a morte, con cui subì il martirio e sparse il suo proprio sangue. La sua battaglia non fu quella della violenza, della guerra, ma quella del martirio per Cristo. La sua unica arma fu proprio l’annuncio di “Gesù Cristo e Cristo crocifisso” (1Co 2,2). La sua predicazione non si basò “su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza” (v. 4). Dedicò la sua vita a portare il messaggio di riconciliazione e di pace del Vangelo, spendendo ogni sua energia per farlo risuonare fino ai confini della terra. E questa è stata la sua forza: non ha cercato una vita tranquilla, comoda, lontana dalle difficoltà, dalle contrarietà, ma si è consumato per il Vangelo, ha dato tutto se stesso senza riserve, e così è diventato il grande messaggero della pace e della riconciliazione di Cristo. La spada che san Paolo tiene nelle mani richiama anche la potenza della verità, che spesso può ferire, può far male; l’Apostolo è rimasto fedele fino in fondo a questa verità, l’ha servita, ha sofferto per essa, ha consegnato la sua vita per essa. Questa stessa logica vale anche per noi, se vogliamo essere portatori del regno di pace annunciato dal profeta Zaccaria e realizzato da Cristo: dobbiamo essere disposti a pagare di persona, a soffrire in prima persona l’incomprensione, il rifiuto, la persecuzione. Non è la spada del conquistatore che costruisce la pace, ma la spada del sofferente, di chi sa donare la propria vita.
Cari fratelli e sorelle, come cristiani vogliamo invocare da Dio il dono della pace, vogliamo pregarlo che ci renda strumenti della sua pace in un mondo ancora lacerato da odio, da divisioni, da egoismi, da guerre, vogliamo chiedergli che l’incontro di domani ad Assisi favorisca il dialogo tra persone di diversa appartenenza religiosa e porti un raggio di luce capace di illuminare la mente e il cuore di tutti gli uomini, perché il rancore ceda il posto al perdono, la divisione alla riconciliazione, l’odio all’amore, la violenza alla mitezza, e nel mondo regni la pace. Amen.
APPELLO
Cari fratelli e sorelle, prima di salutarvi nelle diverse lingue, comincio con un appello. In questo momento, il pensiero va alle popolazioni della Turchia duramente colpite dal terremoto, che ha causato gravi perdite di vite umane, numerosi dispersi e ingenti danni. Vi invito ad unirvi a me nella preghiera per coloro che hanno perso la vita e ad essere spiritualmente vicini a tante persone così duramente provate. L’Altissimo dia sostegno a tutti coloro che sono impegnati nell’opera di soccorso. Adesso saluto nelle diverse lingue.
Saluti:
Saluto in lingua polacca:
[Cari fratelli e sorelle polacchi. Saluto cordialmente voi qui presenti nella Basilica di San Pietro accanto ai sepolcri degli apostoli e all’altare del beato Giovanni Paolo II. Che la presenza in questo santo posto rafforzi la vostra fede. Vi benedico di cuore.]
Rivolgo una parola di saluto ai pellegrini polacchi. Domani ad Assisi si svolgerà l’incontro con i rappresentanti delle religioni del mondo per la causa della pace. In concomitanza viene organizzato in Polonia, a Bydgoszcz, un simposio degli esperti europei sul tema del dialogo tra culture, civiltà e religioni. Auguro loro una fruttuosa riflessione. Benedico di cuore voi, qui presenti, e i vostri cari.
Saluto in lingua croata:
Saluto di cuore i pellegrini Croati. Cari amici, radunati intorno all’altare del Signore per l’Eucaristia domenicale, nutritevi con il Suo Corpo e Sangue affinché viviate in comunione con Lui. Siano lodati Gesù e Maria!
Saluto in lingua ceca:
Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua ceca. Cari amici, anche a voi chiedo di accompagnare spiritualmente la Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo che si terrà domani ad Assisi. A tutti la mia Benedizione. Sia lodato Gesù Cristo.
Saluto in lingua slovacca:
Saluto cordialmente i pellegrini slovacchi, specialmente quelli provenienti da Skalica, Blatné, Bystricany, Turciansky Peter, Trnava e Žilina.
Fratelli e sorelle, vi invito ad unirvi spiritualmente alla preghiera per la Giornata di riflessione e dialogo che si svolgerà domani ad Assisi. Con affetto benedico voi ed i vostri cari.
Sia lodato Gesù Cristo!
Saluto in lingua slovena:
Rivolgo un caro saluto ai pellegrini provenienti da Martjanci in Slovenia!
I santi Apostoli Pietro e Paolo che conservarono la loro fiducia nel Signore Gesù fino al loro martirio, intercedano per voi affinché otteniate una fede così salda che nessuna prova potrà mai far vacillare. Vi accompagni la mia benedizione!
* * *
E infine rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i giovani dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie, accompagnati dal loro Pastore Mons. Giovan Battista Pichierri, e gli alunni della scuola “Sacro Cuore” di Roma. Su tutti invoco, per intercessione della Vergine Maria, ogni desiderato bene e formulo fervidi voti che ciascuno possa rendere una generosa testimonianza cristiana.
Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. L’esempio di San Francesco d’Assisi, sulla cui tomba sosterò domani in preghiera, sostenga voi, cari giovani, nell'impegno di quotidiana fedeltà a Cristo; incoraggi voi, cari ammalati, a seguire sempre Gesù nel cammino della prova e della sofferenza; aiuti voi, cari sposi novelli, a fare della vostra famiglia il luogo del costante incontro con l'amore di Dio e dei fratelli. Grazie a voi tutti. Buona giornata.
21111
Aula Paolo VI
Cari fratelli e sorelle!
Dopo avere celebrato la Solennità di Tutti i Santi, la Chiesa ci invita oggi a commemorare tutti i fedeli defunti, a volgere il nostro sguardo a tanti volti che ci hanno preceduto e che hanno concluso il cammino terreno. Nell’Udienza di questo giorno, allora, vorrei proporvi alcuni semplici pensieri sulla realtà della morte, che per noi cristiani è illuminata dalla Risurrezione di Cristo, e per rinnovare la nostra fede nella vita eterna.
Come già dicevo ieri all’Angelus, in questi giorni ci si reca al cimitero per pregare per le persone care che ci hanno lasciato, quasi un andare a visitarle per esprimere loro, ancora una volta, il nostro affetto, per sentirle ancora vicine, ricordando anche, in questo modo, un articolo del Credo: nella comunione dei santi c’è uno stretto legame tra noi che camminiamo ancora su questa terra e tanti fratelli e sorelle che hanno già raggiunto l’eternità.
Da sempre l’uomo si è preoccupato dei suoi morti e ha cercato di dare loro una sorta di seconda vita attraverso l’attenzione, la cura, l’affetto. In un certo modo si vuole conservare la loro esperienza di vita; e, paradossalmente, come essi hanno vissuto, che cosa hanno amato, che cosa hanno temuto, che cosa hanno sperato e che cosa hanno detestato, noi lo scopriamo proprio dalle tombe, davanti alle quali si affollano ricordi. Esse sono quasi uno specchio del loro mondo.
Perché è così? Perché, nonostante la morte sia spesso un tema quasi proibito nella nostra società, e vi sia il tentativo continuo di levare dalla nostra mente il solo pensiero della morte, essa riguarda ciascuno di noi, riguarda l’uomo di ogni tempo e di ogni spazio. E davanti a questo mistero tutti, anche inconsciamente, cerchiamo qualcosa che ci inviti a sperare, un segnale che ci dia consolazione, che si apra qualche orizzonte, che offra ancora un futuro. La strada della morte, in realtà, è una via della speranza e percorrere i nostri cimiteri, come pure leggere le scritte sulle tombe è compiere un cammino segnato dalla speranza di eternità.
Ma ci chiediamo: perché proviamo timore davanti alla morte? Perché l’umanità, in una sua larga parte, mai si è rassegnata a credere che al di là di essa non vi sia semplicemente il nulla? Direi che le risposte sono molteplici: abbiamo timore davanti alla morte perché abbiamo paura del nulla, di questo partire verso qualcosa che non conosciamo, che ci è ignoto. E allora c’è in noi un senso di rifiuto perché non possiamo accettare che tutto ciò che di bello e di grande è stato realizzato durante un’intera esistenza, venga improvvisamente cancellato, cada nell’abisso del nulla. Soprattutto noi sentiamo che l’amore richiama e chiede eternità e non è possibile accettare che esso venga distrutto dalla morte in un solo momento.
Ancora, abbiamo timore davanti alla morte perché, quando ci troviamo verso la fine dell’esistenza, c’è la percezione che vi sia un giudizio sulle nostre azioni, su come abbiamo condotto la nostra vita, soprattutto su quei punti d’ombra che, con abilità, sappiamo spesso rimuovere o tentiamo di rimuovere dalla nostra coscienza. Direi che proprio la questione del giudizio è spesso sottesa alla cura dell’uomo di tutti i tempi per i defunti, all’attenzione verso le persone che sono state significative per lui e che non gli sono più accanto nel cammino della vita terrena. In un certo senso i gesti di affetto, di amore che circondano il defunto, sono un modo per proteggerlo nella convinzione che essi non rimangano senza effetto sul giudizio. Questo lo possiamo cogliere nella maggior parte delle culture che caratterizzano la storia dell’uomo.
Oggi il mondo è diventato, almeno apparentemente, molto più razionale, o meglio, si è diffusa la tendenza a pensare che ogni realtà debba essere affrontata con i criteri della scienza sperimentale, e che anche alla grande questione della morte si debba rispondere non tanto con la fede, ma partendo da conoscenze sperimentabili, empiriche. Non ci si rende sufficientemente conto, però, che proprio in questo modo si è finiti per cadere in forme di spiritismo, nel tentativo di avere un qualche contatto con il mondo al di là della morte, quasi immaginando che vi sia una realtà che, alla fine, è sarebbe una copia di quella presente.
Cari amici, la solennità di tutti i Santi e la Commemorazione di tutti i fedeli defunti ci dicono che solamente chi può riconoscere una grande speranza nella morte, può anche vivere una vita a partire dalla speranza. Se noi riduciamo l’uomo esclusivamente alla sua dimensione orizzontale, a ciò che si può percepire empiricamente, la stessa vita perde il suo senso profondo. L’uomo ha bisogno di eternità ed ogni altra speranza per lui è troppo breve, è troppo limitata. L’uomo è spiegabile solamente se c’è un Amore che superi ogni isolamento, anche quello della morte, in una totalità che trascenda anche lo spazio e il tempo. L’uomo è spiegabile, trova il suo senso più profondo, solamente se c’è Dio. E noi sappiamo che Dio è uscito dalla sua lontananza e si è fatto vicino, è entrato nella nostra vita e ci dice: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me non morirà in eterno» (Jn 11,25-26).
Pensiamo un momento alla scena del Calvario e riascoltiamo le parole che Gesù, dall’alto della Croce, rivolge al malfattore crocifisso alla sua destra: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). Pensiamo ai due discepoli sulla strada di Emmaus, quando, dopo aver percorso un tratto di strada con Gesù Risorto, lo riconoscono e partono senza indugio verso Gerusalemme per annunciare la Risurrezione del Signore (cfr Lc 24,13-35). Alla mente ritornano con rinnovata chiarezza le parole del Maestro: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no non vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”?» (Jn 14,1-2). Dio si è veramente mostrato, è diventato accessibile, ha tanto amato il mondo «da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Jn 3,16), e nel supremo atto di amore della Croce, immergendosi nell’abisso della morte, l’ha vinta, è risorto ed ha aperto anche a noi le porte dell’eternità. Cristo ci sostiene attraverso la notte della morte che Egli stesso ha attraversato; è il Buon Pastore, alla cui guida ci si può affidare senza alcuna paura, poiché Egli conosce bene la strada, anche attraverso l’oscurità.
Ogni domenica, recitando il Credo, noi riaffermiamo questa verità. E nel recarci ai cimiteri a pregare con affetto e con amore per i nostri defunti, siamo invitati, ancora una volta, a rinnovare con coraggio e con forza la nostra fede nella vita eterna, anzi a vivere con questa grande speranza e testimoniarla al mondo: dietro il presente non c’è il nulla. E proprio la fede nella vita eterna dà al cristiano il coraggio di amare ancora più intensamente questa nostra terra e di lavorare per costruirle un futuro, per darle una vera e sicura speranza. Grazie.
Saluti:
Saluto in lingua polacca:
Saluto cordialmente i pellegrini polacchi qui presenti. Oggi, celebrando la Commemorazione di tutti i Fedeli Defunti, ricordiamo in modo particolare coloro che aspettano l’aiuto della nostra preghiera per entrare nella vita eterna. Credendo nella comunione dei santi, affidiamoli alla Divina Misericordia. Che la tristezza e il dolore per la separazione dai nostri cari siano alleviati dalla speranza della risurrezione e dell’incontro con Dio nel cielo. Sia lodato Gesù Cristo.
APPELLO
Il 3 e il 4 novembre prossimi - domani e dopo domani - i Capi di Stato o di Governo del G-20 si riuniranno a Cannes, per esaminare le principali problematiche connesse con l’economia globale. Auspico che l’incontro aiuti a superare le difficoltà che, a livello mondiale, ostacolano la promozione di uno sviluppo autenticamente umano e integrale.
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Rivolgo un cordiale saluto ai pellegrini di lingua italiana. Cari amici, vi ringrazio per questa visita e vi esorto a trovare nella preghiera la forza per avanzare sempre più nel cammino della santità.
Desidero, infine, salutare i giovani, gli ammalati e gli sposi novelli. Dopo domani ricorre la memoria liturgica di San Carlo Borromeo, Vescovo insigne della Diocesi di Milano, che, animato da ardente amore per Cristo, fu instancabile maestro e guida dei fratelli. Il suo esempio aiuti voi, cari giovani, a lasciarvi condurre da Cristo nelle vostre scelte per seguirLo senza timore; incoraggi voi, cari ammalati, ad offrire la vostra sofferenza per i Pastori della Chiesa e per la salvezza delle anime; sostenga voi, cari sposi novelli, nel generoso servizio alla vita.
Catechesi 2005-2013 19101