Paolo VI Catechesi 40566

Mercoledì, 4 maggio 1966

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Diletti Figli e Figlie!

L'incontro, che ogni settimana Ci è offerto da questa Udienza generale, con tanti fedeli e visitatori, sempre nuovi e sempre numerosi, piega il Nostro pensiero verso il grande tema della Chiesa, il più ovvio, il più ampio, il più bello per questo momento di familiare conversazione. Non vi stupite pertanto se ancora ne parliamo con voi. Non avremo mai finito di parlarne, tanto è importante e tanto è fecondo d’insegnamenti. Noi abbiamo accennato, la scorsa settimana, ai vari nomi, che nella Sacra Scrittura sono dati alla Chiesa; questa varietà indica la difficoltà a contenere in un nome solo l’esuberante ricchezza della realtà misteriosa della Chiesa, e indica pure una maniera didattica, mediante la quale la Sacra Scrittura ci introduce nella scienza della Chiesa.

Prendiamo uno di questi nomi; quello, ad esempio, di Casa di Dio. È San Paolo che lo usa, scrivendo a Timoteo. Egli dice: «. . . Ti scrivo affinché . . . tu sappia come diportarti nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente, colonna e base della verità» (1 Tim
1Tm 3,15). Questa immagine della casa, paragonata alla Chiesa, richiama alla mente altre immagini simili che troviamo nel libro sacro sempre riferite alla Chiesa. Ancora San Paolo dirà dei cristiani: «Dei aedificatio estis, voi siete l’edificio costruito da Dio» (1Co 3,9). E il pensiero corre alle parole di Gesù stesso: «Edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18); corre alla pietra d’angolo (Mt 21,42), ch’è Cristo medesimo, che sostiene tutta la costruzione, e corre a Simone, a cui Gesù cambiò il nome chiamandolo Pietro, perché fosse in certo modo assimilato a Cristo, suo Vicario visibile noi diciamo, nella funzione di fondamento, di sostegno dell’edificio, di cui Cristo dice di voler essere il costruttore, l’architetto, l’artista.

A quali concetti dottrinali ci guida allora questa immagine della Chiesa-casa di Dio? Difficile dire in poche parole; ma ciascuno di voi può trovarli, quasi da sé. Per esempio: la casa non è una dimora? Non indica un’interiorità? Un’abitazione dove una famiglia s’incontra? Non dice una unità interiore, un’intimità vissuta e protetta? Applicata ad una pluralità di persone, l’immagine della casa non c’insegna che questa pluralità deve formare comunità? Che essa deve essere unita nell’amore, nella concordia, nell’identità di pensieri e di sentimenti? Come potrebbe essere altrimenti la Chiesa di Cristo, concepita come la casa di Dio?

E se questa casa non è destinata soltanto a riunire la società ecclesiale, che vi abita, ma è destinata a rendere possibile, a provocare, in un certo senso, l’incontro dei fortunati inquilini con Dio, quella casa ci appare sacra, diventa tempio, ci mostra come la Chiesa è luogo vero e necessario per comunicare con Dio, è il punto focale della sua luce, è il posto dove Egli ci attende, dove Egli a noi si concede, dove gli possiamo parlare con fiducia, dove possiamo godere della sua presenza, dove si può vivere il «mistero» del rapporto istituito da Cristo fra Dio e gli uomini. Nella Chiesa diventiamo «domestici Dei, familiari a Dio» (Ep 2,19).

Basterebbe meditare questo concetto della Chiesa-casa di Dio per avere sorgente di pensieri senza fine: dov’è il pluralismo, che alcuni vorrebbero attribuire alla unica Chiesa? Dov’è l’esteriorità, che altri vorrebbero rimproverare alla Chiesa visibile? senza dire che quella similitudine della costruzione ci offre lo spunto per tante altre considerazioni. La Chiesa è una costruzione in fieri, non è costruzione finita, è in via di compimento. Non ci parla questo aspetto dell’immagine considerata della storia della Chiesa? Del suo divenire, promosso da Cristo, il vero costruttore della sua Chiesa, mediante l’azione dello Spirito Santo; non ci parla della sua presente incompiutezza, del suo continuo accrescimento, della sua bellezza, che si rivela man mano che la costruzione si compie, cioè che i secoli passano? Non ci ricorda questa immagine la perennità della Chiesa, la sua fedeltà ai propri fondamenti dottrinali e strutturali, la sua verità, eguale oggi a quella di ieri e di domani, ma sempre suscettibile di approfondimento, anzi di elevazione, nell’identità del contenuto e nella prodigiosa freschezza d’espressione?

Provate, Figli carissimi, a pensare la Chiesa come la dimora di Dio; vi troverete la risposta a tante incomprensioni che ne deformano il concetto; vi troverete l’invito ad entrare più addentro in questa casa benedetta, a conoscerla meglio, a dimorarvi con gaudio e con dignità; vi troverete la scoperta d’una grande fortuna, quella appunto di avere una casa; una casa dove l’amore ai fratelli è principio di coabitazione, e dove l’amore di Dio a noi, di noi a Dio ha la sua più felice e più promettente celebrazione.

A tanto vi esorta la Nostra Benedizione Apostolica.

Gratitudine e stima per i genitori dei sacerdoti (in francese)


Mercoledì, 11 maggio 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Sappiamo di parlare a migliaia di alunni dei Salesiani, qui presenti; di figli di Don Bosco; e vorremmo che la loro visita al Papa lasciasse in loro una memoria particolare. Non soltanto la memoria della scena, ch’è ora davanti ai vostri occhi, la scena di questa basilica, piena di gente, intorno a questo altare, sotto il quale si trova la tomba di S. Pietro, l’apostolo che si chiamava Simone, figlio di Giovanni, e che Gesù volle appunto che invece si chiamasse Pietro, per significare che lui doveva essere il fondamento, la pietra, su cui Gesù voleva costruire un edificio; un edificio chiamato Chiesa. Ecco: Noi vorremmo che nei Nostri visitatori odierni, in questi ragazzi specialmente, questa udienza imprimesse la memoria della Chiesa.

Che cosa è la Chiesa? Come voi ve la figurate? Dicevamo: un edificio; difatti il nome di Chiesa serve a indicare l’edificio sacro, dove si va a pregare; ma serve anche a indicare la società, il popolo, la gente che va in Chiesa; indica cioè la comunità di persone che credono in Cristo, e che formano tutte insieme un gruppo, una moltitudine, unita, ordinata, concorde, buona, religiosa, contenta e tutta animata da grandi pensieri e da grandi speranze; questa è la Chiesa, come voi tutti ben sapete.

Ora Noi vi chiediamo: vi è un’immagine, oltre quella dell’edificio, che rappresenta la Chiesa, proprio nel suo aspetto di moltitudine adunata intorno ad un centro? Sì; è un’immagine che Gesù stesso ci lasciò; un’immagine che sentirete spesso ripetere, quella del gregge riunito intorno al proprio pastore; dal pastore guidato, conosciuto, difeso. Lo ha detto Lui stesso: «Io sono il buon Pastore» (
Jn 10,14); cioè il Pastore vero, il Pastore unico, il Pastore che solo sa guidare, il Pastore che si sacrifica per difendere e per salvare il suo gregge. E il gregge che cosa significa? Significa l’umanità, significa il mondo, significa noi, noi stessi. Questa immagine, a noi moderni, dice meno di quanto dicesse agli antichi, più di noi abituati a mirare, la scena campestre del pastore che conduce al pascolo il suo gregge. Era un’immagine cara al linguaggio dei tempi passati; una volta i re erano chiamati pastori di popoli (cfr. Omero). I profeti avevano annunciato il Messia come pastore d’Israele. Ma è un’immagine tanto semplice e bella che anche a noi può servire a significare la riunione di molti seguaci, tenuti insieme e condotti da un unico capo, da un’unica guida: cioè gli uomini, i fedeli, che hanno in Gesù Cristo il principio della loro unità e formano un corpo sociale intorno a Lui: questa è la Chiesa.

Ora state attenti. Gesù, che prima aveva dato a Simone il nome di Pietro, alla fine del Vangelo, nella celebre e stupenda scena sulle rive del lago di Tiberiade, dà allo stesso Pietro la funzione di Pastore; e tre volte gli dice: Sii il pastore del mio gregge (Jn 21,15-17); cioè Gesù affida a Simone-Pietro il compito che Gesù aveva dichiarato suo proprio; lo nomina suo successore, suo vicario, suo rappresentante. Se voi foste capaci di leggere le grandi parole, scritte in mosaico, nella fascia d’oro sotto la grande cornice di questa basilica, in latino e in greco, trovereste le sentenze di Gesù che investe Pietro delle sue funzioni: «Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecore»; cioè vedreste richiamata con le espressioni stesse di Cristo la figura della Chiesa, simboleggiata nel pastore e nel gregge.

Questa figura, questa similitudine, questo ricordo Noi vorremmo restasse nelle vostre menti in seguito a questa Udienza, ch’è per voi un incontro caratteristico con la santa Chiesa, alla quale voi tutti appartenete. Che cosa ci insegna la figura del pastore e del gregge riferita alla Chiesa? C’insegna due proprietà della Chiesa, le quali ci devono essere molto care, e che ci aiutano a capire tante cose relative al mondo, alla storia, alla nostra vita: l’unità e la cattolicità. La Chiesa è unica ed è universale: è una cosa meravigliosa; se studierete, se viaggerete, capirete qualche cosa di questo semplicissimo e sublime disegno di Dio per la salvezza dell’umanità.

C’insegna poi che questa unità universale, che Cristo ha fondato e che sta realizzandosi nel tempo, è tenuta insieme da due forze principali: uno stesso pensiero e una comune affezione; diciamo meglio: dalla fede, eguale per tutti, e dall’amore - non dalla forza, non dall’interesse, non dalla pigrizia -, dall’amore di Cristo per noi e dall’amore nostro per Cristo e per i nostri simili, che chiamiamo fratelli. Questa è la Chiesa! Lo ricorderete? Cercherete sempre d’esserle fedeli e affezionati? Sarete felici di essere cattolici? Certamente; e con la Nostra Benedizione Apostolica.

Gli alunni della grande famiglia di San Giovanni Bosco

Dilettissimi giovani,

Vi dedichiamo un saluto di particolare affetto in questa mattinata, per voi memorabile. E ve lo rivolgiamo di gran cuore, perché lo meritate a diversi titoli: anzitutto, perché siete giovani, e dunque nella età più preziosa e promettente, nel periodo in cui si gettano i fondamenti, che dovranno durare per tutta la vita; ancora, perché siete alunni e alunne di Scuole Medie Superiori, e dunque impegnati a prepararvi alla professione futura nello studio, nella disciplina, nella serietà lieta e serena dei vostri anni migliori; infine, perché appartenete alle Scuole degli ottimi Istituti Salesiani, diretti dai continuatori di Don Bosco e dalle Figlie di Maria Ausiliatrice, e dunque consapevoli della vostra cristiana vocazione, e del dovere a cui essa vi chiama, di considerare la vita una missione, una risposta da dare, un talento da spendere per il Signore e per il bene dei fratelli, secondo le consegne ricevute nel Santo Battesimo.

Avete concluso stamane, attorno all’Altare del Sacrificio Eucaristico, le celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario della nascita di S. Giovanni Bosco: e nella gratitudine, franca e fervorosa, che sale dai vostri cuori per quanto di buono e di grande avete ricevuto nel nome di quel gigantesco Apostolo della gioventù, avete rinnovato i vostri propositi di generosità verso Dio, di amore alla Chiesa, di corrispondenza agli impegni della vita familiare e sociale.

Ricordatelo, dunque, questo; giorno tanto significativo: dall’esempio di un grande Santo dei tempi moderni vi viene ancor oggi l’invito a curare per prima cosa gli interessi dell’anima, perché, come ha detto Gesù Cristo nel suo Vangelo, «che vale all’uomo guadagnare anche tutto il mondo, se poi perde l’anima?» (Mt 16,26). Dai vostri maestri vi vengono ogni giorno le lezioni della vera sapienza. Dai vostri genitori ricevete l’insegnamento, vissuto e tradotto in pratica, della coerenza cristiana.

Sappiate profittare di tutte codeste voci, che vi esortano a conquiste sempre più alte; sappiate prepararvi ai vostri compiti futuri, adempiendo tutte le speranze in voi riposte; sappiate essere domani professionisti capaci e coscienziosi, cittadini leali e costruttivi; siate soprattutto cristiani convinti, figli degni della Chiesa dei tempi nostri, che con la celebrazione del Concilio Ecumenico ha tracciato per i laici nel mondo, uomini e donne, un preciso programma di vita e di azione. L’ora non è dei pavidi, dei pigri, degli assenti: ma è invece dei generosi, dei forti, dei puri, dei convinti; di chi crede, spera e ama; di chi è pronto a pagare di persona per l’estensione del Regno di Cristo, per l’avvento di tempi migliori.

Noi siamo certi che questa scelta decisiva è già stata da voi fatta, e che vi manterrete ad essa fedeli per tutta la vita. A questo vi incoraggi l’Apostolica Nostra Benedizione, che estendiamo ai vostri cari, e a tutti i vostri benemeriti Educatori della grande Famiglia di Don Bosco.



Mercoledì, 18 maggio 1966

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Diletti Figli e Figlie!

In questi incontri settimanali, che sono queste udienze generali, Noi non sappiamo d’altro parlare che della Chiesa: il Concilio ce ne offre materia e quasi ce ne fa obbligo, per l’abbondanza e per l’autorità della dottrina circa la Chiesa medesima, che esso ci ha illustrata; e la vostra visita Ci offre opportunità di fare qualche accenno a tale dottrina, senza pretesa di trattarla o di esporla adeguatamente, ma solo col proposito, e quasi col piacere, di rilevarne fugacemente qualche aspetto degno di particolare considerazione.

E sapete qual è, a Nostro avviso, l’aspetto più interessante e, nello stesso tempo, più misterioso della dottrina circa la Chiesa? È quello che riguarda il rapporto fra la Chiesa e lo Spirito Santo. Dice il Concilio, in una mirabile e densa pagina di teologia: «Compiuta l’opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra (cfr.
Jn 17,4), il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa, ed affinché i credenti avessero così per Cristo accesso al Padre in un solo Spirito (cfr. Ep 2,18). Questi è lo Spirito che dà la vita, è una sorgente d’acqua zampillante fino alla vita eterna (cfr. Jn 4,14 Jn 7,38-39); per Lui il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cfr. Rm 8,10-11). Lo Spirito dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio (cfr. 1Co 3,16 1Co 6,19), e in essi prega e rende testimonianza della loro adozione filiale (cfr. Ga 4,6 Rm 8,15-16 Rm 8,26). Egli guida la Chiesa verso tutta intera la verità (cfr. Jn 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la istruisce e la dirige con diversi doni gerarchici e carismatici e la abbellisce dei suoi frutti (cfr. Ep 4,11-12 1Co 12,4 Ga 5,22). Con la virtù del Vangelo (lo Spirito Santo) fa ringiovanire la Chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo. Poiché lo Spirito e la Sposa dicono al Signore Gesù: Vieni (cfr. Ap 22,17)».

È una pagina lunga, e piena di riferimenti biblici, che esigerebbero spiegazione. Ma Noi qui, solo per delineare il rapporto fra Spirito Santo e Chiesa, Ci contentiamo di citare una frase d’un grande pensatore cattolico tedesco del secolo scorso, il quale, alla prima pagina d’un suo libro famoso sull’unità nella Chiesa, scrive con vigore sintetico: «Il Padre manda il Figlio; e il Figlio manda lo Spirito Santo. È così che Dio è venuto a noi. Ed è in senso inverso che noi arriviamo al Padre. Lo Spirito ci conduce al Figlio, e il Figlio al Padre» (Moehler). E ci basterà pensare allo Spirito Santo come al principio divino animatore della Chiesa, alla sua anima increata (cfr. Journet 1, 43, 665), che produce nel Corpo mistico del Signore l’animazione creata, cioè la grazia, i doni dello Spirito Santo, i frutti dello Spirito Santo (Ga 5,22), che San Paolo enumera così: «La carità, il gaudio, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la longanimità, la mansuetudine, la fede, la moderazione, la continenza, la castità». E di più il carattere sacramentale non è un effetto dello Spirito Santo? E le sue ispirazioni che guidano le anime sulle vie della santità? E l’assistenza dello Spirito Santo, che dà al ministero della Chiesa la sua orientazione e la sua sicurezza, non è pure opera dello Spirito Santo?

Un punto di speciale importanza in tutta questa meravigliosa dottrina è quello che riguarda la gerarchia della Chiesa. Lo Spirito Santo non è forse libero d’esercitare la sua misteriosa azione direttamente: «Lo Spirito soffia dove vuole; Spiritus ubi vult spirat» (Jn 3,8)? Certamente. Il Concilio lo afferma espressamente e ripetutamente (cfr. Lumen Gentium LG 12-16 Unitatis redintegratio UR 3 UR 4 UR 21,ecc.). E allora non è superfluo, non è ingombrante il servizio che la gerarchia ecclesiastica si propone di fare per l’insegnamento, la santificazione, la guida dei fedeli? Questi non ricevono direttamente lo Spirito Santo senza questo diaframma umano, questa istituzione intermediaria? Questo è un punto essenziale della dottrina sulla Chiesa. Bisogna ricorrere al pensiero di Cristo. Cristo ha affidato il compimento della sua opera nell’umanità a due fattori differenti: allo Spirito Santo e agli Apostoli. Egli ha promesso di mandare lo Spirito Santo, ed Egli ha mandato gli Apostoli. Queste due missioni provengono egualmente da Cristo. Il disegno incontestabile del divino Fondatore della Chiesa vuole che la Chiesa sia costruita dagli Apostoli e che sia vivificata dallo Spirito Santo. Gli Apostoli costruiscono il corpo della Chiesa, di cui l’anima è lo Spirito di Cristo. Questi due diversi agenti sono così collegati fra di loro, che Sant’Agostino afferma coestensiva l’opera dell’uno e dell’altro, con parole celebri ed incisive: De Spiritu Christi non vivit, nisi corpus Christi . . . . Vis ergo et tu vivere de Spiritu Christi? In corpore esto Christi; non vive dello Spirito di Cristo se non il corpo di Cristo . . . . vuoi anche tu dunque vivere dello Spirito di Cristo? Sii nel corpo di Cristo (In Io. Ev. Tract. 26, 13; P.L. 35, 1612-1613). E ancora: «Niente tanto deve temere il cristiano, quanto l’essere separato dal corpo di Cristo. Se infatti è separato dal corpo di Cristo, non è suo membro; se non è suo membro, non è nutrito dal suo Spirito» (ib. Tract. 27, 6; P.L. 35, 1618).

Noi dovremmo sempre ricordare come l’opera della gerarchia visibile è ordinata alla diffusione dello Spirito Santo nelle membra della Chiesa; il suo ministero non è indispensabile per la misericordia di Dio, la quale può effondersi come a Dio piace; ma è normalmente indispensabile per noi, che abbiamo avuto l’ordine e la fortuna di attingere la Parola di Dio, la grazia di Dio, la guida di Dio dagli Apostoli, cioè dai ministri della vita religiosa, soprannaturale, emanante da Cristo (cfr. Congar, Esquisses du mystère de l’Eglise, p. 129 ss.).

A Noi piace ricordare queste verità luminose alla vigilia dell’inizio della novena, la grande novena della Pentecoste. Vorremmo che la celebrazione di questa «metropoli delle feste», come S. Giovanni Crisostomo chiama la Pentecoste, fosse preceduta dalla preparazione che il Signore stesso istituì (cfr. Ac 1,4 Ac 12 Ac 2,1), nel raccoglimento, nella preghiera, nella riflessione del mistero della Chiesa, sia nelle sue profondità interiori, e sia nelle sue manifestazioni esteriori: è meditazione sconfinata. Vorremmo che la bella Enciclica di Leone XIII Divinum illud munus (1897) fosse ricordata e conosciuta. Vorremmo che il culto, l’amore allo Spirito Santo, fosse in tutti i cristiani più ardente e più diffuso! Questo vi raccomandiamo, per il bene vostro e della santa Chiesa, con la Nostra Benedizione Apostolica.



Mercoledì, 25 maggio 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Ancora vi parleremo della Chiesa. È il tema che si offre più facilmente per un incontro come quello risultante dall’udienza generale; è poi il tema che il recente Concilio ecumenico ha reso d’attualità: è stato l’oggetto principale delle discussioni e delle deliberazioni conciliari; ed è il motivo ricorrente di tanti studi e di tanti commenti nella cultura contemporanea. A Noi preme interessare a questo tema l’attenzione dei Nostri visitatori, senza alcuna pretesa di darne una nozione organica e completa; Ci basta piuttosto di rilevare come sia difficile dir bene e dir tutto sulla Chiesa, tanto la sua realtà è feconda, e tanto è profonda la sua verità. Dicevamo infatti, in Udienze precedenti, che i molti nomi allegorici dati alla Chiesa, le molte figure che tentano di ritrarne il concetto, dimostrano, per un verso, la difficoltà di definirla in parole e in concetti adeguati; per un altro verso, la varietà, interessante e invitante a meditare e ad ammirare, dei suoi molteplici aspetti.

Prendiamone una di queste figure della Chiesa, fra le tante menzionate nella splendida Costituzione conciliare relativa alla Chiesa medesima; la figura della Città. La Chiesa è come una Città, una «civitas». E che cosa è una Città? Ancor prima d’essere un luogo abitato, un gruppo di case (urbs), la Città è l’unione di individui, di famiglie, di tribù, di gruppi umani, stretti fra loro per formare una società, resa omogenea e autonoma da leggi e da autorità proprie; è una comunità unita e governata da un diritto sociale distinto; una nazione, possiamo dire, se consideriamo i suoi elementi etnici, storici e linguistici; uno stato, se la consideriamo sotto l’aspetto giuridico. La Chiesa è appunto una società giuridica, organizzata, visibile, perfetta. Ricordiamo ancora la definizione classica di S. Roberto Bellarmino: la Chiesa «è l’assemblea degli uomini, che professano la medesima fede cristiana, tenuta insieme dalla comunione dei medesimi sacramenti, sotto la guida dei legittimi pastori e specialmente del romano Pontefice» (Controv. III; de Eccl. II). «Che la Chiesa abbia forma di società, è un fatto che cade sotto gli occhi di tutti; è infatti a tutti palese l’esistenza d’una moltitudine di cattolici fedeli, congregata (come dice fin dai primissimi tempi del cristianesimo la Didaché, XI, 5) dai quattro venti, soggetta ed obbediente alla guida d’un pastore supremo e di altri particolari rettori, munita di mezzi, sia spirituali che temporali, destinati a vantaggio della comunità, e rivolta al fine soprannaturale della visione beatifica» (Ottaviani, Compendium Iuris Eccl. p. 94; Rampolla, La Città sul Monte).

Così volle il Signore la sua Chiesa: una vera società organizzata, visibile, religiosa, con i poteri propri d’una società perfetta e sovrana, con leggi proprie, con autorità proprie, con mezzi e fine propri. È questa una verità fondamentale della dottrina cattolica, che ha le sue salde e chiare radici nel nuovo Testamento e la sua evidente realtà nella storia della Chiesa. Ma forse, proprio per questa inoppugnabile tradizionale manifestazione, è una delle verità più discusse e combattute nella grande controversia circa la vera natura della Chiesa. Chi la vorrebbe soltanto spirituale e perciò invisibile; questa sola sarebbe d’origine divina, non badando alla logica conseguenza che una Chiesa invisibile non è più affatto una Chiesa (cfr. Boyer, cit. da De Lubac Med.; p. 68). Già fin dal primo secolo del cristianesimo la santa e squillante voce del martire S. Ignazio d’Antiochia, facendo l’apologia dei gradi - vescovo, presbiteri, diaconi - della primitiva gerarchia ecclesiastica, risuona: «senza di questi non si può parlare di Chiesa» (Ad Trall. III, 1).

E c’è chi vorrebbe opporre la Chiesa giuridica alla Chiesa della carità, pensando essere possibile e non pensando essere contrario all’economia dell’Incarnazione isolare un aspetto costitutivo della Chiesa dall’altro, come già ci premunisce la famosa Enciclica sul Corpo mistico di Papa Pio XII (n. 62).

Certamente la concezione della Chiesa come una «civitas», come una società avente particolari forme, diritti, costumi, avente cioè una configurazione umana, concreta e storicamente identificata, pone molte questioni, primissima quella dei difetti, che una tale realizzazione della Chiesa può presentare; ma dobbiamo pensare che una tale concezione, cioè una tale società composta di uomini, quali noi siamo, deboli, peccatori, bisognosi di perdono e di redenzione, è sorta dalla bontà di Dio, dall’amore di Cristo per l’umanità, il Quale, così adunandola e organizzandola, la fa sua, la istruisce, la guida e la santifica; le comunica cioè, mediante la Chiesa, la sua redenzione, la sua salvezza.

E senza, per ora, considerare altre questioni inerenti al concetto giuridico della Chiesa, procuriamo di comprendere la grazia, che il Signore ci ha fatto d’essere cittadini di questa città benedetta, dove un’autorità munita di divini poteri ci dà la prova dell’inesauribile misericordia del Signore, ci dà la sicurezza della sua perenne azione santificatrice, ci dà lo stimolo continuo all’esercizio effettivo della fede e della carità, e ci promette che la Città stessa si trasformerà da terrena in celeste, che è e sarà cioè la Città di Dio; qui nel tempo, sulla terra, già santa nel suo disegno e nei suoi poteri, ma in via di purificazione e di santificazione nei suoi atti e nei suoi membri; ma che un giorno sarà radiosa e gloriosa, come la Gerusalemme santa, che Giovanni vide nell’Apocalisse, «avente in sé lo splendore di Dio» (21, 11).

E Dio voglia: con la Nostra Apostolica Benedizione.

Mercoledì, 1° giugno 1966

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Diletti Figli e Figlie!

Voi forse sapete che Noi facciamo volentieri oggetto di questo piccolo colloquio dell'Udienza generale la Chiesa, ancora la Chiesa. Risuona al Nostro spirito la voce forte e soave del Concilio su questo tema; e a Noi sembra onorare voi, Nostri visitatori carissimi, facendo eco a qualche sillaba di quella voce, che parla appunto della Chiesa, parla di voi, perché voi siete la Chiesa!

Pensateci bene: voi siete la Chiesa, cioè voi appartenete alla Chiesa, alla santa Chiesa di Dio, alla grande assemblea convocata da Cristo, alla comunità vivente della sua parola e della sua grazia, al suo Corpo mistico. Bisogna che si chiarisca sempre più in noi la coscienza della appartenenza alla Chiesa: è una coscienza di dignità; perché nella Chiesa siamo veri figli adottivi di Dio e fratelli di Cristo e di Lui viventi nello Spirito Santo; è una coscienza di fortuna; quale maggiore fortuna ci poteva capitare che quella d’essere ammessi a questa società della salvezza? È una coscienza di dovere, di impegno (come ora si dice); basta dire che un appartenente alla Chiesa si chiama fedele, cioè aderente, coerente, permanente.

Dunque: se è cosa estremamente bella, estremamente importante appartenere alla Chiesa, sorge nell’animo una domanda urgente e spontanea: appartengo io davvero alla Chiesa? chi vi appartiene? come ci è conferita questa appartenenza?

La risposta, a prima vista, è facile; tutti la conoscono: è mediante il Battesimo che si entra nella santa Chiesa. I fedeli, dice il Concilio (Lumen Gentium
LG 11) e prima di esso tutta la tradizione cristiana, sono incorporati nella Chiesa col Battesimo.

Qui dovremmo fare l’apologia di questo sacramento; ma limitiamoci ad augurare che il popolo cristiano accolga con favore, comprenda, apprezzi l’opera che la riforma liturgica sta facendo per rimettere in giusto rilievo, nella mente e nel costume dei fedeli, il sacramento del Battesimo: è cosa veramente di somma importanza per una vera concezione della vita cristiana.

Facciamo ora piuttosto una altra domanda: allora tutti quelli che sono battezzati, anche se separati dalla unità cattolica, sono nella Chiesa? nella Chiesa vera? nell’unica Chiesa? Sì. Questa è una delle grandi verità della tradizione cattolica; e il Concilio l’ha ripetutamente confermata (cfr. Lumen Gentium LG 11 LG 15 Unitatis redin UR 3 etc.). Essa si connette con l’articolo del Credo, che cantiamo nella Messa: «Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum»; e si connette con le grandi polemiche teologiche dei primi secoli, concluse specialmente con l’autorità di S. Agostino, che, in discussione con i Donatisti, afferma che «la Chiesa teneva la felicissima consuetudine di correggere negli stessi scismatici ed eretici ciò ch’è falso, ma non di ripetere ciò ch’è stato dato (da loro, cioè il Battesimo); di guarire ciò ch’è ferito, non di curare ciò ch’è sano» (De bapt. 2, 7; P. L. 43, 133). È ciò che insegna, per citare un documento recente del magistero ecclesiastico, l’Enciclica «Mystici Corporis» : «Col lavacro dell’acqua purificatrice quelli nati a questa vita mortale, rinascono dalla morte del peccato (originale) e sono fatti membra della Chiesa» (n. 18). Questa dottrina è la base del nostro ecumenismo, che ci fa considerare fratelli anche i cristiani da noi separati, tanto più se essi col Battesimo e con la fede in Cristo e nel mistero della Santissima Trinità conservano tanti altri tesori del comune patrimonio cristiano (Lumen Gentium LG 15).

Ma basta il Battesimo e una certa fede per appartenere pienamente alla Chiesa? È da ricordare che questa pienezza, questa perfetta comunione è esigenza profonda e inestinguibile dell’ordine religioso stabilito da Cristo. Se è sommamente apprezzabile l’appartenenza almeno iniziale, o parziale alla Chiesa, è altrettanto desiderabile che tale appartenenza raggiunga la sua completa misura: la Chiesa è una ed unica; non vi sono parecchie Chiese, a sé stanti e a sé sufficienti (cfr. Denz. 1685); la legge sovrana dell’unità domina intimamente la società religiosa fondata dal Signore; non dimentichiamo mai le parole formidabili di San Paolo: «Siate solleciti nel conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace; un corpo solo, un solo spirito, come in unica speranza siete stati chiamati; uno è il Signore, una la fede, uno il Battesimo, uno Iddio e Padre di tutti» (Ep 4,5); a questa organica e perfetta unità e «al superamento degli ostacoli, che si oppongono alla piena comunione ecclesiastica, tende appunto il nostro movimento ecumenico» (Unit. red. UR 3).

Ma qui sorgono due altre grosse questioni: e i catecumeni, o meglio, tutti quelli che non conoscono il Vangelo e la Chiesa come si salveranno? Prima questione, enorme. E l’altra: e i peccatori, che non sono in grazia di Dio, appartengono, o no, alla Chiesa? Non risponderemo a domande, che reclamerebbero lunghe e meditate precisazioni. Diremo soltanto, alla prima, che alla Chiesa si può appartenere in realtà, ovvero «in voto» virtualmente, per desiderio (come i catecumeni), o anche per una orientazione onesta della vita, priva forse d’ogni esplicita conoscenza cristiana, ma disponibile per una loro morale rettitudine ad una misteriosa misericordia di Dio, che può associare all’umanità salvata da Cristo, e perciò alla Chiesa, anche le immense moltitudini di uomini «che siedono nell’ombra di morte» (Ps 106,10), ma che sono pur essi creati e amati dalla divina bontà (cfr. Lumen Gentium LG 13).

Alla seconda diremo questa verità strana e meravigliosa insieme: che anche i peccatori possono appartenere alla Chiesa. È questa una dottrina avversata da coloro che pretendono che la Chiesa terrena è composta solo di santi (cfr. S. Ambrogio, De Paenitentia: «peccamus et seniores» II, 8, 74). Il peccato interrompe l’unione con Dio, ma se non interrompe l’adesione alla comunione di salvezza, ch’è la Chiesa, (come è il peccato rivolto espressamente contro l’appartenenza alla Chiesa: l’eresia, lo scisma, l’apostasia, o implicante la separazione dalla comunità, cioè la scomunica), può trovare in questa istituzione, fatta apposta per salvare gli uomini, la sua redenzione. Ricordate la parabola della rete: «Il regno dei cieli è simile ad una rete calata in mare e che ha preso ogni sorta di pesci» (Mt 13,47).

Ma pensate piuttosto, se volete riassumere e ricordare tutta questa importantissima dottrina dell’appartenenza alla Chiesa, ad un’altra duplice immagine, con cui Gesù raffigura la Chiesa stessa: quella dell’ovile e quella del gregge (cfr. Jn 10,16); e abbiate sommamente cura d’essere dentro l’ovile di Cristo, e d’essere del numero fortunato del suo gregge.

È il voto che vogliamo convalidare con la Nostra Benedizione Apostolica.




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