Amoris laetitia IT 153

Violenza e manipolazione

153 Nel contesto di questa visione positiva della sessualità, è opportuno impostare il tema nella sua integrità e con un sano realismo. Infatti non possiamo ignorare che molte volte la sessualità si spersonalizza ed anche si colma di patologie, in modo tale che «diventa sempre più occasione e strumento di affermazione del proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri e istinti».[155] In questa epoca diventa alto il rischio che anche la sessualità sia dominata dallo spirito velenoso dell’“usa e getta”. Il corpo dell’altro è spesso manipolato come una cosa da tenere finché offre soddisfazione e da disprezzare quando perde attrattiva. Si possono forse ignorare o dissimulare le costanti forme di dominio, prepotenza, abuso, perversione e violenza sessuale, che sono frutto di una distorsione del significato della sessualità e che seppelliscono la dignità degli altri e l’appello all’amore sotto un’oscura ricerca di sé stessi?

[155] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995),
EV 23: AAS 87 (1995), 427.

154 Non è superfluo ricordare che anche nel matrimonio la sessualità può diventare fonte di sofferenza e di manipolazione. Per questo dobbiamo ribadire con chiarezza che «un atto coniugale imposto al coniuge senza nessun riguardo alle sue condizioni ed ai suoi giusti desideri non è un vero atto di amore e nega pertanto un’esigenza del retto ordine morale nei rapporti tra gli sposi».[156]Gli atti propri dell’unione sessuale dei coniugi rispondono alla natura della sessualità voluta da Dio se sono «compiuti in modo veramente umano».[157] Per questo san Paolo esortava: «Che nessuno in questo campo offenda o inganni il proprio fratello» (1Th 4,6). Sebbene egli scrivesse in un’epoca in cui dominava una cultura patriarcale, nella quale la donna era considerata un essere completamente subordinato all’uomo, tuttavia insegnò che la sessualità dev’essere una questione da trattare tra i coniugi: prospettò la possibilità di rimandare i rapporti sessuali per un certo periodo, però «di comune accordo» (1Co 7,5).

[156] Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), HV 13: AAS 60 (1968), 489.
[157] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, GS 49.

155 San Giovanni Paolo II ha dato un avvertimento molto sottile quando ha affermato che l’uomo e la donna sono «minacciati dall’insaziabilità».[158] Vale a dire, sono chiamati ad un’unione sempre più intensa, ma il rischio sta nel pretendere di cancellare le differenze e quell’inevitabile distanza che vi è tra i due. Perché ciascuno possiede una dignità propria e irripetibile. Quando la preziosa appartenenza reciproca si trasforma in dominio, «cambia […] essenzialmente la struttura di comunione nella relazione interpersonale».[159] Nella logica del dominio, anche chi domina finisce per negare la propria dignità[160] e in definitiva cessa di «identificarsi soggettivamente con il proprio corpo»,[161] dal momento che lo priva di ogni significato. Vive il sesso come evasione da sé stesso e come rinuncia alla bellezza dell’unione.

[158] Catechesi (18 giugno 1980), 5: Insegnamenti III, 1 (1980), 1778.
[159] Ibid., 6.
[160] Cfr Catechesi (30 luglio 1980), 1: Insegnamenti III, 2 (1980), 311.
[161] Catechesi (8 aprile 1981), 3: Insegnamenti IV, 1 (1981), 904.

156 E’ importante essere chiari nel rifiuto di qualsiasi forma di sottomissione sessuale. Perciò è opportuno evitare ogni interpretazione inadeguata del testo della Lettera agli Efesini dove si chiede che «le mogli siano [sottomesse] ai loro mariti» (Ep 5,22). San Paolo qui si esprime in categorie culturali proprie di quell’epoca, ma noi non dobbiamo assumere tale rivestimento culturale, bensì il messaggio rivelato che soggiace all’insieme della pericope. Riprendiamo la sapiente spiegazione di san Giovanni Paolo II: «L’amore esclude ogni genere di sottomissione, per cui la moglie diverrebbe serva o schiava del marito [...]. La comunità o unità che essi debbono costituire a motivo del matrimonio, si realizza attraverso una reciproca donazione, che è anche una sottomissione vicendevole».[162] Per questo si dice anche che «i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo» (Ep 5,28). In realtà il testo biblico invita a superare il comodo individualismo per vivere rivolti agli altri: «Siate sottomessi gli uni agli altri» (Ep 5,21). Tra i coniugi questa reciproca “sottomissione” acquisisce un significato speciale e si intende come un’appartenenza reciproca liberamente scelta, con un insieme di caratteristiche di fedeltà, rispetto e cura. La sessualità è in modo inseparabile al servizio di tale amicizia coniugale, perché si orienta a fare in modo che l’altro viva in pienezza.

[162] Catechesi (11 agosto 1982), 4: Insegnamenti V, 3 (1982), 205-206.

157 Tuttavia, il rifiuto delle distorsioni della sessualità e dell’erotismo non dovrebbe mai condurci a disprezzarli o a trascurarli. L’ideale del matrimonio non si può configurare solo come una donazione generosa e sacrificata, dove ciascuno rinuncia ad ogni necessità personale e si preoccupa soltanto di fare il bene dell’altro senza alcuna soddisfazione. Ricordiamo che un vero amore sa anche ricevere dall’altro, è capace di accettarsi come vulnerabile e bisognoso, non rinuncia ad accogliere con sincera e felice gratitudine le espressioni corporali dell’amore nella carezza, nell’abbraccio, nel bacio e nell’unione sessuale. Benedetto XVI era chiaro a tale proposito: «Se l’uomo ambisce di essere solamente spirito e vuol rifiutare la carne come una eredità soltanto animalesca, allora spirito e corpo perdono la loro dignità».[163] Per questa ragione «l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono».[164] Questo richiede, in ogni modo, di ricordare che l’equilibrio umano è fragile, che rimane sempre qualcosa che resiste ad essere umanizzato e che in qualsiasi momento può scatenarsi nuovamente, recuperando le sue tendenze più primitive ed egoistiche.

[163] Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), : AAS 98 (2006), 221.
[164] Ibid., .

Matrimonio e verginità

158 «Molte persone che vivono senza sposarsi non soltanto sono dedite alla propria famiglia d’origine, ma spesso rendono grandi servizi nella loro cerchia di amici, nella comunità ecclesiale e nella vita professionale. […] Molti, poi, mettono i loro talenti a servizio della comunità cristiana nel segno della carità e del volontariato. Vi sono poi coloro che non si sposano perché consacrano la vita per amore di Cristo e dei fratelli. Dalla loro dedizione la famiglia, nella Chiesa e nella società, è grandemente arricchita».[165]

[165] Relatio finalis 2015, 22.

159 La verginità è una forma d’amore. Come segno, ci ricorda la premura per il Regno, l’urgenza di dedicarsi senza riserve al servizio dell’evangelizzazione (cfr 1Co 7,32), ed è un riflesso della pienezza del Cielo, dove «non si prende né moglie né marito» (Mt 22,30). San Paolo la raccomandava perché attendeva un imminente ritorno di Gesù e voleva che tutti si concentrassero unicamente sull’evangelizzazione: «Il tempo si è fatto breve» (1Co 7,29). Tuttavia rimaneva chiaro che era un’opinione personale e un suo desiderio (cfr 1Co 7,6-8) e non una richiesta di Cristo: «Non ho alcun comando dal Signore» (1Co 7,25). Nello stesso tempo, riconosceva il valore delle diverse chiamate: «Ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro» (1Co 7,7). In questo senso san Giovanni Paolo II ha affermato che i testi biblici «non forniscono motivo per sostenere né l’“inferiorità” del matrimonio, né la “superiorità” della verginità o del celibato»[166] a motivo dell’astinenza sessuale. Più che parlare della superiorità della verginità sotto ogni profilo, sembra appropriato mostrare che i diversi stati di vita sono complementari, in modo tale che uno può essere più perfetto per qualche aspetto e l’altro può esserlo da un altro punto di vista. Alessandro di Hales, per esempio, affermava che in un senso il matrimonio può considerarsi superiore agli altri sacramenti: perché simboleggia qualcosa di così grande come «l’unione di Cristo con la Chiesa o l’unione della natura divina con quella umana».[167]

[166] Catechesi (14 aprile 1982), 1: Insegnamenti V, 1 (1982), 1176.
[167] Glossa in quatuor libros sententiarum Petri Lombardi, IV, XXVI, 2 (Quaracchi 1957, 446).

160 Pertanto, «non si tratta di sminuire il valore del matrimonio a vantaggio della continenza»[168] e «non vi è invece alcuna base per una supposta contrapposizione [...]. Se, stando a una certa tradizione teologica, si parla dello stato di perfezione (status perfectionis), lo si fa non a motivo della continenza stessa, ma riguardo all’insieme della vita fondata sui consigli evangelici».[169]Tuttavia una persona sposata può vivere la carità in altissimo grado. Dunque «perviene a quella perfezione che scaturisce dalla carità, mediante la fedeltà allo spirito di quei consigli. Tale perfezione è possibile e accessibile ad ogni uomo».[170]

[168] Giovanni Paolo II, Catechesi (7 aprile 1982), 2: Insegnamenti V, 1 (1982), 1127.
[169] Id., Catechesi (14 aprile 1982), 3: Insegnamenti V, 1 (1982), 1177.
[170] Ibid.

161 La verginità ha il valore simbolico dell’amore che non ha la necessità di possedere l’altro, e riflette in tal modo la libertà del Regno dei Cieli. È un invito agli sposi perché vivano il loro amore coniugale nella prospettiva dell’amore definitivo a Cristo, come un cammino comune verso la pienezza del Regno. A sua volta, l’amore degli sposi presenta altri valori simbolici: da una parte, è un peculiare riflesso della Trinità. Infatti la Trinità è unità piena, nella quale però esiste anche la distinzione. Inoltre, la famiglia è un segno cristologico, perché manifesta la vicinanza di Dio che condivide la vita dell’essere umano unendosi ad esso nell’Incarnazione, nella Croce e nella Risurrezione: ciascun coniuge diventa “una sola carne” con l’altro e offre sé stesso per condividerlo interamente con l’altro sino alla fine. Mentre la verginità è un segno “escatologico” di Cristo risorto, il matrimonio è un segno “storico” per coloro che camminano sulla terra, un segno di Cristo terreno che accettò di unirsi a noi e si donò fino a donare il suo sangue. La verginità e il matrimonio sono, e devono essere, modalità diverse di amare, perché «l'uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per sé stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore».[171]

[171] Id., Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979),
RH 10: AAS 71 (1979), 274.

162 Il celibato corre il rischio di essere una comoda solitudine, che offre libertà per muoversi con autonomia, per cambiare posto, compiti e scelte, per disporre del proprio denaro, per frequentare persone diverse secondo l’attrattiva del momento. In tal caso, risplende la testimonianza delle persone sposate. Coloro che sono stati chiamati alla verginità possono trovare in alcune coppie di coniugi un segno chiaro della generosa e indistruttibile fedeltà di Dio alla sua Alleanza, che può stimolare i loro cuori a una disponibilità più concreta e oblativa. Infatti ci sono persone sposate che mantengono la loro fedeltà quando il coniuge è diventato sgradevole fisicamente, o quando non soddisfa le loro necessità, nonostante che molte occasioni li invitino all’infedeltà o all’abbandono. Una donna può curare suo marito malato e lì, accanto alla Croce, torna a ripetere il “sì” del suo amore fino alla morte. In tale amore si manifesta in modo splendido la dignità di chi ama, dignità come riflesso della carità, dal momento che è proprio della carità amare più che essere amati.[172]Possiamo anche riscontrare in molte famiglie una capacità di servizio oblativo e tenero nei confronti di figli difficili e persino ingrati. Questo fa di tali genitori un segno dell’amore libero e disinteressato di Gesù. Tutto ciò diventa un invito alle persone celibi perché vivano la loro dedizione per il Regno con maggiore generosità e disponibilità. Oggi la secolarizzazione ha offuscato il valore di un’unione per tutta la vita e ha sminuito la ricchezza della dedizione matrimoniale, per cui «occorre approfondire gli aspetti positivi dell’amore coniugale».[173]

[172] Cfr Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae
II-II 27,1.
[173] Pontificio Consiglio per la Famiglia, Famiglia, matrimonio e “unioni di fatto” (26 luglio 2000), 40.


La trasformazione dell’amore

163 Il prolungarsi della vita fa sì che si verifichi qualcosa che non era comune in altri tempi: la relazione intima e la reciproca appartenenza devono conservarsi per quattro, cinque o sei decenni, e questo comporta la necessità di ritornare a scegliersi a più riprese. Forse il coniuge non è più attratto da un desiderio sessuale intenso che lo muova verso l’altra persona, però sente il piacere di appartenerle e che essa gli appartenga, di sapere che non è solo, di aver un “complice” che conosce tutto della sua vita e della sua storia e che condivide tutto. È il compagno nel cammino della vita con cui si possono affrontare le difficoltà e godere le cose belle. Anche questo genera una soddisfazione che accompagna il desiderio proprio dell’amore coniugale. Non possiamo prometterci di avere gli stessi sentimenti per tutta la vita. Ma possiamo certamente avere un progetto comune stabile, impegnarci ad amarci e a vivere uniti finché la morte non ci separi, e vivere sempre una ricca intimità. L’amore che ci promettiamo supera ogni emozione, sentimento o stato d’animo, sebbene possa includerli. È un voler bene più profondo, con una decisione del cuore che coinvolge tutta l’esistenza. Così, in mezzo ad un conflitto non risolto, e benché molti sentimenti confusi si aggirino nel cuore, si mantiene viva ogni giorno la decisione di amare, di appartenersi, di condividere la vita intera e di continuare ad amarsi e perdonarsi. Ciascuno dei due compie un cammino di crescita e di cambiamento personale. Nel corso di tale cammino, l’amore celebra ogni passo e ogni nuova tappa.


164 Nella storia di un matrimonio, l’aspetto fisico muta, ma questo non è un motivo perché l’attrazione amorosa venga meno. Ci si innamora di una persona intera con una identità propria, non solo di un corpo, sebbene tale corpo, al di là del logorio del tempo, non finisca mai di esprimere in qualche modo quell’identità personale che ha conquistato il cuore. Quando gli altri non possono più riconoscere la bellezza di tale identità, il coniuge innamorato continua ad essere capace di percepirla con l’istinto dell’amore, e l’affetto non scompare. Riafferma la sua decisione di appartenere ad essa, la sceglie nuovamente ed esprime tale scelta attraverso una vicinanza fedele e colma di tenerezza. La nobiltà della sua decisione per essa, essendo intensa e profonda, risveglia una nuova forma di emozione nel compimento della missione coniugale. Perché «l’emozione provocata da un altro essere umano come persona [...] non tende di per sé all’atto coniugale».[174] Acquisisce altre espressioni sensibili perché l’amore «è un’unica realtà, seppur con diverse dimensioni; di volta in volta, l’una o l’altra dimensione può emergere maggiormente».[175] Il vincolo trova nuove modalità ed esige la decisione di riprendere sempre nuovamente a stabilirlo. Non solo però per conservarlo, ma per farlo crescere. È il cammino di costruirsi giorno per giorno. Ma nulla di questo è possibile se non si invoca lo Spirito Santo, se non si grida ogni giorno chiedendo la sua grazia, se non si cerca la sua forza soprannaturale, se non gli si richiede ansiosamente che effonda il suo fuoco sopra il nostro amore per rafforzarlo, orientarlo e trasformarlo in ogni nuova situazione.

[174] Giovanni Paolo II, Catechesi (31 ottobre 1984), 6: Insegnamenti VII, 2 (1984), 1072.
[175] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), : AAS 98 (2006), 224.


CAPITOLO QUINTO

L’AMORE CHE DIVENTA FECONDO


165 L’amore dà sempre vita. Per questo, l’amore coniugale «non si esaurisce all’interno della coppia [...]. I coniugi, mentre si donano tra loro, donano al di là di se stessi la realtà del figlio, riflesso vivente del loro amore, segno permanente della unità coniugale e sintesi viva ed indissociabile del loro essere padre e madre».[176]

[176] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981),
FC 14: AAS 74 (1982), 96.

Accogliere una nuova vita

166 La famiglia è l’ambito non solo della generazione, ma anche dell’accoglienza della vita che arriva come dono di Dio. Ogni nuova vita «ci permette di scoprire la dimensione più gratuita dell’amore, che non finisce mai di stupirci. E’ la bellezza di essere amati prima: i figli sono amati prima che arrivino».[177] Questo riflette il primato dell’amore di Dio che prende sempre l’iniziativa, perché i figli «sono amati prima di aver fatto qualsiasi cosa per meritarlo».[178] Tuttavia, «tanti bambini fin dall’inizio sono rifiutati, abbandonati, derubati della loro infanzia e del loro futuro. Qualcuno osa dire, quasi per giustificarsi, che è stato un errore farli venire al mondo. Questo è vergognoso! […] Che ne facciamo delle solenni dichiarazioni dei diritti dell’uomo e dei diritti del bambino, se poi puniamo i bambini per gli errori degli adulti?».[179] Se un bambino viene al mondo in circostanze non desiderate, i genitori o gli altri membri della famiglia, devono fare tutto il possibile per accettarlo come dono di Dio e per assumere la responsabilità di accoglierlo con apertura e affetto. Perché «quando si tratta dei bambini che vengono al mondo, nessun sacrificio degli adulti sarà giudicato troppo costoso o troppo grande, pur di evitare che un bambino pensi di essere uno sbaglio, di non valere niente e di essere abbandonato alle ferite della vita e alla prepotenza degli uomini».[180] Il dono di un nuovo figlio che il Signore affida a papà e mamma ha inizio con l’accoglienza, prosegue con la custodia lungo la vita terrena e ha come destino finale la gioia della vita eterna. Uno sguardo sereno verso il compimento ultimo della persona umana renderà i genitori ancora più consapevoli del prezioso dono loro affidato: ad essi infatti Dio concede di scegliere il nome col quale Egli chiamerà ogni suo figlio per l’eternità.[181]

[177] Catechesi (11 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2015, p. 8.
[178]Ibid.
[179] Catechesi (8 aprile 2015):L’Osservatore Romano,9 aprile 2015, p. 8.
[180] Ibid.
[181] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Past. Gaudium et spes,
GS 51: «Tutti sappiamo che la vita dell’uomo e il compito di trasmetterla non sono limitati agli orizzonti di questo mondo e non vi trovano né la loro piena dimensione, né il loro pieno senso, ma riguardano il destino eterno degli uomini».

167 Le famiglie numerose sono una gioia per la Chiesa. In esse l’amore esprime la sua fecondità generosa. Questo non implica dimenticare una sana avvertenza di san Giovanni Paolo II, quando spiegava che la paternità responsabile non è «procreazione illimitata o mancanza di consapevolezza circa il significato di allevare figli, ma piuttosto la possibilità data alle coppie di utilizzare la loro inviolabile libertà saggiamente e responsabilmente, tenendo presente le realtà sociali e demografiche così come la propria situazione e i legittimi desideri».[182]

[182] Lettera alla Segretaria generale della Conferenza internazionale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite su popolazione e sviluppo (18 marzo 1994): Insegnamenti XVII, 1 (1994), 750-751.


L’amore nell’attesa propria della gravidanza

168 La gravidanza è un periodo difficile, ma anche un tempo meraviglioso. La madre collabora con Dio perché si produca il miracolo di una nuova vita. La maternità proviene da una «particolare potenzialità dell’organismo femminile, che con peculiarità creatrice serve al concepimento e alla generazione dell’essere umano».[183] Ogni donna partecipa «del mistero della creazione, che si rinnova nella generazione umana».[184] Come dice il Salmo: «Mi hai tessuto nel grembo di mia madre» (Ps 139,13). Ogni bambino che si forma all’interno di sua madre è un progetto eterno di Dio Padre e del suo amore eterno: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato» (Jr 1,5). Ogni bambino sta da sempre nel cuore di Dio, e nel momento in cui viene concepito si compie il sogno eterno del Creatore. Pensiamo quanto vale l’embrione dall’istante in cui è concepito! Bisogna guardarlo con lo stesso sguardo d’amore del Padre, che vede oltre ogni apparenza.

[183] Giovanni Paolo II, Catechesi (12 marzo 1980), 3: Insegnamenti III, 1 (1980), 543.
[184] Ibid.

169 La donna in gravidanza può partecipare a tale progetto di Dio sognando suo figlio: «Tutte le mamme e tutti i papà hanno sognato il loro figlio per nove mesi. […] Non è possibile una famiglia senza il sogno. Quando in una famiglia si perde la capacità di sognare, i bambini non crescono e l’amore non cresce, la vita si affievolisce e si spegne».[185] All’interno di questo sogno, per una coppia di coniugi cristiani, appare necessariamente il Battesimo. I genitori lo preparano con la loro preghiera, affidando il figlio a Gesù già prima della sua nascita.

[185] Discorso nell’incontro con le famiglie a Manila (16 gennaio 2015):AAS 107 (2015), 176.

170 Con i progressi delle scienze oggi si può sapere in anticipo che colore di capelli avrà il bambino e di quali malattie potrà soffrire in futuro, perché tutte le caratteristiche somatiche di quella persona sono inscritte nel suo codice genetico già nello stadio embrionale. Ma solo il Padre che lo ha creato lo conosce pienamente. Solo Lui conosce ciò che è più prezioso, ciò che è più importante, perché Egli sa chi è quel bambino, qual è la sua identità più profonda. La madre che lo porta nel suo grembo ha bisogno di chiedere luce a Dio per poter conoscere in profondità il proprio figlio e per attenderlo quale è veramente. Alcuni genitori sentono che il loro figlio non arriva nel momento migliore. Hanno bisogno di chiedere al Signore che li guarisca e li fortifichi per accettare pienamente quel figlio, per poterlo attendere con il cuore. È importante che quel bambino si senta atteso. Egli non è un complemento o una soluzione per un’aspirazione personale. È un essere umano, con un valore immenso e non può venire usato per il proprio beneficio. Dunque, non è importante se questa nuova vita ti servirà o no, se possiede caratteristiche che ti piacciono o no, se risponde o no ai tuoi progetti e ai tuoi sogni. Perché «i figli sono un dono. Ciascuno è unico e irripetibile […]. Un figlio lo si ama perché è figlio: non perché è bello, o perché è così o cosà; no, perché è figlio! Non perché la pensa come me, o incarna i miei desideri. Un figlio è un figlio».[186] L’amore dei genitori è strumento dell’amore di Dio Padre che attende con tenerezza la nascita di ogni bambino, lo accetta senza condizioni e lo accoglie gratuitamente.

[186] Catechesi (11 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 12 febbraio 2015, p. 8.

171 Ad ogni donna in gravidanza desidero chiedere con affetto: abbi cura della tua gioia, che nulla ti tolga la gioia interiore della maternità. Quel bambino merita la tua gioia. Non permettere che le paure, le preoccupazioni, i commenti altrui o i problemi spengano la felicità di essere strumento di Dio per portare al mondo una nuova vita. Occupati di quello che c’è da fare o preparare, ma senza ossessionarti, e loda come Maria: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva» (Lc 1,46-48). Vivi con sereno entusiasmo in mezzo ai tuoi disagi, e prega il Signore che custodisca la tua gioia perché tu possa trasmetterla al tuo bambino.


Amore di madre e di padre


172 «I bambini, appena nati, incominciano a ricevere in dono, insieme col nutrimento e le cure, la conferma delle qualità spirituali dell’amore. Gli atti dell’amore passano attraverso il dono del nome personale, la condivisione del linguaggio, le intenzioni degli sguardi, le illuminazioni dei sorrisi. Imparano così che la bellezza del legame fra gli esseri umani punta alla nostra anima, cerca la nostra libertà, accetta la diversità dell’altro, lo riconosce e lo rispetta come interlocutore. […] E questo è amore, che porta una scintilla di quello di Dio!».[187] Ogni bambino ha il diritto di ricevere l’amore di una madre e di un padre, entrambi necessari per la sua maturazione integra e armoniosa. Come hanno affermato i Vescovi dell’Australia, entrambi «contribuiscono, ciascuno in una maniera diversa, alla crescita di un bambino. Rispettare la dignità di un bambino significa affermare la sua necessità e il suo diritto naturale ad avere una madre e un padre».[188] Non si tratta solo dell’amore del padre e della madre presi separatamente, ma anche dell’amore tra di loro, percepito come fonte della propria esistenza, come nido che accoglie e come fondamento della famiglia. Diversamente, il figlio sembra ridursi ad un possesso capriccioso. Entrambi, uomo e donna, padre e madre, sono «cooperatori dell’amore di Dio Creatore e quasi suoi interpreti».[189] Mostrano ai loro figli il volto materno e il volto paterno del Signore. Inoltre essi insieme insegnano il valore della reciprocità, dell’incontro tra differenti, dove ciascuno apporta la sua propria identità e sa anche ricevere dall’altro. Se per qualche ragione inevitabile manca uno dei due, è importante cercare qualche maniera per compensarlo, per favorire l’adeguata maturazione del figlio.

[187] Catechesi (14 ottobre 2015):L’Osservatore Romano, 15 ottobre 2015, p. 8.
[188] Conferenza dei Vescovi Cattolici dell’Australia, Lett. past. Don’t Mess with Marriage (24 novembre 2015), 11.
[189] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes,
GS 50.

173 Il sentimento di essere orfani che sperimentano oggi molti bambini e giovani è più profondo di quanto pensiamo. Oggi riconosciamo come pienamente legittimo, e anche auspicabile, che le donne vogliano studiare, lavorare, sviluppare le proprie capacità e avere obiettivi personali. Ma nello stesso tempo non possiamo ignorare la necessità che hanno i bambini della presenza materna, specialmente nei primi mesi di vita. La realtà è che «la donna sta davanti all’uomo come madre, soggetto della nuova vita umana che in essa è concepita e si sviluppa, e da essa nasce al mondo».[190] Il diminuire della presenza materna con le sue qualità femminili costituisce un rischio grave per la nostra terra. Apprezzo il femminismo quando non pretende l’uniformità né la negazione della maternità. Perché la grandezza della donna implica tutti i diritti che derivano dalla sua inalienabile dignità umana, ma anche dal suo genio femminile, indispensabile per la società. Le sue capacità specificamente femminili – in particolare la maternità – le conferiscono anche dei doveri, perché il suo essere donna comporta anche una missione peculiare su questa terra, che la società deve proteggere e preservare per il bene di tutti.[191]

[190] Giovanni Paolo II, Catechesi (12 marzo 1980), 2: Insegnamenti III, 1 (1980), 542.
[191] Cfr Id. Lett. ap. Mulieris dignitatem (15 agosto 1988),
MD 30-31: AAS 80 (1988), 1727-1729.

174 Di fatto, «le madri sono l’antidoto più forte al dilagare dell’individualismo egoistico. […] Sono esse a testimoniare la bellezza della vita».[192] Senza dubbio, «una società senza madri sarebbe una società disumana, perché le madri sanno testimoniare sempre, anche nei momenti peggiori, la tenerezza, la dedizione, la forza morale. Le madri trasmettono spesso anche il senso più profondo della pratica religiosa: nelle prime preghiere, nei primi gesti di devozione che un bambino impara […]. Senza le madri, non solo non ci sarebbero nuovi fedeli, ma la fede perderebbe buona parte del suo calore semplice e profondo. […] Carissime mamme, grazie, grazie per ciò che siete nella famiglia e per ciò che date alla Chiesa e al mondo».[193]

[192]Catechesi (7 gennaio 2015):L’Osservatore Romano, 7-8 gennaio 2015, p. 8.
[193] Ibid.

175 La madre, che protegge il bambino con la sua tenerezza e la sua compassione, lo aiuta a far emergere la fiducia, a sperimentare che il mondo è un luogo buono che lo accoglie, e questo permette di sviluppare un’autostima che favorisce la capacità di intimità e l’empatia. La figura paterna, d’altra parte, aiuta a percepire i limiti della realtà e si caratterizza maggiormente per l’orientamento, per l’uscita verso il mondo più ampio e ricco di sfide, per l’invito allo sforzo e alla lotta. Un padre con una chiara e felice identità maschile, che a sua volta unisca nel suo tratto verso la moglie l’affetto e l’accoglienza, è tanto necessario quanto le cure materne. Vi sono ruoli e compiti flessibili, che si adattano alle circostanze concrete di ogni famiglia, ma la presenza chiara e ben definita delle due figure, femminile e maschile, crea l’ambiente più adatto alla maturazione del bambino.


176 Si dice che la nostra società è una “società senza padri”. Nella cultura occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, distorta, sbiadita. Persino la virilità sembrerebbe messa in discussione. Si è verificata una comprensibile confusione, perché «in un primo momento, la cosa è stata percepita come una liberazione: liberazione dal padre-padrone, dal padre come rappresentante della legge che si impone dall’esterno, dal padre come censore della felicità dei figli e ostacolo all’emancipazione e all’autonomia dei giovani. Talvolta in alcune case regnava in passato l’autoritarismo, in certi casi addirittura la sopraffazione».[194]Tuttavia, «come spesso avviene, si passa da un estremo all’altro. Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la loro latitanza. I padri sono talora così concentrati su sé stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani».[195]La presenza paterna, e pertanto la sua autorità, risulta intaccata anche dal tempo sempre maggiore che si dedica ai mezzi di comunicazione e alla tecnologia dello svago. Inoltre oggi l’autorità è vista con sospetto e gli adulti sono duramente messi in discussione. Loro stessi abbandonano le certezze e perciò non offrono ai figli orientamenti sicuri e ben fondati. Non è sano che si scambino i ruoli tra genitori e figli: ciò danneggia l’adeguato processo di maturazione che i bambini hanno bisogno di compiere e nega loro un amore capace di orientarli e che li aiuti a maturare.[196]

[194] Catechesi (28 gennaio 2015):L’Osservatore Romano, 29 gennaio 2015, p. 8.
[195] Ibid.
[196] Cfr Relatio finalis 2015, 28.

177 Dio pone il padre nella famiglia perché, con le preziose caratteristiche della sua mascolinità, «sia vicino alla moglie, per condividere tutto, gioie e dolori, fatiche e speranze. E [perché] sia vicino ai figli nella loro crescita: quando giocano e quando si impegnano, quando sono spensierati e quando sono angosciati, quando si esprimono e quando sono taciturni, quando osano e quando hanno paura, quando fanno un passo sbagliato e quando ritrovano la strada; padre presente, sempre. Dire presente non è lo stesso che dire controllore. Perché i padri troppo controllori annullano i figli».[197] Alcuni padri si sentono inutili o non necessari, ma la verità è che «i figli hanno bisogno di trovare un padre che li aspetta quando ritornano dai loro fallimenti. Faranno di tutto per non ammetterlo, per non darlo a vedere, ma ne hanno bisogno».[198] Non è bene che i bambini rimangano senza padri e così smettano di essere bambini prima del tempo.

[197] Catechesi (4 febbraio 2015):L’Osservatore Romano, 5 febbraio 2015, p. 8.
[198] Ibid.


Amoris laetitia IT 153