Benedetto XVI Omelie 15085


VIAGGIO APOSTOLICO A COLONIA IN OCCASIONE DELLA XX GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ


Colonia, Spianata di Marienfeld, Domenica, 21 agosto 2005

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Parole del Santo Padre all'inizio della Celebrazione


Caro Cardinale Meisner,
cari giovani!

Vorrei ringraziarti cordialmente, caro Confratello nell'Episcopato, per queste tue parole commoventi che ci introducono tanto opportunamente in questa celebrazione liturgica. Avrei voluto percorrere col papamobile tutto il territorio in lungo e in largo per essere possibilmente vicino a ciascuno singolarmente. Per le difficoltà dei sentieri non era possibile, ma saluto ciascuno con tutto il cuore. Il Signore vede e ama ogni singola persona. Tutti noi formiamo insieme la Chiesa vivente e ringraziamo il Signore per questa ora in cui Egli ci dona il mistero della sua presenza e la possibilità di essere in comunione con Lui.

Sappiamo tutti di essere imperfetti, di non poter essere per Lui una casa appropriata. Per questo cominciamo la Santa Messa raccogliendoci e pregando il Signore di rimuovere da noi tutto ciò che ci separa da Lui e separa noi gli uni dagli altri. Ci faccia così il dono di celebrare degnamente i Santi Misteri.
***


Cari giovani!

Davanti all'Ostia sacra, nella quale Gesù per noi si è fatto pane che dall'interno sostiene e nutre la nostra vita (cfr
Jn 6,35), abbiamo ieri sera cominciato il cammino interiore dell'adorazione. Nell'Eucaristia l'adorazione deve diventare unione. Con la Celebrazione eucaristica ci troviamo in quell'"ora" di Gesù di cui parla il Vangelo di Giovanni. Mediante l'Eucaristia questa sua "ora" diventa la nostra ora, presenza sua in mezzo a noi. Insieme con i discepoli Egli celebrò la cena pasquale d'Israele, il memoriale dell'azione liberatrice di Dio che aveva guidato Israele dalla schiavitù alla libertà. Gesù segue i riti d'Israele. Recita sul pane la preghiera di lode e di benedizione. Poi però avviene una cosa nuova. Egli ringrazia Dio non soltanto per le grandi opere del passato; lo ringrazia per la propria esaltazione che si realizzerà mediante la Croce e la Risurrezione, parlando ai discepoli anche con parole che contengono la somma della Legge e dei Profeti: "Questo è il mio Corpo dato in sacrificio per voi. Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio Sangue". E così distribuisce il pane e il calice, e insieme dà loro il compito di ridire e rifare sempre di nuovo in sua memoria quello che sta dicendo e facendo in quel momento.

Che cosa sta succedendo? Come Gesù può distribuire il suo Corpo e il suo Sangue? Facendo del pane il suo Corpo e del vino il suo Sangue, Egli anticipa la sua morte, l'accetta nel suo intimo e la trasforma in un'azione di amore. Quello che dall'esterno è violenza brutale - la crocifissione -, dall'interno diventa un atto di un amore che si dona totalmente. È questa la trasformazione sostanziale che si realizzò nel cenacolo e che era destinata a suscitare un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti (cfr 1Co 15,28). Già da sempre tutti gli uomini in qualche modo aspettano nel loro cuore un cambiamento, una trasformazione del mondo. Ora questo è l'atto centrale di trasformazione che solo è in grado di rinnovare veramente il mondo: la violenza si trasforma in amore e quindi la morte in vita. Poiché questo atto tramuta la morte in amore, la morte come tale è già dal suo interno superata, è già presente in essa la risurrezione. La morte è, per così dire, intimamente ferita, così che non può più essere lei l'ultima parola. È questa, per usare un'immagine a noi oggi ben nota, la fissione nucleare portata nel più intimo dell'essere - la vittoria dell'amore sull'odio, la vittoria dell'amore sulla morte. Soltanto questa intima esplosione del bene che vince il male può suscitare poi la catena di trasformazioni che poco a poco cambieranno il mondo. Tutti gli altri cambiamenti rimangono superficiali e non salvano. Per questo parliamo di redenzione: quello che dal più intimo era necessario è avvenuto, e noi possiamo entrare in questo dinamismo. Gesù può distribuire il suo Corpo, perché realmente dona se stesso.

Questa prima fondamentale trasformazione della violenza in amore, della morte in vita trascina poi con sé le altre trasformazioni. Pane e vino diventano il suo Corpo e Sangue. A questo punto però la trasformazione non deve fermarsi, anzi è qui che deve cominciare appieno. Il Corpo e il Sangue di Cristo sono dati a noi affinché noi stessi veniamo trasformati a nostra volta. Noi stessi dobbiamo diventare Corpo di Cristo, consanguinei di Lui. Tutti mangiamo l'unico pane, ma questo significa che tra di noi diventiamo una cosa sola. L'adorazione, abbiamo detto, diventa unione. Dio non è più soltanto di fronte a noi, come il Totalmente Altro. È dentro di noi, e noi siamo in Lui. La sua dinamica ci penetra e da noi vuole propagarsi agli altri e estendersi a tutto il mondo, perché il suo amore diventi realmente la misura dominante del mondo. Io trovo un'allusione molto bella a questo nuovo passo che l'Ultima Cena ci ha donato nella differente accezione che la parola "adorazione" ha in greco e in latino. La parola greca suona proskynesis. Essa significa il gesto della sottomissione, il riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire. Significa che libertà non vuol dire godersi la vita, ritenersi assolutamente autonomi, ma orientarsi secondo la misura della verità e del bene, per diventare in tal modo noi stessi veri e buoni. Questo gesto è necessario, anche se la nostra brama di libertà in un primo momento resiste a questa prospettiva. Il farla completamente nostra sarà possibile soltanto nel secondo passo che l'Ultima Cena ci dischiude. La parola latina per adorazione è ad-oratio - contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi in fondo amore. La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore. Così sottomissione acquista un senso, perché non ci impone cose estranee, ma ci libera in funzione della più intima verità del nostro essere.

Torniamo ancora all'Ultima Cena. La novità che lì si verificò, stava nella nuova profondità dell'antica preghiera di benedizione d'Israele, che da allora diventa la parola della trasformazione e dona a noi la partecipazione all'"ora" di Cristo. Gesù non ci ha dato il compito di ripetere la Cena pasquale che, del resto, in quanto anniversario, non è ripetibile a piacimento. Ci ha dato il compito di entrare nella sua "ora". Entriamo in essa mediante la parola del potere sacro della consacrazione - una trasformazione che si realizza mediante la preghiera di lode, che ci pone in continuità con Israele e con tutta la storia della salvezza, e al contempo ci dona la novità verso cui quella preghiera per sua intima natura tendeva. Questa preghiera - chiamata dalla Chiesa "preghiera eucaristica" - pone in essere l'Eucaristia. Essa è parola di potere, che trasforma i doni della terra in modo del tutto nuovo nel dono di sé di Dio e ci coinvolge in questo processo di trasformazione. Per questo chiamiamo questo avvenimento Eucaristia, che è la traduzione della parola ebraica beracha - ringraziamento, lode, benedizione, e così trasformazione a partire dal Signore: presenza della sua "ora". L'ora di Gesù è l'ora in cui vince l'amore. In altri termini: è Dio che ha vinto, perché Egli è l'Amore. L'ora di Gesù vuole diventare la nostra ora e lo diventerà, se noi, mediante la celebrazione dell'Eucaristia, ci lasciamo tirare dentro quel processo di trasformazioni che il Signore ha di mira. L'Eucaristia deve diventare il centro della nostra vita. Non è positivismo o brama di potere, se la Chiesa ci dice che l'Eucaristia è parte della domenica. Al mattino di Pasqua, prima le donne e poi i discepoli ebbero la grazia di vedere il Signore. D'allora in poi essi seppero che ormai il primo giorno della settimana, la domenica, sarebbe stato il giorno di Lui, di Cristo. Il giorno dell'inizio della creazione diventava il giorno del rinnovamento della creazione. Creazione e redenzione vanno insieme. Per questo è così importante la domenica. È bello che oggi, in molte culture, la domenica sia un giorno libero o, insieme col sabato, costituisca addirittura il cosiddetto "fine-settimana" libero. Questo tempo libero, tuttavia, rimane vuoto se in esso non c'è Dio. Cari amici! Qualche volta, in un primo momento, può risultare piuttosto scomodo dover programmare nella domenica anche la Messa. Ma se vi ponete impegno, constaterete poi che è proprio questo che dà il giusto centro al tempo libero. Non lasciatevi dissuadere dal partecipare all'Eucaristia domenicale ed aiutate anche gli altri a scoprirla. Certo, perché da essa si sprigioni la gioia di cui abbiamo bisogno, dobbiamo imparare a comprenderla sempre di più nelle sue profondità, dobbiamo imparare ad amarla. Impegniamoci in questo senso - ne vale la pena! Scopriamo l'intima ricchezza della liturgia della Chiesa e la sua vera grandezza: non siamo noi a far festa per noi, ma è invece lo stesso Dio vivente a preparare per noi una festa. Con l'amore per l'Eucaristia riscoprirete anche il sacramento della Riconciliazione, nel quale la bontà misericordiosa di Dio consente sempre un nuovo inizio alla nostra vita.

Chi ha scoperto Cristo deve portare altri verso di Lui. Una grande gioia non si può tenere per sé. Bisogna trasmetterla. In vaste parti del mondo esiste oggi una strana dimenticanza di Dio. Sembra che tutto vada ugualmente anche senza di Lui. Ma al tempo stesso esiste anche un sentimento di frustrazione, di insoddisfazione di tutto e di tutti. Vien fatto di esclamare: Non è possibile che questa sia la vita! Davvero no. E così insieme con la dimenticanza di Dio esiste come un boom del religioso. Non voglio screditare tutto ciò che c'è in questo contesto. Può esserci anche la gioia sincera della scoperta. Ma, per dire il vero, non di rado la religione diventa quasi un prodotto di consumo. Si sceglie quello che piace, e certuni sanno anche trarne un profitto. Ma la religione cercata alla maniera del "fai da te" alla fin fine non ci aiuta. È comoda, ma nell'ora della crisi ci abbandona a noi stessi. Aiutate gli uomini a scoprire la vera stella che ci indica la strada: Gesù Cristo! Cerchiamo noi stessi di conoscerlo sempre meglio per poter in modo convincente guidare anche gli altri verso di Lui. Per questo è così importante l'amore per la Sacra Scrittura e, di conseguenza, importante conoscere la fede della Chiesa che ci dischiude il senso della Scrittura. È lo Spirito Santo che guida la Chiesa nella sua fede crescente e l'ha fatta e la fa penetrare sempre di più nelle profondità della verità (cfr Jn 16,13). Papa Giovanni Paolo II ci ha donato un'opera meravigliosa, nella quale la fede dei secoli è spiegata in modo sintetico: il Catechismo della Chiesa Cattolica. Io stesso recentemente ho potuto presentare il Compendio di tale Catechismo, che è stato anche elaborato a richiesta del defunto Papa. Sono due libri fondamentali che vorrei raccomandare a tutti voi.

Ovviamente, i libri da soli non bastano. Formate delle comunità sulla base della fede! Negli ultimi decenni sono nati movimenti e comunità in cui la forza del Vangelo si fa sentire con vivacità. Cercate la comunione nella fede come compagni di cammino che insieme continuano a seguire la strada del grande pellegrinaggio che i Magi dell'Oriente ci hanno indicato per primi. La spontaneità delle nuove comunità è importante, ma è pure importante conservare la comunione col Papa e con i Vescovi. Sono essi a garantire che non si sta cercando dei sentieri privati, ma invece si sta vivendo in quella grande famiglia di Dio che il Signore ha fondato con i dodici Apostoli.

Ancora una volta devo ritornare all'Eucaristia. "Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo" dice san Paolo (1Co 10,17). Con ciò intende dire: Poiché riceviamo il medesimo Signore ed Egli ci accoglie e ci attira dentro di sé, siamo una cosa sola anche tra di noi. Questo deve manifestarsi nella vita. Deve mostrarsi nella capacità del perdono. Deve manifestarsi nella sensibilità per le necessità dell'altro. Deve manifestarsi nella disponibilità a condividere. Deve manifestarsi nell'impegno per il prossimo, per quello vicino come per quello esternamente lontano, che però ci riguarda sempre da vicino.

Esistono oggi forme di volontariato, modelli di servizio vicendevole, di cui proprio la nostra società ha urgentemente bisogno. Non dobbiamo, ad esempio, abbandonare gli anziani alla loro solitudine, non dobbiamo passare oltre di fronte ai sofferenti. Se pensiamo e viviamo in virtù della comunione con Cristo, allora ci si aprono gli occhi. Allora non ci adatteremo più a vivacchiare preoccupati solo di noi stessi, ma vedremo dove e come siamo necessari.

Vivendo ed agendo così ci accorgeremo ben presto che è molto più bello essere utili e stare a disposizione degli altri che preoccuparsi solo delle comodità che ci vengono offerte. Io so che voi come giovani aspirate alle cose grandi, che volete impegnarvi per un mondo migliore. Dimostratelo agli uomini, dimostratelo al mondo, che aspetta proprio questa testimonianza dai discepoli di Gesù Cristo e che, soprattutto mediante il vostro amore, potrà scoprire la stella che noi seguiamo.

Andiamo avanti con Cristo e viviamo la nostra vita da veri adoratori di Dio! Amen.


CAPPELLA PAPALE PER L’APERTURA DELLA XI ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI 2 ottobre 2005

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Basilica Vaticana Domenica



La lettura tratta dal profeta Isaia e il Vangelo di questo giorno mettono davanti ai nostri occhi una delle grandi immagini della Sacra Scrittura: l’immagine della vite. Il pane rappresenta nella Sacra Scrittura tutto quello di cui l’uomo ha bisogno per la sua vita quotidiana. L’acqua dà alla terra la fertilità: è il dono fondamentale, che rende possibile la vita. Il vino invece esprime la squisitezza della creazione, ci dona la festa nella quale oltrepassiamo i limiti del quotidiano: il vino "allieta il cuore". Così il vino e con esso la vite sono diventati immagine anche del dono dell’amore, nel quale possiamo fare qualche esperienza del sapore del Divino. E così la lettura del profeta, che abbiamo appena ascoltato, comincia come cantico d’amore: Dio si è creato una vigna - un’immagine, questa, della sua storia d’amore con l’umanità, del suo amore per Israele, che Egli si è scelto. Il primo pensiero delle letture di oggi è quindi questo: all’uomo, creato a sua immagine Dio ha infuso la capacità di amare e quindi la capacità di amare anche Lui stesso, il suo Creatore. Con il cantico d’amore del profeta Isaia Dio vuole parlare al cuore del suo popolo – e anche a ciascuno di noi. "Ti ho creato a mia immagine e somiglianza", dice a noi. "Io stesso sono l’amore, e tu sei la mia immagine nella misura in cui in te brilla lo splendore dell’amore, nella misura in cui mi rispondi con amore". Dio ci aspetta. Egli vuole essere amato da noi: un simile appello non dovrebbe forse toccare il nostro cuore? Proprio in quest’ora in cui celebriamo l’Eucaristia, in cui inauguriamo il Sinodo sull’Eucaristia, Egli ci viene incontro, viene incontro a me. Troverà una risposta? O accade con noi come con la vigna, di cui Dio dice in Isaia: "Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica"? La nostra vita cristiana spesso non è forse molto più aceto che vino? Autocommiserazione, conflitto, indifferenza?

Con ciò siamo arrivati automaticamente al secondo pensiero fondamentale delle letture odierne. Esse parlano innanzitutto della bontà della creazione di Dio e della grandezza dell’elezione con cui Egli ci cerca e ci ama. Ma poi parlano anche della storia svoltasi successivamente – del fallimento dell’uomo. Dio aveva piantato viti sceltissime e tuttavia era maturata uva selvatica. In che cosa consiste questa uva selvatica? L’uva buona che Dio si aspettava – dice il profeta – sarebbe consistita nella giustizia e nella rettitudine. L’uva selvatica sono invece la violenza, lo spargimento di sangue e l’oppressione, che fanno gemere la gente sotto il giogo dell’ingiustizia. Nel Vangelo l’immagine cambia: la vite produce uva buona, ma gli affittuari la trattengono per sé. Non sono disposti a consegnarla al proprietario. Bastonano e uccidono i messaggeri di lui e uccidono il suo Figlio. La loro motivazione è semplice: vogliono farsi essi stessi proprietari; si impossessano di ciò che non appartiene a loro. Nell’Antico Testamento in primo piano c’è l’accusa per la violazione della giustizia sociale, per il disprezzo dell’uomo da parte dell’uomo. Sullo sfondo appare però che, con il disprezzo della Torah, del diritto donato da Dio, è Dio stesso che viene disprezzato; si vuole soltanto godere del proprio potere. Questo aspetto è messo in risalto pienamente nella parabola di Gesù: gli affittuari non vogliono avere un padrone – e questi affittuari costituiscono uno specchio anche per noi. Noi uomini, ai quali la creazione, per così dire, è affidata in gestione, la usurpiamo. Vogliamo esserne i padroni in prima persona e da soli. Vogliamo possedere il mondo e la nostra stessa vita in modo illimitato. Dio ci è d’intralcio. O si fa di Lui una semplice frase devota o Egli viene negato del tutto, bandito dalla vita pubblica, così da perdere ogni significato. La tolleranza, che ammette per così dire Dio come opinione privata, ma gli rifiuta il dominio pubblico, la realtà del mondo e della nostra vita, non è tolleranza ma ipocrisia. Laddove però l’uomo si fa unico padrone del mondo e proprietario di se stesso, non può esistere la giustizia. Là può dominare solo l’arbitrio del potere e degli interessi. Certo, si può cacciare il Figlio fuori della vigna e ucciderlo, per gustare egoisticamente da soli i frutti della terra. Ma allora la vigna ben presto si trasforma in un terreno incolto calpestato dai cinghiali, come ci dice il Salmo responsoriale (cfr
Ps 79,14).

Così giungiamo al terzo elemento delle letture odierne. Il Signore, nell’Antico come nel Nuovo Testamento, annuncia alla vigna infedele il giudizio. Il giudizio che Isaia prevedeva si è realizzato nelle grandi guerre ed esili ad opera degli Assiri e dei Babilonesi. Il giudizio annunciato dal Signore Gesù si riferisce soprattutto alla distruzione di Gerusalemme nell’anno 70. Ma la minaccia di giudizio riguarda anche noi, la Chiesa in Europa, l’Europa e l’Occidente in generale. Con questo Vangelo il Signore grida anche nelle nostre orecchie le parole che nell’Apocalisse rivolse alla Chiesa di Efeso: "Se non ti ravvederai, verrò da te e rimuoverò il tuo candelabro dal suo posto" (Ap 2,5). Anche a noi può essere tolta la luce, e facciamo bene se lasciamo risuonare questo monito in tutta la sua serietà nella nostra anima, gridando allo stesso tempo al Signore: "Aiutaci a convertirci! Dona a tutti noi la grazia di un vero rinnovamento! Non permettere che la tua luce in mezzo a noi si spenga! Rafforza tu la nostra fede, la nostra speranza e il nostro amore, perché possiamo portare frutti buoni!".

A questo punto però sorge in noi la domanda: "Ma non c’è nessuna promessa, nessuna parola di conforto nella lettura e nella pagina evangelica di oggi? È la minaccia l’ultima parola?" No! La promessa c’è, ed è essa l’ultima, l’essenziale parola. La sentiamo nel versetto dell’Alleluia, tratto dal Vangelo di Giovanni: "Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto" (Jn 15,5). Con queste parole del Signore, Giovanni ci illustra l’ultimo, il vero esito della storia della vigna di Dio. Dio non fallisce. Alla fine Egli vince, vince l’amore. Una velata allusione a questo si trova già nella parabola della vigna proposta dal Vangelo di oggi e nelle sue parole conclusive. Anche lì la morte del Figlio non è la fine della storia, anche se non viene direttamente raccontata. Ma Gesù esprime questa morte mediante una nuova immagine presa dal Salmo: "La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata d’angolo …" (Mt 21,42 Ps 117,22). Dalla morte del Figlio scaturisce la vita, si forma un nuovo edificio, una nuova vigna. Egli, che a Cana cambiò l’acqua in vino, ha trasformato il suo sangue nel vino del vero amore e così trasforma il vino nel suo sangue. Nel cenacolo ha anticipato la sua morte e l’ha trasformata nel dono di se stesso, in un atto d’amore radicale. Il suo sangue è dono, è amore, e per questo è il vero vino che il Creatore aspettava. In questo modo Cristo stesso è diventato la vite, e questa vite porta sempre buon frutto: la presenza del suo amore per noi, che è indistruttibile.

Così, queste parabole sfociano alla fine nel mistero dell’Eucaristia, nella quale il Signore ci dona il pane della vita e il vino del suo amore e ci invita alla festa dell’amore eterno. Noi celebriamo l’Eucaristia nella consapevolezza che il suo prezzo fu la morte del Figlio – il sacrificio della sua vita, che in essa resta presente. Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo di questo calice, noi annunciamo la morte del Signore finché Egli venga, dice san Paolo (cfr 1Co 11,26). Ma sappiamo anche che da questa morte scaturisce la vita, perché Gesù l’ha trasformata in un gesto oblativo, in un atto di amore, mutandola così nel profondo: l’amore ha vinto la morte. Nella santa Eucaristia Egli dalla croce ci attira tutti a sé (Jn 12,32) e ci fa diventare tralci della vite che è Egli stesso. Se rimaniamo uniti a Lui, allora porteremo frutto anche noi, allora anche da noi non verrà più l’aceto dell’autosufficienza, della scontentezza di Dio e della sua creazione, ma il vino buono della gioia in Dio e dell’amore verso il prossimo. Preghiamo il Signore di donarci la sua grazia, perché nelle tre settimane del Sinodo che stiamo iniziando non soltanto diciamo cose belle sull’Eucaristia, ma soprattutto viviamo della sua forza. Invochiamo questo dono per mezzo di Maria, cari Padri sinodali, che saluto con tanto affetto, insieme alle diverse Comunità dalle quali provenite e che qui rappresentate, perché docili all’azione dello Spirito Santo possiamo aiutare il mondo a diventare in Cristo e con Cristo la vite feconda di Dio. Amen.



CAPPELLA PAPALE PER LE ESEQUIE DELL’EM.MO CARD. GIUSEPPE CAPRIO Martedì, 18 ottobre 2005

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“Non sia turbato il vostro cuore... Io vado a prepararvi un posto” (
Jn 14,1 Jn 14,2). Le parole del Signore Gesù ci illuminano e ci confortano, cari e venerati Fratelli, in quest'ora di mesta preghiera, che ci vede riuniti intorno alle spoglie mortali del compianto Cardinale Giuseppe Caprio, al quale diamo l’estremo nostro saluto. Sabato scorso egli ci ha lasciato, al termine di un lungo pellegrinaggio terreno, che lo ha condotto da un piccolo paese dell’Irpinia in varie parti del mondo e specialmente qui a Roma, al servizio della Santa Sede, per la quale ha speso la sua vita. Nel suo testamento ritroviamo la serena fiducia a cui Cristo invita i suoi discepoli. Proprio all’inizio egli scrive: “Ringrazio la SS.ma Trinità di avermi creato, redento e fatto nascere in una famiglia povera di mezzi materiali, ma ricca di virtù cristiane, che fin dai primi anni della mia fanciullezza mi ha insegnato ad amare Dio ed ubbidire alla sua santa legge”.

“Ringrazio la Santissima Trinità…”: non c’è forse in queste parole come la sintesi della vita di un cristiano? Al temine della giornata terrena, l’anima si raccoglie in un atteggiamento di intima e commossa gratitudine, tutto riconoscendo come dono e preparandosi all’abbraccio definitivo con Dio-Amore. E’ il medesimo sentimento di intima fiducia nel Signore di cui ci ha parlato la prima Lettura, tratta dal Libro del Siracide: “Quanti temete il Signore, aspettate la sua misericordia; / … confidate in lui / … sperate i suoi benefici, / la felicità eterna e la misericordia” (Si 2,7-9). Il timore del Signore è principio e pienezza della sapienza (cfr Si 1,12 Si 1,14). Da qui scaturisce la pace (cfr Si 1,16), sinonimo a sua volta di quella felicità compiuta ed eterna che è frutto della divina misericordia. Chi vive nel santo timore del Signore trova la vera pace e, come dice ancora il Siracide, “sarà benedetto nel giorno della sua morte” (Si 1,11). Iddio, nella sua misericordia, perdoni ogni eventuale colpa dell’amato Cardinale Caprio e lo accolga nel suo regno di luce e di pace, poiché questo nostro fratello ha cercato di servire fedelmente la santa Chiesa.

“Figlio, se ti presenti per servire il Signore ... sta' unito a lui senza separartene, perché tu sia esaltato nei tuoi ultimi giorni” (Si 2,1 Si 2,3). Il giovane Giuseppe Caprio, proveniente da Lapìo, si presentò per servire il Signore al Seminario di Benevento. Lì iniziò gli studi, che continuò a Roma, all’Università Gregoriana, conseguendo la Licenza in Teologia e la Laurea in Diritto Canonico, e nel 1938 fu ordinato sacerdote. Leggiamo nel testamento: “Ringrazio [Dio] col cuore pieno di confusione e riconoscenza, d’avermi chiamato al sacerdozio”. Anche noi, nella preghiera, ci associamo in questo momento al suo rendimento di grazie, mentre ci accingiamo ad offrire per la sua anima il sacrificio eucaristico, centro e forma della vita sacerdotale. Mi piace pensare, specialmente in questi giorni in cui tutta la Chiesa è come concentrata sul mistero eucaristico, che proprio lì, all’altare, la vita e il ministero del Cardinale Caprio abbiano avuto il loro punto di profonda unità, nei diversi spostamenti che per lui ha comportato il servizio diplomatico della Santa Sede. Da Roma a Nanchino, a Bruxelles, a Saigon, a Taipei, a New Delhi e, infine, nuovamente a Roma. La presenza di Cristo risorto è stata certamente il conforto nei momenti più difficili, come fu, in particolare, il periodo di domicilio coatto nella Nunziatura a Nanchino, nel 1951, ed il successivo obbligo di lasciare la Cina. Nel suo testamento egli nota: “Elevo il mio pensiero riconoscente e devoto al Sommo Pontefice, che mi ha concesso l’insigne onore di rappresentarlo in tanti paesi e che ho sempre servito con fedeltà ed amore filiale”. Non è forse dall’Eucaristia che il Cardinale Caprio ha potuto trarre l’energia spirituale per accettare giorno dopo giorno la missione affidatagli dai Superiori e per adempierla con amore sino alla fine?

Pax in virtute”: il compianto Cardinale Caprio scelse questo motto quando, nel 1961, il beato Papa Giovanni XXIII lo elesse Arcivescovo. Dopo aver partecipato al Concilio Vaticano II, trascorse ancora un breve periodo come Pro-Nunzio in India, e poi rientrò a Roma al diretto servizio della Sede Apostolica in importanti uffici, tra i quali quello di Sostituto della Segreteria di Stato e di Presidente dell’Amministrazione del Patrimonio. Di lui è stata riconosciuta la visione d’insieme dei problemi della Chiesa e la preoccupazione costante di considerare gli aspetti amministrativi nella loro relazione con gli interessi superiori, in piena adesione allo spirito del Concilio.

“Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1Co 15,20). La luce di Gesù risorto illumina le tenebre della morte, “ultimo nemico” (1Co 15,26), a cui dobbiamo pagare il debito contratto col peccato originale, ma che non domina più sui credenti, poiché il Signore l'ha vinta una volta per sempre. In Cristo, tutti riceveranno la vita; ciascuno nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo (cfr 1Co 15,22-23). La liturgia applica questo passo paolino alla Vergine Maria nella solennità della sua Assunzione in Cielo. Mi piace testimoniare qui la devozione mariana del Cardinale Giuseppe Caprio, così come risalta dal suo testamento: “Affido – scrive – l’anima mia alla Vergine SS.ma di Pompei, perché presentandola al suo Figlio Gesù Cristo ottenga perdono e misericordia per me”. Facciamo nostra questa sua preghiera nell’attuale momento di dolore e di viva speranza. Con affetto e gratitudine accompagniamo questo nostro fratello nell’ultimo viaggio verso il vero Oriente, cioè verso Cristo, sole senza tramonto, con la piena fiducia che Iddio lo accoglierà a braccia aperte, riservandogli il posto preparato per i suoi amici, fedeli servitori del Vangelo e della Chiesa.



CAPPELLA PAPALE PER LA CONCLUSIONE DELL’XI ASSEMBLEA GENERALE ORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI, DELL'ANNO DELL'EUCARISTIA

E PER LA CANONIZZAZIONE DEI BEATI: JÓZEF BILCZEWSKI; GAETANO CATANOSO; ZYGMUNT GORAZDOWSKI; ALBERTO HURTADO CRUCHAGA; FELICE DA NICOSIA

Piazza San Pietro, Giornata Missionaria Mondiale Domenica, 23 ottobre 2005

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Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!

Cari fratelli e sorelle!

In questa XXX Domenica del tempo ordinario, la nostra Celebrazione eucaristica si arricchisce di diversi motivi di ringraziamento e di supplica a Dio. Si concludono contemporaneamente l’Anno dell’Eucaristia e l’Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, dedicata proprio al mistero eucaristico nella vita e nella missione della Chiesa, mentre sono stati da poco proclamati santi cinque Beati: il Vescovo Józef Bilczewski, i presbiteri Gaetano Catanoso, Zygmunt Gorazdowski e Alberto Hurtado Cruchaga, e il religioso Cappuccino Felice da Nicosia. Inoltre, ricorre quest’oggi la Giornata Missionaria Mondiale, appuntamento annuale che risveglia nella Comunità ecclesiale lo slancio per la missione. Con gioia rivolgo il mio saluto a tutti i presenti, ai Padri Sinodali in primo luogo, e poi ai pellegrini venuti da varie nazioni, insieme con i loro Pastori, per festeggiare i nuovi Santi. L’odierna liturgia ci invita a contemplare l’Eucaristia come fonte di santità e nutrimento spirituale per la nostra missione nel mondo: questo sommo "dono e mistero" ci manifesta e comunica la pienezza dell’amore di Dio.

La Parola del Signore, risuonata poc’anzi nel Vangelo, ci ha ricordato che nell’amore si riassume tutta la legge divina. Il duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo racchiude i due aspetti di un unico dinamismo del cuore e della vita. Gesù porta così a compimento la rivelazione antica, non aggiungendo un comandamento inedito, ma realizzando in se stesso e nella propria azione salvifica la sintesi vivente delle due grandi parole dell’antica Alleanza: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore…" e "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (cfr
Dt 6,5 Lv 19,18). Nell’Eucaristia noi contempliamo il Sacramento di questa sintesi vivente della legge: Cristo ci consegna in se stesso la piena realizzazione dell’amore per Dio e dell’amore per i fratelli. E questo suo amore Egli ci comunica quando ci nutriamo del suo Corpo e del suo Sangue. Può allora realizzarsi in noi quanto san Paolo scrive ai Tessalonicesi nell’odierna seconda Lettura: "Vi siete convertiti, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero" (1Th 1,9). Questa conversione è il principio del cammino di santità che il cristiano è chiamato a realizzare nella propria esistenza. Il santo è colui che è talmente affascinato dalla bellezza di Dio e dalla sua perfetta verità da esserne progressivamente trasformato. Per questa bellezza e verità è pronto a rinunciare a tutto, anche a se stesso. Gli basta l’amore di Dio, che sperimenta nel servizio umile e disinteressato del prossimo, specialmente di quanti non sono in grado di ricambiare. Quanto provvidenziale, in questa prospettiva, è il fatto che oggi la Chiesa additi a tutti i suoi membri cinque nuovi Santi che, nutriti di Cristo Pane vivo, si sono convertiti all’amore e ad esso hanno improntato l’intera loro esistenza! In diverse situazioni e con diversi carismi, essi hanno amato il Signore con tutto il cuore e il prossimo come se stessi "così da diventare modello a tutti i credenti" (1Th 1,6-7).

 [Il santo Józef Bilczewski fu un uomo di preghiera. La Santa Messa, la Liturgia delle Ore, la meditazione, il rosario e le altre pratiche di pietà scandivano le sue giornate. Un tempo particolarmente lungo era dedicato all’adorazione eucaristica.

Anche il santo Zygmunt Gorazdowski è diventato famoso per la devozione fondata sulla celebrazione e sull’adorazione dell’Eucaristia. Il vivere l’offerta di Cristo l’ha spinto verso i malati, i poveri e i bisognosi.]

 [La profonda conoscenza della teologia, la fede e la devozione eucaristica di Józef Bilczeski hanno fatto di lui un esempio per i sacerdoti e un testimone per tutti i fedeli.

Zygmunt Gorazdowski, fondando l’Associazione dei sacerdoti, la Congregazione delle Suore di San Giuseppe e tante altre istituzioni caritative, si è sempre lasciato guidare dallo spirito di comunione, che pienamente si rivela nell’Eucaristia.]

"Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore... Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Mt 22,37 Mt 22,39). Questo sarebbe stato il programma di vita di san Alberto Hurtado, che volle identificarsi con il Signore e amare con il suo stesso amore i poveri. La formazione ricevuta nella Compagnia di Gesù, consolidata dalla preghiera e dall'adorazione dell'Eucaristia, lo portò a farsi conquistare da Cristo, poiché era un vero contemplativo nell'azione. Nell'amore e nel dono totale di sé alla volontà di Dio trovò la forza per l'apostolato. Fondò El Hogar de Cristo per i più bisognosi e i senzatetto, offrendo loro un ambiente familiare pieno di calore umano. Nel suo ministero sacerdotale si distinse per la sua semplicità e la sua disponibilità verso gli altri, essendo un'immagine viva del Maestro, "mite e umile di cuore". Alla fine dei suoi giorni, tra i forti dolori causati dalla malattia, ebbe ancora forze per ripetere: "Contento, Signore, contento", esprimendo così la gioia con la quale visse sempre.

San Gaetano Catanoso fu cultore ed apostolo del Volto Santo di Cristo. "Il Volto Santo - affermava - è la mia vita. È lui la mia forza". Con una felice intuizione egli coniugò questa devozione alla pietà eucaristica. Così si esprimeva: "Se vogliamo adorare il Volto reale di Gesù... noi lo troviamo nella divina Eucaristia, ove col Corpo e Sangue di Gesù Cristo si nasconde sotto il bianco velo dell'Ostia il Volto di Nostro Signore". La Messa quotidiana e la frequente adorazione del Sacramento dell'altare furono l'anima del suo sacerdozio: con ardente ed instancabile carità pastorale egli si dedicò alla predicazione, alla catechesi, al ministero delle Confessioni, ai poveri, ai malati, alla cura delle vocazioni sacerdotali. Alle Suore Veroniche del Volto Santo, che egli fondò, trasmise lo spirito di carità, di umiltà e di sacrificio, che ha animato l'intera sua esistenza.

San Felice da Nicosia amava ripetere in tutte le circostanze, gioiose o tristi: "Sia per l’amor di Dio". Possiamo così ben comprendere quanto fosse intensa e concreta in lui l’esperienza dell’amore di Dio rivelato agli uomini in Cristo. Questo umile Frate Cappuccino, illustre figlio della terra di Sicilia, austero e penitente, fedele alle più genuine espressioni della tradizione francescana, fu gradualmente plasmato e trasformato dall’amore di Dio, vissuto e attualizzato nell’amore del prossimo. Fra Felice ci aiuta a scoprire il valore delle piccole cose che impreziosiscono la vita, e ci insegna a cogliere il senso della famiglia e del servizio ai fratelli, mostrandoci che la gioia vera e duratura, alla quale anela il cuore di ogni essere umano, è frutto dell’amore.

Cari e venerati Padri Sinodali, per tre settimane abbiamo vissuto insieme un clima di rinnovato fervore eucaristico. Vorrei ora, con voi ed a nome dell'intero Episcopato, inviare un fraterno saluto ai Vescovi della Chiesa in Cina. Con viva pena abbiamo sentito la mancanza dei loro rappresentanti. Voglio tuttavia assicurare a tutti i Presuli cinesi che siamo vicini con la preghiera a loro e ai loro sacerdoti e fedeli. Il sofferto cammino delle comunità, affidate alla loro cura pastorale, è presente nel nostro cuore: esso non rimarrà senza frutto, perché è una partecipazione al Mistero pasquale, a gloria del Padre. I lavori sinodali ci hanno permesso di approfondire gli aspetti salienti di questo mistero dato alla Chiesa fin dall’inizio. La contemplazione dell’Eucaristia deve spingere tutti i membri della Chiesa, in primo luogo i sacerdoti, ministri dell’Eucaristia, a ravvivare il loro impegno di fedeltà. Sul mistero eucaristico, celebrato e adorato, si fonda il celibato che i presbiteri hanno ricevuto quale dono prezioso e segno dell’amore indiviso verso Dio e il prossimo. Anche per i laici la spiritualità eucaristica deve essere l’interiore motore di ogni attività e nessuna dicotomia è ammissibile tra la fede e la vita nella loro missione di animazione cristiana del mondo. Mentre si conclude l’Anno dell’Eucaristia, come non rendere grazie a Dio per i tanti doni concessi alla Chiesa in questo tempo? E come non riprendere l’invito dell’amato Papa Giovanni Paolo II a "ripartire da Cristo"? Come i discepoli di Emmaus che, riscaldati nel cuore dalla parola del Risorto e illuminati dalla sua viva presenza riconosciuta nello spezzare il pane, senza indugio fecero ritorno a Gerusalemme e diventarono annunciatori della risurrezione di Cristo, anche noi riprendiamo il nostro cammino animati dal vivo desiderio di testimoniare il mistero di questo amore che dà speranza al mondo.

In questa prospettiva eucaristica ben si colloca l’odierna Giornata Missionaria Mondiale, alla quale il venerato Servo di Dio Giovanni Paolo II aveva dato come tema di riflessione: "Missione: Pane spezzato per la vita del mondo". La Comunità ecclesiale quando celebra l’Eucaristia, specialmente nel giorno del Signore, prende sempre più coscienza che il sacrificio di Cristo è "per tutti" (Mt 26,28) e l’Eucaristia spinge il cristiano ad essere "pane spezzato" per gli altri, a impegnarsi per un mondo più giusto e fraterno. Ancor oggi, di fronte alle folle, Cristo continua ad esortare i suoi discepoli: "Date loro voi stessi da mangiare" (Mt 14,16) e, in suo nome, i missionari annunciano e testimoniano il Vangelo, talvolta anche con il sacrifico della vita. Cari amici, dobbiamo tutti ripartire dall’Eucaristia. Ci aiuti Maria, Donna eucaristica, ad esserne innamorati; ci aiuti a "rimanere" nell’amore di Cristo, per essere da Lui intimamente rinnovati. Docile all’azione dello Spirito e attenta alle necessità degli uomini, la Chiesa sarà allora sempre più faro di luce, di vera gioia e di speranza, realizzando appieno la sua missione di "segno e strumento di unità dell’intero genere umano" (Lumen gentium LG 1).


Benedetto XVI Omelie 15085