
Benedetto XVI Omelie 11106
50
Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato,
cari fratelli e sorelle!
Nei giorni scorsi, la solennità di Tutti i Santi e la Commemorazione di tutti i fedeli defunti ci hanno aiutato a meditare sulla meta finale del nostro pellegrinaggio terreno. In questo clima spirituale, quest’oggi ci ritroviamo intorno all’altare del Signore per celebrare la Santa Messa in suffragio dei Cardinali e dei Vescovi che Dio ha chiamato a sé nel corso dell’ultimo anno. Rivediamo i loro volti a noi familiari, mentre riascoltiamo i nomi dei compianti Porporati, che nei dodici mesi scorsi ci hanno lasciato: Leo Scheffczyk, Pio Taofinu’u, Raúl Francisco Primatesta, Angel Suquía Goicoechea, Johannes Willebrands, Louis-Albert Vachon, Dino Monduzzi e Mario Francesco Pompedda. Mi piacerebbe nominare anche ciascuno degli Arcivescovi e dei Vescovi, ma ci basta la consolante certezza che, come disse un giorno Gesù agli Apostoli, i loro nomi "sono scritti nei cieli" (Lc 10,20).
Ricordare i nomi di questi nostri fratelli nella fede ci rimanda al sacramento del Battesimo, che ha segnato per ciascuno di loro, come per ogni cristiano, l’ingresso nella comunione dei santi. Al termine della vita, la morte ci priva di tutto ciò che è terreno, ma non di quella Grazia e di quel "carattere" sacramentale in forza dei quali siamo stati associati indissolubilmente al mistero pasquale del nostro Signore e Salvatore. Spogliato di tutto, ma rivestito di Cristo: così il battezzato attraversa la soglia della morte e si presenta al cospetto di Dio giusto e misericordioso. Affinché la veste bianca, ricevuta nel Battesimo, sia purificata da ogni scoria e da ogni macchia, la Comunità dei credenti offre il Sacrificio eucaristico e altre preghiere di suffragio per coloro che la morte ha chiamato a passare dal tempo all’eternità. Si tratta di una nobile pratica, quella di pregare per i defunti, che presuppone la fede nella risurrezione dei morti, secondo quanto la Sacra Scrittura e, in modo compiuto, il Vangelo ci hanno rivelato.
Abbiamo poc’anzi ascoltato il racconto della visione delle ossa aride del profeta Ezechiele (Ez 37,1-14). È senz’altro una delle pagine bibliche più significative e impressionanti che si presta a una duplice lettura. Sul piano storico, risponde al bisogno di speranza degli Israeliti deportati in Babilonia, sconfortati e afflitti per aver dovuto seppellire i loro cari in terra straniera. Per bocca del profeta, il Signore annuncia loro che li farà uscire da tale incubo e li farà ritornare nel Paese d’Israele. La suggestiva immagine delle ossa che si rianimano e si mettono in moto rappresenta pertanto questo popolo che riacquista vigore di speranza per ritornare in patria.
Ma il lungo e articolato oracolo di Ezechiele, che esalta la potenza della parola di Dio di fronte a cui nulla è impossibile, segna al tempo stesso un decisivo passo avanti verso la fede nella risurrezione dei morti. Questa fede troverà il suo compimento nel Nuovo Testamento. Alla luce del mistero pasquale di Cristo, la visione delle ossa aride acquista il valore di una parabola universale sul genere umano, pellegrinante nell’esilio terreno e sottoposto al giogo della morte. La Parola divina, incarnata in Gesù, viene ad abitare nel mondo, che per molti versi è una valle desolata; solidarizza pienamente con gli uomini e reca loro il lieto annuncio della vita eterna. Quest’annuncio di speranza è proclamato fin nel profondo dell’oltretomba, mentre viene aperta definitivamente la strada che conduce alla Terra prodiomessa.
Nel brano evangelico abbiamo riascoltato i primi versetti della grande preghiera di Gesù riportata nel capitolo 17 di san Giovanni. Le parole accorate del Signore mostrano che il fine ultimo di tutta l’"opera" del Figlio di Dio incarnato consiste nel donare agli uomini la vita eterna (cfr Jn 17,2). Gesù dice anche in che cosa consiste la vita eterna: "che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo" (Jn 17,3). In questa espressione si sente risuonare la voce orante della comunità ecclesiale, consapevole che la rivelazione del "nome" di Dio, ricevuta dal Signore, equivale al dono della vita eterna. Conoscere Gesù significa conoscere il Padre e conoscere il Padre vuol dire entrare in comunione reale con l’Origine stessa della Vita, della Luce, dell’Amore.
Cari fratelli e sorelle, noi oggi ringraziamo in modo speciale Dio per aver fatto conoscere il suo nome a questi Cardinali e Vescovi che ci hanno lasciato. Essi appartengono al novero di quegli uomini che – secondo l’espressione del Vangelo di Giovanni – il Padre ha affidato al Figlio "dal mondo" (cfr Jn 17,6). A ciascuno di loro Cristo "ha dato le parole" del Padre ed essi "le hanno accolte" e "hanno creduto", hanno posto la loro fiducia nel Padre e nel Figlio (cfr Jn 17,8). Per loro Egli ha pregato (Jn 17,9), affidandoli al Padre (Jn 17,15 Jn 17,17 Jn 17,20-21) e dicendo in particolare: "Padre, voglio che anche quelli che mi hai dato siano con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria" (Jn 17,24). A questa preghiera del Signore, che è sacerdotale per antonomasia, vuole unirsi oggi la nostra preghiera di suffragio. Cristo ha sostanziato la sua invocazione al Padre nell’oblazione di sé sulla Croce; noi offriamo la nostra preghiera in unione col Sacrificio eucaristico, che di quell’unica oblazione salvifica è la ripresentazione reale e attuale.
Cari fratelli e sorelle, in questa fede hanno vissuto i venerati Cardinali e Vescovi defunti che stamani ricordiamo. Ognuno di loro è stato chiamato nella Chiesa a sentire come proprie e a cercare di mettere in pratica le parole dell’apostolo Paolo: "Per me vivere è Cristo" (Ph 1,21), proclamate poco fa nella seconda lettura. Questa vocazione, ricevuta nel Battesimo, si è in essi rafforzata con il sacramento della Confermazione e con i tre gradi dell’Ordine sacro, e si è costantemente alimentata nella partecipazione all’Eucaristia. Attraverso tale itinerario sacramentale, il loro "essere in Cristo" è andato consolidandosi e approfondendosi, così che il morire non è più una perdita – dal momento che tutto avevano già evangelicamente "perduto" per il Signore e per il Vangelo (cfr Mc 8,35) – ma un "guadagno": quello di incontrare finalmente Gesù, e con Lui la pienezza della vita. Domandiamo al Signore che conceda a questi nostri cari fratelli Cardinali e Vescovi defunti di raggiungere la meta tanto desiderata. Lo domandiamo poggiando sull’intercessione di Maria Santissima e sulle preghiere di tanti, che in vita li hanno conosciuti e hanno apprezzato le loro virtù cristiane. Ogni ringraziamento e ogni supplica raccogliamo in questa santa Eucaristia, a beneficio delle loro anime e di quelle di tutti i defunti, che raccomandiamo alla divina misericordia. Amen.
7116
Cari confratelli,
i testi appena ascoltati – la Lettura, il Salmo responsoriale e il Vangelo – hanno un tema comune che potrebbe essere riassunto nella frase: Dio non fallisce. O più esattamente: inizialmente Dio fallisce sempre, lascia esistere la libertà dell’uomo, e questa dice continuamente “no”. Ma la fantasia di Dio, la forza creatrice del suo amore è più grande del “no” umano. Con ogni “no” umano viene dispensata una nuova dimensione del suo amore, ed Egli trova una via nuova, più grande, per realizzare il suo sì all’uomo, alla sua storia e alla creazione. Nel grande inno a Cristo della Lettera ai Filippesi con cui abbiamo iniziato, ascoltiamo innanzitutto un’allusione alla storia di Adamo, il quale non era soddisfatto dell’amicizia con Dio; era troppo poco per lui, volendo essere lui stesso un dio. Considerò l’amicizia una dipendenza e si ritenne un dio, come se egli potesse esistere da sé soltanto. Perciò disse “no” per diventare egli stesso un dio, e proprio in tal modo si buttò giù lui stesso dalla sua altezza. Dio “fallisce” in Adamo – e così apparentemente nel corso di tutta la storia. Ma Dio non fallisce, poiché ora diventa lui stesso uomo e ricomincia così una nuova umanità; radica l’essere Dio nell’essere uomo in modo irrevocabile e scende fino agli abissi più profondi dell’essere uomo; si abbassa fino alla croce. Vince la superbia con l’umiltà e con l’obbedienza della croce.
E così ora avviene ciò che Isaia, cap. 45, aveva profetizzato. All’epoca in cui Israele era in esilio ed era scomparso dalla cartina geografica, il profeta aveva predetto che il mondo intero – “ogni ginocchio” – si sarebbe piegato dinanzi a questo Dio impotente. E la Lettera ai Filippesi lo conferma: Ora ciò è accaduto. Per mezzo della croce di Cristo, Dio si è avvicinato alle genti, è uscito da Israele ed è diventato il Dio del mondo. E ora il cosmo piega le ginocchia dinanzi a Gesù Cristo, cosa che anche noi oggi possiamo sperimentare in modo meraviglioso: in tutti i continenti, fino alle più umili capanne, il Crocifisso è presente. Il Dio che aveva “fallito”, ora, attraverso il suo amore, porta davvero l’uomo a piegare le ginocchia, e così vince il mondo con il suo amore.
Come Salmo responsoriale abbiamo cantato la seconda parte del Salmo della passione 21/22. È il Salmo del giusto sofferente, prima di tutto di Israele sofferente che, dinanzi al Dio muto che lo ha abbandonato, grida: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Come hai potuto dimenticarmi? Ora quasi non ci sono più. Tu non agisci più, non parli più… Perché mi hai abbandonato?”. Gesù si identifica con l’Israele sofferente, con i giusti sofferenti di ogni tempo abbandonati da Dio, e porta il grido dell’abbandono di Dio, la sofferenza dell’essere dimenticato lo porta su fino al cuore di Dio stesso, e trasforma così il mondo. La seconda parte del Salmo, quella che abbiamo recitato, ci dice che cosa ne deriva: I poveri mangeranno e saranno saziati. È l’eucaristia universale che proviene dalla croce. Ora Dio sazia gli uomini in tutto il mondo, i poveri che hanno bisogno di lui. Egli dà loro la sazietà di cui hanno bisogno: dona Dio, dona se stesso. E poi il Salmo dice: “Torneranno al Signore tutti i confini della terra”. Dalla croce deriva la Chiesa universale. Dio va oltre l’ebraismo e abbraccia il mondo intero per unirlo nel banchetto dei poveri.
E, infine, il messaggio del Vangelo. Di nuovo il fallimento di Dio. Coloro che sono stati invitati per primi disdicono, non vengono. La sala di Dio rimane vuota, il banchetto sembra essere stato preparato invano. È ciò che Gesù sperimenta nella fase finale della sua attività: i gruppi ufficiali, autorevoli dicono “no” all’invito di Dio, che è Lui stesso. Non vengono. Il suo messaggio, la sua chiamata finisce nel “no” degli uomini. E però anche qui: Dio non fallisce. La sala vuota diventa un’opportunità per chiamare un maggior numero di persone. L’amore di Dio, l’invito di Dio si allarga – Luca ci racconta questo in due ondate: Prima, l’invito è rivolto ai poveri, agli abbandonati, a quelli non invitati da nessuno nella stessa città. In tal modo Dio fa ciò che abbiamo sentito nel Vangelo ieri. (Il Vangelo di oggi fa parte di un piccolo simposio nel quadro di una cena presso un fariseo. Troviamo quattro testi: prima la guarigione dell’idropico, poi la parola sugli ultimi posti, poi l’insegnamento di non invitare gli amici i quali contraccambierebbero tale gesto, ma coloro che hanno davvero fame, i quali, però, non possono contraccambiare l’invito, e poi, appunto, segue il nostro racconto). Dio ora fa ciò che ha detto al fariseo: Egli invita coloro che non possiedono nulla; che hanno davvero fame, che non possono invitarlo, che non possono dargli nulla. E poi avviene la secondo ondata. Esce fuori dalla città, nelle strade di campagna; sono invitati i senza dimora. Possiamo supporre che Luca abbia inteso queste due ondate nel senso che primi ad entrare nella sala sono i poveri d’Israele e dopo – poiché non sono sufficienti, essendo l’ambiente di Dio più grande – l’invito si estende al di fuori della Città Santa verso il mondo delle genti. Coloro che non appartengono affatto a Dio, che stanno fuori, vengono ora invitati per riempire la sala. E Luca che ci ha tramandato questo Vangelo, in ciò ha visto sicuramente la rappresentazione anticipata in modo immaginifico degli avvenimenti che poi narra negli Atti degli Apostoli, dove proprio ciò accade: Paolo inizia la sua missione sempre nella sinagoga, da quanti sono stati invitati per primi, e solo quando le persone autorevoli hanno disdetto ed è rimasto soltanto un piccolo gruppo di poveri, egli esce fuori verso i pagani. Così il Vangelo, attraverso questo percorso di crocifissione sempre nuovo, diventa universale, afferra il tutto, finalmente fino a Roma. A Roma Paolo chiama a sé i capi della sinagoga, annuncia loro il mistero di Gesù Cristo, il Regno di Dio nella persona di Lui. Ma le parti autorevoli disdicono, ed egli si congeda da loro con queste parole: Ebbene, poiché non ascoltate, questo messaggio viene annunziato ai pagani ed essi l’ascolteranno. Con tale fiducia si conclude il messaggio del fallimento: Essi ascolteranno; la Chiesa dei pagani si formerà. E si è formata e continua a formarsi. Durante le visite ad limina sento parlare di molte cose gravi e faticose, ma sempre – proprio dal Terzo Mondo – sento anche questo: che gli uomini ascoltano, che essi vengono, che anch’oggi il messaggio giunge per le strade fino ai confini della terra e che gli uomini affluiscono nella sala di Dio, al suo banchetto.
Dovremmo quindi domandarci: Che cosa tutto ciò significa per noi? Innanzitutto significa una certezza: Dio non fallisce. “Fallisce” continuamente, ma proprio per questo non fallisce, perché ne trae nuove opportunità di misericordia più grande, e la sua fantasia è inesauribile. Non fallisce perché trova sempre nuovi modi per raggiungere gli uomini e per aprire di più la sua grande casa, affinché si riempia del tutto. Non fallisce perché non si sottrae alla prospettiva di sollecitare gli uomini perché vengano a sedersi alla sua mensa, a prendere il cibo dei poveri, nel quale viene offerto il dono prezioso, Dio stesso. Dio non fallisce, nemmeno oggi. Anche se sperimentiamo tanti “no”, possiamo esserne certi. Da tutta questa storia di Dio, a partire da Adamo, possiamo concludere: Egli non fallisce. Anche oggi troverà nuove vie per chiamare gli uomini e vuole avere con sé noi come suoi messaggeri e suoi servitori.
Proprio nel nostro tempo conosciamo molto bene il “dire no” di quanti sono stati invitati per primi. In effetti, la cristianità occidentale, cioè i nuovi “primi invitati”, ora in gran parte disdicono, non hanno tempo per venire dal Signore. Conosciamo le chiese che diventano sempre più vuote, i seminari che continuano a svuotarsi, le case religiose che sono sempre più vuote; conosciamo tutte le forme nelle quali si presenta questo “no, ho altre cose importanti da fare”. E ci spaventa e ci sconvolge l’essere testimoni di questo scusarsi e disdire dei primi invitati, che in realtà dovrebbero conoscere la grandezza dell’invito e dovrebbero sentirsi spinti da quella parte. Che cosa dobbiamo fare?
Innanzitutto dobbiamo porci la domanda: perché accade proprio così? Nella sua parabola il Signore cita due motivi: il possesso e i rapporti umani, che coinvolgono talmente le persone che esse ritengono di non avere più bisogno di altro per riempire totalmente il loro tempo e quindi la loro esistenza interiore. San Gregorio Magno nella sua esposizione di questo testo ha cercato di andare più a fondo e si è domandato: ma com’è possibile che un uomo dica “no” a ciò che vi è di più grande; che non abbia tempo per ciò che è più importante; che chiuda in se stesso la propria esistenza? E risponde: In realtà, non hanno mai fatto l’esperienza di Dio; non hanno mai preso “gusto” di Dio; non hanno mai sperimentato quanto sia delizioso essere “toccati” da Dio! Manca loro questo “contatto” – e con ciò il “gusto di Dio”. E solo se noi, per così dire, lo gustiamo, solo allora veniamo al banchetto. San Gregorio cita il Salmo, dal quale è tratta l’odierna Antifona alla Comunione: Gustate ed assaggiate e vedete; assaggiate ed allora vedrete e sarete illuminati! Il nostro compito è di aiutare affinché le persone possano assaggiare, affinché possano sentire di nuovo il gusto di Dio. In un’altra omelia San Gregorio Magno ha ulteriormente approfondito la stessa questione, e si è domandato: Come mai avviene che l’uomo non vuole nemmeno “assaggiare” Dio? E risponde: Quando l’uomo è occupato interamente col suo mondo, con le cose materiali, con ciò che può fare, con tutto ciò che è fattibile e che gli porta successo, con tutto ciò che può produrre o comprendere da se stesso, allora la sua capacità di percezione nei confronti di Dio s’indebolisce, l’organo volto a Dio deperisce, diventa incapace di percepire ed insensibile. Egli non percepisce più il Divino, perché il corrispondente organo in lui si è inaridito, non si è più sviluppato. Quando utilizza troppo tutti gli altri organi, quelli empirici, allora può accadere che proprio il senso di Dio si appiattisca; che questo organo muoia; e che l’uomo, come dice San Gregorio, non percepisca più lo sguardo di Dio, l’essere guardato da Lui – questa cosa preziosa che è il fatto che il suo sguardo mi tocchi!
Ritengo che San Gregorio Magno abbia descritto esattamente la situazione del nostro tempo – in effetti, era un’epoca molto simile alla nostra. E ancora sorge la domanda: che cosa dobbiamo fare? Ritengo che la prima cosa sia quella che il Signore ci dice oggi nella Prima Lettura e che San Paolo grida a noi a nome di Dio: “Abbiate gli stessi sentimenti di Gesù Cristo! - Touto phroneite en hymin ho kai en Christo Iesou”. Imparate a pensare come ha pensato Cristo, imparate a pensare con Lui! E questo pensare non è solo quello dell’intelletto, ma anche un pensare del cuore. Noi impariamo i sentimenti di Gesù Cristo quando impariamo a pensare con Lui e quindi, quando impariamo a pensare anche al suo fallimento e al suo attraversare il fallimento, l’accrescersi del suo amore nel fallimento. Se entriamo in questi suoi sentimenti, se incominciamo ad esercitarci a pensare come Lui e con Lui, allora si risveglia in noi la gioia verso Dio, la fiducia che Egli è comunque il più forte; sì, possiamo dire, si risveglia in noi l’amore per Lui. Sentiamo quanto è bello che Egli c’è e che possiamo conoscerLo – che lo conosciamo nel volto di Gesù Cristo, che ha sofferto per noi. Penso che sia questa la prima cosa: che noi stessi entriamo in un contatto vivo con Dio – con il Signore Gesù, il Dio vivente; che in noi si rafforzi l’organo volto a Dio; che portiamo in noi stessi la percezione della sua “squisitezza”. Ciò dà anima anche al nostro operare; poiché anche noi corriamo un pericolo: Si può fare molto, tanto nel campo ecclesiastico, tutto per Dio …, e in ciò rimanere totalmente presso sé stessi, senza incontrare Dio. L’impegno sostituisce la fede, ma poi si vuota dall’interno. Ritengo, pertanto, che dovremmo impegnarci soprattutto: nell’ascolto del Signore, nella preghiera, nella partecipazione intima ai sacramenti, nell’imparare i sentimenti di Dio nel volto e nelle sofferenze degli uomini, per essere così contagiati dalla sua gioia, dal suo zelo, dal suo amore e per guardare con Lui, e partendo da Lui, il mondo. Se riusciamo a fare questo, allora anche in mezzo a tanti “no” troviamo di nuovo gli uomini che Lo attendono e che spesso forse sono bizzarri – la parabola lo dice chiaramente – ma che comunque sono chiamati ad entrare nella sua sala.
Ancora una volta, con altre parole: Si tratta della centralità di Dio, e precisamente non di un dio qualunque, bensì del Dio che ha il volto di Gesù Cristo. Questo, oggi, è importante. Ci sono tanti problemi che si possono elencare, che devono essere risolti, ma che – tutti - non vengono risolti se Dio non viene messo al centro, se Dio non diventa nuovamente visibile nel mondo, se non diventa determinante nella nostra vita e se non entra anche attraverso di noi in modo determinante nel mondo. In questo, ritengo, si decide oggi il destino del mondo in questa situazione drammatica: se Dio – il Dio di Gesù Cristo – c’è e viene riconosciuto come tale, o se scompare. Noi ci preoccupiamo che sia presente. Che cosa dovremmo fare? In ultima istanza? Ci rivolgiamo a Lui! Noi celebriamo questa Messa votiva dello Spirito Santo, invocandoLo: “Lava quod est sordidum, riga quod est aridum, sana quod est saucium. Flecte quod est rigidum, fove quod est frigidum, rege quod est devium”.Lo invochiamo affinché irrighi, scaldi, raddrizzi, affinché ci pervada con la forza della sua sacra fiamma e rinnovi la terra. Per questo lo preghiamo di tutto cuore in questo momento, in questi giorni. Amen.
29116
Cari fratelli e sorelle,
In questa celebrazione eucaristica vogliamo rendere lode al Signore per la divina maternità di Maria, mistero che qui a Efeso, nel Concilio ecumenico del 431, venne solennemente confessato e proclamato. In questo luogo, uno dei più cari alla Comunità cristiana, sono venuti in pellegrinaggio i miei venerati predecessori i Servi di Dio Paolo VI e Giovanni Paolo II, il quale sostò in questo Santuario il 30 novembre 1979, a poco più di un anno dall’inizio del suo pontificato. Ma c’è un altro mio Predecessore che in questo Paese non è stato da Papa, bensì come Rappresentante pontificio dal gennaio 1935 al dicembre del ’44, e il cui ricordo suscita ancora tanta devozione e simpatia: il beato Giovanni XXIII, Angelo Roncalli. Egli nutriva grande stima e ammirazione per il popolo turco. A questo riguardo mi piace ricordare un’espressione che si legge nel suo Giornale dell’anima: “Io amo i turchi, apprezzo le qualità naturali di questo popolo che ha pure il suo posto preparato nel cammino della civilizzazione” (n° 741). Egli, inoltre, ha lasciato in dono alla Chiesa e al mondo un atteggiamento spirituale di ottimismo cristiano, fondato su una fede profonda e una costante unione con Dio. Animato da tale spirito, mi rivolgo a questa nazione e, in modo particolare, al “piccolo gregge” di Cristo che vive in mezzo ad essa, per incoraggiarlo e manifestargli l’affetto della Chiesa intera. Con grande affetto saluto tutti voi, qui presenti, fedeli di Izmir, Mersin, Iskenderun e Antakia, e altri venuti da diverse parti del mondo; come pure quanti non hanno potuto partecipare a questa celebrazione ma sono spiritualmente uniti a noi. Saluto, in particolare, Mons. Ruggero Franceschini, Arcivescovo di Izmir, Mons. Giuseppe Bernardini, Arcivescovo emerito di Izmir, Mons. Luigi Padovese, i sacerdoti e le religiose. Grazie per la vostra presenza, per la vostra testimonianza e il vostro servizio alla Chiesa, in questa terra benedetta dove, alle origini, la comunità cristiana ha conosciuto grandi sviluppi, come attestano anche i numerosi pellegrinaggi che si recano in Turchia.
Madre di Dio – Madre della Chiesa
Abbiamo ascoltato il brano del Vangelo di Giovanni che invita a contemplare il momento della Redenzione, quando Maria, unita al Figlio nell’offerta del Sacrificio, estese la sua maternità a tutti gli uomini e, in particolare, ai discepoli di Gesù. Testimone privilegiato di tale evento è lo stesso autore del quarto Vangelo, Giovanni, unico degli Apostoli a restare sul Golgota insieme alla Madre di Gesù e alle altre donne. La maternità di Maria, iniziata col fiat di Nazaret, si compie sotto la Croce. Se è vero – come osserva sant’Anselmo – che “dal momento del fiat Maria cominciò a portarci tutti nel suo seno”, la vocazione e missione materna della Vergine nei confronti dei credenti in Cristo iniziò effettivamente quando Gesù le disse: “Donna, ecco il tuo figlio!” (Jn 19,26). Vedendo dall’alto della croce la Madre e lì accanto il discepolo amato, il Cristo morente riconobbe la primizia della nuova Famiglia che era venuto a formare nel mondo, il germe della Chiesa e della nuova umanità. Per questo si rivolse a Maria chiamandola “donna” e non “madre”; termine che invece utilizzò affidandola al discepolo: “Ecco la tua madre!” (Jn 19,27). Il Figlio di Dio compì così la sua missione: nato dalla Vergine per condividere in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana, al momento del ritorno al Padre lasciò nel mondo il sacramento dell’unità del genere umano (cfr Cost. Lumen gentium LG 1): la Famiglia “adunata dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (San Cipriano, De Orat. Dom. 23: PL 4, 536), il cui nucleo primordiale è proprio questo vincolo nuovo tra la Madre e il discepolo. In tal modo rimangono saldate in maniera indissolubile la maternità divina e la maternità ecclesiale.
Madre di Dio – Madre dell’unità
La prima Lettura ci ha presentato quello che si può definire il “vangelo” dell’Apostolo delle genti: tutti, anche i pagani, sono chiamati in Cristo a partecipare pienamente al mistero della salvezza. In particolare, il testo contiene l’espressione che ho scelto quale motto del mio viaggio apostolico: “Egli, Cristo, è la nostra pace” (Ep 2,14). Ispirato dallo Spirito Santo, Paolo afferma non soltanto che Gesù Cristo ci ha portato la pace, ma che egli “è” la nostra pace. E giustifica tale affermazione riferendosi al mistero della Croce: versando “il suo sangue” - egli dice -, offrendo in sacrificio la “sua carne”, Gesù ha distrutto l’inimicizia “in se stesso” e ha creato “in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo” (Ep 2,14-16). L’apostolo spiega in quale senso, veramente imprevedibile, la pace messianica si sia realizzata nella Persona stessa di Cristo e nel suo mistero salvifico. Lo spiega scrivendo, mentre si trova prigioniero, alla comunità cristiana che abitava qui, a Efeso: “ai santi che sono in Efeso, credenti in Cristo Gesù” (Ep 1,1), come afferma nell’indirizzo della Lettera. Ad essi l’Apostolo augura “grazia e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo” (Ep 1,2). “Grazia” è la forza che trasforma l’uomo e il mondo; “pace” è il frutto maturo di tale trasformazione. Cristo è la grazia; Cristo è la pace. Ora, Paolo si sa inviato ad annunciare un “mistero”, cioè un disegno divino che solo nella pienezza dei tempi, in Cristo, si è realizzato e rivelato: che cioè “i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo” (Ep 3,6). Questo “mistero” si realizza, sul piano storico-salvifico, nella Chiesa, quel Popolo nuovo in cui, abbattuto il vecchio muro di separazione, si ritrovano in unità giudei e pagani. Come Cristo, la Chiesa non è solo strumento dell’unità, ma ne è anche segno efficace. E la Vergine Maria, Madre di Cristo e della Chiesa, è la Madre di quel mistero di unità che Cristo e la Chiesa inseparabilmente rappresentano e costruiscono nel mondo e lungo la storia.
Domandiamo pace per Gerusalemme e il mondo intero
Nota l’Apostolo delle genti che Cristo “ha fatto dei due un popolo solo” (Ep 2,14): affermazione, questa, che si riferisce in senso proprio al rapporto tra Giudei e Gentili in ordine al mistero della salvezza eterna; affermazione, però, che può anche estendersi, su piano analogico, alle relazioni tra popoli e civiltà presenti nel mondo. Cristo “è venuto ad annunziare pace” (Ep 2,17) non solo tra ebrei e non ebrei, bensì tra tutte le nazioni, perché tutte provengono dallo stesso Dio, unico Creatore e Signore dell’universo. Confortati dalla Parola di Dio, da qui, da Efeso, città benedetta dalla presenza di Maria Santissima – che sappiamo essere amata e venerata anche dai musulmani – eleviamo al Signore una speciale preghiera per la pace tra i popoli. Da questo lembo della Penisola anatolica, ponte naturale tra continenti, invochiamo pace e riconciliazione anzitutto per coloro che abitano nella Terra che chiamiamo “santa”, e che tale è ritenuta sia dai cristiani, che dagli ebrei e dai musulmani: è la terra di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, destinata ad ospitare un popolo che diventasse benedizione per tutte le genti (cfr Gn 12,1-3). Pace per l’intera umanità! Possa presto realizzarsi la profezia di Isaia: “Forgeranno le loro spade in vomeri, / le loro lance in falci; / un popolo non alzerà più la spada contro una altro popolo, / non si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Is 2,4). Di questa pace universale abbiamo tutti bisogno; di questa pace la Chiesa è chiamata ad essere non solo annunciatrice profetica ma, più ancora, “segno e strumento”. Proprio in questa prospettiva di universale pacificazione, più profondo ed intenso si fa l’anelito verso la piena comunione e concordia fra tutti i cristiani.All’odierna celebrazione sono presenti fedeli cattolici di diversi Riti, e questo è motivo di gioia e di lode a Dio. Tali Riti, infatti, sono espressione di quella mirabile varietà di cui è adornata la Sposa di Cristo, purché sappiano convergere nell’unità e nella comune testimonianza. Esemplare a tal fine dev’essere l’unità tra gli Ordinari nella Conferenza Episcopale, nella comunione e nella condivisione degli sforzi pastorali.
Magnificat
La liturgia odierna ci ha fatto ripetere, come ritornello al Salmo responsoriale, il cantico di lode che la Vergine di Nazaret proclamò nell’incontro con l’anziana parente Elisabetta (cfr Lc 1,39). Consolanti sono pure risuonate nei nostri cuori le parole del salmista: “misericordia e verità s’incontreranno, / giustizia e pace si baceranno” (Ps 84,11). Cari fratelli e sorelle, con questa visita ho voluto far sentire l’amore e la vicinanza spirituale non solo miei, ma della Chiesa universale alla comunità cristiana che qui, in Turchia, è davvero una piccola minoranza ed affronta ogni giorno non poche sfide e difficoltà. Con salda fiducia cantiamo, insieme a Maria, il “magnificat” della lode e del ringraziamento a Dio, che guarda l’umiltà della sua serva (cfr Lc 1,47-48). Cantiamolo con gioia anche quando siamo provati da difficoltà e pericoli, come attesta la bella testimonianza del sacerdote romano Don Andrea Santoro, che mi piace ricordare anche in questa nostra celebrazione. Maria ci insegna che fonte della nostra gioia ed unico nostro saldo sostegno è Cristo, e ci ripete le sue parole: “Non temete” (Mc 6,50), “Io sono con voi” (Mt 28,20). E tu, Madre della Chiesa, accompagna sempre il nostro cammino! Santa Maria Madre di Dio prega per noi! Aziz Meryem Mesih’in Annesi bizim için Dua et”. Amen.
11206
Cari Fratelli e Sorelle,
al termine del mio viaggio pastorale in Turchia, sono lieto di incontrare la comunità cattolica di Istanbul e di celebrare con essa l’Eucaristia per rendere grazie al Signore di tutti i suoi doni. Desidero salutare anzitutto il Patriarca di Costantinopoli, Sua Santità Bartolomeo I, come anche il Patriarca armeno, Sua Beatitudine Mesrob II, Fratelli venerati, che hanno voluto unirsi a noi per questa celebrazione. Esprimo loro la mia profonda gratitudine per questo gesto fraterno che onora tutta la comunità cattolica.
Cari Fratelli e Figli della Chiesa cattolica, Vescovi, presbiteri e diaconi, religiosi, religiose e laici, appartenenti alle differenti comunità della città e ai diversi riti della Chiesa, vi saluto tutti con gioia, ridicendo per voi le parole di san Paolo ai Galati: “Grazia a voi e pace da parte di Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!” (Ga 1,3). Desidero ringraziare le Autorità civili qui presenti per la loro cortese accoglienza, in particolare tutti coloro che hanno permesso che questo viaggio potesse realizzarsi. Saluto infine i rappresentanti delle altre comunità ecclesiali e delle altre religioni che hanno voluto essere presenti fra noi. Come non pensare ai diversi eventi che hanno forgiato proprio qui la nostra storia comune? Al tempo stesso sento il dovere di ricordare in modo speciale i tanti testimoni del Vangelo di Cristo che ci spronano a lavorare insieme per l’unità di tutti i suoi discepoli, nella verità e nella carità!
In questa cattedrale dello Spirito Santo, desidero rendere grazie a Dio per tutto ciò che egli ha compiuto nella storia degli uomini e invocare su tutti i doni dello Spirito di santità. Come ci ha ricordato ora san Paolo, lo Spirito è la sorgente permanente della nostra fede e della nostra unità. Egli suscita in noi la vera conoscenza di Gesù e pone sulle nostre labbra le parole della fede affinchè noi possiamo riconoscere il Signore. Gesù l’aveva già detto a Pietro dopo la Confessione della fede di Cesarea: “Beato te, Simone figlio di Giona: perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16,17). Si, siamo beati quando lo Spirito Santo ci apre alla gioia di credere e quando ci fa entrare nella grande famiglia dei cristiani, la sua Chiesa, così molteplice nella varietà dei doni, delle funzioni e delle attività, e nello stesso tempo già una, “poiché è sempre lo stesso Dio che agisce in tutti”. San Paolo aggiunge: “Ciascuno riceve il dono di manifestare lo Spirito in vista del bene di tutti”. Manifestare lo Spirito, vivere secondo lo Spirito, non significa vivere soltanto per sé, ma vuol dire imparare a conformarsi costantemente allo stesso Cristo Gesù, divenendo alla sua sequela servitore dei propri fratelli. Ecco un insegnamento molto concreto per ciascuno di noi, Vescovi, chiamati dal Signore a condurre il suo popolo facendoci servitori sulle sue orme; questo vale anche per tutti i ministri del Signore come anche per tutti i fedeli: ricevendo il sacramento del Battesimo, siamo stati tutti immersi nella morte e resurrezione del Signore, “siamo stati dissetati dall’unico Spirito”, e la vita di Cristo è diventata la nostra affinché viviamo come lui, affinché amiamo i nostri fratelli come lui ci ha amati (cfr Jn 13,34).
Ventisette anni fa, in questa stessa cattedrale, il mio predecessore il Servo di Dio Giovanni Paolo II auspicava che l’alba del nuovo millennio potesse “sorgere su una Chiesa che ha ritrovato la sua piena unità, per meglio testimoniare, in mezzo alle esacerbate tensioni del mondo, il trascendente amore di Dio, manifestato nel Figlio Gesù Cristo” (Omelia nella cattedrale di Istanbul, n. 5). Questo auspicio non si è ancora realizzato, ma il desiderio del Papa è sempre lo stesso e ci spinge, noi tutti discepoli di Cristo che avanziamo con le nostre lentezze e le nostre povertà sul cammino che conduce all’unità, ad agire incessantemente “in vista del bene di tutti”, ponendo la prospettiva ecumenica al primo posto delle nostre preoccupazioni ecclesiali. Vivremo allora realmente secondo lo Spirito di Gesù, al servizio del bene di tutti.
Riuniti questa mattina in questa casa di preghiera consacrata al Signore, come non evocare l’altra bella immagine che adopera san Paolo per parlare della Chiesa, quella della costruzione le cui pietre sono tutte unite, strette le une alle altre per formare un solo edificio, e la cui pietra angolare, sulla quale tutto poggia, è Cristo? E’ lui la sorgente della nuova vita che ci è donata dal Padre, nello Spirito Santo. Il Vangelo di san Giovanni l’ha appena proclamato: “Fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno”. Quest’acqua zampillante, questa acqua viva che Gesù ha promesso alla Samaritana, i profeti Zaccaria ed Ezechiele la vedevano sorgere dal lato del tempio, per rigenerare le acque del Mar morto: immagine meravigliosa della promessa di vita che Dio ha sempre fatto al suo popolo e che Gesù è venuto a compiere. In un mondo dove gli uomini hanno tanta difficoltà a dividere tra loro i beni della terra e dove ci si inizia a preoccupare giustamente per la scarsità dell’acqua, questo bene così prezioso per la vita del corpo, la Chiesa si scopre ricca di un bene ancora più grande. Corpo del Cristo essa ha ricevuto il compito di annunciare il suo Vangelo fino ai confini della terra (cfr Mt 28,19), vale a dire di trasmettere agli uomini e alle donne di questo tempo una buona novella che non solo illumina ma cambia la loro vita, fino a passare e vincere la morte stessa. Questa Buona Novella non è soltanto una Parola, ma è una Persona, Cristo stesso, risorto, vivo! Con la grazia dei Sacramenti, l'acqua che è scaturita dal suo costato aperto sulla croce è diventata una fonte che zampilla, “fiumi d’acqua viva”, un dono che nessuno può arrestare e che ridona vita. Come i cristiani potrebbero trattenere soltanto per loro ciò che hanno ricevuto? Come potrebbero confiscare questo tesoro e nascondere questa fonte? La missione della Chiesa non consiste nel difendere poteri, né ottenere ricchezze; la sua missione è di donare Cristo, di partecipare la Vita di Cristo, il bene più prezioso dell'uomo che Dio stesso ci dà nel suo Figlio.
Fratelli e Sorelle, le vostre comunità conoscono l’umile cammino di accompagnamento di ogni giorno con quelli che non condividono la nostra fede ma che dichiarano "di avere la fede di Abramo e che adorano con noi il Dio uno e misericordioso" (Lumen gentium LG 16). Sapete bene che la Chiesa non vuole imporre nulla a nessuno, e che chiede semplicemente di poter vivere liberamente per rivelare Colui che essa non può nascondere, Cristo Gesù che ci ha amati fino alla fine sulla Croce e che ci ha dato il suo Spirito, presenza viva di Dio in mezzo a noi e nel più profondo di noi stessi. Siate sempre aperti allo Spirito di Cristo e, pertanto, siate attenti a quelli che hanno sete di giustizia, di pace, di dignità, di considerazione per essi stessi e per i loro fratelli. Vivete tra voi secondo la parola del Signore: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Jn 13,35). Fratelli e Sorelle, affidiamo in questo momento il nostro desiderio di servire il Signore alla Vergine Maria, Madre di Dio e Serva del Signore. Ella ha pregato nel cenacolo insieme con la comunità primitiva, in attesa della Pentecoste. Insieme con lei preghiamo ora Cristo Signore: Invia il tuo Spirito Santo, Signore, su tutta la Chiesa; che egli abiti ciascuno dei suoi membri e che faccia di loro messaggeri del tuo Vangelo! Amen.
Benedetto XVI Omelie 11106