Benedetto XVI Omelie 19048
20048
Cari Fratelli e Sorelle in Cristo,
nel Vangelo che abbiamo or ora ascoltato, Gesù dice ai suoi Apostoli di riporre la loro fede in lui, poiché egli è “la via, la verità e la vita” (Jn 14,6). Cristo è la via che conduce al Padre, la verità che dà significato all’umana esistenza, e la sorgente di quella vita che è gioia eterna con tutti i Santi nel Regno dei cieli. Prendiamo il Signore in parola! Rinnoviamo la fede in lui e mettiamo ogni nostra speranza nelle sue promesse!
Con questo incoraggiamento a perseverare nella fede di Pietro (cfr Lc 22,32 Mt 16,17), vi saluto tutti con grande affetto. Ringrazio il Cardinale Egan per le cordiali parole di benvenuto pronunciate a vostro nome. In questa Messa la Chiesa che è negli Stati Uniti celebra il 200° anniversario della creazione delle sedi di New York, Boston, Filadelfia e Louisville dallo smembramento della sede madre di Baltimora. La presenza, attorno a questo altare, del Successore di Pietro, dei suoi confratelli Vescovi e sacerdoti, dei diaconi, dei consacrati e delle consacrate, come pure dei fedeli laici provenienti dai 50 Stati dell’Unione, manifesta in maniera eloquente la nostra comunione nella fede cattolica che ci è giunta dagli Apostoli.
La celebrazione odierna è anche un segno della crescita impressionante che Dio ha concesso alla Chiesa nel vostro Paese nei trascorsi duecento anni. Da piccolo gregge come quello descritto nella prima lettura, la Chiesa in America è stata edificata nella fedeltà ai due comandamenti dell’amore a Dio e dell’amore al prossimo. In questa terra di libertà e di opportunità, la Chiesa ha unito greggi molto diversi nella professione di fede e, attraverso le sue molte opere educative, caritative e sociali, ha contribuito in modo significativo anche alla crescita della società americana nel suo insieme.
Questo grande risultato non è stato senza sfide. La prima lettura odierna, dagli Atti degli Apostoli, parla di tensioni linguistiche e culturali presenti già all’interno della primitiva comunità ecclesiale. Nello stesso tempo, essa mostra la potenza della Parola di Dio, proclamata autorevolmente dagli Apostoli e ricevuta nella fede, per creare un’unità capace di trascendere le divisioni provenienti dai limiti e dalle debolezze umane. Ci viene qui ricordata una verità fondamentale: che l’unità della Chiesa non ha altro fondamento se non quello della Parola di Dio, divenuta carne in Cristo Gesù nostro Signore. Tutti i segni esterni di identità, tutte le strutture, associazioni o programmi, per quanto validi o addirittura essenziali possano essere, esistono in ultima analisi soltanto per sostenere e promuovere la più profonda unità la quale, in Cristo, è dono indefettibile di Dio alla sua Chiesa.
La prima lettura mostra, inoltre, come vediamo nell’imposizione delle mani sui primi diaconi, che l’unità della Chiesa è “apostolica”, cioè un’unità visibile fondata sugli Apostoli, che Cristo ha scelto e costituito come testimoni della sua risurrezione, ed è nata da ciò che la Scrittura chiama “l’obbedienza della fede” (Rm 1,5 Ac 6,7).
“Autorità”… “obbedienza”. Ad essere franchi, queste non sono parole facili da pronunciare oggi. Parole come queste rappresentano una “pietra d’inciampo” per molti nostri contemporanei, specie in una società che giustamente dà grande valore alla libertà personale. Eppure, alla luce della nostra fede in Gesù Cristo – “la vita, la verità e la vita” – arriviamo a vedere il senso più pieno, il valore e addirittura la bellezza, di tali parole. Il Vangelo ci insegna che la vera libertà, la libertà dei figli di Dio, può essere trovata soltanto nella perdita di sé che è parte del mistero dell’amore. Solo perdendo noi stessi, il Signore ci dice, ritroviamo veramente noi stessi (cfr Lc 17,33). La vera libertà fiorisce quando ci allontaniamo dal giogo del peccato, che annebbia le nostre percezioni e indebolisce la nostra determinazione, e vede la fonte della nostra felicità definitiva in lui, che è amore infinito, libertà infinita, vita senza fine. “Nella sua volontà vi è la nostra pace”.
La vera libertà perciò è un dono gratuito di Dio, il frutto della conversione alla sua verità, quella verità che ci rende liberi (cfr Jn 8,32). E tale libertà nella verità porta nella sua scia un nuovo e liberante modo di guardare la realtà. Quando ci poniamo nel “pensiero di Cristo” (cfr Ph 2,5), ci si aprono nuovi orizzonti! Alla luce della fede, dentro la comunione della Chiesa, troviamo anche l’ispirazione e la forza per diventare lievito del Vangelo in questo mondo. Diveniamo luce del mondo, sale della terra (cfr Mt 5,13-14), a cui è affidato l’“apostolato” di conformare le nostre vite ed il mondo in cui viviamo sempre più pienamente al piano salvifico di Dio.
La visione magnifica di un mondo trasformato dalla verità liberante del Vangelo è riflessa nella descrizione della Chiesa che troviamo nella seconda lettura di oggi. L’Apostolo ci dice che Cristo, risorto dai morti, è la pietra d’angolo di un grande tempio che viene edificato ancor oggi nello Spirito. E noi, membra del suo corpo, mediante il Battesimo siamo diventati “pietre vive” di quel tempio, partecipando per grazia alla vita di Dio, benedetti con la libertà dei figli di Dio, e resi capaci di offrire sacrifici spirituali piacevoli a lui (cfr 1P 2,5). Qual è questa offerta che siamo chiamati a fare, se non quella di rivolgere ogni pensiero, parola o atto alla verità del Vangelo e porre ogni nostra energia al servizio del Regno di Dio? Solo così possiamo costruire con Dio, sul fondamento che è Cristo (cfr 1Co 3,11). Solo così possiamo edificare qualcosa che sia realmente durevole. Solo così la nostra vita trova il significato ultimo e porta frutti duraturi.
Oggi ricordiamo i duecento anni di un lavacro nella storia della Chiesa negli Stati Uniti: il suo primo grande capitolo della crescita. In questi 200 anni il volto della comunità cattolica nel vostro Paese è grandemente cambiato. Pensiamo alle ondate successive di emigranti le cui tradizioni hanno così grandemente arricchito la Chiesa in America. Pensiamo alla fede forte che ha edificato la rete di chiese, di istituzioni educative, di salute e sociali che da lungo tempo sono il marchio distintivo della Chiesa in questa terra. Pensiamo anche a quegli innumerevoli padri e a quelle madri che hanno trasmesso la fede ai figli, il ministero quotidiano dei molti sacerdoti che hanno speso la propria vita nella cura delle anime, il contributo incalcolabile di così numerosi consacrati e consacrate, i quali non solo hanno insegnato ai bimbi a leggere e a scrivere, ma hanno anche ispirato in loro un desiderio di tutta la vita di conoscere Dio, di amarlo e di servirlo. Quanti “sacrifici spirituali graditi a Dio” sono stati offerti nei trascorsi due secoli! In questa terra di libertà religiosa i cattolici hanno trovato non soltanto la libertà di praticare la propria fede ma anche di partecipare pienamente alla vita civile, recando con sé le proprie convinzioni morali nella pubblica arena, cooperando con i vicini nel forgiare una vibrante società democratica. La celebrazione odierna è più che un’occasione di gratitudine per le grazie ricevute: è un richiamo a proseguire in avanti con ferma determinazione ad usare saggiamente delle benedizioni della libertà, per edificare un futuro di speranza per le generazioni future.
“Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquisito perché proclami le opere meravigliose di lui” (1P 2,9). Queste parole dell’apostolo Pietro non ci ricordano soltanto la dignità che ci è propria per grazia di Dio, ma sono anche una sfida ad una fedeltà sempre più grande alla gloriosa eredità ricevuta in Cristo (cfr Ep 1,18). Ci sfidano ad esaminare le nostre coscienze, a purificare i nostri cuori, a rinnovare l’impegno battesimale a respingere satana e tutte le sue vuote promesse. Ci sfidano ad essere un popolo della gioia, araldi della speranza che non perisce (cfr Rm 5,5) nata dalla fede nella parola di Dio e dalla fiducia nelle sue promesse.
Ogni giorno in questa terra voi e molti dei vostri vicini pregano il Padre con le parole stesse del Signore: “Venga il tuo Regno”. Tale preghiera deve forgiare la mente ed il cuore di ogni cristiano in questa Nazione. Deve portar frutto nel modo in cui vivete la vostra esistenza e nella maniera nella quale costruite la vostra famiglia e la vostra comunità. Deve creare nuovi “luoghi di speranza” (cfr Spe salvi, ss) in cui il Regno di Dio si fa presente in tutta la sua potenza salvifica.
Pregare con fervore per la venuta del Regno significa inoltre essere costantemente all’erta per i segni della sua presenza, operando per la sua crescita in ogni settore della società. Vuol dire affrontare le sfide del presente e del futuro fiduciosi nella vittoria di Cristo ed impegnandosi per l’avanzamento del suo Regno. Questo significa non perdere la fiducia di fronte a resistenze, avversità e scandali. Significa superare ogni separazione tra fede e vita, opponendosi ai falsi vangeli di libertà e di felicità. Vuol dire inoltre respingere la falsa dicotomia tra fede e vita politica, poiché come ha affermato il Concilio Vaticano II, “nessuna attività umana, neanche nelle cose temporali, può essere sottratta al dominio di Dio” (Lumen gentium LG 36). Ciò vuol dire agire per arricchire la società e la cultura americane della bellezza e della verità del Vangelo, mai perdendo di vista quella grande speranza che dà significato e valore a tutte le altre speranze che ispirano la nostra vita.
Questa, cari amici, è la sfida che pone oggi a voi il Successore di Pietro. Quale “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa”, seguite con fedeltà le orme di quanti vi hanno preceduto! Affrettate la venuta del Regno di Dio in questa terra! Le passate generazioni vi hanno lasciato un’eredità straordinaria. Anche ai nostri giorni la comunità cattolica di questa Nazione è stata grande nella testimonianza profetica in difesa della vita, nell’educazione dei giovani, nella cura dei poveri, dei malati e dei forestieri tra voi. Su queste solide basi il futuro della Chiesa in America deve anche oggi iniziare a sorgere.
Ieri, non lontano da qui, sono stato colpito dalla gioia, dalla speranza e dall’amore generoso per Cristo che ho visto sul volto di tanti giovani riuniti a Dunwoodie. Essi sono il futuro della Chiesa e hanno diritto a tutte le preghiere e ad ogni sostegno che possiamo dar loro. Così desidero concludere aggiungendo una parola di incoraggiamento per loro. Cari giovani amici, come i sette uomini “ripieni di Spirito e di saggezza” ai quali gli Apostoli affidarono la cura della giovane Chiesa, possiate anche voi alzarvi e assumervi la responsabilità che la fede in Cristo vi pone innanzi! Possiate trovare il coraggio di proclamare Cristo “lo stesso ieri, oggi e sempre” e le immutabili verità che hanno fondamento in lui (cfr Gaudium et spes GS 10 He 13,8): sono verità che ci rendono liberi! Si tratta delle sole verità che possono garantire il rispetto della dignità e dei diritti di ogni uomo, donna e bambino nel mondo, compresi i più indifesi tra gli esseri umani, i bimbi non ancora nati nel grembo materno. In un mondo in cui, come Papa Giovanni Paolo II parlando in questo stesso luogo ci ricordò, Lazzaro continua a bussare alla nostra porta (Omelia allo Yankee Stadium, 2 ottobre 1979, n. 7), fate in modo che la vostra fede e il vostro amore portino frutto nel soccorrere i poveri, i bisognosi e i senza voce. Giovani uomini e donne d’America, io insisto con voi: aprite i cuori alla chiamata di Dio a seguirlo nel sacerdozio e nella vita religiosa. Vi può essere un segno di amore più grande di questo: seguire le orme di Cristo, che si rese disponibile a dare la propria vita per i suoi amici (cfr Jn 15,13)?
Nel Vangelo odierno il Signore promette ai discepoli che faranno opere ancor più grandi delle sue (cfr Jn 14,12). Cari amici, soltanto Dio nella sua provvidenza sa che cosa la sua grazia deve ancora compiere nelle vostre vite e nella vita della Chiesa negli Stati Uniti. Nel frattempo, la promessa di Cristo ci riempie di sicura speranza. Uniamo perciò la nostra preghiera alla sua, quali pietre vive di quel tempio spirituale che è la sua Chiesa una, santa, cattolica e apostolica. Alziamo gli occhi a lui, poiché anche adesso sta preparando un posto per noi nella casa del Padre suo. E rafforzati dallo Spirito Santo, lavoriamo con rinnovato zelo per la diffusione del suo Regno.
“Beati quanti crederanno” (cfr 1P 2,7). Rivolgiamoci a Gesù! Lui soltanto è la via che conduce all’eterna felicità, la verità che soddisfa i desideri più profondi di ogni cuore, e la vita che offre gioia e speranza sempre nuove a noi e al nostro mondo. Amen.
Cari fratelli e sorelle nel Signore,
vi saluto con affetto e mi rallegro di celebrare questa Santa Messa per ringraziare Dio della ricorrenza bicentenaria del momento in cui la Chiesa Cattolica cominciò a svilupparsi in questa Nazione. Guardando al cammino di fede, non privo di difficoltà, percorso in questi anni, lodiamo il Signore per i frutti che la sua Parola ha prodotto in queste terre e gli manifestiamo il nostro desiderio che Cristo, Via Verità e Vita, sia sempre più conosciuto e amato.
Qui, in questo Paese di libertà, voglio proclamare con forza che la Parola di Cristo non elimina le nostre aspirazioni ad una vita piena e libera, ma ci rivela la nostra vera dignità di figli di Dio e ci incoraggia a lottare contro tutto ciò che ci schiavizza, a cominciare dal nostro egoismo e dalle nostre passioni. Al tempo stesso, ci anima a manifestare la nostra fede mediante la nostra vita di carità e a far sì che le nostre comunità ecclesiali siano ogni giorno più accoglienti e fraterne.
Soprattutto ai giovani affido il compito di far propria la grande sfida che comporta il credere in Cristo, e di impegnarsi perché tale fede si manifesti in una vicinanza effettiva ai poveri, come anche in una risposta generosa alle chiamate che Egli continua a proporre perché si lasci tutto e si inizi una vita di totale consacrazione a Dio e alla Chiesa, nello stato sacerdotale o religioso.
Cari fratelli e sorelle, vi invito a guardare al futuro con speranza, consentendo a Gesù di entrare nelle vostre vite. Solo Lui è la Via che conduce alla felicità che non finisce, la Verità che appaga le più nobili aspirazioni umane e la Vita colma di gioia per il bene della Chiesa e del mondo. Che Dio vi benedica!
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Cari fratelli e sorelle!
“Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Jn 12,24). L'evangelista Giovanni preannuncia così la glorificazione di Cristo attraverso il mistero della sua morte in croce. In questo tempo di Pasqua, alla luce proprio del prodigio della Risurrezione, queste parole assumono un'eloquenza ancor più profonda e incisiva. Se è vero che in esse si avverte una certa tristezza per il prossimo distacco dai suoi discepoli, è anche vero che Gesù indica il segreto per sconfiggere il potere della morte. La morte non ha l'ultima parola, non è la fine di tutto, ma, redenta dal sacrificio della Croce, può essere ormai il passaggio alla gioia della vita senza fine. Dice Gesù: “Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Jn 12,25). Se dunque accettiamo di morire al nostro egoismo, se rifiutiamo di chiuderci in noi stessi e facciamo della nostra vita un dono a Dio e ai fratelli, anche noi potremo conoscere la ricca fecondità dell'amore. E l'amore non muore.
Ecco il rinnovato messaggio di speranza che raccogliamo quest'oggi dalla Parola di Dio, mentre rendiamo l'ultimo saluto al nostro amato Fratello, il Cardinale Alfonso López Trujillo. La sua morte, sopraggiunta quando sembrava ormai essersi ripreso da una forte crisi di salute iniziata da oltre un anno, ha suscitato in tutti noi profonda emozione. Negli Stati Uniti, dove mi trovavo in visita pastorale, ho subito elevato a Dio una preghiera di suffragio per la sua anima ed ora, al termine della Santa Messa presieduta dal Cardinale Angelo Sodano, Decano del Collegio cardinalizio, mi unisco con affetto a tutti voi per ricordare con quanta generosità il defunto Porporato ha servito la Chiesa e per ringraziare il Signore dei tanti doni di cui ha arricchito la persona e il ministero del compianto nostro Fratello.
L'arcivescovo Alfonso López Trujillo risultò essere il più giovane dei Cardinali quando, nel Concistoro del 2 febbraio 1983, il mio venerato predecessore, Papa Giovanni Paolo II, pose sul suo capo la berretta cardinalizia. Era nato a Villahermosa, diocesi di Ibagué, in Colombia, nel 1935, ed ancor fanciullo si trasferì con la famiglia nella Capitale, Bogotà, dove, già studente universitario, entrò nel seminario maggiore. Proseguì gli studi a Roma e fu ordinato sacerdote nel novembre del 1960. Ultimata la sua formazione teologica, insegnò filosofia nel seminario arcidiocesano, lavorando per molti anni anche al servizio dell'intera Chiesa in Colombia. Nel 1971 fu nominato dal Servo di Dio Paolo VI Vescovo ausiliare di Bogotà; esercitò in quegli stessi anni la funzione di Presidente della Commissione dottrinale dell'Episcopato colombiano, e fu scelto poco dopo come Segretariato Generale del CELAM, incarico che espletò con riconosciuta competenza durante un lungo lasso di tempo.
Sempre Paolo VI gli affidò nel 1978 l'incarico di Coadiutore con diritto di successione dell'arcidiocesi di Medellin, della quale divenne poi Pastore. La sua approfondita conoscenza della realtà ecclesiale latinoamericana, maturata nel prolungato periodo in cui aveva lavorato come Segretario del CELAM, gli meritò la nomina a Presidente di tale importante Organismo ecclesiale, che ebbe a guidare saggiamente dal 1979 al 1983. Dal 1987 al 1990 fu Presidente della Conferenza Episcopale Colombiana. Ebbe inoltre l'opportunità di allargare la conoscenza delle problematiche della Chiesa universale, avendo preso parte alle tre Assemblee del Sinodo dei Vescovi, svoltesi in Vaticano: nel 1974 sull'evangelizzazione, nel 1977 sulla catechesi e nel 1980 sulla famiglia. E proprio alla famiglia egli sarà chiamato a dedicare particolarmente il suo impegno a partire dall'8 novembre del 1990, quando Giovanni Paolo II lo nominò Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia, incarico che lo ha visto sulla breccia sino al momento della morte.
Come non porre in rilievo, in questo momento, lo zelo e la passione con cui egli ha lavorato durante questi quasi 18 anni, svolgendo un'infaticabile azione a tutela e promozione della famiglia e del matrimonio cristiano? Come non ringraziarlo per il coraggio con cui ha difeso i valori non negoziabili della vita umana? Tutti abbiamo ammirato la sua infaticabile attività. Frutto di questo suo impegno è il Lexicon, che costituisce un prezioso testo di formazione per operatori pastorali e uno strumento per dialogare col mondo contemporaneo su temi fondamentali di etica cristiana. Non possiamo non essergli grati per la tenace battaglia che ha condotto a difesa della “verità” dell'amore familiare e per la diffusione del “vangelo della famiglia”. L'entusiasmo e la determinazione con cui operava in tale campo erano il frutto della sua esperienza personale, particolarmente legate al calvario che dovette affrontare la sua mamma, scomparsa all'età di 44 anni per una assai dolorosa malattia. “Quando nel mio lavoro – egli ebbe ad annotare – parlo degli ideali del matrimonio e della famiglia, è naturale per me pensare alla famiglia dalla quale provengo, perché attraverso i miei genitori ho potuto constatare come sia possibile realizzarli entrambi”.
Il compianto Cardinale traeva il suo amore per la verità dell'uomo e per il vangelo della famiglia dalla considerazione che ogni essere umano ed ogni famiglia riflettono il mistero di Dio che è Amore. È rimasto impresso nella memoria di tutti il suo commovente intervento all'Assemblea del Sinodo dei Vescovi del 1997: fu un vero canto alla vita. Egli presentò una spiritualità assai concreta per quanti sono impegnati nell'attuazione del progetto divino sulla famiglia, e sottolineò che se la scienza non si dedica a comprendere e a educare alla vita perderà le più decisive battaglie sul terreno affascinante e misterioso dell'ingegneria genetica.
Se il Cardinale López Trujillo ha fatto della difesa e dell'amore per la famiglia l'impegno caratterizzante del suo servizio nel Pontificio Consiglio di cui era Presidente, è all'affermazione della verità che egli ha dedicato l'intera sua esistenza. Lo testimonia un suo scritto nel quale spiega: “Ho scelto personalmente il motto “Veritas in caritate”, perché tutto ciò che riguarda la verità si trova al centro dei miei studi”. Ed aggiunge che la verità nell'amore è sempre stata per lui un “polo esistenziale”, dapprima quando in Colombia era proteso a “trovare il senso di una genuina liberazione in ambito teologico”, e in seguito, qui a Roma, quando si dedicò ad “approfondire, proclamare e diffondere il vangelo della vita e il vangelo della famiglia, come collaboratore del Santo Padre”. E conclude: “Credo molto al valore di questa lotta decisiva per la Chiesa e per l'umanità e chiedo al Signore di darmi forza di non essere né pigro né codardo”.
Per portare a compimento la missione che Gesù ci affida non bisogna essere né pigri, né codardi. Nella seconda Lettura abbiamo ascoltato come l'apostolo Paolo, prigioniero a Roma, esorti il suo fido discepolo Timoteo al coraggio e alla perseveranza nel testimoniare Cristo, anche a costo di essere sottoposto a dure persecuzioni, forte sempre della certezza che “se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo” (2Tm 2,11-12). La generosità del compianto Cardinale, tradotta in molteplici opere di carità, specialmente a favore dei bambini in diverse parti del mondo, ci sia di incoraggiamento a spendere ogni nostra risorsa fisica e spirituale per il Vangelo; ci sproni ad operare in difesa della vita umana; ci aiuti a guardare costantemente alla meta del nostro pellegrinaggio terreno. E quale sia questa confortante meta ce lo indica san Giovanni, offrendo alla nostra contemplazione, nel brano dell'Apocalisse che è stato proclamato, la visione di un “nuovo cielo” e di “una nuova terra” (Ap 21,1) e delineando al nostro sguardo le linee profetiche della “città santa”, la “nuova Gerusalemme… pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Ap 21,2).
Venerati Fratelli e cari amici, non distogliamo mai gli occhi da questa visione: guardiamo all'eternità pregustando, pur fra difficoltà e tribolazioni, la gioia della futura “dimora di Dio con gli uomini”, dove il nostro Redentore tergerà ogni nostra lacrima e dove “non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate” (cfr Ap 21,4). In questa dimora di luce e di gioia amiamo pensare che sia già giunto il caro Cardinale Alfonso López Trujillo per il quale ancora vogliamo pregare. Lo accolga Maria e lo accompagnino gli angeli e i santi in Paradiso: la sua anima assetata di Dio possa finalmente entrare e riposare in pace per sempre, nel “santuario” dell'Amore infinito. Amen!
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Cari fratelli e sorelle!
Si realizza oggi per noi, in modo tutto particolare, la parola che dice: "Hai moltiplicato la gioia, / hai aumentato la letizia" (Is 9,2). Infatti, alla gioia di celebrare l’Eucaristia nel giorno del Signore, si sommano l’esultanza spirituale del tempo di Pasqua giunto ormai alla sesta domenica, e soprattutto la festa dell’Ordinazione di nuovi Sacerdoti. Insieme a voi saluto con affetto i 29 Diaconi che tra poco saranno ordinati presbiteri. Esprimo viva riconoscenza a quanti li hanno guidati nel loro cammino di discernimento e di preparazione, ed invito voi tutti a rendere grazie a Dio per il dono alla Chiesa di questi nuovi sacerdoti. Sosteniamoli con intensa preghiera durante la presente celebrazione, in spirito di fervida lode al Padre che li ha chiamati, al Figlio che li ha attirati a sé, allo Spirito che li ha formati. Solitamente l’Ordinazione dei nuovi sacerdoti avviene nella IV Domenica di Pasqua, detta Domenica del Buon Pastore, che è anche la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, ma quest’anno non è stato possibile, perché ero in partenza per la visita pastorale negli Stati Uniti d’America. L’icona del Buon Pastore sembra essere quella che più d’ogni altra pone in luce il ruolo e il ministero del presbitero nella comunità cristiana. Ma anche i passi biblici, che l’odierna liturgia offre alla nostra meditazione, illuminano, secondo un’angolatura diversa, la missione del sacerdote.
La prima Lettura, tratta dal capitolo VIII degli Atti degli Apostoli, narra la missione del diacono Filippo in Samaria. Vorrei attirare immediatamente l’attenzione sulla frase che chiude la prima parte del testo: "E vi fu grande gioia in quella città" (Ac 8,8). Questa espressione non comunica un’idea, un concetto teologico, ma riferisce un avvenimento circostanziato, qualcosa che ha cambiato la vita delle persone: in una determinata città della Samaria, nel periodo che seguì la prima violenta persecuzione contro la Chiesa a Gerusalemme (cfr Ac 8,1), venne ad accadere qualcosa che causò "grande gioia". Che cosa era dunque successo? Narra l’Autore sacro che, per sfuggire alla persecuzione scoppiata a Gerusalemme contro coloro che si erano convertiti al cristianesimo, tutti i discepoli, tranne gli Apostoli, abbandonarono la Città santa e si dispersero all’intorno. Da questo evento doloroso scaturì, in maniera misteriosa e provvidenziale, un rinnovato impulso alla diffusione del Vangelo. Fra coloro che si erano dispersi c’era anche Filippo, uno dei sette diaconi della Comunità, diacono come voi, cari Ordinandi, anche se in modalità certamente diverse, poiché nella stagione irripetibile della Chiesa nascente, gli Apostoli e i diaconi erano dotati dallo Spirito Santo di una potenza straordinaria sia nella predicazione che nell’azione taumaturgica. Or avvenne che gli abitanti della località samaritana, di cui si parla in questo capitolo degli Atti degli Apostoli, accolsero unanimi l’annuncio di Filippo e, grazie alla loro adesione al Vangelo, egli poté guarire molti malati. In quella città della Samaria, in mezzo a una popolazione tradizionalmente disprezzata e quasi scomunicata dai Giudei, risuonò l’annuncio di Cristo che aprì alla gioia il cuore di quanti l’accolsero con fiducia. Ecco perché dunque - sottolinea san Luca - in quella città "vi fu grande gioia".
Cari amici, questa è anche la vostra missione: recare il Vangelo a tutti, perché tutti sperimentino la gioia di Cristo e ci sia gioia in ogni città. Che cosa ci può essere di più bello di questo? Che cosa di più grande, di più entusiasmante, che cooperare a diffondere nel mondo la Parola di vita, che comunicare l’acqua viva dello Spirito Santo? Annunciare e testimoniare la gioia: è questo il nucleo centrale della vostra missione, cari diaconi che tra poco diventerete sacerdoti. L’apostolo Paolo chiama i ministri del Vangelo "servitori della gioia". Ai cristiani di Corinto, nella sua Seconda Lettera, egli scrive: "Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi" (2Co 1,24). Sono parole programmatiche per ogni sacerdote. Per essere collaboratori della gioia degli altri, in un mondo spesso triste e negativo, bisogna che il fuoco del Vangelo arda dentro di voi, che abiti in voi la gioia del Signore. Allora solo potrete essere messaggeri e moltiplicatori di questa gioia recandola a tutti, specialmente a quanti sono tristi e sfiduciati.
Torniamo alla prima Lettura, che ci offre un altro elemento di meditazione. Vi si parla di una riunione di preghiera, che avviene proprio nella città samaritana evangelizzata dal diacono Filippo. A presiederla sono gli apostoli Pietro e Giovanni, due "colonne" della Chiesa, venuti da Gerusalemme per far visita a questa nuova comunità e confermarla nella fede. Grazie all’imposizione delle loro mani, lo Spirito Santo scese su quanti erano stati battezzati. Possiamo vedere in quest’episodio una prima attestazione del rito della "Confermazione", il secondo Sacramento dell’iniziazione cristiana. Anche per noi, qui riuniti, il riferimento al gesto rituale dell’imposizione delle mani è quanto mai significativo. E’ infatti il gesto centrale anche del rito di Ordinazione, mediante il quale tra poco io conferirò ai candidati la dignità presbiterale. E’ un segno inseparabile dalla preghiera, della quale costituisce un prolungamento silenzioso. Senza dire parole, il Vescovo consacrante e dopo di lui gli altri sacerdoti pongono le mani sul capo degli ordinandi, esprimendo così l’invocazione a Dio perché effonda il suo Spirito su di loro e li trasformi rendendoli partecipi del Sacerdozio di Cristo. Si tratta di pochi secondi, un tempo brevissimo, ma carico di straordinaria densità spirituale.
Cari Ordinandi, in futuro dovrete sempre ritornare a questo momento, a questo gesto che non ha nulla di magico, eppure è così ricco di mistero, perché qui è l’origine della vostra nuova missione. In quella preghiera silenziosa avviene l’incontro tra due libertà: la libertà di Dio, operante mediante lo Spirito Santo, e la libertà dell’uomo. L’imposizione delle mani esprime plasticamente la specifica modalità di questo incontro: la Chiesa, impersonata dal Vescovo in piedi con le mani protese, prega lo Spirito Santo di consacrare il candidato; il diacono, in ginocchio, riceve l’imposizione della mani e si affida a tale mediazione. L’insieme dei gesti è importante, ma infinitamente più importante è il movimento spirituale, invisibile, che esso esprime; movimento ben evocato dal sacro silenzio, che tutto avvolge all’interno e all’esterno.
Ritroviamo questo misterioso "movimento" trinitario, che conduce lo Spirito Santo e il Figlio a dimorare nei discepoli, anche nella pericope evangelica. Qui è Gesù stesso a promettere che pregherà il Padre affinché mandi ai suoi lo Spirito, definito "un altro Paraclito" (Jn 14,16), termine greco che equivale al latino "ad-vocatus", avvocato difensore. Il primo Paraclito infatti è il Figlio incarnato, venuto per difendere l’uomo dall’accusatore per antonomasia, che è satana. Nel momento in cui Cristo, compiuta la sua missione, ritorna al Padre, questi invia lo Spirito, come Difensore e Consolatore, perché resti per sempre con i credenti abitando dentro di loro. Così, tra Dio Padre e i discepoli si instaura, grazie alla mediazione del Figlio e dello Spirito Santo, una relazione intima di reciprocità: "Io sono nel Padre e voi in me e io in voi", dice Gesù (Jn 14,20). Tutto questo dipende però da una condizione che Cristo pone chiaramente all’inizio: "Se mi amate" (Jn 14,15), e che ripete alla fine: "Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui" (Jn 14,21). Senza l’amore per Gesù, che si attua nell’osservanza dei suoi comandamenti, la persona si esclude dal movimento trinitario e inizia a ripiegarsi su se stessa, perdendo la capacità di ricevere e comunicare Dio.
"Se mi amate". Cari amici, queste parole Gesù le ha pronunciate durante l’Ultima Cena nel momento in cui contestualmente istituiva l’Eucaristia e il Sacerdozio. Pur rivolte agli Apostoli, esse, in un certo senso, sono indirizzate a tutti i loro successori e ai sacerdoti, che sono i più stretti collaboratori dei successori degli Apostoli. Noi le riascoltiamo quest’oggi come un invito a vivere sempre più coerentemente la nostra vocazione nella Chiesa: voi, cari Ordinandi, le ascoltate con particolare emozione, perché proprio oggi Cristo vi rende partecipi del suo Sacerdozio. Accoglietele con fede e con amore! Lasciate che si imprimano nel vostro cuore, lasciate che vi accompagnino lungo il cammino dell’intera vostra esistenza. Non dimenticatele, non smarritele per la strada! Rileggetele, meditatele spesso e soprattutto pregateci su. Rimarrete così fedeli all’amore di Cristo e vi accorgerete con gioia sempre nuova di come questa sua divina Parola "camminerà" con voi e "crescerà" in voi.
Un’osservazione ancora sulla seconda Lettura: è tratta dalla Prima Lettera di Pietro, presso il cui sepolcro ci troviamo e alla cui intercessione vorrei in modo speciale affidarvi. Faccio mie e vi consegno con affetto le sue parole: "Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1P 3,15). Adorate Cristo Signore nei vostri cuori: coltivate cioè una relazione personale d’amore con Lui, amore primo e più grande, unico e totalizzante, dentro il quale vivere, purificare, illuminare e santificare tutte le altre relazioni. La "speranza che è in voi" è legata a questa "adorazione", a questo amore di Cristo, che per lo Spirito, come dicevamo, abita in noi. La nostra speranza, la vostra speranza è Dio, in Gesù e nello Spirito. Speranza che da oggi diventa in voi "speranza sacerdotale", quella di Gesù Buon Pastore, che abita in voi e dà forma ai vostri desideri secondo il suo Cuore divino: speranza di vita e di perdono per le persone che saranno affidate alle vostre cure pastorali; speranza di santità e di fecondità apostolica per voi e per tutta la Chiesa; speranza di apertura alla fede e all’incontro con Dio per quanti vi accosteranno nella loro ricerca della verità; speranza di pace e di conforto per i sofferenti e i feriti dalla vita.
Carissimi, ecco il mio augurio in questo giorno per voi tanto significativo: che la speranza radicata nella fede possa diventare sempre più vostra! E possiate voi esserne sempre testimoni e dispensatori saggi e generosi, dolci e forti, rispettosi e convinti. Vi accompagni in questa missione e vi protegga sempre la Vergine Maria, che vi esorto ad accogliere nuovamente, come fece l’apostolo Giovanni sotto la Croce, quale Madre e Stella della vostra vita e del vostro sacerdozio. Amen!
Benedetto XVI Omelie 19048