Benedetto XVI Omelie 18058
Sagrato della Basilica di San Giovanni in Laterano, Giovedì, 22 maggio 2008
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Cari fratelli e sorelle!
Dopo il tempo forte dell’anno liturgico, che incentrandosi sulla Pasqua si distende nell’arco di tre mesi – prima i quaranta giorni della Quaresima, poi i cinquanta giorni del Tempo pasquale –, la liturgia ci fa celebrare tre feste che hanno invece un carattere “sintetico”: la Santissima Trinità, quindi il Corpus Domini, e infine il Sacro Cuore di Gesù. Qual è il significato proprio della solennità odierna, del Corpo e Sangue di Cristo? Ce lo dice la celebrazione stessa che stiamo compiendo, nello svolgimento dei suoi gesti fondamentali: prima di tutto ci siamo radunati intorno all’altare del Signore, per stare insieme alla sua presenza; in secondo luogo ci sarà la processione, cioè il camminare con il Signore; e infine l’inginocchiarsi davanti al Signore, l’adorazione, che inizia già nella Messa e accompagna tutta la processione, ma culmina nel momento finale della benedizione eucaristica, quando tutti ci prostreremo davanti a Colui che si è chinato fino a noi e ha dato la vita per noi. Soffermiamoci brevemente su questi tre atteggiamenti, perché siano veramente espressione della nostra fede e della nostra vita.
Il primo atto, dunque, è quello di radunarsi alla presenza del Signore. E’ ciò che anticamente si chiamava “statio”. Immaginiamo per un momento che in tutta Roma non vi sia che quest’unico altare, e che tutti i cristiani della città siano invitati a radunarsi qui, per celebrare il Salvatore morto e risorto. Questo ci dà l’idea di che cosa sia stata alle origini, a Roma e in tante altre città dove giungeva il messaggio evangelico, la celebrazione eucaristica: in ogni Chiesa particolare vi era un solo Vescovo e intorno a Lui, intorno all’Eucaristia da lui celebrata, si costituiva la Comunità, unica perché uno era il Calice benedetto e uno il Pane spezzato, come abbiamo ascoltato dalle parole dell’apostolo Paolo nella seconda Lettura (cfr 1Co 10,16-17). Viene alla mente quell’altra celebre espressione paolina: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Ga 3,28). “Tutti voi siete uno”! In queste parole si sente la verità e la forza della rivoluzione cristiana, la rivoluzione più profonda della storia umana, che si sperimenta proprio intorno all’Eucaristia: qui si radunano alla presenza del Signore persone diverse per età, sesso, condizione sociale, idee politiche. L’Eucaristia non può mai essere un fatto privato, riservato a persone che si sono scelte per affinità o amicizia. L’Eucaristia è un culto pubblico, che non ha nulla di esoterico, di esclusivo. Anche qui, stasera, non abbiamo scelto noi con chi incontrarci, siamo venuti e ci troviamo gli uni accanto agli altri, accomunati dalla fede e chiamati a diventare un unico corpo condividendo l’unico Pane che è Cristo. Siamo uniti al di là delle nostre differenze di nazionalità, di professione, di ceto sociale, di idee politiche: ci apriamo gli uni agli altri per diventare una cosa sola a partire da Lui. Questa fin dagli inizi è stata una caratteristica del cristianesimo realizzata visibilmente intorno all’Eucaristia, e occorre sempre vigilare perché le ricorrenti tentazioni di particolarismo, seppure in buona fede, non vadano di fatto in senso opposto. Pertanto, il Corpus Domini ci ricorda anzitutto questo: che essere cristiani vuol dire radunarsi da ogni parte per stare alla presenza dell’unico Signore e diventare in Lui una sola cosa.
Il secondo aspetto costitutivo è il camminare con il Signore. E’ la realtà manifestata dalla processione, che vivremo insieme dopo la Santa Messa, quasi come un suo naturale prolungamento, muovendoci dietro Colui che è la Via, il Cammino. Con il dono di Se stesso nell’Eucaristia, il Signore Gesù ci libera dalle nostre “paralisi”, ci fa rialzare e ci fa “pro-cedere”, ci fa fare cioè un passo avanti, e poi un altro passo, e così ci mette in cammino, con la forza di questo Pane della vita. Come accadde al profeta Elia, che si era rifugiato nel deserto per paura dei suoi nemici, e aveva deciso di lasciarsi morire (cfr 1R 19,1-4). Ma Dio lo svegliò dal sonno e gli fece trovare lì accanto una focaccia appena cotta: “Alzati e mangia – gli disse – perché troppo lungo per te è il cammino” (1R 19,5 1R 19,7). La processione del Corpus Domini ci insegna che l’Eucaristia ci vuole liberare da ogni abbattimento e sconforto, ci vuole far rialzare, perché possiamo riprendere il cammino con la forza che Dio ci dà mediante Gesù Cristo. E’ l’esperienza del popolo d’Israele nell’esodo dall’Egitto, la lunga peregrinazione attraverso il deserto, di cui ci ha parlato la prima Lettura. Un’esperienza che per Israele è costitutiva, ma risulta esemplare per tutta l’umanità. Infatti l’espressione “l’uomo non vive soltanto di pane, ma … di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3) è un’affermazione universale, che si riferisce ad ogni uomo in quanto uomo. Ognuno può trovare la propria strada, se incontra Colui che è Parola e Pane di vita e si lascia guidare dalla sua amichevole presenza. Senza il Dio-con-noi, il Dio vicino, come possiamo sostenere il pellegrinaggio dell’esistenza, sia singolarmente che in quanto società e famiglia dei popoli? L’Eucaristia è il Sacramento del Dio che non ci lascia soli nel cammino, ma si pone al nostro fianco e ci indica la direzione. In effetti, non basta andare avanti, bisogna vedere verso dove si va! Non basta il “progresso”, se non ci sono dei criteri di riferimento. Anzi, se si corre fuori strada, si rischia di finire in un precipizio, o comunque di allontanarsi più rapidamente dalla meta. Dio ci ha creati liberi, ma non ci ha lasciati soli: si è fatto Lui stesso “via” ed è venuto a camminare insieme con noi, perché la nostra libertà abbia anche il criterio per discernere la strada giusta e percorrerla.
E a questo punto non si può non pensare all’inizio del “decalogo”, i dieci comandamenti, dove sta scritto: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me” (Ex 20,2-3). Troviamo qui il senso del terzo elemento costitutivo del Corpus Domini: inginocchiarsi in adorazione di fronte al Signore. Adorare il Dio di Gesù Cristo, fattosi pane spezzato per amore, è il rimedio più valido e radicale contro le idolatrie di ieri e di oggi. Inginocchiarsi davanti all’Eucaristia è professione di libertà: chi si inchina a Gesù non può e non deve prostrarsi davanti a nessun potere terreno, per quanto forte. Noi cristiani ci inginocchiamo solo davanti al Santissimo Sacramento, perché in esso sappiamo e crediamo essere presente l’unico vero Dio, che ha creato il mondo e lo ha tanto amato da dare il suo Figlio unigenito (cfr Jn 3,16). Ci prostriamo dinanzi a un Dio che per primo si è chinato verso l’uomo, come Buon Samaritano, per soccorrerlo e ridargli vita, e si è inginocchiato davanti a noi per lavare i nostri piedi sporchi. Adorare il Corpo di Cristo vuol dire credere che lì, in quel pezzo di pane, c’è realmente Cristo, che dà vero senso alla vita, all’immenso universo come alla più piccola creatura, all’intera storia umana come alla più breve esistenza. L’adorazione è preghiera che prolunga la celebrazione e la comunione eucaristica e in cui l’anima continua a nutrirsi: si nutre di amore, di verità, di pace; si nutre di speranza, perché Colui al quale ci prostriamo non ci giudica, non ci schiaccia, ma ci libera e ci trasforma.
Ecco perché radunarci, camminare, adorare ci riempie di gioia. Facendo nostro l’atteggiamento adorante di Maria, che in questo mese di maggio ricordiamo particolarmente, preghiamo per noi e per tutti; preghiamo per ogni persona che vive in questa città, perché possa conoscere Te, o Padre, e Colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo. E così avere la vita in abbondanza. Amen.
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Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
“Profetizza e annunzia loro: Ecco io apro i vostri sepolcri, vi risuscito dalle vostre tombe” (Ez 37,12). Risuonano cariche di speranza queste parole tratte dal Libro del profeta Ezechiele. La liturgia le ha riproposte alla nostra meditazione mentre siamo riuniti intorno all’altare del Signore per offrire l’Eucaristia in suffragio del caro Cardinale Bernardin Gantin, giunto al termine del suo cammino terreno martedì, 13 maggio scorso. Al popolo oppresso e sfiduciato, affranto dalle sofferenze dell’esilio, il Signore annuncia la restaurazione di Israele. E’ una scena grandiosa, quella evocata dal profeta, che preannuncia l’intervento risolutivo di Dio nella storia degli uomini, intervento che supera quanto è umanamente possibile. Quando ci si sente stanchi, impotenti e sfiduciati dinanzi alla realtà incombente, quando si è tentati di cedere alla delusione e persino alla disperazione, quando l’uomo è ridotto ad un cumulo di “ossa inaridite”, è allora il momento della speranza “contro ogni speranza” (cfr Rm 4,18). La verità che la Parola di Dio ricorda con potenza è che nulla e nessuno, nemmeno la morte, può resistere all’onnipotenza del suo amore fedele e misericordioso. Questa è la nostra fede, fondata sulla risurrezione di Cristo; questa è la consolante assicurazione che il Signore ci ripete anche oggi: “Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi risusciterò dai vostri sepolcri… Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete” (Ez 37,13-14).
E’ in questa prospettiva di fede e di speranza nella risurrezione che facciamo memoria del venerato Cardinale Bernardin Gantin, fedele e devoto servitore della Chiesa per lunghi anni. E’ difficile sintetizzare in brevi cenni le mansioni, i compiti e gli incarichi pastorali che in rapida successione hanno caratterizzato le tappe della sua esistenza terrena conclusasi, all’età di 86 anni, nell’ospedale parigino “Georges Pompidou”. Sino alla fine ha voluto dedicarsi con amabile disponibilità al servizio di Dio e dei fratelli, mantenendo fede al motto che si era scelto in occasione dell’Ordinazione episcopale: “In tuo sancto servitio”. La sua personalità, umana e sacerdotale, costituiva una sintesi meravigliosa delle caratteristiche dell’animo africano con quelle proprie dello spirito cristiano, della cultura e dell’identità africana e dei valori evangelici. E’ stato il primo ecclesiastico africano ad aver ricoperto ruoli di altissima responsabilità nella Curia Romana, e li ha svolti sempre con quel suo tipico stile umile e semplice, il cui segreto va ricercato probabilmente nelle sagge parole che la mamma gli volle ripetere quando divenne Cardinale, il 27 giugno del 1977: “Non dimenticarti mai del lontano e piccolo villaggio dal quale proveniamo”.
Non pochi ricordi personali mi legano a questo nostro Fratello, a partire proprio da quando insieme ricevemmo la berretta cardinalizia dalle mani del venerato Servo di Dio, il Papa Paolo VI, 31 anni or sono. Insieme abbiamo collaborato qui, nella Curia Romana, avendo frequenti contatti, che mi hanno permesso di apprezzare sempre più la sua prudente saggezza, come pure la sua solida fede e il suo sincero attaccamento a Cristo e al suo Vicario in terra, il Papa. Cinquantasette anni di sacerdozio, cinquantuno anni di Episcopato e trentuno di porpora cardinalizia: ecco la sintesi di una vita spesa per la Chiesa.
Aveva solo 34 anni quando a Roma, nella cappella del Collegio di Propaganda Fide, ricevette l’Ordinazione episcopale, il 3 febbraio del 1957. Tre anni dopo divenne Arcivescovo di Cotonou, Capitale della sua Patria, il Benin: fu il primo Metropolita africano di tutta l’Africa. Resse la diocesi con doti umane e ascetiche, che lo rendevano autorevole Pastore dedito soprattutto alla cura dei sacerdoti e alla formazione dei catechisti fino a quando, nel 1971, Paolo VI lo volle a Roma come Segretario aggiunto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. Due anni dopo lo nominò Segretario del medesimo Dicastero e alla fine del 1975 lo scelse come vice Presidente della Pontificia Commissione della Giustizia e della Pace; di essa divenne in seguito Presidente, assumendo nel 1976 anche la responsabilità di Presidente del Pontificio Consiglio Cor unum. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, l’8 aprile del 1984, lo chiamò ad essere Prefetto della Congregazione per i Vescovi e Presidente della Pontificia Commissione per l’America Latina, incarico che egli resse sino al 25 giugno di dieci anni or sono, quando lo lasciò per raggiunti limiti di età.
Ripercorrendo, sia pur rapidamente, la biografia del Cardinale Gantin che, oltre agli ambiti sopra citati, ebbe ad offrire il suo contributo in diversi altri Uffici e Dicasteri della Curia, viene alla mente l’affermazione di san Paolo, che abbiamo ascoltato nella seconda Lettura: “Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Ph 1,21). L’Apostolo legge la propria esistenza alla luce del messaggio di Cristo, perché da Lui è stato totalmente “afferrato, conquistato” (cfr Ph 3,12). Possiamo dire che anche questo nostro amico e fratello, al quale oggi rendiamo il nostro grato omaggio, fu permeato di amore a Cristo; amore che lo rendeva amabile e disponibile all’ascolto e al dialogo con tutti; amore che lo spingeva a guardare sempre, come era solito ripetere, all’essenziale della vita che dura, senza perdersi nel contingente che invece passa rapidamente; amore che gli faceva sentire il suo ruolo nei vari Uffici della Curia come un servizio scevro di umane ambizioni. Fu questo spirito a spingerlo, il 30 novembre del 2002, raggiunta la veneranda età di 80 anni, a rassegnare le dimissioni da Decano del Collegio Cardinalizio e a fare ritorno tra la sua gente, nel Benin, dove riprese l’attività evangelizzatrice che aveva avviato il giorno della sua ordinazione sacerdotale, avvenuta a Ouidah nel lontano 14 gennaio del 1951.
Cari fratelli e sorelle, ieri abbiamo celebrato la solennità del Corpus Domini. Il tema eucaristico ritorna nella pagina evangelica proclamata in quest’assemblea liturgica. San Giovanni ricorda come solo mangiando “la carne” e bevendo “il sangue” di Cristo possiamo dimorare in Lui e Lui in noi (Jn 6,56). Nel ministero pastorale del Cardinale Gantin emerge un costante amore per l’Eucaristia, sorgente di santità personale e di solida comunione ecclesiale, che trova nel Successore di Pietro il suo visibile fondamento. E fu proprio in questa stessa Basilica che, celebrando l’ultima Santa Messa prima di lasciare Roma, egli ebbe a sottolineare l’unità che l’Eucaristia crea nella Chiesa. Nella sua omelia citò la celebre frase del Vescovo africano san Cipriano di Cartagine, incisa nella Cupola: “Di qui l’unica fede rifulge per il mondo: di qui scaturisce l’unità del sacerdozio”. Potrebbe essere questo il messaggio che noi raccogliamo dal venerato Cardinale Gantin come suo testamento spirituale. Lo accompagni nell’ultima tappa del suo viaggio terreno la nostra preghiera alla Vergine Maria, Regina dell’Africa, della quale egli fu teneramente devoto - la sua morte è avvenuta in una significativa ricorrenza mariana, il 13 maggio, memoria di Nostra Signora di Fatima. Sia la Madonna a consegnarlo alle mani misericordiose del Padre celeste e ad introdurlo con gioia nella “Casa del Signore”, verso la quale siamo tutti incamminati. Nell’incontro con Cristo questo nostro Fratello implori per noi, e specialmente per l’amata sua Africa, il dono della pace. Cosi sia!
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Cari fratelli e sorelle,
la mia visita in Puglia – la seconda, dopo il Congresso Eucaristico di Bari – inizia come pellegrinaggio mariano, in questo estremo lembo d’Italia e d’Europa, nel Santuario di Santa Maria de finibus terrae.Con grande gioia rivolgo a tutti voi il mio affettuoso saluto. Ringrazio con affetto il Vescovo Mons. Vito De Grisantis per avermi invitato e per la sua cordiale accoglienza; insieme con lui saluto gli altri Vescovi della Regione, in particolare il Metropolita di Lecce Mons. Cosmo Francesco Ruppi; come pure i presbiteri e i diaconi, le persone consacrate e tutti i fedeli. Saluto con riconoscenza il Ministro Raffaele Fitto, in rappresentanza del Governo italiano, e le diverse Autorità civili e militari presenti.
In questo luogo storicamente così importante per il culto della Beata Vergine Maria, ho voluto che la liturgia fosse dedicata a Lei, Stella del mare e Stella della speranza. "Ave, maris stella, / Dei Mater alma, / atque semper virgo, / felix caeli porta!". Le parole di questo antico inno sono un saluto che riecheggia in qualche modo quello dell’Angelo a Nazaret. Tutti i titoli mariani infatti sono come gemmati e fioriti da quel primo nome con il quale il messaggero celeste si rivolse alla Vergine: "Rallegrati, piena di grazia" (Lc 1,28). L’abbiamo ascoltato nel Vangelo di san Luca, molto appropriato perché questo Santuario – come attesta la lapide sopra la porta centrale dell’atrio – è intitolato alla Vergine Santissima "Annunziata". Quando Dio chiama Maria "piena di grazia", si accende per il genere umano la speranza della salvezza: una figlia del nostro popolo ha trovato grazia agli occhi del Signore, che l’ha prescelta quale Madre del Redentore. Nella semplicità della casa di Maria, in un povero borgo di Galilea, incomincia ad adempiersi la solenne profezia della salvezza: "Io porrò inimicizia tra te e la donna, / tra la tua stirpe / e la sua stirpe: / questa ti schiaccerà la testa / e tu le insidierai il calcagno" (Gn 3,15). Perciò il popolo cristiano ha fatto proprio il cantico di lode che gli Ebrei elevarono a Giuditta e che noi abbiamo poc’anzi pregato come Salmo responsoriale: "Benedetta sei tu, figlia, / davanti al Dio altissimo / più di tutte le donne che vivono sulla terra" (Jdt 13,18). Senza violenza, ma con il mite coraggio del suo "sì", la Vergine ci ha liberati non da un nemico terreno, ma dall’antico avversario, dando un corpo umano a Colui che gli avrebbe schiacciato la testa una volta per sempre.
Ecco perché, sul mare della vita e della storia, Maria risplende come Stella di speranza. Non brilla di luce propria, ma riflette quella di Cristo, Sole apparso all’orizzonte dell’umanità, così che seguendo la Stella di Maria possiamo orientarci nel viaggio e mantenere la rotta verso Cristo, specialmente nei momenti oscuri e tempestosi. L’apostolo Pietro ha conosciuto bene questa esperienza, per averla vissuta in prima persona. Una notte, mentre con gli altri discepoli stava attraversando il lago di Galilea, fu sorpreso dalla tempesta. La loro barca, in balia delle onde, non riusciva più ad avanzare. Gesù li raggiunse in quel momento camminando sulle acque, e invitò Pietro a scendere dalla barca e ad avvicinarsi. Pietro fece qualche passo tra le onde ma poi si sentì sprofondare e allora gridò: "Signore, salvami!". Gesù lo afferrò per la mano e lo trasse in salvo (cfr Mt 14,24-33). Questo episodio si rivelò poi un segno della prova che Pietro doveva attraversare al momento della passione di Gesù. Quando il Signore fu arrestato, egli ebbe paura e lo rinnegò tre volte: fu sopraffatto dalla tempesta. Ma quando i suoi occhi incrociarono lo sguardo di Cristo, la misericordia di Dio lo riprese e, facendolo sciogliere in lacrime, lo risollevò dalla sua caduta.
Ho voluto rievocare la storia di san Pietro, perché so che questo luogo e tutta la vostra Chiesa sono particolarmente legati al Principe degli Apostoli. A lui, come all’inizio ha ricordato il Vescovo, la tradizione fa risalire il primo annuncio del Vangelo in questa terra. Il Pescatore, "pescato" da Gesù, ha gettato le reti fin qui, e noi oggi rendiamo grazie per essere stati oggetto di questa "pesca miracolosa", che dura da duemila anni, una pesca che, come scrive proprio san Pietro, "ci ha chiamati dalle tenebre alla ammirabile luce [di Dio]" (1P 2,9). Per diventare pescatori con Cristo bisogna prima essere "pescati" da Lui. San Pietro è testimone di questa realtà, come lo è san Paolo, grande convertito, di cui tra pochi giorni inaugureremo il bimillenario della nascita. Come Successore di Pietro e Vescovo della Chiesa fondata sul sangue di questi due eminenti Apostoli, sono venuto a confermarvi nella fede in Gesù Cristo, unico salvatore dell’uomo e del mondo.
La fede di Pietro e la fede di Maria si coniugano in questo Santuario. Qui si può attingere al duplice principio dell’esperienza cristiana: quello mariano e quello petrino. Entrambi, insieme, vi aiuteranno, cari fratelli e sorelle, a "ripartire da Cristo", a rinnovare la vostra fede, perché risponda alle esigenze del nostro tempo. Maria vi insegna a restare sempre in ascolto del Signore nel silenzio della preghiera, ad accogliere con generosa disponibilità la sua Parola col profondo desiderio di offrire voi stessi a Dio, la vostra vita concreta, affinché il suo Verbo eterno, per la potenza dello Spirito Santo, possa ancora "farsi carne" oggi, nella nostra storia. Maria vi aiuterà a seguire Gesù con fedeltà, ad unirvi a Lui nell’offerta del Sacrificio, a portare nel cuore la gioia della sua Risurrezione e a vivere in costante docilità allo Spirito della Pentecoste. In modo complementare, anche san Pietro vi insegnerà a sentire e credere con la Chiesa, saldi nella fede cattolica; vi porterà ad avere il gusto e la passione dell’unità, della comunione, la gioia di camminare insieme con i Pastori; e, al tempo stesso, vi parteciperà l’ansia della missione, di condividere il Vangelo con tutti, di farlo giungere fino agli estremi confini della terra.
"De finibus terrae": il nome di questo luogo santo è molto bello e suggestivo, perché riecheggia una delle ultime parole di Gesù ai suoi discepoli. Proteso tra l’Europa e il Mediterraneo, tra l’Occidente e l’Oriente, esso ci ricorda che la Chiesa non ha confini, è universale. E i confini geografici, culturali, etnici, addirittura i confini religiosi sono per la Chiesa un invito all’evangelizzazione nella prospettiva della "comunione delle diversità". La Chiesa è nata a Pentecoste, è nata universale e la sua vocazione è parlare tutte le lingue del mondo. La Chiesa esiste – secondo l’originaria vocazione e missione rivelata ad Abramo – per essere una benedizione a beneficio di tutti i popoli della terra (cfr Gn 12,1-3); per essere, con il linguaggio del Concilio Ecumenico Vaticano II, segno e strumento di unità per tutto il genere umano (cfr Cost. Lumen gentium LG 1). La Chiesa che è in Puglia possiede una spiccata vocazione ad essere ponte tra popoli e culture. Questa terra e questo Santuario sono in effetti un "avamposto" in tale direzione, e mi sono molto rallegrato nel constatare, sia nella lettera del vostro Vescovo come anche oggi nelle sue parole, quanto questa sensibilità sia tra voi viva e percepita in modo positivo, con genuino spirito evangelico.
Cari amici, noi sappiamo bene, perché il Signore Gesù su questo è stato molto chiaro, che l’efficacia della testimonianza è proporzionata all’intensità dell’amore. A nulla vale proiettarsi fino ai confini della terra, se prima non ci si vuole bene e non ci si aiuta gli uni gli altri all’interno della comunità cristiana. Perciò l’esortazione dell’apostolo Paolo, che abbiamo ascoltato nella seconda Lettura (Col 3,12-17), è fondamentale non solo per la vostra vita di famiglia ecclesiale, ma anche per il vostro impegno di animazione della realtà sociale. Infatti, in un contesto che tende a incentivare sempre più l’individualismo, il primo servizio della Chiesa è quello di educare al senso sociale, all’attenzione per il prossimo, alla solidarietà e alla condivisione. La Chiesa, dotata com’è dal suo Signore di una carica spirituale che continuamente si rinnova, si rivela capace di esercitare un influsso positivo anche sul piano sociale, perché promuove un’umanità rinnovata e rapporti umani aperti e costruttivi, nel rispetto e nel servizio in primo luogo degli ultimi e dei più deboli.
Qui, nel Salento, come in tutto il Meridione d’Italia, le Comunità ecclesiali sono luoghi dove le giovani generazioni possono imparare la speranza, non come utopia, ma come fiducia tenace nella forza del bene. Il bene vince e, se a volte può apparire sconfitto dalla sopraffazione e dalla furbizia, in realtà continua ad operare nel silenzio e nella discrezione portando frutti nel lungo periodo. Questo è il rinnovamento sociale cristiano, basato sulla trasformazione delle coscienze, sulla formazione morale, sulla preghiera; sì, perché la preghiera dà la forza di credere e lottare per il bene anche quando umanamente si sarebbe tentati di scoraggiarsi e di tirarsi indietro. Le iniziative che il Vescovo ha citato in apertura e le altre che portate avanti nel vostro territorio, sono segni eloquenti di questo stile tipicamente ecclesiale di promozione umana e sociale. Al tempo stesso, cogliendo l’occasione della presenza delle Autorità civili, mi piace ricordare che la Comunità cristiana non può e non vuole mai sostituirsi alle legittime e doverose competenze delle Istituzioni, anzi, le stimola e le sostiene nei loro compiti e si propone sempre di collaborare con esse per il bene di tutti, a partire dalle situazioni di maggiore disagio e difficoltà.
Il pensiero torna, infine, alla Vergine Santissima. Da questo Santuario di Santa Maria de finibus terrae desidero recarmi in spirituale pellegrinaggio nei vari Santuari mariani del Salento, vere gemme incastonate in questa penisola lanciata come un ponte sul mare. La pietà mariana delle popolazioni si è formata sotto l’influsso mirabile della devozione basiliana alla Theotokos, una devozione coltivata poi dai figli di san Benedetto, di san Domenico, di san Francesco, ed espressa in bellissime chiese e semplici edicole sacre, che vanno curate e preservate come segno della ricca eredità religiosa e civile della vostra gente. Ci rivolgiamo dunque ancora a Te, Vergine Maria, che sei rimasta intrepida ai piedi della croce del tuo Figlio. Tu sei modello di fede e di speranza nella forza della verità e del bene. Con le parole dell’antico inno ti invochiamo: "Spezza i legami agli oppressi, / rendi la luce ai ciechi, / scaccia da noi ogni male, / chiedi per noi ogni bene". E allargando lo sguardo all’orizzonte dove cielo e mare si congiungono, vogliamo affidarti i popoli che si affacciano sul Mediterraneo e quelli del mondo intero, invocando per tutti sviluppo e pace: "Donaci giorni di pace, / veglia sul nostro cammino, / fa’ che vediamo il tuo Figlio, / pieni di gioia nel cielo". Amen.
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Cari fratelli e sorelle,
al centro di questa mia visita a Brindisi celebriamo, nel Giorno del Signore, il mistero che è fonte e culmine di tutta la vita della Chiesa. Celebriamo Cristo nell’Eucaristia, il dono più grande scaturito dal suo Cuore divino e umano, il Pane della vita spezzato e condiviso, per farci diventare una cosa sola con Lui e tra di noi. Saluto con affetto tutti voi, convenuti in questo luogo così simbolico, il porto, che evoca i viaggi missionari di Pietro e di Paolo. Vedo con gioia tanti giovani, che hanno animato la veglia questa notte, preparandosi alla Celebrazione eucaristica. E saluto anche voi, che partecipate spiritualmente mediante la radio e la televisione. Rivolgo in particolare il mio saluto al Pastore di quest’amata Chiesa, Mons. Rocco Talucci, ringraziandolo per le parole pronunciate all’inizio della santa Messa. Saluto pure gli altri Vescovi della Puglia, che hanno voluto essere qui con noi in fraterna comunione di sentimenti. Sono particolarmente lieto della presenza del Metropolita Gennadios, al quale porgo il mio saluto cordiale estendendolo a tutti i fratelli Ortodossi e delle altre Confessioni, da questa Chiesa di Brindisi che per la sua vocazione ecumenica ci invita a pregare e impegnarci per la piena unità di tutti i cristiani. Saluto con riconoscenza le Autorità civili e militari che partecipano a questa liturgia, augurando ogni bene per il loro servizio. Il mio pensiero affettuoso va quindi ai presbiteri e ai diaconi, alle religiose e ai religiosi e a tutti i fedeli. Un saluto speciale indirizzo ai malati dell’Ospedale e ai detenuti del Carcere, ai quali assicuro il ricordo nella preghiera. Grazia e pace da parte del Signore ad ognuno e a tutta la città di Brindisi!
I testi biblici, che abbiamo ascoltato in questa undicesima Domenica del tempo ordinario, ci aiutano a comprendere la realtà della Chiesa: la prima Lettura (cfr Ex 19,2-6) rievoca l’alleanza stretta presso il monte Sinai, durante l’esodo dall’Egitto; il Vangelo (cfr Mt 9,36-10,8) è costituito dal racconto della chiamata e della missione dei dodici Apostoli. Troviamo qui presentata la “costituzione” della Chiesa: come non avvertire l’implicito invito rivolto ad ogni Comunità a rinnovarsi nella propria vocazione e nel proprio slancio missionario? Nella prima Lettura, l’autore sacro narra il patto di Dio con Mosè e con Israele al Sinai. È una delle grandi tappe della storia della salvezza, uno di quei momenti che trascendono la storia stessa, nei quali il confine tra Antico e Nuovo Testamento scompare e si manifesta il perenne disegno del Dio dell’Alleanza: il disegno di salvare tutti gli uomini mediante la santificazione di un popolo, a cui Dio propone di diventare “la sua proprietà tra tutti i popoli” (Ex 19,5). In questa prospettiva il popolo è chiamato a diventare una “nazione santa”, non solo in senso morale, ma prima ancora e soprattutto nella sua stessa realtà ontologica, nel suo essere di popolo. In che modo si debba intendere l’identità di questo popolo si è manifestato via via nel corso degli eventi salvifici già nell’Antico Testamento; si è pienamente rivelato poi con la venuta di Gesù Cristo. Il Vangelo odierno ci presenta un momento decisivo per questa rivelazione. Quando infatti Gesù chiamò i Dodici voleva riferirsi simbolicamente alle tribù d’Israele, risalenti ai dodici figli di Giacobbe. Perciò, ponendo al centro della sua nuova comunità i Dodici, Egli fa capire di essere venuto a portare a compimento il disegno del Padre celeste, anche se solo a Pentecoste apparirà il volto nuovo della Chiesa: quando i Dodici, “pieni di Spirito Santo”, proclameranno il Vangelo parlando tutte le lingue (Ac 2,3-4). Si manifesterà allora la Chiesa universale, raccolta in un unico Corpo di cui Cristo risorto è il Capo e, al tempo stesso, inviata da Lui a tutte le nazioni, fino agli estremi confini della terra (cfr Mt 28,20).
Lo stile di Gesù è inconfondibile: è lo stile caratteristico di Dio, che ama compiere le cose più grandi in modo povero e umile. La solennità dei racconti di alleanza del Libro dell’Esodo lascia nei Vangeli il posto a gesti umili e discreti, che però contengono un’enorme potenzialità di rinnovamento. E’ la logica del Regno di Dio, non a caso rappresentata dal piccolo seme che diventa un grande albero (cfr Mt 13,31-32). Il patto del Sinai è accompagnato da segni cosmici che atterriscono gli Israeliti; gli inizi della Chiesa in Galilea sono invece privi di queste manifestazioni, riflettono la mitezza e la compassione del cuore di Cristo, ma preannunciano un’altra lotta, un altro sconvolgimento che è quello suscitato dalle potenze del male. Ai Dodici – l’abbiamo sentito – Egli “diede il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattie e d’infermità” (Mt 10,1). I Dodici dovranno cooperare con Gesù nell’instaurare il Regno di Dio, cioè la sua signoria benefica, portatrice di vita, e di vita in abbondanza per l’intera umanità. In sostanza, la Chiesa, come Cristo e insieme con Lui, è chiamata e inviata a instaurare il Regno della vita e a scacciare il dominio della morte, perché trionfi nel mondo la vita di Dio. Trionfi Dio che è Amore. Quest’opera di Cristo è sempre silenziosa, non è spettacolare; proprio nell’umiltà dell’essere Chiesa, del vivere ogni giorno il Vangelo, cresce il grande albero della vera vita. Proprio con questi inizi umili il Signore ci incoraggia perché, anche nell’umiltà della Chiesa di oggi, nella povertà della nostra vita cristiana, possiamo vedere la sua presenza e avere così il coraggio di andare incontro a Lui e di rendere presente su questa terra il suo amore, questa forza di pace e di vita vera.
Questo è, quindi, il disegno di Dio: diffondere sull’umanità e sul cosmo intero il suo amore generatore di vita. Non è un processo spettacolare; è un processo umile, che tuttavia porta con sé la vera forza del futuro e della storia. Un progetto, quindi, che il Signore vuole attuare nel rispetto della nostra libertà, perché l’amore di sua natura non si può imporre. La Chiesa è allora, in Cristo, lo spazio di accoglienza e di mediazione dell’amore di Dio. In questa prospettiva appare chiaramente come la santità e la missionarietà della Chiesa costituiscano due facce della stessa medaglia: solo in quanto santa, cioè colma dell’amore divino, la Chiesa può adempiere la sua missione, ed è proprio in funzione di tale compito che Dio l’ha scelta e santificata quale sua proprietà. Quindi il nostro primo dovere, proprio per sanare questo mondo, è quello di essere santi, conformi a Dio; in questo modo viene da noi una forza santificante e trasformante che agisce anche sugli altri, sulla storia. Sul binomio “santità-missione” - la santità è sempre forza che trasforma gli altri - la vostra Comunità ecclesiale, cari fratelli e sorelle, si sta misurando in questo momento, impegnata com’è nel Sinodo diocesano. Al riguardo, è utile riflettere che i dodici Apostoli non erano uomini perfetti, scelti per la loro irreprensibilità morale e religiosa. Erano credenti, sì, pieni di entusiasmo e di zelo, ma segnati nello stesso tempo dai loro limiti umani, talora anche gravi. Dunque, Gesù non li chiamò perché erano già santi, completi, perfetti, ma affinché lo diventassero, affinché fossero trasformati per trasformare così anche la storia. Tutto come per noi. Come per tutti i cristiani. Nella seconda Lettura abbiamo ascoltato la sintesi dell’apostolo Paolo: “Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8). La Chiesa è la comunità dei peccatori che credono all’amore di Dio e si lasciano trasformare da Lui, e così diventano santi, santificano il mondo.
Nella luce di questa provvidenziale Parola di Dio, ho la gioia quest’oggi di confermare il cammino della vostra Chiesa. E’ un cammino di santità e di missione, sul quale il vostro Arcivescovo vi ha invitato a riflettere nella sua recente Lettera pastorale; è un cammino che egli ha ampiamente verificato nel corso della visita pastorale e che ora intende promuovere mediante il Sinodo diocesano. Il Vangelo di oggi ci suggerisce lo stile della missione, cioè l’atteggiamento interiore che si traduce in vita vissuta. Non può che essere quello di Gesù: lo stile della “compassione”. L’evangelista lo evidenzia attirando l’attenzione sullo sguardo di Cristo verso le folle: “Vedendole – egli scrive – ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore” (Mt 9,36). E, dopo la chiamata dei Dodici, ritorna questo atteggiamento nel comando che Egli dà loro di rivolgersi “alle pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10,6). In queste espressioni si sente l’amore di Cristo per la sua gente, specialmente per i piccoli e i poveri. La compassione cristiana non ha niente a che vedere col pietismo, con l’assistenzialismo. Piuttosto, è sinonimo di solidarietà e di condivisione, ed è animata dalla speranza. Non nasce forse dalla speranza la parola che Gesù dice agli apostoli: “Strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino” (Mt 10,7)? E’ speranza, questa, che si fonda sulla venuta di Cristo, e che in ultima analisi coincide con la sua Persona e col suo mistero di salvezza – dov’è Lui è il Regno di Dio, è la novità del mondo -, come bene ricordava nel titolo il quarto Convegno ecclesiale italiano, celebrato a Verona: Cristo risorto è la “speranza del mondo”.
Animati dalla speranza nella quale siete stati salvati, anche voi, fratelli e sorelle di questa antica Chiesa di Brindisi, siate segni e strumenti della compassione, della misericordia di Cristo. Al Vescovo e ai presbiteri ripeto con fervore le parole del Maestro divino: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10,8). Questo mandato è rivolto ancora oggi in primo luogo a voi. Lo Spirito che agiva in Cristo e nei Dodici, è lo stesso che opera in voi e che vi permette di compiere tra la vostra gente, in questo territorio, i segni del Regno di amore, di giustizia e di pace che viene, anzi, che è già nel mondo. Ma la missione di Gesù si partecipa in diversi modi a tutti i membri del Popolo di Dio, per la grazia del Battesimo e della Confermazione. Penso alle persone consacrate che professano i voti di povertà, verginità e obbedienza; penso ai coniugi cristiani e a voi, fedeli laici, impegnati nella comunità ecclesiale e nella società sia personalmente che in forma associata. Cari fratelli e sorelle, tutti siete destinatari del desiderio di Gesù di moltiplicare gli operai nella messe del Signore (cfr Mt 9,38). Questo desiderio, che chiede di farsi preghiera, ci fa pensare in primo luogo ai seminaristi e al nuovo Seminario di questa Arcidiocesi; ci fa considerare che la Chiesa è, in senso lato, un grande “seminario”, incominciando dalla famiglia, fino alle comunità parrocchiali, alle associazioni e ai movimenti di impegno apostolico. Tutti, nella varietà dei carismi e dei ministeri, siamo chiamati a lavorare nella vigna del Signore.
Cari fratelli e sorelle di Brindisi, proseguite il cammino intrapreso con questo spirito. Veglino su di voi i vostri Patroni, san Leucio e sant’Oronzo, giunti entrambi nel secondo secolo dall’Oriente per irrigare questa terra con l’acqua viva della Parola di Dio. Le reliquie di san Teodoro d’Amasea, venerate nella Cattedrale di Brindisi, vi ricordino che dare la vita per Cristo è la predica più efficace. San Lorenzo, figlio di questa Città, divenuto, sulle orme di san Francesco d’Assisi, apostolo di pace in un’Europa lacerata da guerre e discordie, vi ottenga il dono di un’autentica fraternità. Tutti vi affido alla protezione della Beata Vergine Maria, Madre della speranza e Stella dell’evangelizzazione. Vi aiuti la Vergine Santa a rimanere nell’amore di Cristo, perché possiate portare frutti abbondanti a gloria di Dio Padre e per la salvezza del mondo. Amen.
Benedetto XVI Omelie 18058