Agostino - Commento Gv 100
100
(Jn 16,43-45)
E' soltanto nella Chiesa cattolica che lo Spirito Santo glorifica veramente il Cristo.
1. Promettendo che verrà lo Spirito Santo, il Signore dice: Egli vi insegnerà tutta la verità, o, come si legge in altri codici: vi guiderà nella pienezza della verità, perché non parlerà da sé, ma dirà quanto ascolterà. Su queste parole del Vangelo, con l'aiuto del Signore, ci siamo soffermati abbastanza; adesso prestate attenzione a quelle che seguono: e vi annunzierà le cose da venire. Non è il caso di soffermarci qui, perché è chiaro; non ci sono difficoltà che richiedano spiegazioni. Ma la frase che aggiunge: Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve lo annunzierà (Jn 16,13-14), non si può trascurare. Egli mi glorificherà, può intendersi nel senso che lo Spirito Santo, riversando la carità nel cuore dei fedeli e facendoli diventare spirituali, avrebbe spiegato loro in qual modo il Figlio è uguale al Padre, quel Figlio che sino allora avevano conosciuto soltanto secondo la carne e che consideravano un uomo come loro. O si può intendere anche nel senso che i discepoli, ricolmi di fiducia e superato ogni timore grazie a quella medesima carità, annunziarono Cristo ovunque, e quindi la sua gloria si è diffusa in tutto il mondo. Dicendo: Egli mi glorificherà, è come se avesse detto: Egli vi libererà da ogni timore e vi darà l'amore, grazie al quale, annunciandomi con tutto l'ardore, espanderete per tutto il mondo l'odore della mia gloria e immortalerete il mio onore. Ciò che essi avrebbero fatto in virtù dello Spirito Santo, disse che lo avrebbe fatto lo Spirito Santo stesso, come risulta anche da quelle parole: Non siete voi che parlate, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi (Mt 10,20). Gli interpreti latini hanno tradotto il verbo greco , sia clarificherà, sia glorificherà; perché il vocabolo greco , da cui deriva il verbo , significa tanto chiarezza quanto gloria. La gloria rende uno famoso e la fama rende uno glorioso, sicché i due termini coincidono. Secondo la definizione di antichi e illustri autori latini, la gloria è la fama accompagnata da lodi che uno gode universalmente. Ora, il fatto che Cristo nel mondo abbia conseguito una simile gloria, non è da considerare un grande vantaggio per Cristo, ma per il mondo, perché lodare chi lo merita non giova a chi è lodato, ma a chi lo loda.
2. C'è anche una gloria falsa, quando chi loda è tratto in inganno per quanto riguarda le cose, gli uomini, o le cose e gli uomini insieme. Ci si inganna circa le cose, quando si crede bene ciò che è male; circa gli uomini, quando si reputa buono uno che è cattivo; circa gli uomini e le cose insieme, quando un vizio si considera virtù, e si loda un uomo, che, buono o cattivo che sia, non ha ciò per cui si loda. Donare i propri beni agli istrioni, non è virtù, ma vizio nefando; eppure voi sapete come nei confronti di costoro corra la fama unita alla lode, come sta scritto: Viene lodato il peccatore nelle sue brame, e chi commette l'iniquità viene benedetto (Ps 9,3). Qui i lodatori non si ingannano quanto alle persone ma quanto alla realtà oggettiva; poiché ciò che essi ritengono buono è cattivo. Quanti poi beneficiano di questa falsa generosità, non sono quali li considerano, ma quali li vedono coloro che li lodano. E c'è chi si finge giusto mentre non lo è, e tutto quanto compie di lodevole e di apparentemente buono agli occhi degli uomini non lo fa per Iddio, cioè per la vera giustizia, ma soltanto perché cerca e vuole la gloria degli uomini. Se coloro, presso i quali egli gode questa fama ricevendone lode, credono che solo per Iddio conduca una vita lodevole, non si ingannano sul fatto in sé, ma sulla persona. Ciò che essi, infatti, ritengono bene, è bene, ma quell'uomo che considerano buono non è buono. E se uno, ad esempio, è considerato buono per la sua competenza nelle arti magiche e si crede che abbia liberato la patria per mezzo di arti che egli assolutamente ignora, se quest'uomo ottiene presso i perversi universale fama e lode, cioè la gloria, i suoi lodatori sbagliano in ogni caso: circa la cosa in sé, perché considerano bene ciò che è male, e circa l'uomo, perché lo credono ciò che non è. In questi tre casi, quindi, la gloria è falsa. Invece, quando uno è giusto in Dio e per Iddio, cioè veramente giusto, e la sua giustizia è il fondamento consistente della fama unita a lode, allora la gloria è vera. Ma non si creda che questa gloria possa rendere felice il giusto; c'è piuttosto da rallegrarsi per quelli che lo lodano, perché dimostrano di saper giudicare rettamente e di amare la giustizia. Quanto più dunque ha giovato la gloria di Cristo Signore, non a lui, ma a coloro ai quali ha giovato la sua morte!
1. 3. Ma non è vera la gloria di Cristo presso gli eretici, anche se presso di loro spesso egli sembra godere fama con lode. Non è vera questa gloria, perché questi si ingannano in ambedue i casi, e ritenendo buono ciò che buono non è, e credendo che Cristo sia ciò che non è. Non è bene credere che il Figlio unigenito non sia uguale al Padre; non è bene credere che il Figlio unigenito di Dio è soltanto uomo e non Dio; non è bene credere che la carne della Verità non è vera carne. Alla prima di queste tre categorie appartengono gli ariani, alla seconda i fotiniani, alla terza i manichei. Siccome nessuna di queste tre asserzioni è buona, e Cristo non è nessuna delle tre cose asserite, essi si ingannano in ogni caso, e non danno a Cristo la vera gloria, benché sembri che presso di loro Cristo goda una universale fama con lode. Decisamente tutti gli eretici, che sarebbe troppo lungo elencare, che non hanno un'idea esatta di Cristo, sono nell'errore appunto perché non giudicano il bene e il male secondo verità. Anche i pagani, che pure in gran numero sono ammiratori di Cristo, sbagliano sotto entrambi gli aspetti, perché, seguendo la loro opinione e non la verità di Dio, dicono che Cristo fu mago. Disprezzano i cristiani come degli ignoranti, mentre esaltano Cristo come un mago, mostrando così che cosa amano: certo non amano Cristo, perché amano ciò che egli non era; di conseguenza si ingannano sotto entrambi gli aspetti: perché è un male essere mago, e perché Cristo, essendo buono, non era un mago. E siccome non è il caso adesso di parlare di tutti quelli che disprezzano e bestemmiano Cristo, in quanto stiamo parlando della gloria con cui egli è stato glorificato nel mondo; diremo che soltanto nella santa Chiesa cattolica lo Spirito Santo lo ha glorificato di vera gloria. Altrove, sia presso gli eretici che presso certi pagani, egli non puo ottenere qui in terra vera gloria, anche dove sembra diffusa la sua fama accompagnata da lode. Ecco come il profeta canta la sua vera gloria nella Chiesa cattolica: Innalzati sopra i cieli, o Dio, e su tutta la terra spandi la tua gloria (Ps 107,6). E siccome lo Spirito Santo doveva venire dopo la sua esaltazione, e glorificarlo, tanto il salmo sacro come l'Unigenito hanno annunciato ciò di cui noi vediamo la realizzazione.
2. 4. Con orecchie cattoliche ascoltate e con intelligenza cattolica intendete queste parole: Egli prenderà del mio per comunicarvelo. Infatti, lo Spirito Santo non è inferiore al Figlio, come hanno pensato certi eretici; come se cioè il Figlio ricevesse dal Padre e lo Spirito Santo dal Figlio secondo determinati gradi di natura. Lungi dai cuori cristiani credere, affermare pensare una simile cosa. Ma egli stesso risolve la difficoltà spiegando il significato della sua affermazione: Tutto ciò che ha il Padre è mio; ecco perché vi ho detto che prenderà del mio e ve lo comunicherà (Jn 16,15). Che volete di più? Lo Spirito Santo, quindi, riceve dal Padre da cui riceve il Figlio, perché in seno alla Trinità il Figlio è nato dal Padre e lo Spirito Santo procede dal Padre. Solamente il Padre non è nato e non procede da alcuno. In che senso l'Unigenito ha detto: Tutto ciò che ha il Padre è mio? Non certamente nel senso che hanno le parole che quel padre, nella parabola, dice al figlio, non unico ma il maggiore dei due: Tu sei sempre con me, e tutto ciò che è mio è tuo (Lc 15,31). Vedremo comunque questo passo con maggior impegno, se il Signore vorrà, quando dovremo commentare le parole che l'Unigenito rivolge al Padre: tutto ciò che è mio è tuo e ciò che è tuo è mio (Jn 17,10). Chiudiamo così questo discorso, perché quel che viene dopo esige un commento a parte.
101
(Jn 16,16-23)
La Chiesa partorisce ora gemendo, un giorno partorirà esultando: ora partorisce pregando, un giorno lodando Dio.
1. 1. Queste parole del Signore: Ancora un poco e non mi vedrete più, e un altro poco e mi vedrete, perché vado al Padre (Jn 16,16), prima che si realizzassero erano talmente oscure per i discepoli, che dalle domande che si facevano a vicenda, dimostravano chiaramente di non averne capito il senso. Il Vangelo infatti prosegue dicendo: Allora, alcuni dei suoi discepoli dissero fra loro: Che è questo che ci dice: Ancora un poco e non mi vedrete più, e un altro poco e mi rivedrete, e vado al Padre? Dicevano perciò: Che cosa è questo poco di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire (Jn 16,17-18). Il motivo che li teneva sospesi erano appunto queste parole: Ancora un poco e non mi vedrete, e un altro poco e mi rivedrete. Siccome precedentemente non aveva detto: un poco, ma aveva detto: Vado al Padre e non mi vedrete più (Jn 16,10), sembro che parlasse loro apertamente, e in proposito non si eran fatta tra loro alcuna domanda. Ciò che ai discepoli era sembrato tanto oscuro e subito divento chiaro, è chiaro ormai anche per noi: poco dopo infatti ci fu la sua passione ed essi non lo videro più; ma poi, dopo un altro breve intervallo di tempo, egli risuscito, e lo videro di nuovo. Il senso della frase: Ormai non mi vedrete, in cui usando l'avverbio ormai vuol far capire che non lo vedranno più, lo abbiamo già spiegato, quando abbiamo sentito il Signore che diceva dello Spirito Santo: redarguirà il mondo quanto a giustizia, perché vado al Padre e non mi vedrete più: cioè i discepoli non avrebbero più visto il Cristo nella sua condizione mortale.
2. 2. Gesù, conoscendo che volevano interrogarlo - prosegue l'evangelista -disse loro: Vi chiedete l'un l'altro che significa ciò che ho detto: Ancora un poco e non mi vedrete, e un altro poco e mi rivedrete. In verità, in verità vi dico: voi piangerete e farete cordoglio, ma il mondo si rallegrerà; voi vi rattristerete, ma la vostra tristezza si muterà in gioia (Jn 16,19-20). Questo può prendersi nel senso che i discepoli si sono rattristati per la morte del Signore, e immediatamente si sono rallegrati per la sua risurrezione; il mondo, invece, con cui sono indicati i nemici che misero a morte Cristo, hanno esultato per la morte di Cristo, proprio quando i discepoli erano nella tristezza. Per mondo si può anche intendere la malvagità di questo mondo, cioè degli amici di questo mondo, secondo quanto l'apostolo Giacomo dice nella sua lettera: Chi vuole essere amico del mondo, si costituisce nemico di Dio (Jc 4,4). E' questa inimicizia contro Dio che non risparmio neppure il di lui Unigenito.
3. 3. Il Signore continua: Quando la donna partorisce è triste perché è giunta la sua ora, ma quando ha partorito il bambino, dimentica l'ambascia per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Anche voi adesso siete tristi, ma io vi rivedro e il vostro cuore gioirà, e la vostra gioia nessuno ve la potrà rapire (Jn 16,21-22). Non mi sembra che questa immagine sia difficile da intendere; essa è trasparente, avendo egli stesso spiegato perché l'abbia scelta. Il travaglio del parto è immagine di tristezza, il parto invece di gaudio, di solito tanto più grande quando nasce un maschio invece di una femmina. Quanto alle parole: la vostra gioia nessuno ve la potrà rapire, dato che Gesù stesso è la loro gioia, sono in perfetta armonia con ciò che dice l'Apostolo: Una volta risuscitato dai morti, Cristo non muore più, e la morte non ha più dominio sopra di lui (Rm 6,9).
4. Fin qui il passo del Vangelo che stiamo spiegando, non presenta alcuna difficoltà; ma le parole che seguono richiedono maggiore attenzione. Che significa infatti: In quel giorno non mi farete più nessuna domanda (Jn 16,23)? Il latino "rogare" non significa solo chiedere per ottenere qualcosa, ma fare una domanda per ottenere una risposta; nel testo greco da cui è tradotto quello latino, c'è un verbo che possiede ambedue i significati, così che l'ambiguità rimane; e ancorché si risolvesse, non si risolverebbe ogni difficoltà. Leggiamo infatti nel Vangelo che, dopo la risurrezione, Cristo fu interrogato e pregato. Al momento in cui stava per ascendere al cielo, i discepoli gli chiesero quando si sarebbe manifestato e quando sarebbe stato ripristinato il regno d'Israele (cf. Ac 1,6); quando poi era ormai in cielo, fu pregato da santo Stefano di ricevere il suo spirito (cf. Ac 7,58). E chi oserà dire o pensare che se Cristo fu pregato quando era ancora sulla terra, non lo si debba pregare ora che sta in cielo? Lo si doveva pregare quando era mortale e non lo si dovrà pregare ora che è immortale? Preghiamolo, carissimi, preghiamolo perché sciolga il nodo di questo problema, facendo luce nei nostri cuori affinché possiamo vedere il senso delle sue parole.
5. Credo che le parole: Io vi rivedro e il vostro cuore gioirà, e la vostra gioia nessuno ve la potrà rapire, non debbano riferirsi al tempo in cui, risorto, mostro ai discepoli la sua carne risuscitata, in modo che essi potessero vederla e toccarla (Jn 20,27); ma piuttosto a quel tempo a proposito del quale aveva detto: Colui che mi ama sarà amato dal Padre mio, e anch'io lo amero e mi manifestero a lui (Jn 14,21). Si, ormai era risorto, ormai si era mostrato ai discepoli nella sua carne, ormai sedeva alla destra del Padre quando il medesimo apostolo Giovanni, autore di questo Vangelo, nella sua lettera così scriveva: Dilettissimi, fin d'ora siamo figli di Dio, e ancora non si è manifestato ciò che saremo: sappiamo che quando egli si manifesterà, saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è (1Jn 3,2). Questa visione non appartiene a questa vita, ma a quella futura; non a questa temporale, ma a quella eterna. Questa è la vita eterna, -afferma colui che è la vita -che conoscano te unico vero Dio, e il tuo inviato, Gesù Cristo (Jn 17,3). Di questa visione e di questa conoscenza l'Apostolo dice: Vediamo ora come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in maniera imperfetta, mentre allora conoscero come sono conosciuto (1Co 13,12-13). Questo che è il frutto del suo travaglio, la Chiesa lo partorisce al presente nel desiderio, allora lo partorirà nella visione; ora gemendo, allora esultando; ora pregando, allora lodando Dio. E' appunto maschio, perché a questo frutto della contemplazione è ordinato tutto l'impegno dell'azione; questo solo, infatti, è libero in quanto viene cercato per se stesso, e non è subordinato ad altro. Ad esso è ordinata l'azione: infatti tutto ciò che di buono si compie si riferisce a questo, perché in ordine a questo si compie; esso invece non è ordinato ad altro: si raggiunge e si possiede solo per se stesso. Esso, dunque, rappresenta il fine che soddisfa tutte le nostre aspirazioni. Sarà perciò un fine eterno, perché non ci potrà bastare che un fine senza fine. E' quello che fu ispirato a Filippo, quando esclamo: Mostraci il Padre, e ci basta (Jn 14,8). E il Figlio promise di mostrarsi assieme al Padre, rispondendo: Non credi che io sono nel Padre e che il Padre è in me? (Jn 14,10). E' precisamente di questa gioia, che sazierà ogni nostro desiderio, che il Signore ha voluto parlarci dicendo: La vostra gioia nessuno ve la potrà rapire.
2. 6. Tenendo conto di questo, credo si possano intendere meglio anche le parole precedenti: Ancora un poco e non mi vedrete più, e un altro poco e mi vedrete. E' breve infatti tutto questo spazio in cui si svolge il tempo presente; per cui il medesimo evangelista nella sua lettera dice: E' l'ultima ora (1Jn 2,18). perciò le parole che egli aggiunge perché vado al Padre, vanno riferite alla frase precedente: ancora un poco e non mi vedrete più, e non a quella successiva: e un altro poco e mi vedrete. Si, perché, andando al Padre, egli si sarebbe sottratto ai loro sguardi. E perciò non disse questo riferendosi al fatto che sarebbe morto e che quindi essi non lo avrebbero potuto vedere se non dopo la risurrezione; ma in quanto essi non lo avrebbero visto perché sarebbe andato al Padre; cosa che fece quando, risorto e rimasto con loro quaranta giorni, sali al cielo (cf. Ac 1,3 Ac 1,9). A quelli dunque, che allora lo vedevano fisicamente, disse: Ancora un poco e non mi vedrete più, perché sarebbe andato al Padre, e in seguito non lo avrebbero più visto nella carne mortale come lo vedevano quando parlava cosi. Le parole poi che aggiunse: e un altro poco e mi vedrete, sono una promessa per tutta la Chiesa, così come lo sono le altre: Ecco, io sono con voi sino alla fine del mondo (Mt 28,20). Il Signore non ritarda il compimento della sua promessa: ancora un poco e lo vedremo, lassù dove non avremo più nulla da chiedergli, più nessuna domanda da fargli, perché non rimarrà alcun desiderio insoddisfatto, nulla di nascosto da cercare. Questo breve intervallo di tempo a noi sembra lungo, perché dura ancora; allorché sarà finito, ci accorgeremo quanto sia stato breve. La nostra gioia, quindi, non sia come quella del mondo, il quale, come dice il Signore, godrà; tuttavia nel travaglio di questo desiderio, non dobbiamo essere tristi senza gioia, ma, come dice l'Apostolo, dobbiamo essere gioiosi nella speranza, pazienti nella tribolazione (Rm 12,12). Del resto, anche la donna in travaglio, alla quale siamo paragonati, gioisce per il bambino che attende più di quanto non sia triste per il suo dolore presente. Sia questa la conclusione del nostro discorso. Le parole che seguono pongono una questione assai spinosa, e non vogliamo coartarle nei limiti del tempo che ci rimane, per poterle spiegare, se il Signore vorrà, con più calma.
102
(Jn 16,23-28)
Noi amiamo Dio perché per primo egli ci ha amati. Cioè, noi amiamo perché siamo amati. Insomma, amare Dio è dono di Dio.
1. Ora dobbiamo spiegare quelle parole del Signore: In verità, in verità vi dico: qualunque cosa chiederete al Padre nel nome mio, egli ve la darà (Jn 16,23). Nei precedenti commenti a questo discorso del Signore, abbiamo osservato, a proposito di quelli che domandano qualcosa al Padre nel nome di Cristo e non l'ottengono, che non è chiedere nel nome del Salvatore ciò che si chiede contro l'ordine della salvezza. Infatti l'espressione: nel mio nome, non è da prendere secondo il suono materiale delle parole, ma nel senso vero e reale che il nome di Cristo contiene e annuncia. Chi dunque ha di Cristo un'idea che non corrisponde alla realtà dell'unigenito Figlio di Dio, non chiede nel nome di lui, anche se pronuncia le lettere e le sillabe che compongono il nome di Cristo, perché quando si mette a pregare chiede nel nome di colui che ha in testa. Chi invece ha di Cristo un'idea conforme a verità, chiede nel nome di lui, e se la sua domanda non è contraria alla sua eterna salvezza, egli ottiene ciò che chiede. Tuttavia ottiene quando deve ottenere. Vi sono infatti delle cose che non vengono negate, ma vengono differite per essere concesse al momento opportuno. Così in quelle parole: egli ve la darà, dobbiamo intendere quei benefici che sono destinati a coloro che pregano rettamente. Tutti i giusti vengono esauditi quando domandano a proprio vantaggio, non quando domandano in favore dei loro amici o nemici o di qualsiasi altro: il Signore non dice infatti genericamente darà, ma: vi darà.
2. 2. Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e riceverete, affinché la vostra gioia sia completa (Jn 16,24). Questa gioia completa di cui parla, non è certamente una gioia carnale, ma è la gioia spirituale; e sarà completa solo quando ad essa non ci sarà più nulla da aggiungere. Qualunque cosa dunque si chiede in ordine al conseguimento di questa gioia, la si deve chiedere nel nome di Cristo, se davvero comprendiamo il valore della grazia divina, se davvero chiediamo la vita beata. Chiedere altra cosa, è chiedere nulla; non perché ogni altra cosa sia nulla, ma perché qualunque altra cosa si possa desiderare è, in confronto a questa, un nulla. Non si può certo dire che l'uomo come tale sia nulla, anche se l'Apostolo dice: Se uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla... (Ga 6,3); tuttavia in confronto con l'uomo spirituale, che sa di essere quello che è per grazia di Dio, chiunque aspira a cose vane, è nulla. E' questo probabilmente il senso della frase: In verità, in verità vi dico: qualunque cosa domanderete al Padre in nome mio, ve la darà, se con l'espressione qualunque cosa si intende non qualsiasi cosa, ma ciò che, nei confronti della beatitudine eterna, abbia qualche importanza. Ciò che segue: Finora non avete chiesto nulla nel mio nome, si può intendere in due modi: nel senso che essi non avevano chiesto nulla sino allora in nome suo, perché ancora non avevano conosciuto il suo nome come deve essere conosciuto; oppure nel senso che quanto sino allora avevano chiesto era nulla in confronto alla vita eterna che dovevano chiedere. E' dunque per impegnarli a chiedere nel suo nome, non ciò che è nulla, ma la gioia completa (dato che chiedere qualcosa di diverso, è come chiedere nulla) che li esorta dicendo: Chiedete e riceverete, affinché la vostra gioia sia completa; cioè a dire: Chiedete nel mio nome ciò che può rendere perfetta la vostra gioia, e l'otterrete. La divina misericordia, infatti, non defrauderà i suoi eletti che sono perseveranti nel chiedere questo bene.
1. 3. Vi ho parlato di queste cose in parabole: viene l'ora in cui non vi parlero più in parabole, ma vi intratterro apertamente sul Padre (Jn 16,25). Starei per dire che quest'ora di cui parla è la vita futura, nella quale lo vedremo svelatamente, faccia a faccia, come dice san Paolo; di modo che le parole: Vi ho parlato di queste cose in parabole, coincidono con quelle dell'Apostolo stesso: Vediamo adesso, in maniera oscura, come in uno specchio (1Co 13,12). Mentre la frase: vi intratterro sul Padre mio significa che è per mezzo del Figlio che si vedrà il Padre, come egli stesso altrove dice: Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo (Mt 11,27). Ma questo senso apparentemente è in contrasto con quello che segue: In quel giorno, voi chiederete nel mio nome (Jn 16,26). Che cosa potremo chiedere infatti nella vita futura, allorché saremo giunti nel regno, dove saremo somiglianti a lui poiché lo vedremo così com'è (cf. 1Jn 3,2), quando il nostro desiderio sarà saziato nell'abbondanza di ogni bene (Ps 102,5)? Come appunto dice anche un altro salmo: Saro saziato, quando si manifesterà la tua gloria (Ps 16,15). Chiedere è segno di indigenza, che scomparirà quando ogni nostro desiderio sarà saziato.
2. 4. Quindi, per quanto posso capire, non rimane altro se non intendere le parole di Gesù nel senso che egli promise ai suoi discepoli di farli diventare da uomini carnali e dominati dai sensi quali erano, uomini guidati dallo Spirito; quantunque non ancora in quella condizione in cui saremo quando avremo anche un corpo spirituale, ma quella in cui era colui che diceva: Parliamo un linguaggio di sapienza con i perfetti (1Co 2,6); e aggiungeva: Non ho potuto parlare a voi come a degli spirituali, ma come a persone carnali (1Co 3,1); e ancora: Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo ma lo Spirito che viene da Dio, affinché possiamo conoscere le cose che da Dio ci sono state graziosamente donate. E di queste cose noi parliamo non con discorsi insegnati dall'umana sapienza, ma con discorsi insegnati dallo Spirito, agli spirituali adattando cose spirituali. L'uomo animale pero non accoglie le cose dello Spirito di Dio (1Co 2,12-14). Ora, essendo l'uomo "animale" incapace d'intendere le cose che sono dello Spirito di Dio, quanto si riferisce alla natura di Dio lo concepisce come qualcosa di corporeo, estesissimo ed immenso quanto si vuole, luminoso e bello quanto si vuole, ma sempre corporeo, appunto perché incapace di concepire altre cose che non siano corporali. E per questo, tutto ciò che la Sapienza dice della sostanza incorporea e immutabile di Dio, sono per lui soltanto delle parabole; e non perché le consideri soltanto delle parabole, ma perché ha la stessa maniera di pensare di coloro che ascoltano le parabole senza comprenderle. Ma quando da uomo spirituale comincia a giudicare ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno, anche se in questa vita conosce ancora oscuramente e parzialmente, egli tuttavia, senza bisogno di sensi o di immagini che riflettano in qualche modo le sembianze corporali, validamente guidato dall'intelligenza spirituale, comprende che Dio non è corpo bensi spirito; così che, quando ascolta il Figlio che parla apertamente del Padre, si rende conto che colui che parla è della medesima sostanza del Padre. Allora quelli che chiedono, chiedono nel suo nome, perché al sentire il suo nome, non pensano ad una cosa diversa da quella che questo nome significa; né, per leggerezza o debolezza di mente, immaginano che il Padre sia in un determinato luogo e il Figlio in un altro e davanti al Padre, a pregarlo per noi, e che quindi ciascuno occupi un determinato posto nello spazio. Né immaginano che il Verbo dica per noi delle parole a colui del quale egli è Verbo, come se vi fosse una certa distanza tra la bocca di chi parla e l'orecchio di chi ascolta; ed altre cose simili, che gli uomini guidati dai sensi o anche dalla pura ragione si costruiscono nella loro fantasia. Gli uomini guidati dallo Spirito, invece, quando pensano a Dio, se alla loro mente si presentano immagini corporali, subito le respingono e le cacciano via dai loro occhi interiori come mosche importune, e docilmente accolgono quella luce purissima, alla cui testimonianza e al cui giudizio si persuadono dell'assoluta falsità delle immagini corporee che si presentano al loro sguardo interiore. Così possono rendersi conto che nostro Signore Gesù Cristo, in quanto uomo intercede per noi presso il Padre, in quanto Dio ci esaudisce insieme al Padre. E questo credo sia il senso delle sue parole: E non vi dico che io preghero il Padre per voi (Jn 16,26). Solamente l'occhio spirituale dell'anima può giungere ad intendere che il Figlio non prega il Padre, ma, insieme, e Padre e Figlio esaudiscono quelli che pregano.
1. 5. Lo stesso Padre infatti vi ama, perché voi mi avete amato (Jn 16,27). Egli ci ama perché noi lo amiamo, o non è invece che noi lo amiamo perché egli ci ama? Ci risponda, nella sua lettera, lo stesso evangelista: Noi amiamo Dio - egli dice -perché egli ci ha amato per primo (1Jn 4,10). E' dunque perché siamo stati amati che noi possiamo amarlo. Amare Dio è sicuramente un dono di Dio. E' lui che amandoci quando noi non lo amavamo, ci ha dato di amarlo. Siamo stati amati quando eravamo tutt'altro che amabili, affinché ci fosse in noi qualcosa che potesse piacergli. E non ameremmo il Figlio se non amassimo anche il Padre. Il Padre ci ama perché noi amiamo il Figlio; ma è dal Padre e dal Figlio che abbiamo ricevuto la capacità di amare e il Padre e il Figlio: lo Spirito di entrambi ha riversato nei nostri cuori la carità (Rm 5,5), per cui, mediante lo Spirito amiamo il Padre e il Figlio, e amiamo lo Spirito stesso insieme al Padre e al Figlio. E così possiamo ben dire che questo nostro amore filiale con cui rendiamo onore a Dio, è opera di Dio, il quale vide che era buono; e quindi egli ha amato ciò che ha fatto. Ma non avrebbe operato in noi nulla che meritasse il suo amore, se non ci avesse amati prima di operare alcunché.
2. 6. E avete creduto che io sono uscito da Dio. Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; adesso lascio il mondo e torno al Padre (Jn 16,27-28). Senza dubbio lo abbiamo creduto. Né deve sembrarci incredibile che, venendo nel mondo, egli sia uscito dal Padre senza abbandonare il Padre, e, lasciando il mondo, torni al Padre senza abbandonare il mondo. E' uscito dal Padre perché è dal Padre, è venuto nel mondo, perché ha mostrato al mondo il corpo che ha preso dalla Vergine. Ha lasciato il mondo con la sua presenza corporale, è tornato al Padre con l'ascensione della sua umanità, ma senza abbandonare il mondo che egli guida con la sua presenza.
103
(Jn 16,29-33)
Bisogna aver fiducia nell'annuncio di Cristo. Egli, infatti, non avrebbe vinto il mondo, se il mondo potesse vincere le sue membra.
1. In tutto il Vangelo risulta da molti indizi come fossero i discepoli di Cristo quando egli, prima della passione, parlava di cose grandi con loro che erano piccoli. Ma ne parlava con un linguaggio adattato, cosicché anch'essi, pur essendo piccoli, sentissero parlare di quelle cose grandi; non avendo infatti ricevuto ancora lo Spirito Santo, come lo ricevettero dopo la risurrezione quando il Signore lo alito su di loro e quando scese dall'alto, avevano il gusto delle cose umane più che non di quelle divine. E perciò dissero ciò che ora abbiamo sentito leggere: Dicono i suoi discepoli: Ecco, adesso parli apertamente e non dici alcuna parabola. Ora sappiamo che sai tutto, e non hai bisogno che qualcuno ti interroghi: perciò crediamo che sei uscito da Dio (Jn 16,29-30). Il Signore poco prima aveva detto: Vi ho parlato di queste cose in parabole: viene l'ora in cui non vi parlero più in parabole. Come mai allora essi dicono: Ecco, adesso parli apertamente e non dici alcuna parabola? Forse era già venuta l'ora in cui non avrebbe più parlato loro in parabole? Ma che non fosse ancora venuta quell'ora, lo dimostra il seguito delle sue parole, che sono queste: Vi ho parlato di queste cose in parabole: viene l'ora in cui non vi parlero più in parabole, ma vi intratterro apertamente sul Padre mio. In quel giorno voi chiederete nel mio nome, e non vi dico che io preghero il Padre per voi: lo stesso Padre, infatti, vi ama, perché voi mi avete amato e avete creduto che io sono uscito da Dio. Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; adesso lascio il mondo e torno al Padre (Jn 16,25-28). Con queste parole chiaramente annuncia l'ora in cui non parlerà più in parabole, ma li intratterrà apertamente sul Padre; e aggiunge che in quell'ora essi chiederanno nel suo nome, mentre egli non pregherà il Padre per loro dato che il Padre stesso li ama, in quanto essi hanno amato Cristo e hanno creduto che egli è uscito dal Padre ed è venuto nel mondo, e che di nuovo lascerà il mondo per tornare al Padre. Perché dunque, di fronte alla sua promessa- dell'ora in cui non parlerà più in parabole, essi dicono: Ecco, adesso parli apertamente e non dici alcuna parabola, se non perché le sue parole sono parabole soltanto per coloro che non le intendono, ed essi le intendevano talmente poco da non rendersi neppure conto che non le intendevano? Essi erano ancora pargoli, incapaci di giudicare spiritualmente le cose che ascoltavano e che si riferivano, non al corpo, ma allo spirito.
2. 2. Sicché, facendo constatare la loro età ancora infantile e debole secondo l'uomo interiore, Gesù risponde loro: Adesso credete? Ecco, viene l'ora, anzi è venuta, in cui vi disperderete, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Padre è con me (Jn 16,31-32). Poco prima aveva detto: Lascio il mondo e torno al Padre, e ora dice: Il Padre è con me. Come si può andare da uno con il quale già si è? Una tale affermazione è parola per chi intende, parabola per chi non la intende; in questa maniera, peraltro, non rifiuta totalmente ciò che i piccoli non capiscono, e, sebbene non possa offrir loro solido nutrimento, perché non ne sono ancora capaci, almeno non li priva di latte. Grazie a questo alimento i discepoli riconoscevano che egli sapeva tutto e che non v'era bisogno che alcuno lo interrogasse. Pero ci si può chiedere perché hanno detto cosi. Parrebbe che essi piuttosto avrebbero dovuto dire: Non hai bisogno d'interrogare nessuno; e non come hanno detto: Non hai bisogno che qualcuno ti interroghi. Avevano detto: Ora sappiamo che sai tutto. E' normale che venga interrogato chi sa tutto da chi non sa, affinché l'interrogante abbia le risposte che vuole da chi sa tutto, e non sia invece colui che sa tutto a porre delle domande come se avesse bisogno di apprendere qualcosa. Perché dunque i discepoli, sapendo che il Maestro sapeva tutto, invece di dire, come a noi pare: Non hai bisogno di interrogare nessuno, hanno preferito dire: Non hai bisogno che qualcuno ti interroghi? O meglio, come ha potuto verificarsi l'una e l'altra cosa: che il Signore li ha interrogati ed è stato da loro interrogato? La questione si risolve facilmente, in quanto erano loro, non lui, che avevano bisogno di interrogarlo e di essere interrogati. Egli, infatti, non li interrogava per apprendere qualcosa da loro, ma piuttosto per insegnare loro qualcosa. E quelli che lo interrogavano per apprendere da lui, erano loro che avevano bisogno di imparare da colui che sapeva tutto. E' chiaro dunque che egli non aveva bisogno che qualcuno lo interrogasse. Quando al contrario veniamo interrogati da chi vuol sapere qualcosa da noi, è dalle sue domande che noi apprendiamo che cosa vuole imparare; abbiamo dunque bisogno di essere interrogati da parte di coloro cui vogliamo insegnare qualcosa, per poter conoscere le domande alle quali dobbiamo rispondere; mentre il Signore, che sapeva tutto, non aveva bisogno neppure di questo: non aveva bisogno delle loro domande per conoscere quello che volevano sapere, in quanto, già prima di essere interrogato, conosceva i desideri di quelli che volevano interrogarlo. E se accettava di essere interrogato, era per manifestare, sia a quanti erano presenti allora sia a quanti avrebbero più tardi ascoltato o letto le sue parole, gli atteggiamenti di quelli che lo interrogavano, perché in tal modo venissero a conoscere gli ostacoli che dovevano sormontare, e i lenti passi con cui ci si avvicinava a lui. Ma, mentre per lui che era Dio non costituiva grande cosa prevedere i pensieri umani e quindi non aveva bisogno di essere interrogato, lo era invece per quei piccoli, tanto che esclamarono: Per questo crediamo che tu sei uscito da Dio. Cosa invece ben più grande - per arrivare a comprendere la quale voleva che si sforzassero di crescere - fu che, avendo i discepoli ammesso con tutta verità: Sei uscito da Dio, il Signore affermo: Il Padre è con me; affinché, pensando al Figlio uscito dal Padre, non pensassero che si fosse allontanato da lui.
3. Il Signore conclude questo discorso così lungo e così importante dicendo: Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Nel mondo avrete tribolazione, ma abbiate fiducia, io ho vinto il mondo! (Jn 16,33). Questa tribolazione sarebbe iniziata in quel modo da lui annunciato quando, per dimostrare che essi, bambini com'erano, incapaci ancora di intendere e di discernere una cosa da un'altra, consideravano parabola tutto quanto egli aveva esposto di grande e di divino, disse: Adesso credete? Ecco, viene l'ora, anzi è venuta, in cui vi disperderete, ciascuno per conto suo. Tale l'inizio della tribolazione, che pero non sarebbe continuata con la medesima violenza. Se infatti aggiunge: Mi lascerete solo, è perché nelle tribolazioni che il mondo infliggerà loro dopo la sua ascensione, non si abbattano al punto da abbandonarlo, e li esorta a rimanere in lui per avere pace in lui. Quando il Signore fu catturato, i discepoli lo abbandonarono, non soltanto materialmente, ma anche spiritualmente, rinnegando la fede. A questo si riferiscono le parole: Adesso credete? Ecco, viene l'ora, anzi è venuta, in cui vi disperderete, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo; come a dire: Allora sarete talmente sconvolti che abbandonerete colui nel quale ora credete. Caddero, infatti, in tale disperazione che giunsero alla morte, se così si può dire, della loro fede anteriore. Ciò appare evidente in Cleofa, il discepolo che parlando, senza saperlo, con il Signore risorto, nel raccontargli quanto era accaduto, gli dice: Noi speravamo che fosse colui che deve redimere Israele (Lc 24,21). Ecco, fino a che punto lo avevano abbandonato: perdendo anche quel po' di fede con cui prima avevano creduto. Invece, nelle tribolazioni che dovettero subire dopo la risurrezione del Signore, siccome avevano ricevuto lo Spirito Santo, non lo abbandonarono; e benché fuggissero di città in città, non fuggirono lontano da lui, ma in mezzo alle tribolazioni che ebbero nel mondo, pur di avere in lui la pace, non furono disertori da lui ma posero in lui il loro rifugio. Una volta ricevuto lo Spirito Santo, si verifico in loro quanto il Signore disse: Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo. Essi ebbero fiducia e vinsero. In grazia di chi vinsero, se non in grazia di lui? Egli non avrebbe vinto il mondo, se il mondo avesse sconfitto le sue membra. Per questo l'Apostolo dice: Siano rese grazie a Dio che ci concede la vittoria; e subito aggiunge: per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo (1Co 15,57), il quale aveva detto ai suoi: Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo.
Agostino - Commento Gv 100