Agostino Salmi 38
38 Ps 38
ESPOSIZIONE
Discorso
1. [v 1.] Il titolo di questo salmo, che abbiamo ora cantato e di cui abbiamo intrapreso la spiegazione, è Per la fine, per Iditun, cantico di David. Debbono quindi esser seguite ed ascoltate le parole di uno che è chiamato Iditun; e se ciascuno di noi potrebbe essere Iditun, in ciò che canta trova e ascolta se stesso. Poiché vedrai chi fu chiamato Iditun secondo la primitiva origine degli uomini; ma ascoltiamo come si interpreta questo nome, e nell’interpretazione stessa del nome cerchiamo l’intelligenza della verità. Orbene, come abbiamo potuto trovare ricercando in quei nomi che per noi sono stati tradotti dall’ebraico in latino da parte di uomini dediti allo studio delle Scritture Divine, Iditun significa: Colui che li attraversa (Hieron Nom. hebr., p. 48, 22). Chi è dunque questi che attraversa? e chi attraversa? perché non è detto semplicemente “colui che attraversa”, ma: “Colui che li attraversa”. Attraversando canta, oppure cantando attraversa? Sia che attraversando canti, o che cantando passi, noi abbiamo comunque cantato or ora il cantico di colui che passa; se anche noi siamo transeunti, lo vedrà Dio, al quale abbiamo cantato. Ma se qualcuno attraversando ha cantato, si rallegri di essere ciò che ha cantato; chi invece ha cantato tenendosi ancora stretto alla terra, desideri di essere ciò che ha cantato. Infatti è appunto coloro che sono stretti alla terra, che sono curvi sulla terra, che pensano alle cose infime e ripongono la loro speranza nelle cose transeunti, ad essere oltrepassati da questi che è chiamato Colui che li oltrepassa. Chi ha oltrepassato, infatti, se non coloro che restano a terra?
La scala della buona volontà.
2. Sapete che alcuni salmi sono chiamati “Cantico dei gradi”; e certo il significato è evidente nella lingua greca, perché è detto “”. sono infatti i gradini, ma ascendenti, non discendenti. Il latino, non possedendo un termine particolare, usa il termine generico; e poiché dice gradino, rimane ambiguo se si tratti di gradini ascendenti o discendenti. Ma poiché non vi sono parole né discorsi, la cui voce non si faccia sentire (Cf. 18, 4), la parola che viene prima suggerisce quella che viene dopo, e rende certo nell’una quello che era ambiguo nell’altra. A quel modo, dunque, per cui là uno canta ascendendo, così anche qui attraversando. Ma questa ascensione e questo transito non si effettuano con i piedi, con le scale o con le ali; e tuttavia, se poni mente all’uomo interiore, son fatti e con i piedi e con le scale e con le ali. Se non fossero fatti con i piedi, perché l’uomo interiore direbbe: Non mi venga addosso il piede della superbia (Ps 35,12)? Se non fossero fatti con le scale, che cos’è quella che vide Giacobbe, e sulla quale salivano e discendevano gli angeli (Cf. Gn 28,12)? Se non avvenissero con le ali, chi potrebbe dire: Chi mi darà le ali come le colombe, e volerò e mi riposerò? (Ps 54,7) Ma nelle cose corporali, una cosa sono i piedi, un’altra le scale ed un’altra ancora le ali. Nell’intimo invece, i piedi, le scale, le ali, sono gli affetti della buona volontà. Con questi camminiamo, ascendiamo, voliamo. Se dunque qualcuno ascolta questo che salta e decide di imitarlo, non cerchi di attraversare fossi con l’agilità del corpo, oppure di sorvolare saltando qualche altura; dico questo per ciò che attiene ai corpi, poiché sta di fatto che attraversa anche i fossi. Arse dal fuoco e scavate, le cose che al rimprovero del tuo volto periranno (Ps 79,17). Quali sono queste cose arse dal fuoco e scavate che al rimprovero del Signore periranno, se non i peccati? Sono arse dal fuoco le cose che ha operato malamente l’ardente cupidigia; e sono scavate quelle che opera nel male una supina paura, poiché tutti i peccati derivano o dalla cupidigia o dal timore. Passi sopra dunque costui a tutte quelle cose che potrebbero trattenerlo a terra: innalzi le sue scale, dispieghi le sue ali, veda ognuno se qui si riconosce; molti anzi si riconoscono nella grazia del Signore, coloro che hanno già a vile il mondo e tutte le cose che nel mondo dànno piacere, che scelgono di vivere rettamente e, finché son qui, vivono nelle gioie spirituali. E queste gioie, donde verranno a coloro che ancora camminano sulla terra, se non dalle parole divine, dal verbo di Dio, dalle parabole delle Scritture interpretate ed esaminate, dalla dolcezza della scoperta, preceduta dalla fatica della ricerca? Nei libri vi sono infatti alcune gioie sante e buone. Non ve ne sono nell’oro e nell’argento, nei banchetti e nella lussuria, nella caccia e nella pesca, nel circo e nei giochi, nelle finzìoni teatrali, nel cercare e nel conseguire onori rovinosi; né vi è vera gioia in tutte queste cose, e non ve n’è in tali libri; anzi l’anima che passa oltre tutte queste vili cose, e che si è dilettata in queste cose, dica, poiché dice il vero e lo dice con sicurezza: Mi hanno narrato gli iniqui cose dilettevoli, ma non come la tua legge, Signore (Ps 118,83). Venga ancora questo Iditun, passi attraverso coloro che si dilettano nelle cose infime, e si diletti in queste, goda nella parola di Dio, nella gioia della legge dell’Altissimo. Ma che cosa diciamo? Dobbiamo di qui passare altrove, oppure fin qui deve passare colui che desidera passare? Ascoltiamo piuttosto le sue parole, poiché costui che va oltre mi sembra infatti aver già dimorato nella parola di Dio, ed avere ivi appreso le cose che udremo.
Seguire la verità interiore.
3. [v 2.] Io dissi: Custodirò le mie vie, per non peccare nella mia lingua. Tu pensi che leggendo, discutendo, predicando, ammonendo, rimproverando, esortando, dedicandosi alle opere, trovandosi ad affrontare le umane difficoltà, l’uomo, che agisce tra gli uomini, anche se già passa oltre coloro che non si dilettano in queste cose (perché è difficile che alcuno non cada e non pecchi con la lingua, e perché chi non ha peccato con la lingua, come sta scritto, costui è un uomo perfetto (Jc 3,2)) abbia detto qualcosa di cui deve forse pentirsi, e qualcosa gli sia caduta dalla bocca che vorrebbe richiamare indietro e non può. Non a caso la lingua sta in un luogo umido, e per questo facilmente può scivolare. Vedendo dunque quanto è difficile che, trovandosi l’uomo nella necessità di parlare, non dica nel parlare qualcosa che avrebbe preferito non dire, preso da tedio per questi peccati, ha cercato di conseguenza di evitarli. Andando oltre sopporta questa difficoltà. Non mi giudichi chi ancora non passa oltre: vi si accinga e sperimenterà quanto dico; allora infatti sarà insieme testimone e figlio della verità. Essendogli dunque capitate queste cose, ha deciso di non parlare, per non dire qualcosa di cui dovrebbe pentirsi. Questo esprimono appunto le prime sue parole: Io dissi: Custodirò le mie vie, per non peccare nella mia lingua. Custodisci dunque le tue vie, o Iditun, e non peccare nella tua lingua; stai bene attento a quanto dirai, scruta, osserva l’interiore verità, ed in questo modo rivolgiti all’ascoltatore esterno. Queste cose tu cerchi soprattutto nel turbamento delle cose umane, negli affanni dell’anima, mentre la debolezza stessa dell’anima, aggravata dal corpo che si corrompe, vuole ascoltare e parlare, ascoltare nell’intimo e parlare all’esterno; e a volte, turbata dal desiderio di parlare, viene meno nel trascurare la conoscenza; e dice allora cose che sarebbe meglio non dire. Contro tutto questo il miglior rimedio è il silenzio. Ecco un peccatore, colpevole in qualche punto particolare, come la superbia e l’invidia; ode colui che parla nel passare, coglie le parole e subito tende un laccio; è difficile che non trovi qualcosa che è stato detto come non doveva; e nell’udire non perdona, ma calunnia nell’invidia. Contro costoro questo Iditun, attraversandoli aveva scelto il silenzio; perciò ha cantato: Ho detto: Custodirò le mie vie, per non peccare nella mia lingua. Finché sono esposto ai calunniatori, e, se non preso, posso esser sorpreso, Custodirò le mie vie, per non peccare nella mia lingua. Anche se sarò andato oltre i piaceri terreni, anche se gli affetti effimeri delle cose temporali non mi avranno sedotto, anche se ormai disprezzo queste infime cose e mi innalzerò a cose migliori, tuttavia anche in tali cose migliori mi basta la gioia dell’intelligenza al cospetto di Dio, che necessità ho di dire cose che possono essere captate, e dare adito ai calunniatori? Ho detto dunque: Custodirò le mie vie, per non peccare nella mia lingua. Ho posto una custodia alla mia bocca. Perché ha fatto questo? A cagione dei pii, degli zelanti, dei fedeli e dei santi? Niente affatto. Costoro odono in tal modo da lodare ciò che approvano e quello che disapprovano fra le molte cose che lodano, si dispongono a perdonarlo piuttosto che a tessere calunnie. Per chi dunque vuoi custodire le tue vie, affinché la tua lingua non pecchi, e poni una custodia alla tua bocca? Ascolta: Mentre il peccatore sta contro di me. Non sta dinanzi a me, ma sta contro di me. Che dire, infine, per soddisfarlo? Parlo in modo carnale delle cose spirituali a chi dal di fuori vede e ascolta, ma nell’intimo è sordo e cieco. L’uomo animale, infatti, non intende le cose che sono dello Spirito di Dio (Cf. 1Co 2,14). Perché se non fosse uomo animale, come calunnierebbe? Beato colui che spiega la parola all’orecchio che ascolta (Cf. Si 25,12), non all’orecchio del peccatore che sta contro di lui. Perché molti di tal genere gli stavano attorno ed intorno fremevano, quando egli fu condotto come pecora al macello, e non aprì la sua bocca come l’agnello sta muto dinanzi al tosatore (Cf. Is 53,7). Che dire ai superbi, ai sediziosi, ai calunniatori, ai litigiosi, ai chiacchieroni? Che dire di santo e di pio, e che, sul tema della religione, li attraversi, quando, a coloro stessi che lo ascoltavano volentieri, desiderosi di apprendere, anelanti al cibo della verità che avidamente ricevevano, anche il Signore stesso dice: Ho ancora molte cose da dirvi, ma voi non potete ora sopportarle (Jn 16,12)? E l’Apostolo: Non ho potuto parlarvi come a uomini spirituali, ma come a uomini carnali, a uomini cioè non da abbandonare, ma da nutrire. Continua infatti: Come a piccoli in Cristo vi ho dato da bere il latte, non il cibo; non ne sareste stati ancora capaci. E dice inoltre: ma neppure lo potete ora (1Co 3,1 1Co 2). Non affrettarti dunque a voler udire ciò che non comprendi, ma cresci per poterlo capire. Così parliamo al bambino, che deve essere nutrito nel seno della madre Chiesa con il latte della pietà, onde divenga capace di mangiare il cibo alla mensa del Signore. Ma che cosa dirò di tal genere al peccatore che sta contro di me, e che si crede o si finge capace di cose che non intende; tanto che quando gliele avrò dette ed egli non avrà capito, non crederà di non aver capito, ma crederà che io sia stato incapace di spiegare? Dunque a cagione di questo peccatore che sta contro di me, ho posto una custodia alla mia bocca.
Dare e ricevere.
4. [v 3.] E che cosa aggiunge? Divenni sordo e fui umiliato, e tacqui nelle cose buone. Affronta infatti difficoltà costui che passa traverso un certo grado, al quale già è salito; e cerca il modo di passare oltre, per evitare questa difficoltà. Temevo di peccare, tanto da non parlare e da impormi il silenzio: questo avevo detto: Custodirò le mie vie, per non peccare nella mia lingua, e mentre temo di parlare per non peccare, divenni sordo e fui umiliato, e tacqui sulle cose buone. Mentre troppo temo, per non dire qualcosa di male, ho taciuto anche ogni cosa buona. Divenni sordo e fui umiliato, e tacqui nelle cose buone. Come potevo dire cose buone, se non perché le udivo? Perché al mio udito darai esultanza e letizia (Ps 50,10). E l’amico dello sposo sta in piedi, e lo ascolta, ed esulta di gioia non per la voce sua, ma per quella dello sposo (Cf. Jn 3,29). Per dire la verità, ascolta ciò che Egli dice. Infatti chi dice menzogna, parla del suo (Cf. Jn 8,44). Costui ha sofferto dunque qualcosa di triste e di molesto; ed in questa sua confessione di ciò che ha sofferto, invita a stare in guardia, non ad imitarlo. Temendo infatti troppo, come ho detto, di dire cose non buone, si è ripromesso di non dire nulla, neppure ciò che è buono; e poiché ha deciso di tacere, ha cominciato a non ascoltare. Se infatti sei di passaggio, te ne stai ad aspettare di udire da Dio ciò che devi dire agli uomini; tra la ricchezza di Dio e la povertà di chi cerca che cosa udire, te ne corri attraversando, per potere e da lui ascoltare, e a quello dire: se scegli di non parlare a costui, non meriterai di udire nulla da Dio: disprezzi il povero e sei disprezzato dal ricco. Ti sei dimenticato che sei un servo che il Signore ha costituito sopra la sua famiglia, per distribuire il cibo a coloro che sono servi come te (Cf. Mt 24,45)? Cosa chiedi dunque di ricevere, tu che sei pigro nel donare? Giustamente, dunque, poiché non hai voluto dire ciò che avevi ricevuto, non riesci ad avere ciò che desideravi possedere. Una cosa volevi, un’altra avevi; da’ ciò che hai, per meritare di ricevere ciò che non hai. Dunque, quasi avendo posto una custodia alla mia bocca, ed essendomi imposto il silenzio, poiché mi pareva che in ogni caso fosse pericoloso parlare; e mi è capitato, dice, ciò che non volevo: Divenni sordo e fui umiliato; non mi umiliai, ma fui umiliato. Divenni sordo e fui umiliato, e tacqui sulle cose buone. Ho cominciato a non dire le cose buone, per timore di dire qualcosa di male, ma non approvo la mia decisione. Tacqui, infatti, sulle cose buone. E il mio dolore si è rinnovato. Nel silenzio aveva quasi trovato quiete quel tale dolore che mi avevano inflitto i calunniatori e i critici, e così era venuto meno il dolore suscitato dalle calunnie; ma appena ho taciuto sulle cose buone, il mio dolore si è rinnovato. Ho cominciato a dolermi di più per aver taciuto ciò che avrei dovuto dire, che non per aver detto ciò che non avrei dovuto dire. E il mio dolore si è rinnovato.
5. [vv 4.5.] E nella mia meditazione si è infiammato il fuoco. Ha incominciato ad essere inquieto il mio cuore. Vedevo gli insensati, e mi consumavo (Ps 118,158), non li rimproveravo; e lo zelo per la tua casa divorava me che così tacevo (Ps 68,10). Ho rivolto allora lo sguardo al mio Signore che dice: Servo malvagio e pigro, avresti dovuto dare il mio denaro ai banchieri, e io tornando lo avrei richiesto con i frutti (Mt 25,26 Mt 27). E quel che segue Dio lo tenga lontano dai suoi servi: Sia gettato nelle tenebre esteriori, con le mani e i piedi legati, il servo non dissipatore nel perdere, ma pigro nel donare (Mt 25,30). Che debbono aspettarsi coloro che hanno tutto consumato nella lussuria, se sono condannati coloro che nella pigrizia hanno conservato? Nella mia meditazione si è infiammato il fuoco. E posto in quest’ondeggiare tra il dire e il tacere, tra coloro che sono pronti alla calunnia e coloro che anelano ad essere istruiti, tra i ricchi e i bisognosi, divenuto ludibrio per coloro che avevano troppo e oggetto di disprezzo per i superbi (Cf. Ps 122,4), considerando beati quelli che hanno fame e sete di giustizia (Cf. Mt 5,6), affaticato nell’uno e nell’altro senso, afflitto da ambedue le parti, rischiando di gettare le perle ai porci e di non dare il cibo ai compagni di servitù; in questo ardore ha ricercato una situazione diversa, migliore di questa nella quale l’uomo fatica e corre pericoli; e finalmente, sospirando una soluzione in cui non vi sia da affrontare queste sofferenze, quel fine per il quale il Signore dirà al servo buon donatore: Entra nel gaudio del tuo Signore (Mt 25,21), ebbene, a questo punto, dice: Ho parlato con la mia lingua. In mezzo alla calura, tra i pericoli, tra le difficoltà, poiché tanto dà gioia la legge del Signore, ma tuttavia la carità di molti si raggela a cagione dell’abbondanza degli scandali (Cf. Mt 24,12), in mezzo a questi turbamenti, dunque, Ho parlato - dice - con la mia lingua. A chi? Non all’ascoltatore che voglio istruire, ma a Colui che esaudisce e dal quale voglio essere istruito. Ho parlato con la mia lingua a Colui dal quale ascolto nell’intimo quando odo qualcosa di buono e di vero. Che cosa hai detto? Fammi conoscere - aggiunge - o Signore, il mio termine. Sono infatti passato attraverso certe cose, e ad altre sono giunto; e quelle ove son giunto sono migliori di quelle che ho oltrepassato; ma rimane ancora qualcosa da attraversare. Non rimarremo infatti qui, ove subiamo tentazioni e scandali, ove soffriamo a causa di chi ci ascolta e ci calunnia. Fammi conoscere il mio termine: il termine che mi manca, non il cammino che mi sta davanti.
Il desiderio della vita beata.
6. Parla di quel fine cui l’Apostolo mirava nella sua corsa, confessando la sua imperfezione, in quanto una cosa scorgeva in sé ed un’altra cercava altrove. Dice infatti: Non che io lo abbia già conseguito o sia già divenuto perfetto; o fratelli, non ancora credo di aver io afferrato. E perché tu non dica: Se non c’è riuscito l’Apostolo, come posso riuscirci io? se non è perfetto l’Apostolo, dovrei essere perfetto io?, osserva che cosa fa, guarda che cosa dice. Che fai dunque, o Apostolo? Non hai ancora conseguito la meta, non sei ancora perfetto? Che fai? a che cosa mi esorti? cosa mi proponi come esempio da imitare e da seguire? Una sola cosa - dice - dimenticando le cose che son dietro le spalle, proteso a quelle che stanno davanti, seguo l’intento di raggiungere la palma della sublime vocazione di Dio in Cristo Gesù (Ph 3,12-14); secondo l’intento, non ancora perché vi sia arrivato, o l’abbia conseguito. Non ricadiamo in ciò che abbiamo già attraversato, e non restiamo fermi laddove siamo già giunti. Corriamo, sforziamoci, siamo per via; e non tanto sii tranquillo per le cose che già hai superato, quanto sii sollecito per quelle che ancora non hai raggiunto. Dimenticando - dice - le cose che son dietro le spalle, proteso a quelle che stanno davanti, vado dietro all’intento, per raggiungere la palma della sublime vocazione di Dio in Cristo Gesù. Egli stesso è il fine. Uno solo, e cioè: Signore mostraci il Padre, e ci basta (Jn 14,9). Uno solo, una sola cosa si dice in un altro salmo: Una sola cosa ho chiesto al Signore, e questa ricercherò. Dimenticando le cose che son dietro le spalle, proteso a quelle che stanno davanti. Una sola cosa ho chiesto al Signore, e questa ricercherò, di abitare nella casa del Signore per tutti i giorni della mia vita. Per quale scopo? Per contemplare la gioia del Signore (Ps 26,4). Perché ivi godrò del compagno, non temerò l’avversario; ivi mi sarà amico colui che con me contempla, non mi sarà nemico il calunniatore. Ecco che cosa ha desiderato questo Iditun di sapere quando stava qui, per conoscere che cosa gli mancava; e non tanto per rallegrarsi nelle cose cui era giunto, quanto per desiderare quelle cui non era ancora pervenuto; e, avendo oltrepassato alcune cose, per non restar fermo sulla via, ma per essere dal desiderio trasportato alle cose sublimi; fino a quando colui che alcune cose ha attraversato, passi oltre a tutte, e, come irrorato dalle gocce della rugiada divina che cadono dalla nube delle Scritture, pervenga, quale cervo, alla fonte della vita (Cf. Ps 41,2), e in quella luce veda la luce (Cf. Ps 35,10), e si celi dal turbamento degli uomini nel Volto di Dio (Cf. Ps 30,21), donde dirà: Qui si sta bene, non voglio null’altro, qui amo tutti e non temo nessuno. È questo un buon desiderio, un santo desiderio: voi che già lo avete, rallegratevene con noi, e pregate affinché lo possediamo sempre, e non veniamo meno in mezzo agli scandali. Anche noi infatti preghiamo la stessa cosa per voi. Perché non è che noi siamo degni di pregare per voi, e voi indegni di pregare per noi. L’Apostolo raccomandava se stesso ai suoi uditori cui predicava la parola di Dio (Cf. Col 4,3). Pregate dunque per noi, fratelli, affinché vediamo bene ciò che dobbiamo vedere, e diciamo bene ciò che dobbiamo dire. So peraltro che sono pochi a nutrire questo desiderio: e non mi comprendono completamente se non coloro che hanno gustato ciò di cui parlo. Tuttavia parliamo per tutti, per chi nutre tale desiderio, e per chi ancora non lo nutre; per coloro che lo hanno, affinché con noi sospirino verso quelle cose; per coloro che non lo hanno, affinché scuotano la pigrizia, passino oltre le cose infime, pervengano alla dolcezza della legge del Signore, non persistano nei piaceri degli iniqui. Perché molti dicono molte cose, e molti ne lodano molte, e gli iniqui lodano le cose cattive. Ed anche le cose cattive hanno un loro diletto, ma non come la tua Legge, Signore (Cf. Ps 118,85). Dicano dunque le nostre parole coloro che credono che anche noi diciamo queste cose. È una questione che riguarda l’intimo, e con nessuna parola può esser detta. Ma chi così si comporta, creda che quanto ha lui dentro, lo ha anche l’altro; non creda di essere il solo ad aver ricevuto ciò che è di Dio. Dica infine in costoro Iditun: Fammi conoscere, Signore, il mio fine.
Il giorno eterno.
7. E il numero dei miei giorni quello che è. Chiedo il numero dei giorni, quello che è. Così posso dire e intendere un numero senza numero, a quel modo che si può parlare di anni senza anni. Dove sono gli anni vi è in certo modo un numero; ma tuttavia: Tu sei lo stesso, e gli anni tuoi non verranno meno (Ps 101,28). Fammi conoscere il numero dei miei giorni, però quello che è. E perché dunque? Questo numero, nel quale tu sei, non esiste? Certo, se lo guarderò bene, non esiste; se mi ci fisso, è come se esistesse; se passerò oltre, non è; se, riscuotendomi da queste cose contemplerò quelle sublimi, e se paragonerò le cose transeunti a quelle che restano, vedo ciò che è vero; poiché che cosa mi apparirà essere, più di quanto è? Dirò dunque che questi qui sono i giorni miei? Questi - ripeto - dirò che sono i giorni; e darò questo tanto grande nome, temerariamente, a questo scorrere di cose effimere? E così io stesso, venendo meno, quasi non sono, tanto è lontano da me Colui che ha detto: Io sono Colui che sono (Ex 3,14). Esiste dunque un qualche numero di giorni? Certo che c’è, e senza fine. Ma in questi giorni dirò che c’è qualcosa se posseggo il giorno, intorno al quale tu mi interroghi se esista; abbi dunque di che interrogarmi, se vuoi rivolgermi tale domanda. Possiedi tu questo giorno? Se hai posseduto quello di ieri, avrai anche quello di oggi. Ma quello di ieri, tu dici, non lo posseggo più, perché già non è più; posseggo invece quello in cui sono, e che è con me. Così di questo giorno è già lontano da te quanto è trascorso dalla prima luce dell’alba? Non ha cominciato questo giorno dalla prima ora? Dammi la sua prima ora; e dammi anche la sua seconda, perché forse quella se ne è già volata via. Ti darò la terza, mi dici; forse infatti ora noi siamo in quella. Certo esistono questi giorni, ed esiste il terzo giorno; ma se mi darai la terza, non mi darai il giorno, ma l’ora. Pur tuttavia neppure questo ti concedo, se in qualche modo con me hai attraversato tutte queste cose. Dammi almeno la terza ora, quella stessa in cui sei. Perché, se qualcosa di essa già è trascorso, qualcosa ancora ne resta; e non mi puoi dare ciò che è passato, perché già non è più; e neppure ciò che resta, perché non è ancora. Che mi darai dunque di questa ora, che adesso scorre? Che cosa mi darai di essa cui io possa affidare questa parola e dire: È? Quando dici È, si tratta sicuramente di una sola sillaba, di un solo istante, e la sillaba [est] ha tre lettere; e nel pronunciarla non giungi alla seconda lettera di questa parola, se non avrai finito di dire la prima; e la terza non si farà udire se non quando avrai finito di proferire la seconda. Che mi dài di questa unica sillaba? E tu possiedi i giorni, quando non possiedi neppure una sillaba? Tutte le cose son rapite in istanti fuggenti, scorre il torrente delle cose: da questo torrente beve sulla via per noi Colui che già ha sollevato la testa (Cf. Ps 109,7). Questi giorni dunque non sono; quasi se ne vanno prima di venire, e appena sono venuti non possono restare; si congiungono, si rincorrono e non si arrestano. Niente del passato torna indietro; ciò che è futuro si aspetta che trascorra; non ancora lo si ha, finché non viene; e non si può trattenere, quando sarà venuto. Il numero dei miei giorni quello che è; non questo che non è e che mi turba con ansia e pena, se è o se non è; in quanto non possiamo dire che è ciò che non permane, e neppure che non è ciò che viene e passa. Cerco il semplicissimo È, cerco il vero È, il legittimo È, quell’È che risiede nella Gerusalemme sposa del mio Signore, ove non vi sarà morte, né venir meno, né giorno che passa, ma quello che sempre resta, che non è preceduto dall’ieri, né inseguito dal domani. Ripeto, questo numero dei miei giorni, quello che è, fammelo conoscere.
8. Affinché sappia che cosa mi manca. Questo infatti manca qui a me che mi affatico: e finché mi manca non posso dirmi perfetto; finché non lo ricevo, dico: Non che abbia già ricevuto, o che sia già perfetto: corro infatti per conseguire la palma della sublime vocazione di Dio (Ph 3,12 Ph 14); e la riceverò quale ricompensa per la mia corsa. Vi sarà una dimora alla fine del correre: e in questa dimora sarà la patria che non conosce esilio, né sovvertimento, né tentazione. Orbene: Fammi conoscere questo numero dei miei giorni quale è, affinché sappia che cosa mi manca; poiché non ancora vi sono, che io non mi inorgoglisca per quello in cui già sono, sì che in esso io sia trovato senza giustizia. A paragone infatti di ciò che è, guardando queste cose che così non sono, e vedendo che è più quanto mi manca di quanto ho, sarò più umile per ciò che non ho, che superbo per ciò che posseggo. Perché coloro che credono di avere qualcosa vivendo qui, per la superbia non ricevono ciò che loro manca; perché credono sia molto ciò che hanno. Chi crede insomma di essere qualcosa, mentre non è niente, inganna se stesso (Cf. Ga 6,3). E costoro non sono, per tale motivo, grandi; infatti l’orgoglio e la superbia imitano la grandezza, ma non hanno vigore.
L'uomo vecchio e quello nuovo.
9. [v 6.] Ebbene, questi che passa operando nel cuore qualcosa di occulto che non conosce nessuno all’infuori di chi come lui lo prova: come ottenendo ciò che ha chiesto, e saputo il suo fine e conosciuto il numero dei suoi giorni, non quello che passa, ma quello che è, guarda queste cose che ha saltato e le paragona alla conoscenza superiore; e come se tu gli chiedessi: Perché hai desiderato sapere il numero dei tuoi giorni quale è? che cosa dici di questi giorni?, egli, come guardando a queste cose da quell’altro giorno, dice: Ecco hai fatto vecchi i miei giorni. Perché essi invecchiano, io voglio quelli nuovi, nuovi che mai non invecchiano, onde possa dire: I vecchi sono trascorsi, ed ecco son fatti i nuovi (2Co 5,17), ora nella speranza, allora nella realtà. Rinnovati infatti nella fede e nella speranza, quante cose ancora di vecchio portiamo? Perché non siamo tanto rivestiti di Cristo, da non portare più niente di Adamo. Vedete Adamo invecchiare e Cristo rinnovarsi in noi: E se il nostro uomo esteriore si corrompe - dice l’Apostolo - l’interiore si rinnova di giorno in giorno (2Co 4,16). Dunque considerando il peccato, la condizione mortale, i tempi che fuggono via, il pianto, il travaglio e il sudore, le età che si succedono, che non stanno ferme, che senza senso trascorrono dall’infanzia fino alla vecchiaia, vediamo qui il vecchio uomo, il vecchio giorno, il vecchio cantico, il Vecchio Testamento; ma, volgendoci all’uomo interiore, alle cose che debbono essere rinnovate in grazia di quelle che non muteranno, troviamo l’uomo nuovo, il giorno nuovo, il nuovo cantico e il Nuovo Testamento; e tanto amiamo questa novità che più non abbiamo timore in essa della vecchiezza. Ora, dunque, in questo andare, passiamo dalle cose vecchie alle nuove; il passaggio stesso si compie mentre quelle esteriori si corrompono e le interiori si rinnovano; finché ciò che è esteriore si corrompe, paghi esso il debito alla natura, venga alfine alla morte, e si rinnovi tutto questo nella risurrezione. Allora veramente si faran nuove tutte le cose, quelle cose che ora sono nella speranza. Datti dunque da fare ora spogliandoti delle cose vecchie e correndo verso le cose nuove. Verso il nuovo corre questi, ed è proteso verso le cose che gli stanno dinanzi: Fammi conoscere - dice - o Signore, il mio fine, e il numero dei miei giorni quale è, affinché sappia che cosa mi manca. Ecco, ancora trascina Adamo, e così si affretta verso Cristo. Ecco - dice - hai fatto vecchi i miei giorni. Gli antichi giorni di Adamo li hai stabiliti vecchi; invecchiano ogni giorno, e tanto invecchiano che alla fine anche si consumeranno. E la mia sostanza è come nulla dinanzi a te. Dinanzi a te, o Signore, come un nulla è la mia sostanza, dinanzi a te che vedi questo; e quando io lo vedo, vedo dinanzi a te, non dinanzi agli uomini. Che dirò infatti? con quali parole mostrerò che non è nulla quel che io sono in paragone di Colui che è? Ma nell’intimo è detto, nell’intimo in qualche modo lo si sente. Dinanzi a te, o Signore, dove sono i tuoi occhi, non dove sono gli occhi umani; e che cosa dove sono i tuoi occhi? La mia sostanza è come nulla.
Realtà visibili ed invisibili.
10. Davvero è tutto vanità, ogni uomo vivente. Davvero, che cosa infatti diceva? Ecco che già ho attraversato tutte le cose mortali, ho disprezzato le cose vili, ho calpestato quelle terrene, sono asceso alla gioia della legge del Signore, ho fluttuato nella dispensazione dei numeri dei giorni del Signore, ho desiderato anche quel fine che non ha fine; ho desiderato il numero dei miei giorni quello che è, poiché il numero di questi giorni [terreni] non è; ecco, già sono così tante cose ho oltrepassato, e mi tengo stretto alle cose che restano. Davvero, così come sono qui, finché sono qui, finché vivo in questo secolo, finché porto la carne mortale, finché è tentazione la vita umana sulla terra (Cf. Jb 7,1), finché sospiro tra gli scandali, finché temo di cadere pur stando ora in piedi, finché incerte sono per me le mie disgrazie e le mie torture, tutto è vanità ogni uomo vivente. Ogni uomo, ripeto, sia che stia fermo sia che passi oltre, e lo stesso Iditun fa parte ancora di questa generale vanità; perché ogni cosa è vanità, vanità della vanità. Quale ricchezza c’è per l’uomo in ogni sua fatica, nella quale egli lavora sotto il sole (Cf. Qo 1,2 Qo 3)? Forse Iditun è ancora sotto il sole? Ha qualcosa sotto il sole, ed ha qualcosa oltre il sole. Sotto il sole ha il vegliare, il dormire, il mangiare, il bere, l’aver fame, l’aver sete, l’esser forte, l’esser stanco, l’esser fanciullo, il divenir giovane, l’invecchiare, l’essere incerto su ciò che desidera e ciò che teme; tutte queste cose che sono sotto il sole le ha anche Iditun, anche colui che li attraversa. Perché attraversa? Per quel desiderio: Fammi conoscere, Signore, il mio fine. Perché questo desiderio è oltre il sole, non sotto il sole. Sotto il sole sono tutte le cose visibili; ciò che non è visibile non è sotto il sole. Non è visibile la fede, non è visibile la speranza, non è visibile la carità, non è visibile la bontà, non è visibile infine quel casto timore che permane nei secoli dei secoli (Cf. Ps 18,10). In tutte queste cose, trovando Iditun dolcezza e consolazione, e vivendo oltre il sole perché la sua dimora è in cielo (Cf. Ph 3,20), geme per quelle cose che sono ancora per lui sotto il sole; queste cose disprezza, si duole, e arde per quelle che desidera. Ha parlato di quelle, parli anche di queste. Avete udito ciò che è da desiderare, udite ciò che è da disprezzare. Davvero tutto è vanità, ogni uomo vivente.
Non accumuliamo tesori terreni.
11. [v 7.] Certamente nell’immagine cammina l’uomo. In quale immagine, se non di Colui che ha detto: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza (Gn 1,26)? Certamente nell’immagine cammina l’uomo.Ecco perché dice certamente, perché quella immagine è una grande cosa. E questo certamente è seguito da tuttavia, in modo che certamente si riferisca a ciò che è oltre il sole, mentre il tuttavia che segue si intenda sotto il sole; e quello riguardi la verità, questo la vanità. Certamente, dunque, l’uomo cammina nell’immagine, tuttavia vanamente si turba. Ascolta il suo turbamento, e guarda se non è vano: così lo calpesterai, passerai oltre, e dimorerai nel cielo, dove non c’è questa vanità. Quale vanità? Accumula, e non sa per chi raccoglie. O folle vanità! Beato colui, la cui speranza è il Signore, e non guarda le vanità e le stoltezze mendaci (Ps 39,5). O avaro, mentre dico questo tu credi che deliri, ti sembrano queste parole degne di una vecchierella. Perché tu, come uomo dal saggio consiglio e dalla grande prudenza, escogiti ogni giorno il modo di procacciarti denaro, con gli affari, l’agricoltura, forse anche con l’eloquenza, con l’avvocatura, con la milizia, ed aggiungi anche con la usura. Da uomo sensato non trascuri assolutamente nulla, per accumulare denaro sopra denaro e raccoglierlo con grande cura in posto sicuro. Depredi l’uomo e stai in guardia contro chi può depredarti; temi di subire ciò che fai, eppure non ti correggi quando lo subisci. Ma tu non soffri danno, perché sei un uomo prudente, e non solo sai raccogliere, ma anche conservare; hai dove riporre, a chi affidare, in modo che non si perda niente di quanto hai ammassato. Chiedo al tuo cuore, esamino la tua prudenza: Ecco, hai raccolto, ecco così hai conservato in modo da non perdere niente di ciò che hai custodito; dimmi, per chi hai conservato? Non discuto con te, non menziono, non ingrandisco ciò che altro ha di male l’avarizia della tua vanità; questo solo dico, questo esamino, ciò che mi suggerisce la lettura di questo salmo. Siccome tu certamente raccogli, accumuli; non ti dico di stare attento a non essere raccolto, mentre raccogli; non ti dico di stare attento a non essere preda altrui mentre vuoi essere un predone. Te lo dirò più apertamente (forse infatti, accecato dall’avarizia, non hai udito né capito): ripeto, non ti dico di stare attento a non essere preda del più grande, mentre vuoi depredare il più piccolo. Non ti accorgi infatti di essere in mare, né vedi che i pesci più piccoli sono divorati dai più grandi. Non parlo di queste cose, non mi riferisco alle difficoltà e ai pericoli connessi con l’acquisto delle ricchezze, a quanto subiscono coloro che le ammassano, ai pericoli che corrono in ogni cosa sì che in tutto rasentino la morte; passo oltre a tutto questo. Anche se tu accumuli senza che nessuno ti contrasti, e conservi senza che nessuno ti derubi; scruta il tuo cuore, e la tua tanto grande saggezza con la quale mi deridi, con la quale mi giudichi pazzo perché dico queste cose, e dimmi: tu accumuli; ma per chi avrai raccolto? Vedo ciò che vorresti dire, quasi ciò che vuoi dire non venisse in mente a questi che qui parla; dirai: Serbo per i miei figli. Questa è la voce della pietà, la scusa dell’ingiustizia: per i miei figli, dici. Ammettiamo che tu serbi per i tuoi figli. E questo non lo sapeva Iditun? Certo che lo sapeva, ma annoverava tal cosa tra i giorni vecchi, e perciò la disprezzava, perché si affrettava verso i giorni nuovi.
Il vero tesoro solo in cielo.
12. Ecco che ti esamino infatti con i tuoi figli: tu che sei destinato a passare, serbi per chi passerà, o, meglio, tu che sei transeunte serbi per chi è transeunte. Ho detto infatti che tu sei destinato a passare, come se ora tu permanessi. Vediamo lo stesso oggi: da quando abbiamo cominciato a parlare sino a questo momento, tu ti rendi conto che siamo invecchiati. Non vedi infatti la crescita dei tuoi capelli; eppure, mentre stai qui, mentre sei qui, mentre fai qualcosa o parli, crescono i tuoi capelli; ma non sono cresciuti di colpo tanto da indurti a cercare il barbiere. Se ne va dunque il tempo volando via, sia in chi se ne rende conto, sia in chi non se ne accorge o è malamente altrove occupato. Tu passi, e serbi per il figlio tuo che passa. Prima di tutto ti chiedo: Sai se potrà possedere colui per il quale serbi? oppure, se non è ancora nato, sai se nascerà? Serbi per i figli, e non sai se essi ci saranno o potranno possedere; e non riponi il tuo tesoro dove dovresti riporlo. Non darebbe infatti il tuo Signore al suo servo un tale consiglio, perché egli perdesse la sua ricchezza. Sei il servo ricchissimo di un grande padre di famiglia. Egli stesso ti ha dato ciò che ami e ciò che hai, e non vuole che tu perda quanto ti ha dato, egli che ti darà anche se stesso. Ma egli non vuole che tu perda neppure ciò che ti ha dato temporaneamente. È molto, sovrabbonda, va al di là delle esigenze della tua necessità, tanto che già è ritenuto superfluo; ebbene neppure questo voglio che tu perda, dice il tuo Signore. Che faccio dunque? Cambia luogo, dove l’hai riposto non è un luogo sicuro. Sicuramente vuoi servire l’avarizia: osserva un po’ se il mio consiglio non può essere applicato anche alla stessa avarizia. Perché tu vuoi avere ciò che hai, e non vuoi perderlo: ebbene ti indico il luogo ove puoi riporlo. Non accumulare sulla terra, non sapendo per chi raccogli ed in qual modo poi lo consumerà colui che possederà e sarà padrone [di quanto accumuli]. Può darsi infatti che entrerà in possesso della proprietà, ma non possederà quel che riceverà da te. Forse, mentre tu serbi per lui, lo perdi prima che egli giunga. Dò un consiglio al tuo affanno: Accumulatevi un tesoro in Cielo (Mt 6,20). Se tu volessi conservare le ricchezze qui in terra, cercheresti un magazzino; forse non le terresti in casa tua a cagione dei tuoi domestici e le daresti in custodia al banco, perché là è difficile perderle, difficilmente un ladro vi si avvicina ed ogni cosa viene ben conservata. Perché escogiti tutte queste cose se non perché non hai un miglior posto ove conservare il tuo tesoro? E che farai se io te ne darò uno migliore? Ti dirò: non affidarlo a questo meno idoneo; ma vi è uno molto più adatto, a quello affidalo. Dispone di grandi magazzini, ove non possono perdersi le ricchezze; è il più ricco di tutti i ricchi. Già forse tu stai per rispondere: e come oso affidarlo a lui? E che, se è Egli stesso che ti esorta a farlo? Riconosci chi è, non solo è il Padre di famiglia, ma è anche il tuo Signore. Non voglio, o mio servo, - dice - che tu perda il tuo denaro, stai attento a dove lo metti. Perché lo metti dove puoi perderlo, dove, anche se non lo perdi, tu non puoi però rimanere in eterno? C’è un altro luogo, nel quale io ti porterò. Ti preceda quel che tu hai; non temere di perderlo: sono stato il donatore, e ne sarò il custode. Questo ti dice il tuo Signore; interroga la tua fede, guarda se vuoi credere a lui. Tu dirai: Considero perduto ciò che non vedo, qui voglio vederlo. Finché qui vuoi vedere, non vedrai niente qui e non avrai nulla lassù. Non so quali tesori hai nascosti sulla terra; mentre vai avanti, non te li porti dietro. Sei venuto per ascoltare il sermone, per raccogliere ricchezze interiori, e pensi a quelle esteriori; forse che le hai portate qui con te? Ecco che neppure ora le vedi. Credi di averle a casa, perché sai che là le hai riposte; forse sei sicuro di non averle perdute? Quanti sono tornati alle loro case e non hanno più trovato ciò che vi avevano riposto! Queste parole hanno forse spaventato i cuori degli avidi; e poiché ho detto che molti spesso sono tornati a casa loro e non hanno più trovato ciò che vi avevano riposto, qualcuno ha detto in cuor suo: Non sia mai, o Vescovo; desidera il bene, prega per noi, non sia mai che ciò accada, non sia mai che vada così; credo in Dio, e quindi ritroverò salvo ciò che ho riposto in casa. Credi in Dio e non ti affidi a Dio stesso? Credo in Cristo, e perciò sarà salvo ciò che ho riposto, nessuno vi si avvicinerà, nessuno lo ruberà. Vuoi essere sicuro, credendo in Cristo, di non perdere niente della tua casa; sarai ancor più sicuro affidandoti a Cristo, ponendo ciò che hai là dove egli ti ha consigliato di riporlo. Oppure sei sicuro del tuo servo, e dubiti del tuo Signore? sei sicuro della tua casa, e non confidi nel Cielo? Ma - tu dici - come posso riporre le mie ricchezze in Cielo? Ti ho dato il consiglio; ponile dove ti dico; non voglio tu sappia in qual modo giungano al Cielo. Ponile nelle mani dei poveri, dona a chi ha bisogno; che ti importa di sapere come esse giungeranno al Cielo? Non porterò quanto anch’io ricevo? Oppure ti sei dimenticato le parole: Ciò che avete fatto ad uno di questi miei piccoli, avete fatto a me (Mt 25,40)? Se un tuo amico avesse qualche stagno o qualche cisterna, o qualche cantina fatta per conservarvi un liquore, oppure del vino o dell’olio, e tu gli chiedessi dove nascondere e conservare i tuoi frutti, egli ti direbbe: Io te li conservo; e se costui avesse dei condotti segreti o dei passaggi che danno accesso a quei ripostigli, per cui mezzo sfuggisse di nascosto ciò che apertamente vi viene versato, e ti dicesse: Ciò che hai versalo qui; e tu ti accorgessi però che non è quello il posto ove pensavi di riporre quanto hai, e tu avessi timore a versarvelo, non ti direbbe forse colui che conosce gli occulti artifizi dei suoi locali: Versa sicuro, perché da qui giunge là: tu non vedi come, ma devi credere a me, perché io l’ho fabbricato così? Colui per cui mezzo tutte le cose sono state fatte, ha fabbricato infatti dimore per tutti noi; e vuole che in esse giunga prima ciò che abbiamo, affinché non lo perdiamo in terra. Ma se lo avrai conservato in terra, dimmi, per chi lo hai raccolto? Hai dei figli: contane uno di più, e da’ qualcosa anche a Cristo. Accumula e non sa per chi raccoglierà quelle cose. Vanamente si turba.
Nel Signore abbiamo tutto.
13. [v 8.] Ed ora, quando, dice questo Iditun, vedendo una certa vanità e scorgendo una certa verità, trovandosi in mezzo e avendo qualcosa sotto di sé, e qualcosa sopra (sotto di sé ha ciò che ha oltrepassato, e sopra ha ciò verso cui si protende), ed ora, dice, che ho attraversato qualcosa, che ho calpestato molte cose, che più non sono attaccato alle cose temporali, non ancora sono perfetto, non ancora ho ricevuto. Perché nella speranza siamo stati salvati; ma la speranza che si vede non è speranza. Perché chi già vede una cosa, che spera più? Ma se speriamo ciò che non vediamo, con pazienza aspettiamo (Rm 8,24 Rm 25). Ebbene: Ed ora quale è la mia aspettazione? non è forse il Signore? Egli stesso è la mia aspettazione, Colui che mi ha dato tutte queste cose che devo disprezzare. Egli mi ha dato anche se stesso, che è sopra tutte le cose, e per il quale tutte le cose sono state fatte, e dal quale sono stato fatto tra tutte le cose: Egli stesso è la mia aspettazione, il Signore. Osservate Iditun, fratelli, osservate come egli spera. Nessuno si dica qui perfetto: si inganna, si sbaglia, seduce se stesso, perché non può avere qui la perfezione. E che gli giova se perde l’umiltà? Ed ora quale è la mia aspettazione? non è forse il Signore? Quando sarà venuto, più non ci sarà attesa: allora ci sarà quella perfezione; ma ora, per quanto Iditun sia andato oltre, ancora deve aspettare. E la mia sostanza è sempre dinanzi a te. Già progredisce, già a lui tende, e comincia ad essere qualcosa: la mia sostanza è sempre dinanzi a te. Poiché la sostanza terrena è anche dinanzi agli uomini. Hai l’oro, hai l’argento, schiavi, poderi, boschi, greggi, servi; queste cose possono essere viste anche dagli uomini; c’è però una certa sostanza che è sempre davanti a te. E la mia sostanza è sempre davanti a te.
Chi quaggiù è perfetto e chi imperfetto.
14. [v 9.] Liberami da tutte le mie iniquità. Molte cose ho attraversato, certamente molte ho oltrepassato; ma se diremo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi (1Jn 1,8). Molte cose ho attraversato; ma ancora mi batto il petto e dico: Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori (Mt 6,12). Tu dunque sei la mia aspettazione, il mio fine: Perché fine della legge è Cristo a giustificazione di ogni credente (Rm 10,4). Da tutte [le mie iniquità], dice, non soltanto da quelle che ho lasciato, affinché non cada di nuovo in quelle che ho attraversato; ma proprio da tutte, per le quali ora battendomi il petto dico: Rimetti a noi i nostri debiti. Liberami da tutte le mie iniquità, poiché so e mi attengo a quel che dice l’Apostolo: Quanti dunque siamo perfetti, abbiamo questi sentimenti. Dopo aver detto, infatti, di non essere ancora perfetto, aveva appunto continuato così: Quanti dunque siamo perfetti, abbiamo questi sentimenti. Che vuol dire: Quanti siamo perfetti? Già poco fa tu avevi detto: Non che io abbia già ricevuto, o sia già perfetto. Segui l’ordine delle parole. Ma una cosa sola: dimenticando le cose che son dietro le spalle e proteso verso quelle che stanno avanti, vado dietro all’intento, per raggiungere la palma della sublime vocazione di Dio in Cristo Gesù (Ph 3,12-15). Dunque non è ancora perfetto, perché persegue la palma della sublime vocazione di Dio, che ancora non ha trovato, alla quale non è ancora giunto. Ma se non è perfetto perché non è ancora là pervenuto, chi di noi è perfetto? Continua, tuttavia, e dice: Quanti dunque siamo perfetti, abbiamo questi sentimenti. Tu non sei perfetto, o Apostolo, e lo siamo noi? Ma - messi da parte voi -, perché ora dice di essere perfetto? Non dice infatti: Quanti siete perfetti abbiate questi sentimenti; ma quanti siamo perfetti abbiamo questi sentimenti, mentre poco prima aveva detto: Non che io abbia già ricevuto o sia già perfetto. Insomma, qui non puoi essere perfetto in altro modo se non sapendo che non puoi essere perfetto. Sarà questa dunque la tua perfezione; aver così attraversato alcune cose, per passare ad altre; poiché qualcosa hai superato ma in modo che ti resta qualcos’altro a cui devi passare dopo aver attraversato tutto. Questa è la fede sicura. Chiunque infatti crede di essere già giunto, si colloca in alto, tanto che cade.
Prosperità e avversità strumenti di salvezza.
15. Poiché dunque ho questi sentimenti, poiché dico di essere imperfetto e perfetto; certamente imperfetto perché non ancora ho ricevuto quel che voglio, ma perfetto perché conosco quanto mi manca; poiché dunque ho questi sentimenti, poiché disprezzo le cose umane, poiché non voglio gioire nelle cose che periscono, poiché sono deriso dall’avaro che si vanta di esser prudente e si prende gioco di me dicendomi folle, poiché così mi comporto e scelgo questa via, mi hai esposto - dice - al ludibrio dello stolto. Hai voluto che vivessi e predicassi la verità tra coloro che amano la vanità; e non posso fare a meno di essere da costoro deriso, perché siamo divenuti oggetto di spettacolo per questo mondo, sia per gli angeli che per gli uomini (Cf. 1Co 4,9); per gli angeli che lodano e per gli uomini che vituperano; o meglio per gli angeli che lodano e vituperano e per gli uomini che lodano e vituperano. A destra e a sinistra abbiamo le armi, nelle quali militiamo, per la gloria e per l’ignominia, per la infamia e per la buona fama, come seduttori eppure veraci (2Co 6,7 2Co 8). Questo è presso gli angeli, e questo è presso gli uomini; poiché anche tra gli angeli vi sono gli angeli santi ai quali siamo graditi vivendo bene; e vi sono anche gli angeli prevaricatori, ai quali siamo sgraditi se viviamo bene; e del pari tra gli uomini vi sono gli uomini santi, ai quali piace la nostra vita, e vi sono uomini scellerati che deridono la nostra vita buona. E queste e quelle sono armi, le une a destra le altre a sinistra; tuttavia ambedue sono armi; e mi servo di ambedue, di quelle a destra e di quelle a sinistra, di quelle che lodano e di quelle che offendono, di quelle che rendono onore e di quelle che infliggono ignominia; con tutte e due queste armi combatto con il diavolo, e con ambedue lo ferisco; con le prospere, se non mi lascio corrompere, con le avverse, se non mi lascio spezzare.
16. [vv 10.11.] Mi hai esposto - dunque - al ludibrio dello stolto. Sono divenuto sordo e non ho aperto la mia bocca. Ma contro lo stolto sono divenuto sordo e non ho aperto la mia bocca. Perché dovrei dire a lui che cosa provo in me? Ascolterò infatti che cosa dice in me il Signore Dio, perché parlerà di pace al suo popolo (Ps 84,9); ma non c’è pace per gli empi, dice il Signore (Is 48,22). Sono divenuto sordo e non ho aperto la mia bocca. Perché sei tu che mi hai fatto. Non hai aperto la tua bocca perché è Dio che ti ha fatto? Mi meraviglio. Non ti ha fatto forse Dio la bocca per parlare? Non ode Colui che ha plasmato l’orecchio? non vede Colui che ha formato l’occhio (Cf. Ps 93,9)? Dio ti ha dato la bocca per parlare; e tu dici: Sono divenuto sordo e non ho aperto la mia bocca; perché sei tu che mi hai fatto? Oppure Perché sei tu che mi hai fatto appartiene al verso successivo; ossia Perché sei tu che mi hai fatto, rimuovi da me i tuoi flagelli? Perché sei tu che mi hai fatto, non sterminarmi; colpiscimi soltanto affinché progredisca, non perché venga meno; percuotimi soltanto perché cresca, non perché diminuisca. Perché sei tu che mi hai fatto, rimuovi da me i tuoi flagelli.
17. [v 12.] Sotto la forza della tua mano, sono venuto meno nei rimproveri, cioè, sono venuto meno perché mi hai rimproverato. E il tuo rimproverare che cos’è, se non quanto segue? Riguardo alla iniquità hai istruito l’uomo ed hai consumato come un ragno l’anima mia. È molto ciò che comprende questo Iditun, e qualcuno con lui capirà, se qualcuno con lui attraversa. Dice infatti di esser venuto meno nei rimproveri di Dio, e vuole che siano da lui allontanati i flagelli, perché è Dio stesso che lo ha fatto. Colui che lo ha fatto, Egli stesso lo rifaccia; Colui che lo ha creato, Egli stesso lo ricrei. Ma tuttavia, poiché in tal modo è venuto meno da voler esser ricreato e riplasmato, crediamo, fratelli, che tutto questo sia accaduto senza motivo? Riguardo all’iniquità, dice, hai istruito l’uomo. Tutto il mio venir meno, la mia debolezza, il grido che emana dal mio intimo, tutto questo si deve all’iniquità; e in questo mi hai istruito, non condannato: Riguardo all’iniquità hai istruito l’uomo. Ascolta questo concetto esposto più chiaramente in un altro salmo: È un bene per me, che tu mi abbia umiliato, affinché apprenda la tua giustizia (Ps 118,71). Sono stato umiliato, ed è un bene per me, è pena ed è grazia. Che cosa riserva dopo la pena, colui che manifesta la pena attraverso la grazia? Egli è colui del quale è stato detto: Sono stato umiliato, e mi ha salvato (Ps 114,6), e: È un bene per me che tu mi abbia umiliato, affinché apprenda la tua giustizia. Riguardo all’iniquità hai istruito l’uomo. E ciò che sta scritto: Tu che disponi il dolore nel comandamento (Ps 93,20), può esser detto a Dio solo da colui che va oltre, perché soltanto chi attraversa può rendersene conto. Disponi, dice, il dolore nel comandamento, dal dolore trai per me un precetto. Tu plasmi lo stesso mio dolore; non lo lasci informe, ma gli dài forma; ed il mio dolore formato e inflitto da te, sarà per me comandamento, per essere da te liberato. Disponi dunque, sta scritto, il dolore, formi il dolore, plasmi il dolore, non simuli il dolore; allo stesso modo per cui plasma l’artefice, onde è anche detto modellatore dal verbo modellare. Dunque: Riguardo all’iniquità hai istruito l’uomo. Mi vedo nelle sciagure, mi vedo nella pena, e non vedo iniquità presso di te. Se dunque sono nella pena e non c’è iniquità presso di te, non si deve forse concludere che a motivo dell’iniquità tu hai istruito l’uomo?
L’umile riconoscimento della nostra debolezza.
18. Ed in qual modo hai istruito? Parlaci di questo insegnamento, o Iditun; in qual modo sei stato istruito? Ed hai logorato come un ragno l’anima mia. Questo è l’insegnamento. Chi è più svigorito del ragno? Parlo dell’animale stesso. E che cosa è più tenue delle stesse tele del ragno? Osserva l’animale stesso, quanto è tenue: poggia su di esso un dito, ed è distrutto; niente assolutamente è più tenue. Così hai reso l’anima mia, dice, istruendomi a causa dell’iniquità. Poiché l’insegnamento mi ha reso debole, vuol dire che un certo genere di forza era colpa. Vedo che alcuni sono andati avanti ed hanno inteso, ma quelli che camminano più piano non debbono essere abbandonati dai più veloci, in modo che tutti possano seguire il senso del sermone. Questo ho detto e questo comprendete: Se l’insegnamento del Dio giusto ha prodotto queste debolezze, significa che un certo tipo di forza era vizio. Per una certa forza è dispiaciuto l’uomo, tanto da essere ammaestrato mediante la debolezza; è dispiaciuto per una certa superbia, onde essere ammaestrato mediante l’umiltà. Tutti i superbi dicono infatti di essere forti. Per questo molti, venendo dall’Oriente e dall’Occidente, hanno vinto, onde sedere insieme con Abramo e Isacco e Giacobbe nel Regno dei Cieli; perché hanno vinto? Perché non hanno voluto essere forti. Che significa: non hanno voluto essere forti? Hanno avuto timore di presumere di se stessi; non hanno posto innanzi la loro giustizia, per esser sottomessi alla giustizia di Dio (Cf. Rm 10,3). Infine quando il Signore così si è espresso: Molti verranno da Oriente e da Occidente e sederanno con Abramo e Isacco e Giacobbe nel Regno dei Cieli, mentre i figli del Regno - cioè i Giudei che ignorando la giustizia di Dio hanno voluto stabilire la loro - andranno nelle tenebre esteriori; ricordate la fede del centurione, uno del popolo dei Gentili, tanto debole entro di sé, tanto poco forte da dire: Non sono degno che tu entri sotto il mio tetto. Non era degno di ricevere Cristo in casa sua e già lo aveva ricevuto nel cuore. Infatti quel maestro di umiltà, il Figlio dell’uomo, già aveva trovato nel suo petto dove poggiare il capo. Considerando il Signore queste parole del centurione, disse a coloro che lo seguivano: In verità vi dico, in nessuno ho trovato tanta fede in Israele (Mt 8,8-12). Ha trovato costui debole, ha trovato gli Israeliti forti, tanto da dire di fronte ai due: Non c’è bisogno del medico per i sani, ma per gli ammalati (Mt 9,12). A cagione di ciò dunque, a cagione di questa umiltà, molti verranno da Oriente e da Occidente, e sederanno con Abramo e Isacco e Giacobbe nel Regno dei Cieli; mentre i figli del Regno andranno nelle tenebre esteriori1397. Ecco siete mortali, portate una carne che va in putrefazione, e come uno tra i principi cadrete; come uomini morirete (Cf. Ps 81,7) e cadrete come il diavolo. A che vi giova la medicina della mortalità? Il diavolo superbo, in quanto angelo non ha carne mortale; ma tu che hai ricevuto la carne mortale, poiché neppur questo ti giova per essere umiliato da tanta debolezza, come uno dei principi cadrai. Questa è dunque la prima grazia del dono di Dio, ricondurci a confessare la debolezza, affinché qualunque cosa di buono possiamo fare, in qualunque cosa siamo capaci, lo siamo in Lui; affinché chi si gloria, si glori nel Signore (Cf. 1Co 1,31). Quando sono debole - dice - allora sono forte (2Co 12,10). Riguardo all’iniquità hai istruito l’uomo; e hai logorato come un ragno l’anima mia.
Morte certa, l'ora incerta.
19. Davvero vanamente si turba ogni uomo che vive. Ritorna a ciò che poco prima ha menzionato; per quanto qui progredisca, vanamente si turba ogni uomo che vive, perché vive nell’incertezza. Chi infatti sta sicuro anche del suo stesso bene? Vanamente si turba. Affidi al Signore il suo affanno (Cf. Ps 54,23), riponga in Lui ciò di cui si preoccupa; Lui lo nutrirà, Lui lo custodirà. Cosa c’è di sicuro in questa terra, se non la morte? Considerate, senza escluderne nessuna, tutte le cose buone e cattive di questa vita, sia riguardo alla giustizia che alla iniquità; che cosa è certo qui se non la morte? Hai progredito: sai che cosa sei oggi, ma non sai che cosa sarai domani. Sei un peccatore; sai che cosa sei oggi, ma non sai che cosa sarai domani. Speri nel denaro: è incerto se ti arriverà. Speri in una sposa: incerto è se la troverai e quale troverai. Speri nei figli: è incerto se nasceranno; se sono nati, è incerto se vivranno; se vivono, è incerto se progrediranno, oppure se cresceranno male. A qualunque cosa ti volga, tutto è incerto: solo la morte è certa. Sei povero: è incerto se arricchirai; sei incolto, è incerto se ti istruirai; sei ammalato è incerto se guarirai. Sei nato: è certo che morirai; e nella stessa certezza della morte, è incerto il giorno della morte. Tra tutte queste cose incerte, fra le quali solo la morte è certa - la cui ora peraltro è incerta -, la morte che più di ogni altra cosa è temuta mentre non può essere in alcun modo evitata, vanamente si turba ogni uomo che vive.
La voce di Dio.
20. [v 13.] Orbene, attraversando tutte queste cose, e già trovandosi in alcune più elevate e disprezzando le inferiori, posto fra ambedue, esaudisci - dice - la mia preghiera. Di quali cose godrò, di quali gemerò? Godrò di quelle che ho oltrepassato, e gemo per quelle che restano. Esaudisci la mia preghiera e la mia supplica; porgi l’orecchio alle mie lacrime. Forse perché ho attraversato tante cose e tante cose ho superato, più non piangerò? Non piangerò invece molto di più? Poiché chi accresce la conoscenza accresce il dolore (Cf. Qo 1,18). Forse che quanto più desidero ciò che mi manca, tanto più non gemo finché non lo avrò, e tanto più quindi piango finché lo consegua? Forse che tanto più non piangerò, quanto più si fanno frequenti gli scandali, quanto più abbonda l’iniquità, quanto più si raggela la carità di molti (Cf. Mt 24,12)? Dico: Chi darà acqua al mio capo, e ai miei occhi una fonte di lacrime? (Jr 9,1) Esaudisci la mia preghiera e la mia supplica; porgi l’orecchio alle mie lacrime. Non tacere con me; affinché non sia sordo in eterno. Non tacere con me: ti udrò. Perché in segreto parla Dio, a molti parla nel cuore; e grande è il suono nel grande silenzio del cuore, quando a gran voce dice: Sono la tua salvezza. Di’, soggiunge, all’anima mia: sono la tua salvezza (Ps 34,3). Desidera dunque che non taccia da lui questa voce con la quale Dio dice all’anima: Sono la tua salvezza. Non tacere con me.
Pellegrini in terra, cittadini in cielo.
21. Perché sono ospite presso di te. Ma presso chi sei ospite? Mentre ero presso il diavolo, ero ospite, ma avevo un malvagio padrone di casa; ora invece sono presso di te, ma sono ancora ospite. Che vuol dire: ospite? Vuol dire che me ne andrò, che non vi resterò in eterno. Laddove resterò in eterno si chiami mia casa; ma sono invece ospite nel luogo da dove me ne andrò; ma tuttavia sono ospite presso il mio Dio, presso il quale, ricevuta la dimora, resterò. Ma quale è la casa ove si deve andare abbandonando questa condizione di ospite? Riconoscete quella casa della quale l’Apostolo dice: Abbiamo una dimora da parte di Dio, una casa non fatta con le mani, eterna nei cieli (2Co 5,1). Se questa casa eterna è nei cieli, quando ad essa perverremo, non saremo ospiti. In qual modo infatti, sarai ospite nell’eterna dimora? Stai dunque preparato qui, ove il Signore della casa ti dirà: Emigra, non sapendo quando te lo dirà. E sarai preparato desiderando la dimora eterna. Non adirarti con Lui, perché quando vuole ti dice: Emigra. Non ti ha fatto una cauzione, non ha legato con qualche accordo la sua parola, e tu non sei diventato locatario della casa pagando l’affitto per un certo tempo: quando il suo Signore vuole, te ne andrai. Per questo vi stai gratis. Perché sono ospite presso di te e pellegrino. Dov’è la patria dunque, ivi c’è la dimora: presso di te ospite e pellegrino. Anche qui è sottinteso presso di te. Molti infatti sono pellegrini con il diavolo: ma coloro che ormai hanno creduto e sono fedeli, sono sicuramente pellegrini, perché non ancora sono giunti a quella patria ed a quella casa, ma tuttavia sono presso Dio. Finché infatti siamo nel corpo, siamo pellegrini dal Signore; e desideriamo, sia che restiamo qui sia che peregriniamo, di essergli graditi (2Co 6,9). E pellegrino ed ospite, come tutti i miei padri. Se dunque lo sono come tutti i miei padri, dirò che non devo emigrare, mentre essi hanno emigrato? Oppure resterò in una condizione diversa da quella in cui essi sono restati?
Da questa vita mutevole a quella immutabile ed eterna
22. [v 14.] Che mi resta dunque da chiedere, dal momento che senza dubbio devo migrare da qui? Perdonami, affinché provi refrigerio prima di andarmene. Vedi, vedi, Iditun, quali nodi hai da sciogliere, con la cui soluzione vuoi provar refrigerio prima di andartene. Hai infatti qualcosa che ti brucia, dalla quale vuoi provar refrigerio, e dici affinché provi refrigerio e aggiungi: Perdonami. Da che cosa ti scioglierà, se non da quel timore per il quale e dal quale dici: Rimetti a noi i nostri debiti (Mt 6,12)? Perdonami prima che me ne vada e più non sia. Fammi libero dai peccati prima che me ne vada, affinché non me ne vada con i peccati. Perdonami, affinché sia in pace nella mia coscienza, affinché essa sia liberata dal bruciore dell’affanno: e in questo affanno sto in pena per il mio peccato (Cf. Ps 37,19). Perdonami affinché provi refrigerio, in primo luogo, prima che me ne vada e più non sia. Se infatti non mi perdonerai dandomi sollievo, me ne andrò e più non sarò. Prima che me ne vada; perché se me ne andrò più non sarò. Perdonami affinché provi refrigerio. Qui sorge la questione, in che modo non sarà più. Non va già verso la pace? Dio allontani questo da Iditun. Iditun certamente andrà, e andrà nella pace. Ma pensa a uno ingiusto, non a Iditun, ad uno che non va oltre, che qui accumula, che dorme, iniquo, superbo, vanitoso, orgoglioso, che disprezza il povero che giace dinanzi alla sua porta; forse che anche lui esisterà? Che significa dunque non sarò? Se quel ricco infatti non era, chi è colui che ardeva dalla sete? chi è colui che desiderava che una goccia d’acqua stillasse dal dito di Lazzaro sulla sua lingua? chi è colui che diceva: Padre Abramo, manda Lazzaro (Lc 16,24)? Certamente esisteva colui che parlava, ed ardeva, e alla fine risorgerà e sarà condannato col diavolo al fuoco eterno. Che significa dunque: Non sarò, se non che questo Iditun considera la consistenza dell’essere e del non essere? Egli vedeva infatti quel fine, in quanto lo poteva col cuore, in quanto ne era capace con la finezza della mente, quel fine che desiderava gli fosse mostrato con le parole: Fammi conoscere, o Signore, il mio fine (Ps 38,5). Vedeva il numero dei suoi giorni, quello che è; si rendeva conto che tutte le cose che esistono qui, non sono, a paragone di quell’essere; e diceva perciò di non essere. Perché quelle restano, mentre queste sono mutevoli, mortali, fragili; e lo stesso eterno dolore, pieno di corruzione, non finisce, perché non conosce fine. Ha scorto dunque quella beata terra, quella beata patria, quella beata casa, nella quale i santi sono partecipi della vita eterna e della immutabile verità; ed ha temuto di uscir fuori, dove non c’è l’essere, perché desidera stare là dove è il sommo essere. Facendo questo confronto, posto in mezzo alle due cose, ancora agitato dal timore, dice: Perdonami, affinché provi refrigerio prima che me ne vada e più non sia. Poiché se non mi rimetterai i peccati, me ne andrò in eterno lontano da te. E da chi andrò lontano in eterno? Da Colui che ha detto: Io sono Colui che sono, da Colui che ha detto: Di’ ai figli di Israele: Colui che è mi ha mandato a voi (Ex 3,15). Chi se ne va in senso opposto a Colui che veramente è, va verso ciò che non è.
23. Orbene, fratelli, anche se ho affaticato il vostro corpo, sopportate, perché anch’io mi sono affaticato; e vi dico in verità che dovete fare in voi stessi questo lavoro. Se infatti mi fossi accorto che queste parole vi erano di peso, all’istante avrei taciuto.
Agostino Salmi 38