Catechismo Tridentino 3100
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302. Il Parroco insegni anzitutto che il primo posto nel Decalogo spetta ai comandamenti che riguardano Dio; il secondo, a quelli che riguardano il prossimo; perché quanto facciamo al prossimo ha la sua ragione in Dio. Amiamo infatti il prossimo secondo lo spirito del comando divino, quando lo amiamo per amore di Dio. E tali precetti riguardanti Iddio sono formulati nella prima tavola. In secondo luogo spiegherà come nella formula surriferita è racchiuso un duplice comando: il primo positivo, l'altro negativo, poiché il comando: Non avrai altro Dio fuori che me, contiene anche l'aggiunta: rispetterai me come vero Dio, né presterai ossequio ad altri dèi.
Nella prima parte, a loro volta, sono impliciti i precetti della fede, della speranza, e della carità. Dicendo che Dio è immobile, immutabile, lo riconosciamo, a buon diritto, sempre uguale a se stesso e verace: dunque è necessario che, aderendo ai suoi oracoli, prestiamo pieno assenso alla sua autorità. Considerando poi la sua onnipotenza, la sua clemenza, la sua facilità a beneficare, come potremmo non riporre in lui tutte le nostre speranze? E, contemplando le ricchezze della sua bontà e del suo amore riversate su di noi, potremmo non amarlo? Di qui il preambolo e la conclusione che, nel formulare comandi, Dio usa costantemente nella Scrittura: Io, il Signore.
Ecco, poi, la seconda parte del comandamento: Non avrai altro Dio fuori che me. Il Legislatore ha usato tale formula non perché tale verità non fosse sufficientemente chiara nel precetto positivo: Onorerai me come solo Dio; poiché se è Dio, è unico; ma per la cecità dei moltissimi, che un tempo, pur credendo di venerare il vero Dio, prestavano culto a una moltitudine di dèi. Di tali ve ne furono molti pure tra gli Ebrei che, secondo il rimprovero di Elia, zoppicavano da due lati. Tali furono pure i Samaritani che onoravano contemporaneamente il Dio d'Israele e le divinità dei Pagani.
Spiegato cio, il Parroco farà rilevare che questo è, fra tutti i comandamenti, il primo e più importante; non già per ordine di sola precedenza, ma per i suoi motivi, per la sua dignità, e la sua eccellenza. Dio infatti deve riscuotere da noi un affetto e un ossequio infinitamente maggiori di quelli a cui possano aver diritto re e padroni. Egli ci ha creati, ci governa, ci ha nutriti fin da quando eravamo nel seno di nostra madre, ci ha tratto alla luce; Egli ci fornisce il necessario alla vita e all'alimentazione.
Mancano a codesto comandamento coloro che non hanno fede, speranza e carità; e sono tanti! Infatti rientrano in questa categoria gli eretici, gli increduli circa le verità proposte dalla Chiesa, nostra santa madre; coloro che prestano fede ai sogni, ai presagi e a tutte le altre vane fantasie; quelli che perdono la speranza della propria salvezza, cessando di confidare nella divina bontà; coloro, infine, che contano unicamente sulle ricchezze, sulla salute e sulle forze del corpo. Questa materia è più largamente spiegata da coloro che hanno scritto intorno ai vizi e ai peccati.
303. Spiegando questo precetto, il Parroco insista nel mostrare come la venerazione e la invocazione dei santi angeli e delle anime beate ammesse al godimento della gloria celeste, oppure il culto dei corpi e delle ceneri dei santi, sempre ammesso dalla Chiesa cattolica, non lo trasgredisce. Sarebbe folle il supporre che, vietando il re a chiunque altro di prendere il proprio posto e di esigere onore e rispetto reali, per questo imponga di non tributare ossequio ai suoi magistrati. Si dice, è vero, che i cristiani adorano gli angeli, seguendo le orme dei santi dell'antico Testamento; ma non tributano loro la medesima venerazione attribuita a Dio. Che se leggiamo di angeli che talvolta hanno rifiutato la venerazione umana, si deve intendere che non vollero si mostrasse loro quell'ossequio che è dovuto unicamente a Dio (Ap 19,10 Ap 22,9). Il medesimo Spirito santo il quale proclama: A Dio solo onore e gloria (1Tm 1,17), comanda di circondare di onore i genitori e gli anziani (Ex 20,12 Dt 5,16 Lv 19,32).
Del resto, uomini santi che rispettavano l'unico vero Dio, adoravano, secondo la testimonianza biblica, i sovrani, vale a dire s'inchinavano supplichevoli dinanzi a loro (Gn 23,7-12 1S 24,9). Ora, se sono cosi onorati i re, per mezzo dei quali Dio governa il mondo, agli spiriti angelici, della cui opera Dio si serve per reggere non solo la sua Chiesa ma tutto l'universo, e che ci aiutano a liberarci ogni giorno dai più grandi pericoli dell'anima e del corpo, anche se non si mostrano visibili a noi, non renderemo un onore tanto più grande quanto più alta è la dignità di quelle intelligenze beate di fronte alla maestà dei regnanti?
Si tenga conto, inoltre, dell'intensa carità con cui essi ci amano. Ispirati da questa effondono preghiere, secondo la chiara testimonianza della Scrittura (Da 10,13), per le regioni cui sono preposti, ed assistono senza dubbio coloro dei quali sono custodi, offrendo le nostre preci e le nostre lacrime a Dio. Non disse forse il Signore nel Vangelo: Guai a coloro che scandalizzano i bambini, perché gli angeli vedono sempre il volto del Padre che è nei cieli? (Mt 18,6). Essi dunque si devono invocare, poiché sono continuamente al cospetto di Dio, e assumono ben volentieri il patrocinio della nostra salvezza loro affidato.
Di invocazioni agli angeli esistono nella santa Scrittura esempi significativi. Giacobbe chiede all'angelo, col quale aveva lottato, che lo benedica; lo costringe anzi a farlo, dichiarando che non lo lascerà libero, se non dopo averne ricevuta la benedizione (Gn 32,24). Né la vuole soltanto da colui che scorgeva, ma anche da quegli che non vedeva, quando dice: L'angelo che mi trasse da tutti i mali, benedica questi figliuoli (Gn 48,16).
perciò è lecito anche dedurre che, lungi dal diminuire la gloria di Dio, l'onore tributato ai santi che si sono addormentati nel Signore, le invocazioni ad essi rivolte, la venerazione portata alle loro reliquie e alle loro ceneri, aumentano tanto più questa gloria, quanto meglio stimolano la speranza degli uomini, la rassodano spingendoli all'imitazione dei santi. Lo comprovano il secondo concilio Niceno, quelli di Gangra e di Trento, e infine l'autorità dei santi Padri. Per meglio riuscire alla confutazione di chi impugna questa verità, il Parroco legga lo scritto di san Girolamo contro Vigilanzio, e specialmente il Damasceno.
Quanto abbiamo detto è soprattutto confermato dalla consuetudine trasmessa dagli Apostoli, costantemente ritenuta nella Chiesa di Dio, e appoggiata alle testimonianze della Scrittura che celebra mirabilmente le lodi dei santi. Non si potrebbe desiderare nulla di più chiaro e di più solido. Di alcuni santi gli oracoli divini han tessuto Telogio. Come gli uomini potrebbero rifiutare loro un onore particolare? (Si 44).
Si rifletta che occorre invocarli e onorarli, anche perché essi offrono perennemente preci per la salvezza degli uomini; e molti benefici elargiti da Dio sono dovuti al loro merito e al loro favore. Se infatti si fa gran festa in cielo per un peccatore pentito (Lc 15,7), non si adopreranno i cittadini del cielo per aiutare i penitenti? E, se sono invocati e implorati, potranno non impetrare il perdono dei peccati, propiziandoci la grazia di Dio? Che se alcuni obietteranno essere superfluo il patrocinio dei santi perché è Dio che sovviene alle nostre preghiere senza bisogno d'interpreti, si risponderà a queste empie voci con le parole di sant'Agostino: Dio spesso non concede se non in seguito all'intervento efficace del mediatore che scongiura (Sull'Ex q. CXLIX). Il che è confermato dagli esempi eloquenti di Abimelech e degli amici di Giobbe ai quali Dio perdono le colpe per le preghiere di Abramo e di Giobbe (Gn 20 Jb 42). E se qualcuno osserverà che il ricorso ai santi, quali intermediari e patroni, è dovuto alla povertà e debolezza della propria fede, gli si replicherà con l'esempio del Centurione. Questi, pur essendo ricco di una fede la quale merito la più alta lode da nostro Signore, tuttavia invio a lui gli anziani dei Giudei perché volessero impetrare la guarigione al suo servo malato (Mt 8,10 Lc 7,9).
Senza dubbio confessiamo che uno solo è il nostro mediatore, Gesù Cristo, il quale ci riconcilio col Padre celeste col suo sangue (Rm 5,10), e, garantita l'eterna redenzione, una volta entrato nel Santuario, non cessa un istante di intercedere per noi (He 9,12). Ma da ciò non segue affatto che non sia lecito fare appello al favore dei santi. Se in realtà non fosse consentito di invocare il soccorso dei santi, perché abbiamo un solo patrono, Gesù Cristo, l'Apostolo non avrebbe davvero insistito nel volere che le preghiere dei fratelli viventi lo soccorressero presso il Signore (Rm 15,30). Dunque non solo la preghiera dei santi che sono in cielo, ma neppure quella dei giusti viventi, possono attenuare la gloria e la maestà del Cristo mediatore.
E chi non scorgerà prove luminose dell'obbligo di onorare i santi, e del patrocinio che essi assumono di noi, nei prodigiosi fatti che si compiono presso i loro sepolcri, con la restituzione di occhi, mani, membra di ogni genere a chi ne mancava, con la resurrezione di morti tornati in vita, col fatto di demoni cacciati dai corpi umani? Molti riferirono di averne udito il racconto; moltissimi, individui serissimi, di aver letto; né mancano testimoni ineccepibili, quali sant'Ambrogio e sant'Agostino, che attestarono nelle loro lettere di aver visto. Che più? se le vesti, i panni, e la stessa ombra dei santi ancora in vita scacciarono le malattie e ridonarono le forze, chi oserà porre in dubbio che Dio possa effettuare i medesimi portenti per mezzo delle ceneri, delle ossa e delle altre reliquie dei santi? Si ricordi quel cadavere che, portato per caso nel sepolcro di Eliseo, immediatamente rivisse a contatto del suo corpo (2R 13,21).
304. Seguono le parole: Non ti farai opere di scultura a immagine di cose esistenti nell'aria, sulla terra o nelle acque; non le adorerai, non presterai loro culto. Alcuni, ritenendo che fosse qui enunciato un secondo precetto, pensarono che i due ultimi precetti del decalogo ne formassero invece uno solo. Ma sant'Agostino, considerando quei due ultimi come distinti, afferma che le parole in questione appartengono al primo precetto (Sull'Ex q. LXXI); e noi adottiamo volentieri simile sentenza, che è comunissima nella Chiesa. Ma c'è di rincalzo l'ottima ragione che, nel testo biblico (Es. 20,5s.), premio e castigo per il precetto sono enunciati al termine di questa pericope in maniera unitaria come per ciascun precetto.
Né si creda che con tale precetto sia del tutto vietata l'arte di dipingere, di rappresentare, di scolpire. Leggiamo infatti nelle Scritture che, per comando divino, furono fatti simulacri e immagini di Cherubini (Ex 25,18 1R 6,23 1R 2) e del serpente di bronzo (Nb 21,8). Dobbiamo perciò interpretare la proibizione nel senso che, prestando ai simulacri un culto come a delle divinità, si viene a togliere qualcosa al vero culto di Dio.
Ed è chiaro che, nell'ambito di questo conmandamento, in due modi possiamo gravemente ledere la divina maestà. In primo luogo, venerando come divinità idoli e simulacri, o ritenendo che dimori in essi qualche virtù divina, per cui si debba prestar loro venerazione, si possa chieder loro qualcosa, e riporre in essi quella fiducia che vi riponevano una volta i pagani, rimproverati spesso dalla Scrittura di collocare la loro speranza negli idoli. In secondo luogo, tentando di raffigurare con i mezzi dell'arte la forma della divinità, quasi che questa possa scorgersi con gli occhi corporei, o esprimersi con colori e figure. Eclama il Damasceno: Chi potrà esprimere un Dio che non cade sotto la presa dei sensi, non ha corpo, non può essere circoscritto in alcun termine, né descritto da alcuna rappresentazione? (La fede ort. 4,16).
Più ampiamente spiega la cosa il secondo concilio Niceno (Atti 3 e 4). Luminosamente l'Apostolo disse dei pagani che avevano deformato la gloria di Dio incorruttibile, riducendola alle immagini dell'uomo corruttibile, degli uccelli, dei quadrupedi, dei serpenti (Rm 1,23), venerando come divinità simulacri di questa foggia. Anche gli Israeliti, che dinanzi al simulacro del vitello gridavano: Ecco, o Israele, i tuoi dèi che ti trassero fuori dalla terra di Egitto (Ex 32,4), furono chiamati idolatri, avendo ridotto la gloria divina alle proporzioni di una bestia erbivora (Ps 105,20).
Avendo quindi il Signore rigorosamente vietato di prestar culto a divinità straniere per sopprimere ogni infiltrazione idolatrica, proibi pure di trarre dal bronzo o da qualsiasi altra materia rappresentazioni della divinità. Illustrando il divieto, Isaia esclama: A quale cosa avete voi rassomigliato Dio? quale immagine farete di lui? (Is 40,18). Che tale sentenza sia racchiusa in questo precetto risulta, oltre che dagli scritti dei santi Padri che, secondo l'esposizione del settimo Concilio (Atti 2 e 4), l'interpretano a questa maniera, anche dalle parole abbastanza esplicite del Deuteronomio, dove Mosè, volendo allontanare il popolo dall'idolatria, dice: Non vedeste nessuna immagine il giorno in cui il Signore, sull'Oreb, vi parlo di mezzo al fuoco (Dt 4,15). Cosi si esprimeva il sapientissimo legislatore, affinché, cadendo in errore, non si foggiassero un simulacro della divinità, e finissero col tributare a una cosa creata l'onore dovuto a Dio.
305. Non si creda tuttavia che sia un mancare alla religione e un trasgredire la legge di Dio, l'esprimere configure sensibili, adoperate cosi nel vecchio come nel nuovo Testamento, qualche Persona della santissima Trinità. Non v'è infatti individuo cosi grossolano il quale possa ritenere espressa da quella figura la divinità. Ad ogni modo il Parroco spieghi come, mediante quelle figure, siano significate proprietà o azioni attribuite a Dio. Cosi, quando, sulle indicazioni di Daniele (Da 7,9), si rappresenta l'Antico dei giorni seduto sul trono, con i libri aperti dinanzi, si vuole significare l'eternità e l'infinita sapienza di Dio, in virtù delle quali egli scorge tutti i pensieri e le azioni degli uomini per giudicarli.
Gli angeli, poi, vengono raffigurati in forme umane e con le ali perché i fedeli comprendano quanto essi siano ben disposti verso il genere umano e come siano pronti ad eseguire le incombenze volute dal Signore. Sono infatti spiriti al servizio di coloro che bramano l'eredità della salvezza (He 1,14). Il simbolo della colomba e le lingue di fuoco menzionati nel Vangelo (Mt 3,16 Mc 1,10 Lc 3,22 Jn 1,32) e negli Atti degli apostoli (Ac 2,3), quali proprietà esprimano dello Spirito santo è troppo noto perché occorra darne ampia spiegazione.
Siccome, poi, nostro Signore G. Cristo, la sua santa e purissima Genitrice e tutti i santi dotati di natura umana, ebbero naturalmente figura umana, non solo non è vietato dal presente precetto dipingerne e onorarne le immagini, ma è stato sempre considerato come atto che manifesta, in modo sicuro, animo grato e devoto. Lo confermano i monumenti dell'età apostolica, i concili ecumenici, innumerevoli scritti di Padri dottissimi e religiosissimi, tutti concordi fra loro.
Il Parroco insegnerà che non solo è lecito tenere immagini nelle chiese, onorarle e prestar loro culto, purché la venerazione prestata s'intenda diretta ai loro prototipi, ma mostrerà anche come ciò sia stato fatto sempre fino ad oggi, con grandissimo vantaggio dei fedeli, come si vede fra l'altro dal libro del Damasceno sulle immagini, e dal settimo concilio che è il secondo Niceno.
Ma l'avversario del genere umano si sforza sempre con le sue frodi e sofismi di pervertire le istituzioni più sante. Per questo il Parroco, nel caso che il popolo sgarri, cercherà di fare quanto è in lui per correggere gli abusi, secondo il decreto del concilio Tridentino, e, senz'altro, all'occasione ne commenterà il testo stesso. Mostri agl'incolti e a coloro che ignorano l'uso stesso delle immagini, che queste mirano a far conoscere la storia dei due Testamenti e ad alimentarne la memoria. Cosicché, stimolati dal ricordo delle divine gesta, siamo sempre più tratti a venerare e amare Dio. Insegnerà pure che le immagini dei santi sono poste nei templi affinché essi siano onorati, e noi, sulle loro orme, ne riproduciamo la vita e i santi costumi.
306. Io sono il Signore Dio tuo, forte, geloso, che faccio ricadere la iniquità dei padri nei figli, fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano; e, nel medesimo tempo, misericordioso abbondantemente verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti (Ex 20,5)
Due cose vanno spiegate a proposito di quest'ultima parte del precetto. Innanzi tutto che, sebbene a causa della maggiore gravita della trasgressione del primo precetto e dell'inclinazione degli uomini a commetterla, la pena sia opportunamente qui menzionata, in realtà si tratta di un'appendice comune a tutti i precetti. Ogni legge infatti spinge gli uomini al rispetto delle prescrizioni col premio e con la pena. Per questo frequenti promesse divine sono disseminate nella sacra Scrittura. Tralasciando quelle pressoché innumerevoli contenute nel vecchio Testamento, ricordiamo le parole del Vangelo: Se vuoi entrare nella vita, rispetta i comandamenti (Mt 19,17); e altrove: Solo chi adempie il volere del Padre mio che è nei cieli entrerà nel regno celeste (Mt 7,21). In un altro luogo: Ogni albero che non fa buon frutto, sarà tagliato e gettato nel fuoco (Mt 3,10). Altrove: Chiunque si adira contro il suo fratello, sarà condannato in giudizio (Mt 5,22). Infine: Se non perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà a voi le vostre mancanze (Mt 6,15).
In secondo luogo, si ricordi che questa appendice deve essere spiegata in maniera molto diversa agli individui perfetti e a quelli carnali. Ai primi infatti, che operano sotto la guida di Dio (Rm 8,14) e a lui obbediscono con animo alacre e docile, esso parla quale annuncio di letizia e quale prova luminosa del volere divino, ben disposto verso di loro. Essi riconoscono cosi la premura di Dio, amantissimo di loro, il quale, ora con i premi, ora con le pene, quasi costringe gli uomini al proprio culto e alla religione. Ne scorgono cosi l'infinita bontà, e vedono che cosa comandi loro, e come voglia far convergere la loro opera verso la gloria del nome divino. Né solo riconoscono tutto cio, ma nutrono speranza che Dio, come comanda ciò che vuole, cosi darà le forze necessarie per obbedire alla sua legge.
Per gli individui carnali, invece, non ancora affrancati dallo spirito del servaggio, e che si tengono lontani dal peccato più per timore delle pene che per amore della virtù, quell'appendice ha sapore di forte agrume. perciò dovranno essere incoraggiati con esortazioni pie e quasi condotti per mano là dove vuole la Legge. Ogni volta che venga l'occasione di spiegare uno qualsiasi dei comandamenti, il Parroco tenga presenti queste considerazioni.
307. Mirando agli uomini carnali come agli spirituali, egli adotterà i due pungoli o stimoli, contenuti nell'appendice del precetto, capaci di eccitare efficacemente gli uomini al rispetto della Legge.
In primo luogo, si spieghi l'inciso, in cui è detto che Dio è forte, con tanto maggiore diligenza, in quanto spesso la carne, meno colpita dai terrori delle divine minacce, va mendicando tutti i pretesti per sfuggire all'ira di Dio e alla pena stabilita. Chi però tiene per fermo che Dio è forte, ricorda piuttosto il motto del grande David: Dove mi rifugero lungi dal tuo spirito? dove, lungi dal tuo volto? (Ps 133,7). La stessa carne, diffidente talora delle divine promesse, si raffigura cosi forti i nemici da reputarsi incapace di resistenza. Invece la fede salda e sicura, nulla temendo, poggiata com'è sulla forza e la virtù divina, conforta e rafforza gli uomini, esclamando:Il Signore è la mia luce e la mia salvezza; di chi avro paura? (Ps 26,1).
L'altro stimolo è rappresentato dalla stessa gelosia divina. Infatti gli uomini pensano talora che Dio non curi le cose umane, e non si preoccupi neppure del nostro ossequio, o della nostra disobbedienza alla Legge. Ne segue un grande disordine nella vita. Ma se noi ricordiamo che Dio si preoccupa di tutto, saremo più attenti al nostro compito. Naturalmente quella specie di gelosia che attribuiamo a Dio, non implica un turbamento dell'animo, ma solo quel divino amore e quell'alta carità, per cui Dio non tollera che un'anima si allontani impunemente da lui (Ps 72,27) e irrimediabilmente punisce quanti se ne allontanano. La gelosia è dunque in Dio quella sua serenissima e sincera giustizia, per la quale l'anima, corrotta dalle false opinioni e dalle perverse cupidigie, è ripudiata, e, quasi adultera, allontanata dal connubio divino.
Tale gelosia divina la sperimentiamo invece come un sentimento soavissimo e dolcissimo, quando l'alta e ineffabile volontà di Dio verso di noi si manifesta da questo stesso zelo per noi. Non v'è fra gli uomini amore più appassionato, unione più intima di quella che vien data dal vincolo coniugale. Orbene, Dio mostra di quale amore ci prediliga, quando, paragonandosi spesso allo sposo e al marito, si dichiara geloso. Il Parroco si fermi perciò a dimostrare come gli uomini debbano essere tanto preoccupati del culto e dell'onore divino, da essere detti anch'essi a buon diritto piuttosto gelosi che amanti, sull'esempio di colui, il quale ha detto di sé: Mi sono mostrato geloso dell'onore del Signore Iddio degli eserciti (1R 19,14). Imitino Cristo stesso che disse: Lo zelo per la tua casa mi divora (Ps 68,10 Jn 2,17).
Deve essere poi spiegata la sentenza di minaccia. Dio non tollera che i peccatori rimangano impuniti, ma li castigherà, come un padre fa con i figli, o li punirà duramente come un giudice severo. Volendo significare cio, Mosè ha detto: Constaterai che il Signore Iddio tuo è Dio forte e fedele: egli rispetta il patto e usa misericordia a chi lo ama; rispetta i suoi precetti fino alla millesima generazione; ma anche ripaga senza indugio chi lo odia (Dt 7,9). E Giosuè: Non potrete servire il Signore, poiché Dio è santo e forte nel suo zelo; non perdonerà ai vostri scellerati peccati. Se abbandonerete il Signore e servirete a divinità straniere, Egli si rivolgerà contro di voi, tormentandovi e determinando la vostra rovina (Gios. 24,19).
Il Parroco ricordi al popolo che la maledizione divina si propaga fino alla terza e alla quarta generazione degli empi. Non già nel senso che i posteri debbano sempre necessariamente portare la pena delle colpe degli avi, ma nel senso che, se questi e i loro figli non hanno espiato, non tutta la loro posterità riuscirà a evitare l'ira e la pena divina. Va ricordato in proposito l'esempio del re Giosia. Dio gli perdono per la sua singolare pietà, e gli concesse di scendere in pace nel sepolcro dei padri per non assistere alle sciagure dei tempi imminenti, determinate su Giuda e su Gerusalemme dall'empietà di Manasse suo avo. Ma, dopo la sua morte, la vendetta di Dio raggiunse i suoi posteri, non risparmiando neppure i figli di Giosia (2R 32,2-19 2R 33,25-29).
In che modo poi queste parole della legge si possano conciliare con la sentenza del Profeta: L'anima che avrà peccato, perirà (Ez 8,4), lo mostra chiaramente l'autorità di san Gregorio, concorde in questo con tutti gli antichi Padri, dicendo: Chiunque imita l'iniquità di un malvagio genitore, è vincolato pure dalla colpa di lui; ma chi non ne imita la malvagità, non porta il suo carico morale; per questo il figlio cattivo di un cattivo padre non sconta solamente le colpe proprie, ma anche quelle di suo padre, non avendo temuto di accoppiare alla perversione paterna, contro cui sa irato il Signore, anche la propria malvagità.
E giusto del resto che colui il quale, sotto lo sguardo di un giudice severo, non ha ritegno di battere le vie di un genitore malvagio, sia tenuto nella vita presente a scontare pure le colpe dell'iniquo suo padre (Mor. 15,51). Ricorderà però il Parroco che la bontà e la misericordia di Dio superano la sua giustizia: rivela la sua ira infatti fino alla terza e alla quarta generazione, ma riversa la sua misericordia fino alla millesima.
L'inciso poi: " Di coloro che mi odiano ", vuole relevare la gravita del peccato. Che cosa di più orribile e di più nefasto che odiare la Bontà per essenza e la Verità somma? ciò vale per tutti i peccatori; perché, come chi rispetta i precetti di Dio, ama Dio (Jn 14,21); cosi chi disprezza la legge di Dio e non rispetta i suoi comandamenti, giustamente può dirsi che lo odia.
Infine la frase ultima: " A coloro che mi amano ", insegna il modo e il motivo del rispetto della Legge. E infatti necessario che coloro i quali osservano la Legge di Dio siano indotti a obbedirgli dal medesimo amore che li spinge verso di lui: cosa che vedremo anche nella trattazione dei singoli comandamenti.
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308. Nel primo comandamento della Legge divina che comanda di onorare Dio piamente e santamente, è necessariamente incluso questo secondo che segue. Infatti, chi vuole che gli si tributi onore, chiede con questo stesso che si usino a suo riguardo sempre parole rispettose e si evitino le parole dispregiative, come apertamente ricordano le parole di Malachia: Il figlio rispetta il padre, e il servo il suo padrone: se io sono padre, dov'è l'onore che mi si deve? (Ml 1,6). Tuttavia, data l'importanza della cosa, Dio volle separatamente emanare e formulare questa Legge sull'onore dovuto al suo nome santissimo e divino.
Tragga di qui il Parroco la convinzione che non basta parlare di tale argomento in termini generici. Si tratta di un tèma su cui deve fermarsi a lungo, enumerando con ogni cura ai fedeli tutto ciò che vi si riferisce. Non tema mai di eccedere in diligenza, perché non mancano individui cosi accecati nelle tenebre dell'errore da osare di bistrattare, con le parole, Chi è glorificato dagli angeli. Non impressionati dalla Legge una volta emanata, costoro non ristanno dall'offendere senza vergogna ogni giorno, ogni ora anzi, e quasi ogni minuto, la maestà di Dio. Non udiamo tutt'intorno giuramenti sprecati per ogni quisquilia, discorsi tutti infiorati di imprecazioni e scongiuri, fino al punto che nulla si vende, si acquista o si contratta, senza far intervenire la solennità di un giuramento, senza usurpare migliaia di volte il nome santissimo di Dio nelle cose più sciocche e insignificanti? Usi dunque il Parroco tutta la sua diligenza nell'ammonire spesso i fedeli sulla gravita ripugnante di questa colpa.
Spiegando questo comandamento, non si dimentichi che la legge implicitamente accoppia alla proibizione l'imposizione di ciò che gli uomni devono fare. Proibizione e imposizione devono essere spiegate però separatamente. In primo luogo, perché più agevole ne sia l'esposizione, si indichi ciò che la Legge comanda, poi quello che proibisce. Comanda che il nome di Dio sia onorato e con esso non si facciano che giuramenti santi; proibisce poi di offenderlo, di invocarlo stoltamente, di giurare con esso alcunché di falso, di vano, di temerario.
309. Spiegando ai fedeli la parte in cui si comanda di tributare onore al nome divino, il Parroco ricordi che col nome di Dio non si intendono solamente le lettere, le sillabe, il puro vocabolo; ma si faccia riflettere al suo valore che designa la maestà onnipotente ed eterna del Dio uno e trino. Si capisce quanto stolta fosse la superstizione di alcuni Giudei, i quali scrivevano il nome di Dio, ma non osavano pronunciarlo, quasi che tutto consistesse nelle quattro lettere ebraiche, anziché nella divina realtà. E sebbene sia detto al singolare: Non nominare il nome di Dio, il divieto deve applicarsi non ad un solo nome speciale, ma a tutti quelli che sogliono attribuirsi a Dio. Essi sono parecchi: ad esempio: Signore, Onnipotente, Signore degli eserciti, Re dei re, Forte, e altri simili, contenuti nella Scrittura, i quali tutti esigono uguale venerazione.
Insegnerà poi in quale modo debba prestarsi il debito onore al nome divino, perché il popolo Cristiano, le cui labbra devono sciogliere inni ardenti di lode a Dio, non può ignorare queste cose, utilissime, anzi necessarie alla salvezza. Molteplici sono le forme in cui può esprimersi la lode del nome divino. Ma in quello che siamo per dire sembra compresa l'importanza di tutte le altre.
Lodiamo innanzi tutto il Signore quando, al cospetto di tutti, lo riconosciamo fiduciosi come Dio e Signore nostro, professando insieme e proclamando che Gesù Cristo è l'autore della nostra salvezza. Lo stesso, quando attendiamo amorosamente alla conoscenza della parola, con cui si è espressa la volontà di Dio, meditandola assiduamente, studiandola con cura, leggendo o ascoltando, secondo le capacità e le incombenze di ciascuno di noi.
Parimente veneriamo e celebriamo il nome divino, quando celebriamo, per dovere o per sentimento di pietà, le lodi divine, e a Dio rendiamo grazie per ogni evento, prospero o avverso che sia. Dice il profeta: Benedici, o anima mia, il Signore e non dimenticare le sue elargizioni (Ps 102,2). Sono parecchi i salmi davidici in cui sono soavissimamente cantate, con senso squisito, le lodi di Dio. Ed è sommamente eloquente il fatto di Gb esempio di pazienza, il quale, piombato in disgrazie terribili, non ristette giammai dal lodare Dio con animo invitto. Anche noi dunque, quando siamo afflitti dai dolori dei sensi e dello spirito, o siamo straziati dalla sventura, rivolgiamo le nostre forze alla lode alta di Dio, con la frase di Giobbe: Sia benedetto il nome del Signore (Jb 1,21).
Non si loda meno il Signore, pero, invocandone fiduciosamente il soccorso affinché ci liberi dai mali, o almeno ci infonda forza e costanza per tollerarli serenamente. Il Signore stesso vuole che cosi facciamo: Invocami nel di della tribolazione; ti liberero e tu mi renderai onore (Ps 49,15). Implorazioni di questo genere trovano mirabili esempi in copiosi passi biblici e specialmente nei salmi 16, 43 e 118.
Infine noi onoriamo il nome di Dio quando, a garanzia della parola data, lo invochiamo a testimone. Simile maniera di onorarlo differisce notevolmente dalle precedenti. Quelle che abbiamo enunciato, infatti, sono di loro natura cosi commendevoli che nulla v'è per gli uomini di più beatificante e di più desiderabile del trascorrere in esse notte e giorno. David esclama: Cantero le lodi del Signore in ogni istante; la sua lode fiorirà incessantemente sulle mie labbra (Ps 33,2). Invece il giuramento per quanto buono in sé, non puo essere lodevolmente usato di frequente. E la ragione della divergenza sta in cio, che il giuramento fu istituito solo per essere un rimedio alla umana fragilità, quale strumento di prova per quanto asseriamo. Ora, come le medicine corporali vanno usate solo quando è necessario, e l'uso loro frequente rappresenta un pericolo, cosi il giuramento non può essere benefico, se non in caso di grave e seria opportunità. Se troppo spesso è ripetuto, lungi dal giovare, finisce col recare sensibile danno.
Opportunamente insegna san Giovanni Crisostomo che il giuramento entro nelle consuetudini umane molto tardi, quando nel mondo, non più giovane, ma adulto, il male si era propagato per lungo e per largo; tutto era fuori del proprio ordine; tutto era perturbato e sconvolto in una vasta confusione; e, per disgrazia più grande di ogni altra, gli uomini tutti erano caduti in una ripugnante schiavitù dinanzi agli idoli. Allora, poiché nessuno, in mezzo alla iniqua doppiezza universale, poteva credere alla parola altrui, fu giocoforza invocarvi sopra la testimonianza di Dio.
310. Nell'ambito di questa parte del comandamento, il fine principale è di istruire i fedeli sul modo di usare santamente il giuramento. Il Parroco quindi insegnerà innanzi tutto che giurare è chiamare Dio in testimonio, qualunque sia la formula adoperata per farlo. Dire: Dio mi è testimone, o: Per Iddio, è la stessa cosa. Si ha ancora giuramento quando, per ispirare fiducia, giuriamo nel nome di certe cose create, quali, ad esempio, i Vangeli sacri di Dio, la Croce, le reliquie dei santi, il loro nome e simili. Ma poiché simili cose di suo non sono capaci di conferire autorità e forza a un giuramento - e ciò può farlo solo Dio, la cui divina maestà si riflette in esse - ne segue che chi giura per il Vangelo, giura per Dio stesso, la verità del quale è contenuta e illustrata nei Vangeli. Lo stesso dicasi dei santi, che furono templi di Dio, credettero nella verità evangelica, la rispettarono con ogni ossequio, la propagarono fra i popoli.
Il giuramento è pure implicito in alcune formule di esecrazione, come quella adoperata da san Paolo: Invoco Dio a testimone contro l'anima mia (2Co 1,23). Chi pronunzia la formula del giuramento in questo modo, si sottopone al giudizio di Dio, vendicatore della menzogna. Non neghiamo che alcune di queste formule possono intendersi prive della forza di un giuramento; sarà utile però applicare anche ad esse le regole e le osservazioni formulate per il giuramento propriamente detto.
Vi sono due generi di giuramenti: col primo, detto assertorio, affermiamo con forza religiosa una cosa passata o presente. Cosi dice l'Apostolo nella lettera ai Galati: Dio mi è testimone che io non mentisco (Ga 1,20). Col secondo, detto promissorio, che comprende anche le minacce e riguarda il futuro, promettiamo e assicuriamo una cosa futura. A questa seconda categoria appartiene, per esempio, la promessa solenne fatta da David alla moglie Bersabea, nel nome di Dio, che suo figlio Salomone sarebbe stato l'erede del trono e gli sarebbe succeduto (1R 1,29).
311. All'essenza del giuramento basta il chiamare Dio in testimone; ma perché esso sia giusto e santo si richiedono parecchie altre condizioni che devono spiegarsi con cura. Come attesta san Girolamo, le ha brevemente enunciate Geremia, quando scrisse: Giurerai, viva il Signore, con verità, con ponderazione, e con giustizia (Jr 4,2). Con queste poche parole egli ha riassunto gli elementi del perfetto giuramento: verità, ponderazione del giudizio e giustizia.
Al primo posto nel giuramento deve stare la verità, in quanto l'asserzione giurata deve essere vera e chi la emette la sappia tale, non per una leggera o temeraria congettura, ma in forza di saldissimi argomenti. Anche il giuramento promissorio esige la verità, dovendo, colui che promette, avere il proposito saldo di mantenere a suo tempo la promessa. L'uomo probo non si disporrà mai a promettere cosa contraria ai santissimi precetti di Dio; e quel che avrà promesso di fare con giuramento, giammai lo muterà, a meno che la situazione di fatto non sia cosi sostanzialmente cambiata che mantener la promessa significherebbe incorrere nell'ira di Dio offeso. Anche David mostra quanto la verità sia necessaria nel giuramento, col definire giusto colui che giura in favore del prossimo, e non sa ingannare (Ps 14,4).
Segue il giudizio ponderato: non si deve giurare avventatamente, ma a ragion veduta. Chi vuoi giurare, rifletta anzi tutto se ce n'è la necessità, e consideri la situazione in tutti i suoi aspetti, per accertarsi che veramente esige il giuramento. Tenga conto del tempo, del luogo e di tutte le altre circostanze. Non si faccia trascinare da odio, da amore o da qualsiasi altro perturbamento spirituale, ma solo dalla necessità delle cose. Se simile accurata indagine non sarà stata premessa, il giuramento sarà senza dubbio temerario, com'è quello di coloro che per le cose più futili, senza alcun serio motivo, quasi per una pessima consuetudine contratta, giurano ad ogni istante. Cosi fanno ogni giorno venditori e compratori; quelli per vendere a più alto prezzo, questi per comprare a più basso: gli uni e gli altri esaltano o deprezzano, giurando, la mercanzia. E poiché i giovanetti mancano a causa dell'età di quell'acume che è necessario alla ponderazione richiesta dal giuramento, papa san Cornelio stabili che non si chieda mai il giuramento a ragazzi di età inferiore ai quattordici anni, epoca della pubertà.
Infine la giustizia: questa è necessaria soprattutto nei giuramenti promissori; perciò chi promette il disonesto e l'ingiusto pecca giurando, e accumula peccato su peccato, se mantiene la promessa. Abbiamo di ciò un esempio nel Vangelo, dove si narra del re Erode che, vincolato da una perfida promessa, dono in premio alla ballerina la testa di san Giovanni Battista (Mc 6,23). E può ricordarsi anche il giuramento degli Ebrei, che, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, giurarono di non mangiare finché non avessero ucciso san Paolo (Ac 23,12).
Chi rispetti tutte queste clausole e circondi il giuramento con queste condizioni, come altrettanti presidi, potrà con tranquilla coscienza giurare, come si può mostrare con molti argomenti. L'immacolata e santa Legge di Dio non comanda forse: Temerai il Signore Dio tuo; a lui solo servirai; nel suo nome giurerai? (Dt 6,10-13). E David ha lasciato scritto: Saranno lodati tutti coloro che giureranno nel suo nome (Ps 42,12). Del resto la Scrittura mostra come gli stessi luminari della Chiesa, i santissimi Apostoli, ricorsero al giuramento, come risulta pure dalle lettere di san Paolo. Si aggiunga che gli stessi angeli giurano talora, poiché è detto nell'Apocalisse di san Giovanni evangelista che un Angelo giuro nel nome di Colui che vive nei secoli (10,3). Anzi giura Dio stesso, signore degli Angeli. Leggiamo infatti nel vecchio Testamento che Dio ripetute volte corrobora con giuramento le sue promesse ad Abramo (Gn 22,16 Ex 33,1) e a David, il quale esclama a proposito del giuramento di Dio: Ha giurato il Signore, e non se ne pentirà: tu sei sacerdote in eterno, secondo l'ordine di Melchisedec (Ps 109,4).
La ragione stessa spiega agevolmente come il giuramento sia lodevole se ne indaghiamo attentamente l'origine e la finalità. Il giuramento infatti nasce dalla fede che gli uomini hanno in Dio, autore di tutta la verità, incapace cosi di ingannarsi come di ingannare, agli occhi del quale tutto appare senza veli (He 4,13), che provvede con meravigliosa provvidenza e regge l'universo. Vivendo in tale fede, gli uomini invocano Dio a testimone della verità, perché è cosa empia non credere a lui. Il giuramento infine tende unicamente a comprovare la giustizia e l'innocenza umana, a chiudere le liti e le controversie, come insegna l'Apostolo nella sua lettera agli Ebrei (He 6,16).
A tale dottrina non possono contrapporsi le parole del Salvatore in san Matteo: Udiste che fu detto agli antichi: Non spergiurare; ma adempi i tuoi giuramenti al Signore. Io però vi dico di non giurare in modo alcuno, né per il cielo che è trono di Dio; né per la terra, che è sgabello dei suoi piedi; né per Gerusalemme, che è la città del gran Re. Non giurare per la tua testa, perché non puoi far bianco o nero un solo capello. Ma sia il vostro parlare: Si, si; No, no: il di più viene dal maligno (Mt 5,33).
Non può infatti scorgersi in queste parole una proibizione formale e generale del giuramento, dal momento che abbiamo visto sopra come lo stesso Signore e gli Apostoli hanno giurato più volte. Dobbiamo pensare piuttosto che Gesù Cristo volle biasimare la distorta opinione dei Giudei, che nel giuramento fosse da evitarsi soltanto la menzogna, finendo col giurare e col chiedere l'altrui giuramento ogni momento, per le cose più insignificanti. Il Salvatore deplora questo pessimo costume e impone di astenersi dal giurare, finché non lo richieda una necessità.
In realtà il giuramento è nato dalla fragilità umana e dal male; esso sta a indicare l'incostanza di chi giura o la diffidenza di colui per cui giuriamo, deciso a non credere in altra maniera. però anche il bisogno può essere sufficiente motivo di scusa. La frase del Salvatore: Sia il vostro parlare: Si, si; No, no, mostra senza dubbio che il giuramento è da lui vietato nelle conversazioni familiari, e che non dobbiamo essere inclinati ad emetterlo ogni momento.
Intorno a ciò dovranno essere caldamente ammoniti i fedeli, poiché, come mostrano le Scritture e gli insegnamenti dei Padri, mali pressoché infiniti sgorgano dalla eccessiva facilità a giurare. E scritto nell'Ecclesiastico: Il tuo labbro non contragga l'abitudine del giurare: essa porta molti al precipizio. E poco dopo: L'uomo che giura molto, si riempirà di cattiveria e i malanni assedieranno la sua casa (Si 33,9-12). Molte belle considerazioni in materia si trovano nelle opere di san Basilio e di sant'Agostino contro la menzogna.
Fin qui abbiamo parlato di quel che è comandato; parliamo ora di quel che è vietato dal secondo comandamento.
312. Ci viene proibito di invocare invano il nome di Dio. E quindi chiaro che pecca gravemente chi formula giuramenti senza motivo, ma temerariamente. La gravita della colpa traspare dalle stesse parole: Non invocherai invano il nome del tuo Dio, quasi volesse cosi addurre la ragione per cui simile colpa è tanto grave e riprovevole, in quanto lede la maestà di Colui che noi riconosciamo come nostro Dio e Signore.
E cosi vietato innanzi tutto di giurare il falso. Chi non rifugge dal peccato di porre sotto la garanzia di Dio il falso, fa gravissima ingiuria a Dio, attribuendogli o l'ignoranza, per cui suppone che non conosca una determinata verità, o una certa deformità di affetti, per cui lo suppone disposto a corroborare col proprio nome la menzogna. Né giura falsamente solo colui che con giuramento afferma per vero quanto sa che è falso, ma anche chi giurando sostiene una cosa che, vera in sé, è però da lui reputata falsa. Menzogna infatti è asserzione difforme dall'intimo convincimento; perciò anche costui mentisce ed è spergiuro.
Parimenti è spergiuro chi afferma con giuramento una cosa che ritiene vera, ed è falsa, sempre nel caso che non abbia adottato tutte le precauzioni per formarsi un concetto chiaro e sicuro della medesima; in tal caso, sebbene fra parola e pensiero vi sia corrispondenza, costui contravviene al precetto. E vi contravviene pure chi promette con giuramento di far qualcosa, e poi, o si propone di non farla, o effettivamente non la fa. Tale valutazione si applica anche a coloro che fecero a Dio un voto e non mantengono.
Si manca al precetto anche quando manchi la giustizia, uno dei tre coefficienti del giuramento legittimo. Chi giuri di commettere un peccato mortale, un omicidio, ad esempio, pecca contro il comandamento, per quanto parli seriamente e sinceramente, e il suo giuramento abbia quella nota di verità, che già indicammo come indispensabile.
Vanno segnalati anche quei tipi di giuramento, che nascono da un sentimento di dispregio, come nel caso di chi giuri di non voler obbedire ai consigli evangelici, che esortano al celibato e alla povertà. Sebbene nessuno sia obbligato ad osservarli, chi però giuri con solennità di non volerli seguire, mostra di disprezzare e calpestare i consigli divini.
Inoltre viola questo precetto e pecca consapevolmente colui che giura il vero, sapendolo tale solo in base a fragili e remote congetture. Infatti, sebbene la verità accompagni simile giuramento, esso in qualche modo implica 11falso, in quanto il giurare cosi negligentemente espone al più grande pericolo di spergiuro. Infine giura abusiva mente chi giura per gli dèi falsi e bugiardi. Qual cosa più difforme dalla verità che l'invocare a testimoni divinità menzognere e illusone, al posto del vero Dio?
Vietando lo spergiuro, la Scrittura dice: Non contaminerai il nome del tuo Dio (Lv XIX,22). E proibita dunque ogni disistima di tutto ciò a cui, in virtù di questo comandamento, dobbiamo ossequio; e fra l'altro, della parola di Dio, veneranda agli occhi non solo delle persone pie, ma anche delle empie, come mostra nel Libro dei Giudici il racconto che riguarda Eglon re dei Moabiti (3,20). Orbene, gravissima ingiuria si arreca alla parola di Dio torcendo la Scrittura dal suo retto significato all'asserzione di dottrine eretiche ed empie. Ci ammonisce in proposito il Principe degli apostoli: Vi sono nelle Scritture frasi ardue che gli ignoranti e i superficiali fraintendono a loro dannazione (2 Pietr. 3,16). Parimente la Sacra Scrittura è contaminata quando le sue venerabili sentenze, da uomini sconsigliati, sono tratte a significati profani, sconvenienti, favolosi, sciocchi, magici, calunniosi e simili. Il sacro Concilio Tridentino vuole che si avverta che ciò non si può fare senza peccato.
Infine, come onorano Dio coloro che ne implorano il soccorso nelle calamità, cosi gli negano il dovuto onore coloro che non ne invocano l'aiuto. David li redarguisce: Non invocarono il Signore, e tremarono di paura quando non v'era ragione di temere (Ps 13,5).
Ma di ben più detestabile scelleratezza si rendono rei coloro che osano, con labbra vergognosamente impure, bestemmiare e maledire il nome santo di Dio, che tutte le creature dovrebbero magnificare e benedire; oppure il nome dei santi che regnano con Dio. Questo peccato è cosi mostruoso che la Scrittura talora, dovendo parlare della bestemmia, preferisce parlare di benedizione (1R 21,13).
313. Poiché l'orrore per la punizione e il supplizio suole efficacemente comprimere l'inclinazione a peccare, il Parroco che vuole eccitare più vivamente l'animo dei fedeli e stimolarlo al rispetto del comandamento, ne spiegherà convenientemente la seconda parte o appendice:Il Signore non riterrà innocente colui, che abbia invocato vanamente il nome del Signore stesso, suo Dio (Ex 20,7). Insegni innanzi tutto che ragionevolmente sono state unite al precetto le minacce che lumeggiano la gravita della colpa e la misericordia divina verso di noi. Egli non si compiace della dannazione degli uomini e per indurci a evitare la sua ira punitrice, ci atterrisce con salutari minacce, affinché preferiamo sperimentarlo benevolo, anziché irato. Insista dunque il Pastore su questo punto con ogni cura; faccia conoscere al popolo l'orrore della colpa, ne insinui più veemente abominazione, affinché i fedeli siano più diligenti nell'evitarla.
Voglia inoltre mostrare come sia sviluppata nell'uomo la tendenza a commetterla, non essendo stato sufficiente promulgare la legge, poiché fu necessario aggiungerle delle minacce. Non si può immaginare quanto tale considerazione sia proficua. Come nulla è più pernicioso della spavalda sicurezza d'animo, cosi nulla è più giovevole della consapevolezza della propria nullità. Infine, spieghi come Dio non abbia stabilito alcun determinato supplizio, ma semplicemente dichiarato che chiunque si macchia di questo delitto, non sfuggirà alla vendetta. Per cui devono esserci di monito le nostre pene quotidiane, potendosi plausibilmente congetturare che gli uomini sono colpiti da sventure perché non obbediscono a questo precetto. Ed è probabile che riflettendo a cio, se ne guarderanno più premurosamente per l'avvenire. In conclusione, ripieni di santo timore, i fedeli fuggano con ogni studio questo peccato. Se nel di del giudizio ci sarà chiesto conto di ogni parola oziosa (Mt 13,36), che cosa dire dei peccati più gravi, che implicano una diretta offesa al nome divino?
Catechismo Tridentino 3100